COSTANTI CHE NON LO SONO

Annuncio-shock da parte di un gruppo di fisici e cosmologi: alcuni costanti fondamentali di natura hanno valori che variano nel tempo.

Articolo tratto da L’Astronomia, Dicembre 2001

        “E’ UNA DELLE PIU IMPORTANTI SCOPERTE che siano mai state effettuate nella fisica fondamentale” dichiara risoluto John Webb, dell'Università del New South Wales di Sidney (Australia), che di tale scoperta è autore. Ma non tutti sono con lui, almeno in questa fase. John Bahcall, astrofisico di Princeton, è parecchio più cauto: “Sarebbe una scoperta sconvolgente se venisse confermata al di la di ogni ragionevole dubbio, e per ora non lo è”. E, del resto, lo stesso Jason Prochaska, astronomo della Carnegie Institution di Washington, co-firmatario dell'articolo di scoperta, confessa candido: "Oggi come oggi non ci scommetterei la vita".

        I commenti si riferiscono al risultato annunciato a fine estate sulle pagine del “Physical Review Letters”, a firma di un gruppo internazionale di fisici e astronomi, secondo cui una delle costanti fisiche più significative, la costante di struttura fine, avrebbe avuto, nel lontano passato dell'Universo, un valore leggermente diverso da quello che si misura ai nostri giorni. La prova sarebbe stata raccolta accumulando misure spettroscopiche di decine e decine di quasar lontani o lontanissimi, la cui luce filtra attraverso nubi di materia poste a diverse epoche cosmiche e che perciò lasciano il proprio marchio nei rispettivi spettri sotto forma di sottili righe di assorbimento.

        La costante di struttura fine (simbolo α) rappresenta la costante di accoppiamento di una particella elettricamente carica con il campo elettromagnetico. Il suo valore, che è pari a circa 1/137, dà una misura dell'intensità relativa delle forze elettromagnetiche rispetto alle altre interazioni fondamentali di natura, ammesso che a questa comparazione si possa attribuire un senso concreto, vista che si confrontano comportamenti della materia non immediatamente riducibili gli uni agli altri. A giudicare dalle costanti di accoppiamento, le forze elet­tromagnetiche vengono dietro le intera­zioni forti, ma sono più intense delle interazioni deboli e straordinariamente più forti di quelle gravitazionali.

         Una definizione più analitica della costante di struttura fine è la seguente:
α rappresenta il rapporto tra la velocità media dell'elettrone nello stato fonda­mentale dell'idrogeno e la velocità della luce; quest'altra è ancora più involuta: α esprime il rapporto tra l'energia di repul­sione elettrostatica di due cariche ele­mentari, alla distanza di una lunghezza d'onda di Compton, e l'energia di riposo di una di tali cariche.

        Al di la delle formulazioni tecniche, c'è pero un aspetto che va assolutamente sottolineato, probabilmente ricco di significati e tanto più intrigante in quanto ancora non sappiamo come interpretarlo. La costan­te di struttura fine, che è una grandezza adimensionale, può essere espressa da una semplice relazione che coinvolge alcune delle più importanti costanti della fisica:

1/α = 2cε0 h/e2= 137 ,036...

dove c è la velocita della luce, e0 è la costante dielettrica del vuoto, h è la costante di Planck ed e è la carica dell'e­lettrone. Di sicuro, tutto ciò non rappre­senta una mera curiosità numerologica. Ci dev'essere ben altro che si nasconde in questo perfetto incastro di costanti relativistiche, quantistiche ed elettro­magnetiche. Ma che cosa? Non lo sappiamo. Comunque sia, se davvero alfa varia nel tempo, bisogna dedurne che una o più delle costanti coinvolte nella formula fanno altrettanto, con le conse­guenze che si possono immaginare sia per la fisica che per la cosmologia.

        La costante di struttura fine gioca un ruolo importante in tutti i processi alla scala atomica; per esempio, il suo valore fissa con precisione le lunghezze d'onda a cui si producono le emissioni e gli assorbimenti caratteristici di tutti gli elementi chimici. La sua supposta varia­zione dovrebbe dunque rivelarsi con qualche effetto nella struttura negli spettri alle varie epoche cosmiche.

        L’idea di Webb e collaboratori è stata perciò quella di utilizzare alcuni quasar, lontani miliardi di anni luce, semplice­mente come sorgenti di luce capaci di trasportare fino a noi il marchio degli assorbimenti di cui sono responsabili nubi gassose interposte lungo il cammino ottico e collocate a diverse distanze, ossia a diverse epoche cosmiche. La lun­ghezza d'onda a cui compaiono gli assor­bimenti di uno stesso ione,  come quelli del magnesio, del ferro, dello zinco ecc., dovrà variare da una nube alla successi­va non soltanto (e di molto) per via del­l’espansione dell'Universo,e quindi del diverso redshift cosmologico dell'assorbi­tore, ma anche (di pochissimo) a causa della variazione della costante di strut­tura fine intervenuta nel tempo che la luce ha impiegato per andare da una nube all'altra.

        Gli autori hanno utilizzato quattro insiemi di dati spettroscopici, relativi a 72 quasar: tre insiemi sono misure nel­l'ottico, prese con il telescopio Keck di 10 m, e uno è nelle onde radio. L'analisi dei dati è stata particolarmente accura­ta, tendente in primo luogo a eliminare tutte le possibili fonti d'errori sistemati­ci, e il risultato è che una dozzina di miliardi di anni fa a sarebbe stata più piccola di qualche parte su centomila rispetto al valore attuale.

        In un analogo lavoro precedente, porta­to a termine nel 1998, gli stessi autori avevano trovato che la variazione riguardava solo un'epoca limitata della storia dell'Universo, grosso modo quella compresa tra i redshift 1,0 e 1,4, tra 8 e 9 miliardi di anni fa. La novità del presen­te articolo è che la variazione al ribasso della costante si estenderebbe all'indie­tro fino a epoche primordiali.

        Webb non ha dubbi sulla bontà del risultato: a suo dire, ci sarebbe solo una probabilità su 16 mila che l'effetto sia frutto di un errore sistematico nella riduzione  dei dati. Certamente, però, le misure sono così delicate che ulteriori verifiche non solo sano auspicabili, ma assolutamente doverose e Webb è il primo a riconoscerlo. Il prossimo  passo sarà di attingere ai dati di telescopi ottici diversi dal Keck e di altri radiotelescopi: domande in tal senso sono già state avanzate all’ESO e al radiointerferometro VLA di Socorro (New Mexico).

        Quanto alle conseguenze sui piano fisico e cosmologico, i teorici sono al lavoro per comprenderne appieno la portata. C’è chi sostiene che la velocità di propagazione della luce riflette in ultima analisi le modalità di interazione tra i fotoni ed il vuoto quantistico e che perciò sarebbe naturale che fosse diversa a fronte di variazioni nella densità di energia del vuoto. Il calo del valore di a nel lontano passato potrebbe perciò essere la conseguenza di un aumento di c e segnalare una possibile evoluzione della densità di energia del vuoto: questo è un parametro importante, che si lega alla costante cosmologica, di recente reintrodotta nel modello cosmologico standard.

        Altre teorie, tendenti a unificare in uno schema concettuale unitario le quattro interazioni fondamentali di natura, richiedono l' esistenza di un certo numero di extra-dimensioni spaziali, piena­mente dispiegate e operative all' alba dell'Universo, ma di cui oggi non avver­tiamo la presenza perché nel frattempo si sarebbero "arrotolate" su se stesse fino a occupare dimensioni minori di quelle di un atomo. In questi modelli, la costante di accoppiamento delle cariche elettriche con il campo elettromagneti­co ha un valore che riflette il grado di "accartocciamento" di queste extra­-dimensioni, e se tale valore è cambiato nel tempo vuol dire che anche la strut­tura geometrica dello spaziotempo ha subito significative variazioni.

        Tutti concordano sul fatto che la confer­ma di questa scoperta aprirebbe scenari inesplorati nel campo della fisica e potrebbe suggerire la direzione in cui pro­cedere verso la formulazione di quella sospirata teoria quanto-gravitazionale che fino a oggi ha data scacco alle migliori menti teoriche. Del resto, è estremamen­te significativo che le costanti coinvolte nella variazione sono proprio quelle che hanno un posto centrale nelle teorie della relatività (c) e della meccanica quantisti­ca (h). Ma prima bisogna essere certi che non ci siano altre spiegazioni più conven­zionali del fenomeno (per esempio, moti nelle nubi) e che le misure non siano infi­ciate da errori (si lavora sui decimillesimi di nanometro!). Al momento il senti­mento prevalente tra i fisici è un mix di perplessità e cautela.

        Corrado Lamberti

 

 

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