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ALBERI SECOLARI
L'Alto Reno è una terra di alberi secolari.
Si va dal Castagno di Monti di Badi (su cui è stato apposto il cartello "Portatemi rispetto ho 1800 anni") all'Acero della Madonna dell'Acero (secondo alcuni ha 1200) anni, oppure al castagno della Torraccia, a Torri, un bel castagno di 400 anni, alto 14 metri. Ma altri alberi non ci sono più, dal Faggio secolare della Madonna del Faggio al Faggione dell'Acquerino (Sambuca Pistoiese - Cantagallo).
Scriveva in proposito Carlo Sguazzoni in "L'appennino fra Agna, Limentre e Ombrone" (Nueter Ricerche n. 11, pubblicato col contributo dei Comuni di Pistoia, Sambuca Pt.se e Montale):
"I grandi alberi sono vita contemporanea a noi vicini pur avendo radici in un tempo indietro di secoli. Di conseguenza, quando sono così, è bene lasciarli alla natura di cui sono veri monumenti. Sia essa a regolarne la vita e la morte: a noi tocca conservare intorno un ambiente adatto a custodirne il fascino piuttosto che farne fenomeni di baraccone per uno squalificato turismo di massa"
ARBUSTI E PESCI
"Per quanto riguarda la flora arbusti ed erbe quali il ginepro, la scopa, il mirtillo, la fragola e tantissimi altri sono diventati rari poiché l'ombra densa del bosco incombe ormai quai ovunque. Anche la fauna ittica si è modificata e ciò non certamente per effetto dell'inquinamento. L'ombreggiamento è dovunque aumentato e di conseguenza la temperatura delle acque è notevolmente diminuita: la trota cresce di meno ed i barbi e le lasche che fino agli anni '60 erano presenti in tutto il Limentra ora si trovano soltanto nel tratto posto a valle della frazione di Lentula"
(BILL HOMES, Le pietre dell'Alta Limentra Orientale, Porretta Terme - Pistoia, 1996, p. 28)
ERRORI DI AUTORE
Segnaliamo una chicca, un vero e proprio errore d'autore che ci può illuminare sulle difficoltà di ricostruire e conoscere la storia locale.
Gerhard Rohlfs in "Studi e ricerche su lingua e dialetti d'Italia" (Sansoni, Firenze, 1997, p. 76) ci illustra dottamente sull'origine del toponimo San Mommè per derivazione da San Tommaso. L'interpretazione è affascinante, ma errata dato che San Mommè deriva il suo nome dal Santo orientale Mamante di Cesarea, citato in numerosi documenti medioevali (N.RAUTY, Storia di Pistoia, vol I, Firenze, Le Monnier,1988, p. 89).
Ma chi avrà avuto occasione di leggere solo il Rohlfs ne rimarrà convinto e mai potrà immaginare la realtà storica di quel territorio così vicino all'Alto Reno e ad esso legato avendo fatto parte dei possedimenti della Abbazia di Fontana Taona.
FIGLI DEI CASTAGNI
La nostra sopravvivenza, fino a tempi recenti, si è fondata sulla coltivazione (perché di coltivazione si tratta) del castagno. Eì attraverso necci, patolle, frugiate, balotte che le generazioni di altorenani hanno trovato sostenatamento, facendo di ciascuno di noi dei "figli delle castagne". Naturale risulta dunque la tradizione (ricordata a p. 108 del numero 58 (1995) del La Musola) che i bambini nascono non dai cavoli, ma dagli alberi cavi di castagno ( mentalmente collegai alla "bocca della vulva")
LA FLORA E LA FAUNA
Il paesaggio dell'Alto Reno bolognese - pistoiese è caratterizzato da un manto forestale vario. Anche un occhio poco esperto può tuttavia apprezare la grande quantità di castagneti. Il castagneto è il tipo di arbicoltura più sviluppata e diffusa in senso assoluto in montagna.
L'abbondanza di vegetazione ora riscontrabile, specialmente l'abetaia e la pineta, è il frutto di un rimboschimento avvenuto a partire dagli anni '20 del '900.
Da non dimenticare è tuttavia la presenza di cerri, quercie, faggi (celebre è la faggeta dell'omonima "Madonna del Faggio" sopra Castelluccio).
Per quanto attiene la fauna essa è popolata dalla fauna tipica dell'arco appenninico. Si può anche riscontrare la presenza di lupi giustificata non solo dal clima, ma anche dalla presenza di animali di cui si ciba, come gli unguliati (cervi, caprioli, etc.).
Numerosi documenti e toponimi testimoniano la presenza dell'orso bruno almeno fino alla fine del XIII secolo , specie oggigiorno scomparsa nei nostri monti.
Altri predatori popolano queste montagne, ma di dimensioni assai più ridotte, come la volpe.
Un altro animale tipico di questa parte dell'appennino è il cinghiale, rintrodotto tuttavia di recente.
Fra i rapaci la presenza dell'aquila è rarissima. Più frequente è l'avvistamento di falchi e poiane. C'è da registare inoltre la presenza di civette e allocchi.
Oltre ai rapaci la Montagna è popolata da una aviofauna tipica dell'arco appenninico come il corvo, il tordo, i passeri, il fagiano, la pernice. Oltre a ciò sono presenti numerosi esemplari di rettili, fra cui la vipera e le più innocenti lucertole
Sono presenti inoltre rane, rospi, tritoni.
Per la ittiofauna è da ricordare, oltre alla trota, il piccolo brocciolo che vive nelle acque più chiare e pulite . In certi corsi d'acqua particolarmente puliti e lontani dai centri abitati vivono gli ultimi esemplari di una fauna locale praticamente scomparsa: i gamberi di fiume.
SULLA PRESENZA DEI GAMBERI IN PASSATO
La presenza dei gamberi nella nostra terra non era fenomeno rarissimo, come oggi. Si pensi, a titolo di esempio, che il Fossetto dei Gamberi (1) si chiama così perché fino ad anni recenti era abitato da queste crature.
nota:
(1) il Fossetto dei Gamberi si trova in Comune di Granaglione presso la Fontana della Madonna della Salita (cfr. il "Dizionario Toponomastico del Comune di Granaglione", Porretta terme, 2001)
IL TRENO DI LENIN
Noi e Guccini
E' noto che Guccini è uno dei più accesi sostenitori della "causa bolognese" in Alto Reno , eppure abbiamo deciso di citarlo in più occasioni, perché? Da un lato per l'innegabile ricchezza del suo contributo e, dall'altra, perché riteniamo che i contributi di Guccini siano, anche a suo dispetto, una prova della nostra diversità e alterità rispetto a Bologna.
Guccini è quindi il nostro "treno di Lenin".
P.S. Per chi non sapesse il significato della locuzione "usare il treno di Lenin". Risale al 1917, quando Lenin, per giungere in Russia, non si fece scrupolo di usare un treno piombato offerto dai tedeschi.
GUCCINI DIVISO A META'Da che parte va? E con chi sta? Ma poi con chi lo vuole fare il Comune unico? Con Cantagallo?, Con Granaglione? Oppure con Pistoia o, meglio ancora, con la Città Metropolitana di Bologna? Un bel mistero ....
LA NAZIONE 13 LUGLIO 2001
SAMBUCA — Divisi a metà. Tra la Toscana
SAMBUCA — Divisi a metà. Tra la Toscana e l'Emilia. I
cittadini di Sambuca Pistoiese e delle sue frazioni si
sono sempre sentiti cittadini di frontiera, come
ricordano anche le vicende storiche. Un bipolarismo
difficile da superare quando per studiare, lavorare e
curarsi si è costretti a rivolgersi ad una comunità
diversa da quella di appartenenza. E proprio facendo
leva su questo gli abitanti di Pàvana stanno pigiando
sull'accelleratore per passare sotto l'Emilia. Ma non
tutti sono d'accordo. «In fondo qui si stà, comunque
bene. E difficilmente — sostengono — otterremmo
ulteriori vantaggi qualora decidessimo di lasciare la
Toscana». In mezzo si schiera Francesco Guccini che
proprio a Pàvana ha la casa paterna dove trascorre molto
del suo tempo. «Qualcuno mi stà tirando per la giacca e
mi vuole attribuire colpe che non ho. Ma forse più che
'aderire' all'Emilia, dovremmo pensare a creare un
raggruppamento tra più comuni della stessa valle per
crearne uno più forte».
Alle pagine II-III
IL RESTO DEL CARLINO 13 LUGLIO 2001
Guccini tifa per il sì
C'è molta attesa attorno al convegno che il
comitato per l'annessione del comune di Sambuca
Pistoiese alla provincia di Bologna ha organizzato
per domani alle 17 nella sala del «Club 77» di
Pavana. Fra i relatori del convegno ci sarà anche
il cantautore Francesco Guccini (nella foto) molto
legato, come tutti sanno, alla stessa località di
Pavana. «Pure non essendo direttamente chiamato in
causa nel senso che non sono un residente — spiega
Guccini — parteciperò volentieri alla iniziativa
promossa da alcuni amici nella consapevolezza che
saranno poi gli abitanti a pronunciarsi in un
senso o nell'altro». L'obiettivo del comitato è
appunto quello di arrivare alla convocazione di un
referendum popolare per sapere se effettivamente i
residenti abbiamo o meno intenzione di diventare
bolognesi. Per il momento si discuterà nel
convegno sull'argomento ''Sambuca Pistoiese, una
comunità dell'appennino toscoemiliano: quale
futuro, dove e come''. Gli organizzatori
dell'iniziativa, cappeggiati da Mauro Vecchi, si
augurano innanzittutto una massiccia
partecipazione di gente in modo di avere un
preliminare responso dell'interesse della
questione in mezzo agli abitanti».
«Auspichiamo inoltre un confronto civile e
tranquillo senza polemiche e strumentalizzazioni
politiche» afferma Mauro Vecchi. Dopo il suo
saluto interverranno Dino Borgognoni, componente
dello stesso comitato e Francesco Frattolin,
coordinatore della « Unione dei comuni italiani
per cambiare regione». Prenderà quindi la parola
Sergio Palmieri, esperto di gestioni
sovracomunali, per affrontare il tema «I servizi
pubblici locali fra sussidiarietà e cooperazione».
Chiuderà gli interventi Giuseppe Nanni, sindaco di
Granaglione, trattando la questione del testo
unico del coordinamento sulla autonomie locali e
sulle opportunità dei piccoli comuni. La
questione, a quanto sembra, è molto sentita a
Pavana. Soltanto domani sera si saprà un primo
orientamento della popolazione su questa vicenda
che fa tanto discutere in entrambi i versanti.
di Giacomo Calistri
LA CHICCA DI GUCCINI
Maledetti (i) toscani
Nel numero 54 di Nueter (anno 2001), alle pagine 254 e seguenti, è riportato un resoconto dell'incontro che Guccini ebbe con una classe serale dell'ITIS di Porretta Terme. in questa sede Guccini si dichiarava apertamente per il partito filobolognese argomentando a supporto tre ragioni che, una volta analizzate, appaiono una più insostenibile dell'altra:
1) il dialetto di Pavana tende all'emiliano (p. 258);
2) è assurdo che la politica acquedottistica di Pavana sia gestita attraverso il Dipartimento dell'Alto Mugello anziché dall'Agenzia d'Ambito del Reno (p. 257);
3) a Pavana, a differenza che a Treppio, "si gioca a briscola conle carte piacentine" (sic!, p. 257).
Analisi:
1) Che il pavanese tende all'emiliano è affermazione non del tutto vera. Nel suo studio su Pavana Guccini riconduce il dialetto di Pavana a un ambito di tipo toscano ("Pavana parla un dialetto di tipo toscano ma profondamente segnato da caratteristiche emiliane" (p.9)). La famiglia del dialetto pavanese è dunque quella toscana anche se l'Emilia lo ha arrichito (clicca su il dialetto di Pavana);
2) seguendo il ragionamento di Guccini non solo Pavana, non solo Sambuca, non solo Treppio o Lagacci, ma Spedaletto, Pracchia, Pontepetri, Prunetta, Campotizzoro, Maresca, Fossato, Gavigno, Vernio dovrebbero essere seguiti dall'Agenzia d'Ambito del Reno. Non sfugga che l'Agenzia d'Ambito del Reno è a Bologna, si occupa di acquedotti ed è profondamente segnata da HERA (ex SEABO già ACOSER). Non sfugga ancora che seguendo il criterio di Guccini metà della provincia di Prato, un quarto della Provincia di Pistoia (tra i Comuni di Sambuca Pistoiese, Pistoia, San marcello Pistoiese e Pitigliano) sarebbero gestiti da una realtà territoriale che nulla ha a che fare con la Toscana!!!!;
3) che poi Sambuca, Frassignoni, Monachino e San Pellegrino devono (per Guccini e con la benedizione di Nueter) passare in Emilia solamente perché a Pavana si gioca conl e carte piacentine ... beh ... parole come queste si giudicano da sole.
In tutti i tre casi Guccini ha parlato di Pavana, di Pavana e, ancora di Pavana. Pavana, anzi, viene contrapposta al resto del comune ("dove sono più toscani"). A questo punto, è fatto salvo che Pavana è più Toscana che Emiliana, c'è da chiedersi se Guccini non desideri portare Treppio, Fossato, Stabiazzoni, Frassignoni, Lagacci in Emilia solo per fare un dispetto a quei "maledetti toscani".
Ma a Guccini, in fondo, cosa importa?
Lui è nato a Modena, da madre modenese, e vive a Bologna lieto di dire che:A Buloggna e in i dintuuren as bacaaja acsé
Ma a Treppio, si sa, ... toscaneggiano ...
LE MISTERIOSE SCRITTE DELL'UOMO SELVATICO
Riportiamo di seguito un articolo sulle misteriose scritte del cosidetto "uomo selvatico" nel Comune di Lizzano in Belvedere pubblicate da "La Musola" nel lontano 1972 (n. 12, pp. 67 ss). Personalmente siamo molto dubbiosi della veridicità di quella scoperta, è comunque una interessante lettura per tutti.
"GLI ETRUSCHI
Domenica 22 ottobre 1972, in una splendida mattinata di sole, Giorgio Filippi mi
ha guidato fino a un gruppo di 'iscrizioni davvero singolare, che il suo occhio
esercitato aveva colto qualche giorno prima sul plano di una lastra di roccia, in
un punto del crinale montuoso che sovrasta Lizzano in Belvedere, verso Vidiciatico.
Nella piccola comitiva, di cui faceva par,te anche la gentile signora Filippi,
godevamo della simpatica compagnia dei signori :Lanfranco Bonora e Annamaria
Scardovi. Staccatici dalla strada asfaltata, dopo un'ora di cammino su di un sentiero
e, alla fine, traversando una fitta faggeta, si giunse al luogo del rinvenimento.
Le iscrizioni erano incise su di una lastra adiacente ad un'altra sulla quale si trovavano
scolpiti una piccola «forchetta» e un piccolo «cucchiaio», già noti da molto
tempo nella zona e che erano anzi entrati nella leggenda locale: se ne favoleggiava
in relaz;ione a un «uomo selvatico» che avrebbe abitato in tempi lontani una buca
(non si può proprio chiamarla grotta) sottostante alle rocce vicine.
Mi parve subito di poter distinguere tre diverse iscrizioni, l'una sotto l'altra:
quella superiore la qualificai senz'altro come etrusca, quella inferiore aveva un'apparenza
assai più tarda', quella di mezzo evocò in me strani ricordi di «chiodi» e
di ideogrammi.
Ripuliti con cura i vari segni e misuratili (erano fra i 5 e i 7 cm.) effettuammo
diverse fotografie: anche, su una roccia sovrastante la buca dell'«uomo selvatico»,
quella di una mano scolpita a grandezza naturale che il massaro del «Rugletto»
aveva notato il giorno precedente nel corso di una sua solitaria esplorazione.
Era quasi mezzogiorno: si stava per ridiscendere quando, mentre Giorgio Filippi
ci raccontava come aveva liberato le iscrizioni dal muschio che le semiricopriva,
il sig. Bonora domandò se sotto il muschio che ancora era su parte della lastra
non poteva trovarsi qualcosa d'altro. Ci mettemmo allora febbrilmente al lavoro.
Ed ecco appar:ire, fra gridarelli di entusiasmo, una piccola croce di forma non
consueta, sottile e nettamente incisa.
Ma, terminata la bella gita e tornato io al mio abituale lavoro di scartabellatore
di libri vecchi e men vecchi, sono qui a dover riferire su quanto ho potuto tra vagliatamente
appurare, in pochi giorni di indagine per non fare attendere la tipografia
della Musola, su quelle singolari testimonianze epigrafiche.
Cominciamo dall'iscrizione etrusca. Che sia proprio etrusca è denunciato intanto
dalla prima lettera (si sa che gli Etruschi scrivevano da destra a sinistra) che ha
la fol'ma di una F e che veniva pronunciata v. Essa si trova in numerose iscrizioni,
allo stesso modo che nella nostra, come lettera a sé, ossia come -iniziale del prenomeVel, così scritto abbreviatamente. Abbiamo poi la theta crociata, ossia il cerchietto
con la croce inscritta, che è tipica delle iscrizioni etrusche arcaiche. Altre lettere,
e cioè la A, la E 'e specialmente la Z (ultima lettera dell'iscrizione) si trovano,
identiche o quasi, nelle iscrizioni etrusche. Inoltre la parola tha, identificabile nella
nostra iscrizione, è in etrusco un ben conosciuto dimostrativo «
detta del piombo di Magliano (ma con significato indeterminabile). Restano le due
O con in mezzo quello strano segno: ma non sarebbe escluso trattarsi di un'indicazione
numerica, dato che qualche analogia sarebbe proponibile cO'n i segni numerali
etruschi già noti e con le dfre chioggiotte, riportate dal Buonamici nel suo volume
Epigrafia Etrusca. D'altra parte non si vede bene cosa ci starebbe a fare un'indicaz,
ione numerica su quel crinale, e si svuoterebbe di significato la v a sé stante,
giacché un prenome non seguito da un gentilizio sarebbe un non senso.
La chiave per la comprensione del documento è data invece, a mio avviso, proprio
da quello strano segno fra le due O: ho trovato che esso corrispO'nde esattamente
a una sigla riprodotta dal Fabretti al n. 27 del I Supplemento del Corpus
Inscriptionum Italicarwn, iscritta su un vaso di Villanova (Bologna). Il Fabretti
riporta una quindicina di sigle analoghe, piÙ o meno inconsuete, trovate su vasi
del genere. Il Buonamici, seguendo il Pareti, le riconnette ad un protO'tipo degli
alfabeti nord-etruschi, etrusco pur esso ma distinto da quello in uso in Toscana: un
alfabeto arcaico, anteriore alla conquista del VI secolo avanti Cristo. Ad esso
secondo il Pareti è da riconnettersi anche l'alfabetO' delle iscrizioni picene.
Ora proprio nel Piceno noi ritroviamo il nostro stesso segno: il Whatmough
credette di vederlo in un'iscrizione di Bellante (ma ruotato di 90 gradi) e segni
quasi uguali risultano in altre iscr;zioni (Acquaviva, Superaequom, ancora Bellante).
Mol!o dubitativamente il Whatmough pensa abbiano il valore di una sibilante.
Ma se dobbiamo dunque orientarci verso il Piceno, ove era usata anche la O, non
dobbiamo nasconderci che in quelle iscrizioni il segno che appare a Lizzano come A
possiede invece il valore r. E allora? Allora dovremmo pervenire, per la nostra
iscrizione, ad una lettura v throso ez che trova un riscontro persuasivo nel noto
gentilizio etrusco thresu. Infatti nell'Etruria la lettera O non era in uso: per esprimere
graficamente tale suono venivano imp:egate nelle iscrizioni, piuttosto promiscuamente,
le lettere E, D, A. In parole povere si tratterebbe di una persona che
incise lassù l'iniziale del suo «nome» e il «cognome», più una paro letta ez che non
si sa cosa voglia dire.
Comunque sia è chiaro che la presenza nella nostra iscrizione di quello strano
segno fra le due O ne garantisce al cento per cento l'autenticità: l'ipotesi di uno
scherzo erudito non regge perché l'erudito che si potrebbe immaginare autore della
beffa avrebbe dovuto essere molto ma molto erudito, né sarà stato certo il non
meglio identificato sig. Clersoni (o Chersoni) Elidio il quale, non si sa quando, non
trovò di meglio per immortalarsi che incidere il suo nome, con tanto di cartiglio,
su quella roccia, a poter congegnare uno scherzo del genere.
E veniamo alla seconda iscrizione: quella che mi apparve, di primo acchito,
come... cuneiforme. Ebbene, so che la notizia farà restare qualcuno senza fiato,
ma devo dire .che quella (sarebbe, se non erro, la prJma trovata 'in Italia) è proprio
un'iscrizione cuneiforme! Si tratta di un ideogramma i cui primi quattro elementi
corrispondono quasi in pieno alla prima parte di un ideogramma in scrittura neoassira,
che troverete (è il primo in basso a sinistra) a pagina 44, fig. 19a del .volumeHo
del Friedrich, Decifrazione delle scritture e delle lingue scomparse, edito a Firenze
nel 1961. Purtroppo in questi pochi giorni non ho avuto la possibilità di esaminare
ampi elenchi di 'ideogramm,i per trovarvi corrispondenze complete e pervenire a
una sicura traduzione di quei segni: saranno poi gli assiriologi, stimolati, non ne
dubito, da questa clamorosa primizia che offr.iamo ai ,lettori della Musola, a darne
una spiegazione che non lasci adito a dubbi e che conforterà o meno anche il senso
che ho dato, provvisoriamente beninteso, all'iscrizione etrusca.
Quando furono incise quelle due iscrizioni? Tutto concorda a situarle nel VI
secolo avanti Cristo, piuttosto verso l'inizio.
Resterebbe a parlare della misteriosa crocetta, della «forchetta», del «cucchiaio»
e della mano scolpita. Di questi ultimi tre reperti non dico nulla: lascio alla fantasia
dellettare di sbizzarrirvisi.Per la cracetta passa azzardare tre diverse ipatesi. È un
simbala cristiana? È una figurina umana stilizzata? È un segna di arientazione?
A favare di questa terza idea patremma citare Dolabella, in Cromo Vet., ed. Lachmann,
I, p. 303, 22ss.: quare per aedes publicas in ingressus antiqui fecerunt crucem,
antica et postica? Quia aruspices secundum aruspicium in duabus partibus orbem
diviserunt... C'era dunque, lassù, un tempietta o un sacella etrusco?
Angelo Savelli"
ricordi
LORO DEL RENO
inizia il nostro viaggio
attraverso la Porretta degli anni quaranta
e clnquanta.
Luoghi e personaggi.
Dovendo cominciare questa rubrica, che di volta in volta presenterà
ai lettori personaggi che hanno lasciato un segno (o un
livido) del loro passaggio terreno fra noialtri dell'Alto Reno, ci
sentiamo in imbarazzo, e per motivi di abbondanza. Spesso
nelle lunghe seratedi bar ci si ritrova a parlare di gente come i
vari Caria (Cava), Giannone, Sferrazza (Spano), Edmondo,
Cariolino, Potone (Funi), Floriano (Bomba a mano), Amedeo,
Bart (Piedone), Folco, il Toscanino, Pompeo, Melosi di Castello
che "operò"assieme al dotto Cinotti che divenne poi ministro
della Sanità nel Congo di Ciombè, Mingucin,
Borgognoni della Venturina il ... tenore - ciclista, vincitore di
una Corrida di Corrado, e tanti altri che hanno avuto parte
nei ricordi e nella nostra vita. Le storie che vi andremo raccontando
non affondano nella notte dei tempi, ma sono storie di
vita comune tramandate oralmente nelle serate di veglia e durante
le partite al bar. E' strano come diventi importante in
alcuni casi ricordarsi di taluni personaggi della cui conoscenza
si fà volentieri sfoggio. In una di queste serate ho presente il
ricordo di Leonelli, Bisoli e Carlin d'Bombiena coi quali si
passava in rassegna, ad uno ad uno, tutti i personaggi della
piazza (commercianti e non) del primo dopoguerra: Giuseppe,
Castelli, Bettini, Zagnoli, Zanardi, la Vetuglia, Oscarino, Bevitori
(Brasil),Gastone, la Nunzia, l'Argentina, i Gentilini
(Candido e sua sorella), i Betuzzi con la merceria e leprime
radio e televisioni, Scopini, i Lorenzini, Guido Neri, Masotti,
Minelli, l'orologiaio Bartoletti, la Flora e Policciodel corame.
Anche noi stiamo passando, come sono passati loro, e il pensiero
che dopo di noi non ci sarà nessuno che potrà più ricordarli
ci ha spinto a fissare sulla carta piccoli frammenti delle loro
storie, che certo non sono la Storia, ma sonoparte della nostra,
in una Forretta distante solo una quarantina di anni, ma lontana
mille miglz'ada quella che viviamo ora.
Era la Porretta del Casinò dell' Helvetia, del TeatroRossini e
della Filodrammatica, dei circhi e dei teatri ambulanti ( Carro
di Tespi) che si stanziavano nella zona del mulino Elmi,
che con le sue fiere di merci e bestiame è stato il nostro Far
West.
In questojàntastico quartiere si trovava di tutto:
c'era Santoli, il maniscalco; Masotti, detto Ciola, fantastico
fabbro dal quale i ragazzi pagavano per andare a bottega; il
mugniaio Palmieri che lavorava nel mulino di Elmi; la bottega
di Pedretti e l'osteria del Reno col suo stupendo pergolato di
glicine; il meccanico delle corriere, l'abbeveratoio, Ori il falegname
che si era insediato in un ex deposito di munizioni dell'
esercitoamericano ( alposto dell'insegna campeggiava un enorme
((NO SMOKING") e dietro quella chefu la prima sede
della torneria Bisoli. Oltre il passaggio a livello la vecchia segheria
di Vighi, più in là il piccolo allevamento di maiali di
mio padre e sul fiume la corrierina di Vandelli, dove per un
periodo abitò Pompeo prima di costruire la casache una piena
del '59 gli portò via.
Tornando verso la stazione, c'eraun vecchio butterato che vendeva
brustulli e lupini, e d'estate Tonietto con la baracchina
dei cocomeri.
Noi ragazzi ci trovavamo nel piazzale dietro la gora e il
bottaccio, dove le donne lavavano i panni. Tra loro ricordo
alcune lavandaie di professione:la Passini e la mamma di Gino
Settecervelli, zia di Managlia.
Lì spesso ci incontravamo con i ragazzi dei circhi, delle compagnie
di teatranti e delle giostre che ci stupivano con le loro
storie e i loro racconti.
Con le giostre spesso arrivavano anche i giocatori delle tre carte
e dei dadi. Con tale Filiberto persi i miei primi
soldi:il suo ritornello era
(( non c'è trucco non c'è inganno puògiocare anche un bambino di un anno ':
Che strano bestiario, ripensandoci adesso dopo tanti anni, e
chestruggente nostalgia mi prende, ricordando, lì, anche i miei
primi amori...
(continua)
Mario Guiducci
BANDE
E MACERIEla guerra erafinita da poco,
ma non per tutti...
una stagione di inebriante libertà,
tra la grotta del Duce e Piazza delle Tele...
Era già dopo-guerra, allora come ora, ma come sensazione la
guerra mi sembrava una cosa lontanissima, anche se in casa se
ne parlava spesso, essendo pochi anni prima mio padre miracolosamente
tornato dalla disgraziata spedizione in Russia dell'
Armir,con un grave danno alla vista e psicologicamente provato
da tale terribile esperienza, ma fisicamente ancora molto
forte e, come tutti, con grande voglia di fare e di dimenticare
tutti gli orrori passati.
Cosicchè, nella Porretta dei primi anni '50 era tutto un grande
brulicare di attività, mentreper noi ragazzi continuava la "guerra",
il nostro gioco preferito che in quei momenti aveva unpalcoscenico
d'eccezione: le macerie. Di macerie era piena
Porretta, essendo stata per lungo tempo bombardata da artiglierie
nemiche e alleate, e da incursioni aeree che avevano
come obiettivi principali di volta in volta la DEMM, i ponti e le
strade o laferrovia. Quelle bombe "intelligenti", oltre ad aver
colpito alcuni obiettivi importanti, ci avevano lasciato il paese
cosparso di macerie, dove noi ragazzi ci incontravamo per le
nostre scorribande. C'erano le macerie del "Collegio", dove
prima c'era un deposito di carburanti e ora i palazzi col Bar
Carla; quelle della Daldi vecchia (dove ora c'è il PAGmarket);
le macerie di "Ori"(dove c'è ilfioraio Pozzi); ma le più "vissute"
erano quelle di Piazza delle Tele,anche perché furono le
ultime ad essere ricostruite, nel '57. Inoltre, lungo la ferrovia,
vicino alfiume, vi erano molte bucheprofonde createdalle bombe,
di cui ci servivamo spesso nelle nostre battagliefra le "bande".
Le "bande"erano tante: quella di Piazza (Velino, Sissino,
Cacopo, Giorgino,Mimmi, William,Cartino,Pelle, Guto, Cajio,
Garofano, Dino, i Vannozzi, Manina, Presi, Mascagni, e tanti
altri, con lo stato maggiore nel "fortino" della "Sede ".
C'era la banda di Piazza delle Tele, senza dubbio lapiù numerosae
selvaggia, (Ballotta,Aleardo, Jejo, Rodolfo, Eliano, Cizio,
Gianni Fanocchia, Gino Settecervelli, Giannino, Rodolfo,
Giacomino, Pluto, Cioffo, Edda, Giovanna, la Peluffia, ecc.
ecc.),che avevano raccolto l'eredità dai vari Caria, Ibi, Orfeo
e Pippi, e che avevano il il Comando alla Grotta del Duce del
Monte della Croce.
La Banda di Via Mazzini che spesso si ritrovava al Vulcano
(Nando, Carota, Cartone, Nico, Gabbana, John, Titti, Passero,
il Rossino, Paolo, Maurizio, Puccio, Mummo, Dante,
Piteglio e tanti me ne scordo.
C'erano poi altre "bande minori": quella delle Fornaci, del
Laghetto e di Lungo Reno, che di volta in volta si alleavano
con gli uni o con gli altri.
Tutte le bande difendevano il loro territorio, e sovente attaccavano
per distruggere i rifugi e le capanne degli altri. Come i
Ragazzi della Via Pallanciavamo i "patacchini" di creta con
le stecche, e le nostre armi erano le spade di legno (con i
paramani spesso ricavati dai lampadari),fionde (fatte conforcelle
di ciliegio ed elastici di camera d'aria), cerbottane ( con
i tubi" elios", a doppietta, tripletta o quadripletta, e confrecce
di carta a spillo o a sapone). Le battaglie avvenivano per l'
appunto alle macerie, o per lo più alle Grotte, al Monte della
Croce, in Pineta, o nella zona Sagrato, Monchini, Vulcano. Le
sfide si combinavano tra i banchi di scuola. Il bottino di guerra,
che passava continuamente di mano, consisteva in varie
cassette di residuati bellici (baionette, qualche vecchia pistola
rotta, munizioni di vario calibro, della cordite, qualche pezzo
di granata, ed anche varie bombe che circolavano nelle scuole
ad uso dimostrativo, e che qualcuno rubò). Un giorno, il tutto
ci venne sequestrato dai Carabinieri dopo un'irruzione da Castelli.
Quando si catturava un nemico, gli si faceva "papa".
Una volta, in una di queste operazioni, si arrivò a una primitiva
circoncisione del prepuzio di Campaldo, eseguita con vetri
di bottiglia, conclusa al Pronto Soccorso con un'abbondante
emorragia. Allafine degli anni '50, ad una ad una le macerie
scomparvero, e ci confinarono nelle riserve. Tanti ragazzi andarono
via, perché i genitori cercavano lavoro in città. Ragazzi
che in alcuni casi non avrei più rivisto, ma che sono rimasti
vivi nella mia memoria di appartenente alla ultima generazione
"felice". Poi venne la TV. (continua...)
Mario Guiducci
LORO
DEL RENOPescatori di frodo
a jeio
Nelle scorribande si finiva spesso in fiume, dove le giornate
erano davvero fantastiche e interminabili. La pesca a
mano è un' arte coltivata da sempre qui da noi, fino a una
trentina di anni fa. La si praticava anche per motivi di
sussistenza, quando a noi ragazzi il pesce (soprattutto le
1asche) ce 10 compera vano a 150 lire il chilo. Per la verità,
si sono usati per tale scopo anche metodi molto più brutali
come la mazza, con la quale si percuotevano le tane con
il risultato di stordire i pesci che venivano a galla; tali risultati
si ottenevano anche coi botti di carburo o di cordite,
ma questo non era il nostro caso, non ci sarebbe stato divertimento.
Lapesca a mano era un' arte sottile, nella qualle
ci si trovava a diretto contatto col pesce. Il pesce 10 senti,
10sfiori e dolcemente 10catturi, ma con le mani e solo con
quelle. La nostra era una ricerca di sasso in sasso, di tana
in tana, nei canneti, nelle fonde e, correndo e sca1ciando,
nelle piane dove nei periodi di frega si buttavano in secca
le 1asche e i barbi. Sotto i sassi era sempre una sorpresa,
potevi trovare di tutto: 1asche, barbi, cavedani, strie,
broccioli, ma anche nostri concorrenti come trote, anguille
e biscie, che erano lì anche loro per il proprio spuntino
quotidiano, e talora rospi e gamberi di fiume, ora molto
più rari, come rari sono diventati i broccioli e i ranocchi,
sensibilissimi all'inquinamento.
Come vorrei raccontare tutte quelle sensazioni! Come quando
ci toglievamo gli slip di filanca e li usavamo nelle mani
per non far scivolar via le anguille, o le fughe incredibili
per sfuggire a Zoboli, il guardiapesca, nostro incubo costante
che quando ci beccava non ci faceva la multa, ma ci
accompagnava in fila indiana a consegnare il bottino alle
suore dell'asilo o a quelle dell'ospedale che, nonostante la
nostra età (12-15 anni) ci ringraziavano tutte le volte e ci
offrivano un Tre Stelle, brandy che andava forte a quei
tempi.
I più forti pescatori di frodo, dopo que11idel Singerello ( i
Piccine11i,i Sandoni, i Mingaia, i Lenzi, ecc), nel cui territorio
non si poteva sconfinare perché sarebbe stato peggio
che farsi beccare da Zoboli, erano Boffoli, Rasco, Pelle,
Gana, Boccale, Wa1ter Spada, jeio e il sottoscritto. D'estate,
passavamo delle sei, sette ore in acqua a pescare, fino a
farci diventare le labbra viola e gli arti intirizziti. Una volta,
sotto Silla, sentita l'anguilla sotto un sasso,tutti ci disponemmo
a chiudere le possibili uscite, e Pelle infilò le
mani nella tana: con un urlo tirò fuori un dito come fosse
stato "pettinato " da una cardatrice, e addio anguilla!
A volte, in primavera si andava di notte a pescare ranocchi,
che si vendevano molto bene, anche a trecento lire al
chilo, ed erano una frittura molto apprezzata. Una volta il
meccanico di biciclette Mazzini mi forni da collaudare un
attrezzo di sua invenzione del quale andava molto fiero e
che consisteva in un'asta di più di un metro nella quale
scorreva un filo da freno col comando ad una estremità e
l
che consisteva in un 'asta di più di un metro nella quale
scorreva un filo da freno col comando ad una estremità
euna reticella a scatto all'altra. Questo aggeggio era sormontato
da una torcia elettrica, con la quale si puntava la preda,
e con la reticella a scatto in un 'istante si catturava. Lo
strumento funzionava a meraviglia, anche se sciupava un
po' i ranocchi. Mi fece guadagnare parecchi soldi e Mazzini
pensava di brevettar10.
A proposito di ranocchi, un anno Costante, il padre di
Ballotta di Via Falcone, pensò bene di riempire vasche, tinozze
e bidoni di girini raccolti nel Rio Maggiore, sostenendo
di voler diventare un grosso allevatore di ranocchi,
ma al momento della muta si accorse che diventavano tutti
rospi, così dovette cacciare via tutto rinunciando a un
avvenire di imprenditore, e continuando a lavorare alla
Castanea.
Quando ci commissionavano delle fritture, ci armavamo
della proibitissima "bilancia", andavamo di sera alla Macchina
Fissa o sotto il Ponte di Fusetti e con due o tre tirate
scappavamo col "pieno".
Uno dei rischi più frequenti erano i tagli provocati dai cocci
di bottiglia, per cui prima di scendere in fiume passavamo
dalla discarica sotto il campo sportivo a cercare vecchie
scarpe da metterci nei piedi.
Poteva capitare che il frutto di un 'intera giornata di pesca
ci venisse sottratto dai "pirati": un giorno, io e Rasco stavamo
facendo manbassa di barbi nella piana di Sassuriano,
quando una guardia ferroviaria che ci stava osservando
da tempo, dopo averci minacciato di multe salatissime, ci
chiese fra l'avido e il curioso "... ma quanti ce n'è ancora lì
sotto?". Al ché risposi "è ancora pieno!". Da quel momento,
lui teneva il retino e noi a pescare... per lui.
Ancora adesso, una volta all'anno d'estate, ci troviamo per
una battuta di pesca in notturna, nonostante gli acciacchi
e le pinguedini, poi puntualmente, il giorno dopo la mangiata,
al bar 10raccontiamo a Zoboli, ormai u1traottantenne,
che con la solita aria burbera ci minaccia: "Ocio, ragazz,
che s'av ciapp, av fag ancora cigher! ".
Mario Guiducci
LORO
DEL RENOTutti al cinema!
Le domeniche degli anni '50, per noi ragazzi significavano soprattutto
una cosa:il cinema.
Al cinema parrocchiale, situato in S. Rocco, sopra l'Albergo
Campana, si pagavano trenta lire, ma per noi ragazzi l'accesso
era libero purché la tessera che ci veniva fornita da Don Ilario
testimoniasse, colgiusto numero di fori, la nostra partecipazione
allaMessa della domenica e l'avvenuto servizio che ci spettava
durante lefunzioni in veste di chierici. Con la stessa tessera
si aveva il diritto di frequentare la "Sede", posta di fronte allo
stesso cinema, nei localiche ora ospitano lafamiglia di S. Giacomo.
Nella "Sede" c'era un biliardo, due calciobalilla, un tavolo da
ping-pong e vari altri giochi, come la pulce, lo shangaj, la dama,
gli scacchi e il meccano. La nostra continua presenza in quei
locali faceva sì che, per qualsiasi messa, funzione, cerimonia funebre,
cifosse sempre a disposizione un discreto numero di chierici.
Talvolta fin troppi, al punto che le "cotte" non bastavano
per tutti, come quella volta che a servire una funzione funebre
eravamo in diciotto, con solo sedici" cotte ", e nessuna della taglia
giusta.
Quando arrivava la "chiamata" in Sede, sembravamo pompieri
in emergenza: il caos che si creava era indescrivibile, spinte,
spintoni, l'accapparramento delle cotte senza guardare per il sottile
alle misure, tutto alfine di avere un buco in più nella "tessera",
Al cinema si andava coi giornalini afumetti, perché tra il primo,
secondo e terzo tempo, nella confusione generale, fra brustulli e
ballotti c'era tutto il tempo per leggersi qualcosa. La prima macchina
da proiezione di quel cinema era priva di sonoro, e mentre
Don Ilario faceva l'operatore, la signora Bertoncelli accompagnava
con il pianoforte, Il momento più bello, come al solito, era
quando "arrivavano i nostri", accolti da un tumulto generale...
altroché Nuovo Cinema Paradiso!
Al "Parrocchiale" operava anche la allora fiorente Compagnia
Teatrale, con Lollo Predieri, Pino Masotti, Carla eMimma Nanni
Costa e molti altri,
Il vero cinema di Porretta, comunque, era il Rossini che in quegli
anni fu abbattuto per far posto al Kursaal,
Allora il vecchio gestore del Rossini, tale Mucciarelli detto
"passerino", andò agestire il Ferrovieri, che aveva anche un'arena
all' aperto che d'estate era il divertimento di noi ragazzi, che dai
tigli del Viale della Stazione, vedevamo il film a scrocco. I primi
posti sugli alberi erano sempre occupati dai più forti: Carlino
Masotti e la banda delle Fornaci.
Altro cinema all'aperto era quello del Salus, che noi "frequentavamo"
soprattutto dal bosco soprastante, sfidando la "maschera"
Amedeo Fanini che a sassate cercava di allontanarci, creando
un tale trambusto che il pubblico pagante smetteva di seguire
il film e partecipava attivamente alla battaglia.
A quei tempi al cinema, ci si andava in spedizione, anche perché
quello che faceva uno lo facevano tutti: non è come adesso che
gli spettatori sono educatissimi e silenziosi, il commento era d'obbligo
e la risata generale.
Personaggi come Umberto Cinotti e il vecchio Meneganti commentavano
continuamente con voce altisonante, e spesso scandalizzata,
ogni fase della pellicola.
Una sera, al Ferrovieri, si proiettava un film sull'Africa. Cinotti
avvertì la Piazza che si sarebbe visto suo figlio Giorgio, che da
medico esonerato dall' albo in Italia, era divenuto Ministro della
Sanità nel Congo di Ciombé. Quando la sua immagine apparve
sullo schermo alla destra del presidente, saltò coi suoi 130 chili
in piedi sulla poltrona, gridando: " eccolo, è lui, quello è il mio
GIORGIO!" .
Queste abitudini si sono protratte fino agli anni '70, quando si
partiva dal Bar Italia tutti insieme per andare a vedere il
"pomo" al Kursaalo Il cinema era in crisi, e per sopravvivere aveva
inventato questo tipo di intrattenimento.
Non si andava tanto a vedere ifilm, quasi tutti uguali, ma per il
gusto di ridere in compagnia. Noi stavamo nelle prime file, mentre
gli altri spettatori più dietro, molto defilati, dovevano subire
l' 'appello" di Caria, che ad alta voce chiamava: "Guiducci!" e .
noi "presente!" "Costa Mauro!" e noi "presente!" "Lapi John!" e noi
"presente!" "Sissino" ... "presente!" "Marte!"... "presente!"...
"Stagione!"... "presente!"...
"Edolo! o.. Edolooo
!..oEdolooooo!" e una voce dalfondodella sala alfine rispondeva: "pvesente, pvesente... ", come del
resto tutti gli altri.
Ma questa è già un'altra storia.
Mario Guiducci
Loro del Reno:
Quelle care Signore...
Noi apparteniamo a una generazione che non ha vissuto i
"casini" , ma soltanto quello che a loro è sopravissuto: ossia
altri" casini", solo leggermente diversi, un po' più dimessi,
un po' più nascosti, ma che tutti conoscevano benissimo.
Essi erano gestiti da "imprenditrici" locali, dedite da sempre
al meretricio: la signora M., la signora T. e la signora A.
erano nomi famosi dopo ifasti dei casini di città, chiusi nel
'59 dalla guerra santa della signora Merlin.
La più famosa, tra queste nuove strutture" clandestine",
era quella di Sette Ponti, un bar gestito prima dalla signora
Gensina e, in seguito da Consuelo, una spagnola. Di fianco
al banco vi era una scaletta che scendeva di sotto dove, dopo
aver attraversato un cucinotto, si entrava nel postribolo. Al
vaglio di queste signore non scappava nessuno: andavamo
noi ragazzi in bicicletta alla domenica, e dopo aver consumato
una "gazzosa", dicevamo:
" Signora, a noi ci manda Moretti, sa , il daziere..." oppure
" mi manda Roldo, il sarto", o ancora "mi manda
G
. "uerrzno... .
E loro:
" Fuori! Qui si beve e basta... dove credete di essere?.. questo
è un bar serio!".
Quante fughe, niente fighe!
Ma poi, il sabato a Porretta, ognuna di loro portava la "merce"
che aveva.
Così, ricordo la Gensina e le altre signore girare per i banchi
del mercato con qualcuna delle "nuove", che erano poi
I
sempre le stesse...
Ora, a distanza di tanto, perseguite dalla legge e dalla morale,
hanno tutte desistito ( il tempo, inesorabile, hafatto il
resto del lavoro).
In uno di questi bordelli estemporanei, i clienti più assidui
erano i camionisti. Noi ragazzi stavamo attenti a quando si
femava un camion carico di frutta, e nel tempo in cui il
conducente "consumava", depredavamo il carico di cocomeri,
meloni efrutti vari.
Nel corso di una di queste razzie, scoprii la carta igenica,
che fino a quel giorno mi era completamente sconosciuta,
per altro egregiamente sostituita aalla carta dei giornali.
Una sera, vedemmo la signora M. entrare al Cinema Ferrovieri
con una "bella nuova". Cifu un passaparola generale;
in pochi minuti eravamo tutti sistemati nella fila dietro a
loro, ad annusare nel buio questi profumi nuovi e violenti, e
nell' eecitazione finimmo per rubarle una "marchetta", consumata
nelle poltroncine cigolanti del vecchio cinema.
Capitò anche che, in conseguenza di un'incursione delleforze
dell' ordine, venute a conoscenza del meretricio clandestino,
alcuni ragazzi un po'più grandi di noi venissero beccati
nella casa di malaffare e portati davanti al giudice, in
Pretura a Porretta.
Uno di essi, alla domanda del pretore che gli chiedeva se
avesse avuto un rapporto carnale con la "tal signora" titolare
del bordello, gli rispose un po' confuso:
-
non so, signorgiudice, ... io...la chiavetti!A volte i più ardimentosi tra noi si spingevano anche fino a
Pistoia dove, in Via Tomba erano rimasti ancora alcuni di
questi" esercizi". Colà uno dei nostri è passato alla storia e
al ludibrio per uno spiacevole fraintendimento: mentre impegnatissimo
consumava la sua marchetta, la "signora" con
garbo gli disse:
- sei di fuori!
E lui, con orgoglio rispose:
-
sì, signora puttana, sono di Porretta io!Ora si scopre che la legge Merlin è stato un aborto, eforse,
presto
( ma neanche tanto...), il più vecchio mestiere delmondo tornerà ad essere regolamentato, colmando un vuoto
di quasi quarant'anni, un vuoto che queste" care signore"
a loro modo hanno cercato di colmare.
Mario Guiducci
LA FAMIGLIA MARCONI
All'origine di Radio e TV c'è l'Alto Reno
Chi passa per Le Croci di Capugnano (abitato nel comune di Porretta Terme) potrà leggere una lapide nella quale si commemora la nascita (in una di queste case) di Giuseppe Marconi, padre di Guglielmo Marconi. La famiglia Marconi è infatti originaria dell'Alto Reno e segnatamente dei comuni di Porretta Terme e Granaglione (vedi Nueter ricerche). Senza gli antenati altorenani non ci sarebbe dunque stato né un Guglielmo Marconi, né radio o TV o UMTS.
CURIOSITA' MINERALOGICHE
L'Alto Reno è particolarmente conosciuto dai geologi di tutto il mondo per una varietà di cristalli di quarzo che è possibile trovare solo nei Comuni di Granaglione e Porretta.
Questi cristalli si contraddistinguono per essere del tipo a tramoggia con inclusioni di argilla rossa e grigia, idrocarburi e acqua.
Durante i lavori di realizzazione della ferrovia Porretta - Pistoia fu trovato un esemplare di questo quarzo di circa 10 chilogrammi (P. Biagini, Appennino una volta ancora, Tellini, Pistoia 1987, p. 17).
Passando dalla mineralogia alla geologia, vale la pena ricordare che la nostra roccia, denominata "macigno", è nata sul fondo di un antichissimo mare preistorico. Il macigno (diffuso nell'Appennino tosco - emiliano) è una di quelle rocce, dette "flisch" generate da depositi risedimentati.
Si ricorda, infine, che a Bombiana (Gaggio Montano) è stato trovato il dente fossile di uno squalo (cfr. Nueter III, 1976, p.3).
Per chi vuole saperne di più si rimanda alla lettura della "Guida dei bagni della Porretta e dintorni" di Demetrio Lorenzini (Zanichelli, Bologna, 1910 con ristampa anastatica a cura della casa editrice Atesa di Bologna del 1974) da pagina 97 a pagina 115. In particolare segnaliamo, per i fossili, la presenza, attestata dal Lorenzini, di esemplari di Lucina pomum, Cyprina Dicomani, Tapes Gregaria, Chondrites intricatus, Paleodyction singulare, Helmintoides labyrintica, fucoidi (alghe) di mare, Chondrides dolichophyllus Squin, Zoophycos Lorenzini Squin, Lutraria acutangula, Lutaria proxima, etc. Nonché denti di squalo nei pressi di Varano e di Monte della Croce.
PRACCHIA E PEROSI
Lorenzo Perosi è stato, probabilmente, il più importante compositore di musica sacra italiana fra i secoli XIX e XX. Una delle sue opere più importanti è legata all'Alto Reno e, più precisamente, a Pracchia.
Così c'illustra Maurizio Panconesi in "Presente e Passato tra gli Appennini" (Cento, 2003, p. 88):
"
Ricordiamo in particolare il soggiorno estivo di uno di essi, il compositoreLorenzo Perosi che, nell'estate appunto del 1897 trascorse alcune settimane
presso l'Albergo Appennino.
Di quella villeggiatura da sogno il Perosi conserverà sempre un nostalgico
ricordo definendolo "La dolce nuvola di Pracchia", una distensiva parentesi
"
ove la serenità dell'ambiente aveva saputo fondersi alla mitezza del climaed alla bellezza del paesaggio. -
Da quel soggiorno pracchiese nacque" La resurrezione di Cristo" che varrà al
compositore la direzione della Cappella Sistina a Roma."
SAN DONATO DELL'ACQUA
Si tratta di una piccola chiesa che sorge nella zona pratese dell'abitato de L'Acqua (Comuni di Cantagallo (PO) e Sambuca Pistoiese (PT)). La Chiesa di San Donato (con pianta a croce latina) fu edificata fra il XVIII e il XIX secolo secolo. All'esterno della chiesa, lungo la facciata, possiamo scorgere un sole raggiante con iscritto il monogramma cristico IHS (il sole è un noto simbolo cristico (Luca 1, 78 - 79)) e una croce spoglia. Il suo interno, semplice ed elegante, accoglie qualche statua di dimensione modeste e tre pitture di cui una, dietro l'altare, rappresenta il Santo vescovo Donato.
Vale la pena ricordare che San Donato Vescovo era una dei Santi protettori della famiglia Medici e che un Donato della famiglia medici fu anche Vescovo di Pistoia
LE STRADE CARROZZABILI
L'Alto Reno e le sue strade.
Fin dai tempi più antichi l'Alto Reno è collgegato alla Toscana e a Pistoia, dall'antico itinerario etrusco alla Via Francigena della Sambuca, dall'antico itinerario per Fanano a quello che passava per Porta Franca.
Anche oggi l'antica tradizione delle strade che ci collegano alla Toscana è ben viva. Si va dalla Strada Statale SS. 64 "Porrettana", alla "Traversa di Pracchia", alla "Riola - Pistoia", ma altre strade minori legano l'Alto Reno alla Toscana (ad esempio quella da Lizzo a Taviano).
UN LAGO, UN POETA E DUE SCIENZIATI
Il lago è il modenese (bolognese / pistoiese) Scaffaiolo
Il poeta è il fiorentino Boccaccio
Gli scienziati sono il bolognese Cassini e il Reggiano Spallanzani
La leggenda è nota:
Lo Scaffaiolo non ha fondo e basta lanciare un sasso per scatenar tempesta...
Boccaccio rende famoso nel mondo il mito
Cassini prima e Spallanzani poi lo smentiscono.
Spallanzani e Boccaccio sono ben noti, ma anche Cassini non è personaggio di poco conto:
Astronomo, creatore della meridiana di San Petronio a Bologna e scopritore delle "Divisioni di Cassini" che contraddistinguono gli anelli di Saturno.