A Roma i pellegrini trovavano non solo i ricordi degli Apostoli e dei Martiri, ma le reliquie preziose, il legno della Croce e i chiodi, il panno della Veronica, la scala santa, la colonna della flagellazione, la tavola dell'ultima cena e tanti venerabili resti. Mentre la Terrasanta, per la separazione sempre più netta del mondo orientale dall'occidentale e poi per l'espansione araba si faceva quasi inaccessibile, quelle reliquie facevano di Roma veramente la nuova Gerusalemme.
E ogni anno i pellegrini, più fitti o meno fitti secondo un ciclo stagionale e liturgico - l'estate calda, impegnata nei lavori agricoli e priva di solennità religiose di rilievo segnava di solito una diminuzione - si mettevano per le strade che una volta erano state i nervi dell'Impero Romano, lo strumento bellissimo del suo governo, ed ora, spesso impaludate o fatte difficili pei ponti crollati, erano le pie guide degli infaticabili romei.
Camminavano essi, in ispirito di penitenza, per lo più a piedi; e perciò non era problema tanto grave la viabiità, cui si rimediava, nei tratti impraticabili, con piste e guadi di fortuna. Alla loro sicurezza provvedevano avviandosi in gruppi numerosi. Al loro sostentamento provvedevano gli ospizi. Ordini monastici, lungo tutte le strade che conducevano a Roma, avevano disposto, in rapporto alle tappe giornaliere dei romei, i pietosi hospitales, che i potenti alimentavano con le loro elargizioni, sicché il dono dell'ospitalità poteva essere continuo. In Roma poi le provvidenze abbondavano - basti ricordare le famose scholae peregrinorum che accoglievano i romei distinti per nazionalità.
Ma in quell'anno 1300, tutto, si è detto, era come nuovo. Non si era mai vista una folla così enorme: è una affermazione questa che ricorre in numerose fonti: «e andovvi grandissima gente di tutta la cristianità, sì che parve mcredibile a chi non l'avesse veduta». Ed erano uomini e, cosa insolita in quel numero, anche donne, come una immensa devota migrazione: «e andavano el marito - ci dice un cronista, con una vivacità e una evidenza in cui si ripete il sentimento dell'anno giubilare - e la moglie e i figlioli e lassavano le case serrate e tutti di brigata con perfetta divozione andavano al detto perdono».
A Roma l'afflusso era continuo. Ci dice lo Stefaneschi: «Dentro e fuori le mura della città si ammassava una fitta moltitudine, sempre più, quanto più passavano i giorni e molti restavano schiacciati nella calca. Fu allora adottato un rimedio salutare, anche se non radicalmente sufficiente, aprendo nelle mura una seconda porta per fornire ai pellegrini una via accorciata, tra il Monumento di Romulo e l'antica»; e io intendo tra il presunto Sepolcro di Romolo davanti a S. Maria in Transpontina e, probabilmente, la porta Castelli. Un rimedio improvvisato: come quello di cui ci parla Dante, pel ponte di Castel S. Angelo, per dividere la folla:
Dunque una moltitudine infinita, un esercito molto: tutte espressioni che in qualche modo volevano rendere la grande meraviglia per un numero di romei mai prima visto. Ma noi moderni, uomini di cifre e statistiche, vorremmo sapere qualcosa di più preciso, numericamente. Ci risponde Giovanni Villani, che fu pellegrino: «Al continuo in tutto l'anno durante aveva in Roma oltre al popolo romano duecentomila pellegrini, senza quelli che erano per li cammini andando e tornando». E il contemporaneo Guglielmo Ventura, mercante di spezie e cronista astigiano: «Uscendo da Roma nel giorno di vigilia del Natale vidi una turba grande, che nessuno poteva calcolare e fama era tra i romani, che vi furono più di due milioni tra uomini e donne». Leggo poi negli Annales Colmarienses che «fu fatto così gran concorso in Roma, che assai spesso in un giorno si ebbe un movimento di trentamila romei entrati e trentamila usciti».
Che conto dobbiamo fare di queste cifre? Purtroppo, nulla di più che accoglierle anch'esse come tentativi di traduzione, in numeri, di un senso di stupore: che se in altri casi è possibile accettare prudentemente dati statistici offerti dal Villani o da qualche altro dei cronisti maggiori - fu dimostrato da illustri storici dell'economia italiana - in ordine ad una valutazione quantitativa della vita economica del tempo loro, nel caso di questa romeria certo non si può pensare ad accessi a fonti statistiche di carattere più o meno ufficiale. Le cifre hanno un valore esclamativo, direi, e non di calcolo: rappresentano una indicazione di quantità che non va presa assolutamente alla lettera.
Anche in quell'anno l'andamento del pellegrinaggio dovette avere le solite curve, nel ciclo stagionale e liturgico, se pure attenuate per la eccezionalità del richiamo e per il fatto che il perdono era offerto senza interruzione.
Lo Stefaneschi ci permette di individuare forse tre di queste punte, quando racconta: «Non riteniamo si possa passare sotto silenzio come i romei, benché spesso abbiano fatto supplice istanza di ottenere per grazia apostolica una abbreviazione del tempo (cioè delle prescritte visite) mai furono esauditi e soltanto in tre circostanze guadagnarono: una volta la grazia, nel giorno del giovedì santo, in Laterano, per parte del Pontefice stesso, il quale all'aperto parlò alla moltitudine radunata; la seconda, nella quale stabilì però di escludere i romani ed i pellegrini di provenienza viciniore, nella festa della dedicazione delle Basiliche, proclamata da uno dei confratelli, per ordine del papa destinato espressamente per questo scopo alla Basilica di S. Pietro; la terza, all'indomani del declinante anno secolare, nel giorno del Natale del Signore, nel mentre uno dei confratelli, per ordine del Presule medesimo celebrante nella Patriarcale Chiesa del Laterano, proclamò la grazia».
Ma, nonostante queste punte, l'affluenza rimase sempre straordinaria. Dopo la Pasqua, quando di solito si aveva una stasi nei pellegrinaggi, quell'anno vi fu solo una «vix dierum octo suspirii interpolatio»: e poi subito una ripresa. Se i Pugliesi, i Sardi e i Corsi, ci dice sempre lo Stefaneschi, giunsero per lo più durante l'estate, dagli altri paesi giunsero soprattutto in autunno e in inverno. «Della Spagna non pochi, numerosissimi poi di Provenza e anche moltissimi della Gallia, di Inghilterra invece rari per causa delle guerre, e così ogni altra nazionalità di occidentali, avendo atteso condizioni di temperatura conformi ai loro paesi, vennero pellegrinando al principio di autunno o d'inverno, in folla austera e devota. In verità non soltanto questi trovarono favorevole tale temperatura, che anzi nel tempo medesimo gli Alemanni e gli Ungari delle regioni settentrionali arrivarono in turni ripetuti e per tutto l'anno centenario fu quello sempre il tempo preferito».
Come poté essere alloggiata tutta quella gente? fl problema pare forse più difficile a noi moderni, di quanto fu allora in realtà. Le esigenze erano ben più modeste, normale era il dividere una stanza tra molti, e la condizione di pellegrini penitenti doveva fare più rassegnati ai disa
gi. Del resto Roma possedeva alberghi pubblici e, pei romei, particolarmente, scholae e ospizi; anche l'ospitalità dei privati fu certo impegnata fino alla saturazione e accadde quel che dirà Matteo Villani del giubileo del 1350, quando «i romani tutti eran fatti albergatori».
Più difficile certo da risolvere fu il problema dell'approvvigionamento. Dice lo Stefaneschi: «L'impensato concorso di romei, dopo che per tre mesi circa Roma li ebbe forniti in abbondanza di tutto il necessario per la vita, cominciò a minacciare carestia, in special modo pel motivo che né i forni né i molini sovraccarichi parevano poter bastare alla moltitudine; e il Tevere, traboccando alquanto fuor del suo alveo, per le piogge, dava esca ai timori del volgo. Per quanto in realtà vi fossero sufficienti granaglie, si provvide tuttavia prontamente con duplice rimedio: il primo, che i castelli vicini, fornitori abituali di grano a Roma, in quella circostanza ebbero ordine di fornire pane; il secondo che la gente stessa, per non sottostare al caso, arrivando recava sé e i giumenti carichi di cibarie. Dato così un breve respiro all'approvvigionamento, le scorte furono ricostituite, sicché i mulini, i forni ed anche il pane in vendita a canestri nei borghi bastavano con larghezza: e anzi, cosa di cui i contemporanei ebbero fortemente a stupire, e i posteri forse stupiranno più fortemente ancora, qualora considerino la moltitudine raccoltasi in quest'anno secolare, per tutta la durata del giubileo non mancò a Roma cibo o bevanda, che anzi la messe fu grande e i torchi traboccavano di vino e abbondante fu il raccolto».
Anche altri cronisti constatano, indipendenti tra loro e concordi, che fu veramente miracolosa quell'anno l'abbondanza dei prodotti. Solo il fieno, per la presenza dell'eccezionale numero di cavalcature, e per l'ovvia
mancanza di riserve nella primavera e nell'estate, scarseggiò e raggiunse alti prezzi. Ogni altra cosa si mantenne invece abbastanza a buon mercato. «De pane, vino, carnibus, piscibus et avena bonum mercatum ibi erat», notava il Ventura; «salvo, osservava lo Stefaneschi, il rincaro delle merci con il ritorno dell'ottobre e con le piogge autunnali». Nel rincaro, io direi, influiva sì il fatto che ci si allontanava dall'abbondanza del raccolto immediato e i trasporti, nella stagione piovosa, si facevano più difficoltosi, ma soprattutto, mi pare evidente, il fatto che si aveva in quel periodo l'ultimo e più vistoso affollamento di pellegrini. Non per nulla il mercante Giovanni Villani concludeva: «e i romani, per le loro derrate, furon tutti ricchi».
E ricchissima divenne la Chiesa, ci dicono numerosi cronisti: sicché si è venuta formando l'opinione che quel giubileo non solo fu un grandioso affare finanziario, ma, - fu detto nel processo di Filippo il Bello - un affare pensato come affare, una decisione «per raunar denari e tesoro».