Il carcere delle spie


Matteo Bartocci


Roma. Una rete di intelligence interna alle carceri per controllare e monitorare in modo «continuativo e centralizzato» non solo tutte le attività dietro le sbarre ma anche i collegamenti dei detenuti con il mondo esterno, le attività del personale e degli agenti di polizia. Se ne parla da anni ma forse oggi questa sorta di «super servizio segreto carcerario» è diventato realtà attraverso una serie di inquietanti ordini di servizio riservati che prefigurano una rete segreta che al di là di ogni gerarchia interna opera senza un atto pubblico che ne regoli finalità, modus operandi, organismi di controllo e quantità di forze assegnate.

Si tratterebbe di circa 250 poliziotti, suddivisi a livello regionale e per singolo carcere, distratti dai propri compiti istituzionali e scelti personalmente dal capo dell'ufficio ispettivo Salvatore Leopardi, al quale risponderebbero in via assoluta ed esclusiva.

E' questa la lettura che emerge a margine di un'interrogazione parlamentare presentata la settimana scorsa al ministro della Giustizia Clemente Mastella da Graziella Mascia del Prc. «Risulta - chiede Mascia al guardasigilli - che il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) abbia istituito in tutti i provveditorati regionali articolazioni operative della polizia penitenziaria espressione diretta dell'ufficio ispettivo preposte a non meglio indicate attività informative». Articolazioni per di più «sottratte alla catena gerarchica» e operanti «nell'assoluta riservatezza degli atti compiuti».

L'ordine di servizio che avvia la rete di intelligence è il numero 2 del 2006 firmato il 9 maggio dallo stesso Leopardi, quando governo e presidente della Repubblica non si erano ancora insediati. Depurandolo del suo linguaggio burocratico si evince che le strutture periferiche possono operare solo dietro «espressa richiesta» del capo, bypassando la catena di comando. Al di là del coinvolgimento formale, infatti, i provveditori non hanno alcun controllo sulle nuove strutture.

In parole povere si tratta di uffici paralleli che, a riprova, non comunicano mai tra loro ma operano in un rapporto esclusivo verticale con l'ufficio di Leopardi, cui trasmettono «prontamente e tempestivamente», anche «per le vie brevi», «ogni dato o notizia anche parziale ritenuta significativa». «Le varie articolazioni provvederanno allo svolgimento delle sole attività delle quali saranno investite secondo le direttive impartite», ordina Leopardi senza aggiungere altro per iscritto. A garantire ulteriormente la riservatezza delle operazioni un altro ordine di servizio, sempre firmato da Leopardi ma senza data (numero 35/2006), che prescrive standard di protocollo per la comunicazione molto rigidi («identici a quelli per le Sezioni III e IV dell'Ufficio»).

Ciò che queste note non dicono esplicitamente si ricostruisce da quanto trapela sugli incontri avuti da Leopardi al Dap con alcuni provveditori regionali nei mesi scorsi. Le attività, a quanto risulta, non si limiterebbero alle indagini sui detenuti in 41bis (come affermato il 26 maggio in forma anonima e difensiva dal Dap dopo l'interrogazione di Mascia) ma si allargherebbero ai detenuti ordinari e perfino, come parrebbe dalla circolare preparatoria firmata dal capo del Dap Giovanni Tinebra, a chiunque operi nelle carceri.

Il 7 febbraio 2006, a camere quasi sciolte, Tinebra getta le basi per l'opera di Leopardi comunicando a tutti i provveditori regionali che «l'ufficio per l'attività ispettiva e di controllo, con la collaborazione di articolazioni periferiche di prossima istituzione sul territorio», avrebbe provveduto sia ad una attività centralizzata di gestione e controllo di dati già acquisiti (come richiesto dalla Direzione Nazionale Antimafia nel 2005), sia ad attività di intelligence e investigazione vere e proprie. Scrive testualmente Tinebra che le future articolazioni si occuperanno di: «1) acquisizione, analisi e monitoraggio, continuativi e centralizzati, di elementi documentali e dei dati informativi di natura fiduciaria riguardanti ciascuna delle persone sottoposte al 41bis; 2) esame comparato, sempre continuativo e centralizzato, di tutti gli elementi e dei dati acquisiti; 3) acquisizione, analisi e monitoraggio, continuativi e centralizzati, di tutti i possibili canali di collegamento, intramurario ed extramurario (corsivo nostro, ndr); 4) approfondimento informativo degli eventuali canali di collegamento, anche extramurario; 5) eventuali sviluppi di indagini preliminari all'esito dell'approfondimento informativo qualora questo evidenzi ipotesi di reato» (come richiesto dalla Dna). L'ordine per Leopardi è di avviare «tempestivamente» i «contatti preliminari».

Coadiuvato da pochi uomini fidati tra cui il direttore del carcere di Sulmona Giacinto Siciliano, a marzo Leopardi inizia a costruire la sua rete, convocando a Roma i vari provveditori, in incontri separati e a piccoli gruppi, per compartimentare ancor meglio l'operazione. E' in queste occasioni che avrebbe esplicitato, sempre a voce, le sue direttive, specificando che i nuovi uffici avrebbero svolto «attività preinvestigative» articolate su quattro temi di contrasto: criminalità organizzata, terrorismo internazionale, terrorismo interno e, perfino, «attività anarco-insurrezionaliste». Maglie tanto larghe, per esempio, da riguardare anche un direttore non allineato, un capo della polizia troppo morbido, debolezze di agenti, oltre a far supporre l'esistenza dei meccanismi tecnologici necessari per vaste intercettazioni ambientali, telefoniche e della corrispondenza.

Se non è un servizio segreto vero e proprio poco ci manca. In ogni caso la nuova struttura conferisce a Leopardi un potere sul dipartimento del tutto sproporzionato rispetto al suo ruolo ufficiale. Senza contare che se le indagini si limitano ai detenuti in 41bis non si capisce perché se ne occupi l'ufficio ispettivo e non quello detenuti di Sebastiano Ardita. Né si capisce perché l'Antimafia richieda al Dap l'avvio di una struttura perentoriamente «centralizzata». Salvatore Leopardi, fin dai tempi di Caltanissetta, è il vero braccio destro di Tinebra. Il suo mandato scade tra un anno e se le voci sono vere per lui sarebbe già assicurato un nuovo incarico presso la procura nazionale antimafia.

Il Manifesto
(Tratto da: http://italy.indymedia.org/news/2006/05/1082924.php)

L'eterno ritorno del carcere di polizia

«L'ufficio ispettivo non può avere compiti di spionaggio. E via Arenula ha ben altri doveri istituzionali»
Matteo Bartocci

Alessandro Margara, presidente della Fondazione Michelucci di Fiesole e storico magistrato di sorveglianza, è stato a capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) dal '97 al '99. Da sempre alfiere di una visione «critica» e «non custodialista» del carcere, ha accettato di commentare le ultime notizie sulla rete di sorveglianza nelle carceri prevista da alcune circolari riservate del Dap.
«Dietro iniziative come quella che avete reso nota - commenta Margara - mi pare ci sia una vecchia idea di fondo: che il carcere tutto sommato è un ambiente che può sempre servire ad operazioni di polizia. Ora, questa non è un'idea nuova, già durante gli «anni di piombo» le carceri speciali erano state usate come una fonte di informazioni più che un luogo di nascita per eventuali collaborazioni, anche perché in quel contesto non è che ne nascevano molte. Ma all'epoca almeno il discorso si limitava a un'area di detenuti ben specifica, come oggi potrebbero essere quelli sottoposti al 41bis.

Procedure di quel tipo le sembrano legali?
Assolutamente no. Ci sono sempre stati forti sospetti, se non timori, che controlli e intercettazioni di qualche genere si estendessero a tutto l'ambito penitenziario, compresa l'alta sorveglianza dove ci sono molti reclusi per reati mafiosi. Ma il controllo dei detenuti o di determinati ambienti già oggi è possibile con strumenti che possono ben prescindere da quelli descritti negli ordini di servizio da voi resi noti. E comunque usare strumenti tecnologici di tipo «americano» ha bisogno di una giustificazione che venga da fonti ben più alte di quella di un particolare dirigente di un determinato ufficio. Serve comunque il controllo della magistratura: che tutto nasca così, quasi con naturalezza, attraverso disposizioni impartite neanche dal direttore del Dipartimento ma da un semplice dirigente mi pare molto grave.

Che tipo di ufficio è quello ispettivo?
E' molto strano che di controlli simili si occupi l'ufficio ispettivo, perché una volta era un compito svolto all'interno dell'ufficio detenuti. L'ispettivo, per definizione, interviene solo di fronte a precise difficoltà, con disposizioni e responsabilità ben determinate. Avergli dato compiti di intelligence è come averlo messo in tenuta permanente effettiva, sempre sul piede di guerra. Se fosse così, sembrerebbe una sorta di Ufficio per il controllo democratico che rievoca memorie davvero infelici.

Mentre il carcere è sull'orlo del disastro.
Guardi, questa mi pare un'iniziativa in un contesto in cui di iniziative non ce ne sono più. Quello che sconcerta è che il carcere diventi un settore di polizia: la nostra Costituzione dice ben altro.

Ma sull'altare della «sicurezza», in Italia e non solo, si sono sacrificati diritti ben più generali...
E' vero che il momento è molto delicato. Ma soprattutto quando vedo che si parla di controllare settori di «movimento» (le direttive impartite da Leopardi avrebbero coinvolto non meglio precisati «settori anarco-insurrezionalisti», ndr) mi sembra siamo più in un contesto da ministero dell'Interno che da ministero della Giustizia. Via Arenula può essere sempre interessata istituzionalmente da altri dicasteri ma non può stabilire un vero cordone ombelicale con tipici interventi di polizia.

Il Manifesto 2/6/2006


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