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RAPPORTI STORICI FRA ALTO RENO E TOSCANA
RAPPORTI STORICI FRA ALTO RENO E TOSCANA
ALTO RENO E DIOCESI DI PISTOIA
La tradizione storica affermata a livello locale attribuisce alla Diocesi di Bologna la giurisdizione ecclesiastica su quasi l'intero Alto Reno fino al 1784 (quando la Parrocchia di Fossato e le Parrocchie del moderno Comune di Sambuca Pistoiese passarono alla Diocesi di Pistoia). Tuttavia questa interpretazione, per quanto autorevole, mostra più di una crepa:
Nella sua "Storia di Pistoia nell'Alto Medioevo" (Bullettino Storico Pistoiese, XXXII, 1, pp. 1 ss) il Chiappelli sostenne che, a seguito della conquista longobarda di Bologna, Pistoia colse l'occasione per allargare la propria Diocesi fino a Succida (l'attuale Capanne a Granaglione), Pavana, Casio e Savignano. Sempre secondo il Chiappelli tale situazione dovette prorogarsi fino al 1067, quando i suddetti territori dovettero tornare alla Diocesi bolognese a seguito della "vacanza" della sede vescovile sull'Ombrone [1].
Lo storico bolognese Arturo Palmieri sembra confermare l'interpretazione del Chiappelli, estendendo la giurisdizione della Diocesi di Pistoia all'inizio del XIII secolo:
"Quando il territorio della Diocesi [bolognese] corrispose al territorio del Comune, Montecavalloro segnava l'estremo limite di questo, come fa fede la sentenza pronunciata nel 17 giugno 1200 da Guido da Lucca" (ARTURO PALMIERI, "La Montagna bolognese nel Medioevo", p. 62).
Se il limite estremo della Diocesi di Bologna era Montecavalloro (sopra Riola), ciò significa che a sud di Montecavalloro le terre erano soggette a un'altra Diocesi e cioè quella di Pistoia.
Ancora nel XIV secolo una testimianza di Cino da Pistoia (Lectura in codicem, f. 348) c'informa di una disputa fra il Vescovo di Bologna e il Vescovo di Postoia su Casio e Savignano che, da "instrumenta antiqua", apparivano dipendenti dalla Diocesi di Pistoia.
A questo elementi, che indirizzano autorevolmente a sospettare che l'Alto Reno toscano e bolognese dovette dipendere (forse per secoli) dalla Diocesi di Pistoia, ci permettiamo di aggiungere una nostra osservazione: prima della caduta di Bologna i territori longobardo - pistoiesi oltre la sportiacque appenninico (ovvero l'Alto Reno e l'Alta Valle del Setta e del Sambro) erano profondamente separati dei territori bizantino - bolognesi, sia politicamente che etnicamente (vedi Palmieri, op. cit., p. 62). Anche in seguito si mantenne una profonda differenza etnica fra l'Alto Appenninico bolognese e il resto della provincia felsinea (Ibid., p. 62 e p. 138) Questi elementi lasciono presumere che l'appartenenza alla Diocesi di Pistoia dei nostri territori fosse più naturale di una presunta appartenenza alla Diocesi bolognese e che il distacco dalla diocesi felsinea avvenisse di fatto prima ancora della conquista longobarda di Bologna (anche se l'aggregazione formale alla Diocesi di Pistoia dovrebbe risalire proprio al periodo ipotizzato dal Chiappelli). Poiché nel VII secolo la sede vescovile di Pistoia era vacante inizialmente i territori separati dalla Diocesi bolognese dovettero essere soggetti (come tutto il pistoiese) alla Diocesi di Lucca per passare, in una fase successiva (a partire dall'anno 700), alla rinata Diocesi di Pistoia.
Si può dunque sostenere con relativa certezza che ad una sicura appartenenza amministrativa dei nostri territori a Pistoia ci fu (e probabilmente per secoli) una corrispondente appartenenza ecclesiastica al vescovo Pistoiese [2].
Alla luce di quanto sopra possiamo presentare cinque ipotesi: pessimista, moderata, mediana, ottimista, ultraottimista.
IPOTESI PESSIMISTA | L'Alto Reno è sempre dipeso dalla Diocesi di Bologna fino al distacco delle parrocchie toscane del 1784 |
IPOTESI MODERATA | Attorno al VII secolo e fino al 728 d.C. l'intero Alto Reno è dipeso dalla Diocesi di Lucca (Pistoia) prima e di Pistoia poi. |
IPOTESI MEDIANA | Gaggio Montano e Lizzano in Belvedere sono dipese dalla Diocesi di Lucca (Pistoia) prima e di Pistoia, poi, nel periodo che va dal VII secolo al 728; il restante territorio altorenano continuò a fare parte della Diocesi di Pistoia fino allo XI secolo. |
IPOTESI OTTIMISTA | Escluse Gaggio Montano e Lizzano in Belvedere, l'Alto Reno continuò a dipendere dalla Diocesi di Pistoia fino al XIII secolo. |
IPOTESI ULTRAOTTIMISTA | In qualche modo l'Alto Reno, o parte di esso, continuò a fare parte della Diocesi di Pistoia fino al XIV secolo (vedi la disputa di Cino da Pistoia su Casio e Savignano) |
A sostegno dell'ipotesi pessimista l'unico documento coevo che possa essere presentato è quello della sentenza di Carlo Magno dell'801. In questa sentenza, infatti, si conferma al Vescovo di Bologna la giurisdizione ecclesiastica della Pieve di Lizzano in Belvedere e, dunque, parrebbe dare ragione ai sostenitori della tesi che l'Alto Reno mai appartenne alla Diocesi di Pistoia. Tuttavia, esaminando, gli elementi della contesa risulterebbe che i motivi della stessa risalirebbero al cinquantennio precedente e, dunque, compatibili con l'ipotesi che Lizzano e Gaggio rimasero soggetti alla Diocesi di Pistoia fino ad almeno il 728 d.C. (cfr. "La Musola, n. 37, 1985, pp. 71 - 74 - AA.VV., "Il Romanico Appenninico", Nueter, 2001, pp. 71 ss.), in accordo, quantomeno, con la tesi moderata. A pagina 72 dello stesso numero 37 della Musola possiamo inoltre leggere che un diploma dell'imperatore Ottone III del 997 (un anno prima del più celebre diploma su Pavana e Camugnano) attribuiva la Pieve di Succida (l'odierna Pieve di Capanne a Granaglione, all'epoca dedicata anche a San Giovanni) alla giurisdizione ecclesiatico diocesana pistoiese, confermando ulteriormente la veridicità e fondatezza della nostra tesi.
Peraltro come spiegare diversamente le pretese del Comune di Pistoia sui beni e i dirittti delle Chiese Parrocchiali che dipendevano dalle Chiese di Guzzano, Casio e Succida durante la
¢guerra fra bologna e pistoia¢ del XIII secolo? (cfr. N. RAUTY, Sambuca dalle Origini alla eta comunale, Soc. Pistoiese di Storia Patria, 1990, pp. 17 e 23)NOTA:
[1] Nello stesso secolo XI si assiste ad una annessione bolognese della Pieve di Baragazza (frazione di Castiglion dei Pepoli), fino a quel momento appartenente alla Diocesi di Firenze.
[2] "Se in questo periodo le sorti della Diocesi di Pistoia verso Lucca erano critiche, così non furono verso Bologna dove, non sappiamo da quando in concreto, già almeno nel 751, furono favorevoli e la portarono ad estendere i suoi confini settentrionali estremi da Montepiano a Badi, Casio, Savignano, Succida, fino a San Salvatore di Fanano nel modenese" (F.REDI - A.AMENDOLA, Chiese Medioevali del Pistoiese, Pistoia, 1991, p. 37)
AMICI E NEMICI
Città più o meno vicine nella Guerra fra Bologna e Pistoia all'alba del XIII secolo
Anno 1211: i bolognesi organizzano una grande offensiva militare e diplomatica nei confronti di Pistoia. A luglio del 1211 i Signori di Casio, Bargi, Stagno si sottomettono a Bologna, contemporaneamente 400 fanti bolognesi vengono spostati nelle montagne a ridosso dei territori pistoiesi, contemporaneamente i bolognesi sferrano una offensiva diplomatica nei confronti delle città più o meno vicine al fine di coalizzarle contro Pistoia.
I risultati tuttavia risultano inferiori alle aspettative: a settembre dello stesso anno gli uomini di Granaglione e Succida giurano la propria fedeltà al Comune sull'Ombrone, mentre la ricerca delle alleanze da risultati di scarso rilievo.
A fronte, infatti, dei Comuni di Prato e Reggio Emilia che si decidono per l'appoggio a Bologna, Firenze assume una posizione formalmente neutrale ma di fatto benevola nei confronti di Pistoia, mentre Modena e Parma rispondono negativamente all'invito di Bologna (cfr. G. BOLDRI, Storia di Sambuca, Bologna 1991, pp. 22 - 23).
Questa offensiva diplomatica di Bologna merita comunque un approfondimento, come mai Bologna cerca in Modena un alleato contro Pistoia? E come mai Prato accetta di appoggiare Bologna contro Pistoia?
I risultati delle vicende storiche del periodo storico lasciano perplessi: proprio a partire dai primi anni del XIII secolo Bologna lancia contro Modena una serie di offensive militari contro il Frignano e altre zone di confine (Nonantola, etc.). Il livello di ostilità fra le due città sarà sempre molto acceso. La richiesta avviene inoltre proprio nel periodo (luglio 1211) in cui anche il Signore di Rocca Corneta è costretto a piegarsi alla volontà di Bologna; Modena si trova dunque minacciata ulteriormente nella sua integrità. Non sorprende dunque che Modena tema la volontà espansionistica di Bologna verso Pistoia (la conquista della quale avrebbe significato l'apertura di un pericoloso fronte a sud dei suoi confini (clicca
qui)), sorprende che sia Bologna a chiedere l'appoggio a una città nemica.Altrettanto perplessi (sia pure all'opposto) lascia l'atteggiamento di Prato; se è pur vero, infatti, che Prato è un Comune ostile a Pistoia, tuttavia l'atteggiamento dei suoi governanti appare "stolido e cieco" (Q. SANTOLI), dato che Pistoia rappresentava la sentinella avanzata della Toscana contro le schiere armate di Bologna.
L'argomento meriterebbe un approfondimento storico, in quanto consentirebbe di meglio comprendere i meccanismi sottili delle alleanze fra i Comuni medioevali (perché, ad esempio viene chiesto l'aiuto di Reggio Emilia e di Parma e non quello di Lucca che pure si è dimostrata nel corso della storia nemica di Pistoia? Perché Parma rifiuta di aiutare Bologna mentre Reggio Emilia accetta? E' forse un caso che Modena e Parma si troveranno contrapposte a Bologna, appoggiando l'Imperatore Federico II durante la guerra degli anni '30 del XIII secolo?) nonché l'effettivo contributo che ciascun Comune portò alla Guerra fra Bologna e Pistoia.
Il compito è superiore alle nostre forze, ma ci piace l'idea di avere lanciato un sasso nello stagno, lo stagno della "Guerra per il Rinascimento".
ISLAM, SPAGNA, PISTOIA E NOI
Quello che proponiamo in questa pagina non vuole neppure essere una ipotesi, ma una semplice suggestione per chi intende approfondire l’argomento. Cercheremo dunque di essere estremamente sintetici:
- il bicromismo delle chiese pistoiesi è molto accentuato "in seguito ai contatti stabiliti dal Vescovo Atto fra la sua città e Campostella" (F.REDI – A.AMENDOLA, "Chiese Medioevali del Pistoiese", Pistoia, 1991, p. 92);
- gli intarsi vitrei dei pilpiti di Sant’Andrea (frammento visibile a p. 88 del libro "Giovanni Pisano: il Pulpito di Pistoia, Giorgio Mondadori Editore, Milano, 1986) e di San Giovanni Fuoricivitas sono "di discendenza islamica" (AA.VV., "Storia di Pistoia", Vol. II, Firenze 1998, p. 291);
- il bicromismo è proprio dell’arte islamica diffusa in Spagna (cfr. pp. 206 e 207 di "Islam: arte e architettura" pubblicato da KÖnemann nel 2001), quindi anche gli intarsi vitrei dei pulpiti si possono ricondurre all’arte islamica spagnola;
- Pistoia, dunque, come piccola Spagna (la terra che ospita le spoglie di San Jacopo);
- Pistoia che ospita una reliquia di San Jacopo proprio come la Spagna;
- Identificazione fra Spagna e Pistoia, meccanismo già usato da Pisa per Gerusalemme (cfr. pp. 20 – 22 di AA.VV., "Arte italiana del Rianscimento", KÖnemann, Colonia, 1999);
- Dunque itinerario della Via Francicegna della Sambuca come rappresentazione in piccolo del grande itinerario verso Santiago di Campostella;
- Dunque spiegabile ulteriormente il motivo per cui (almeno fino al XIV / XV secolo) la religiosità degli Altorenani fosse indirizzara più verso Pistoia che verso Bologna (clicca anche su "i bianchi")
SULL'ANTICHITA' DELL'ALTO RENO TOSCANO
Sull'antichità dei collegamenti fra la nostra terra e la Toscana molto si è detto: famosa è l'ipotesi dello storico pistoiese Natale Rauty sulla presenza di un antico itinerario etrusco che colelgava Bologna con l'agro pistoiese e fiorentino attraverso le nostre montagne (cfr. Storia di Pistoia, vol I, Firenze, 1988, p. 9). Secondo Rauty l'ipotesi della via etrusca, che attraversa le valli dell'Ombrone e del Reno, trova un serio riscontro sia negli insediamenti di Bologna e Marzabotto a nord che di Pistoia a Sud (attestati da alcuni reperti ritrovati presso la Piazza del Duomo di Pistoia e databili "proprio nel periodo in cui sorse il centro di Marzabotto per la fusione e la lavorazione del ferro" (ibid. p. 9)).
Alcuni toponimi d'origine etrusca (Pavana, Taona) sembrano confermare, assieme a un certo numero di reperti ritrovati nell'Alta Valle del Reno, questa ipotesi:
Lo stesso Rauty, continuando l'esposizione della sua tesi, accenna alla possibilità che questa via transappenninica seguisse "un più antico tracciato dell'età del bronzo" (Ibid.).
Alcuni recenti rilievi archeologici sembrano oggi dare una conferma anche a questa seconda ipotesi del Rauty, spostando ancora più indietro di quanto immaginato dallo stesso, l'origine temporale di questo collegamento.
Il primo dato di natura archeologica che è venuta ad emergere in questi anni sono i cosiddetti "Sassi scritti" delle Limentre, ubicati presso il "passaggio di persone lungo il crinale sfrutato dalla direttrice della Strada del Reno" (L. DE MARCHI, I Sassi Scritti delle Limentre, Porretta Terme, 2000, p. 132). Secondo il De Marchi l'origine dei "Sassi Scritti" dovrebbe risalire al Neolitico e, dunque, si può ritenere plausibile una origine almeno neolitica della prima strada transappenninica.
Una successiva campagna archeologica condotta dal De Marchi e pubblicata nel 2001 su Nueter (XXVII, p. 333 ss.) ha portato ad una serie di dati indiziari che sembrano spostare addirittura al Paleolitico Superiore i primi collegamenti transapenninici:
"Gli insediamenti attribuibili al Paleolitico Superiore già mostrano localizzazioni sicuramente e saldamente inserite in quella rete di percorrenze locali che definiremo, in periodi più tardi, la Strada del Reno, il più importante asse di spostamento tra il Settentrione e il Centro della Penisola" (Nueter, XXVII, p. 353).
Il Paleolitico Superiore rappresenterebbe, quindi, la prima testimonianza di quello che sarà (ed è) l'Alto Reno Toscano, una terra che non divide ma unisce il Centro al Nord Italia.
L'Alto Reno come terra antichissima ...
Questa e altre considerazioni ci portano, quindi, ad accogliere la suggestione offerta dal De Marchi, secondo il quale i nostri lontani antenati esercitavano il controllo "e la gestione dell'intero sistema viario Reno - Ombrone - Bisenzio, occupando di conseguenza non una posizione debole e subalterna, come sovente si sente affermare riguardo l'Alto Appennino, bensì di supremazia sulle merci e sulle persone di passaggio, creando un settore di prestigio e potenza" (idem, p. 355).
CAPITOLI DEL COMUNE DI FOSSATO NEL 1592 SUL PASCOLO DEI CASTAGNETI
Recensione dal "Bullettino Storico Pistoiese - Anno CIV - III Serie - XXXVII - 2002, p. 246"
"E. VANNUCCHI, Capitoli del Comune di Fossato nel 1592 sul pascolo nei castagneti, "Nueter", XXVI, 51 (1), 2000, pp. 21 - 23 - Nel contributo si dà conto di questo breve testo statutario relativo al territorio del Comune di Fossato, rinvenuto in una filza miscellanea conservata nell'Archivio di Stato di Pistoia (Comune, Raccolte, 6, cc. 110r-111v). Del documento l'Autrice indica succintamente i dati estrinseci essenziali (duerno, pergamena, scrittura - corsiva - di tre mani distinte), ne sottolinea l'autonomia documentaria, scevro, cioè, da legami, o dipendenze testuali che lo inseriscano, collegandolo, ad un più ampio testo statutario, ed infine ne dà la trascrizione. Si tratta di quattro norme, con penale dettagliata, volte alla tutela delle piante da frutto ed in special modo i castagni, dai danni provocati tanto dagli uomini quanto dagli animali; per questi ultimi viene severamente proibito, o regolamentato, il pascolo secondo le varie specie e secondo periodi stagionali ben definiti. Sebbene queste norme risultino abbastanza comuni alle formulazioni statutarie dell'epoca, esaltano, tuttavia l'importanza della silvicoltura da sempre sostentamento e ricchezza della gente di montagna".
Castel di Casio e la Toscana
Abbiamo già parlato degli stretti rapporti fra Alto Reno e Toscana.
Ripercorriamo, a titolo esemplificativo, e per brevi cenni le vicende di Castel di Casio dopo la conquista bolognese del XIII secolo alla luce dei suoi rapporti con la Toscana.
A Casio avviene la importazione da Pistoia di vino, olio, droghe, spezie, cuoio.
La Pieve di Casio rimane soggetta dal 1293 al 1780 alla Canonica di San Frediano di Lucca.
Uomini di Casio diventano importanti personaggi a Lucca (vedi G. Boldri, Storia di Casio, vol. III, 2001).
Casio costituisce la cerniera di trasmissione fra i Comuni di Bologna e Lucca per l'importazione e la lavorazione della seta.
Per Casio continuava a passare una delle strade che collegavano Bologna alla Toscana.
A Casio, come in altre località dell'Alto Reno, residevano i mastri comacini provenienti dalla Toscana.
Venendo a tempi più recenti, alcuni personaggi che hanno fatto la storia del Comune erano provenienti dalla Toscana vicina:
Don Lorenzo Magnanelli (il burrascoso "Don Camillo" di Badi) era proveniente da Pavana Pistoiese (cfr. G. BOLDRI, Storia di Casio, vol III);
Annunziata Bruni (la mitica maestrina di primo novecento a Suviana) era di Lentula.
Da segnalare, infine, che il nome "Casio" potrebbe derivare da un antico Santo Lucchese: San Cassio (cfr. Nueter, 1980, n. 2, p. 60)
FERROVIA BOLOGNA - PISTOIA
Entrando nell'atrio della stazione di Porretta Terme si vedono due lapidi. Una è dedicata a Vittorio Emanuele e rievoca l'inaugurazione del tratto Vergato-Porretta della prima linea ferroviaria transappenninica che collega il nord Italia con il centro della Penisola. L'altra ricorda la riapertura della linea dopo la sua distruzione avvenuta durante la seconda guerra mondiale.
Leggendo gli scritti incisi sul marmo, si capisce subito quali sono stati i passaggi più importanti della storia di questa linea, che dal 1864 iniziò a collegare il nord e il centro Italia, attraversando l'Appennino.
Nel 1851 il Governo Pontificio acconsentì al congiungimento ferroviario tra i territori padani e il centro della Penisola. Nel maggio dello stesso anno il Governo Austriaco, il Ducato di Parma e Piacenza, il Granducato di Toscana e la Santa Sede stipularono a Roma una convenzione per la ferrovia dell'Italia centrale che da Piacenza arrivava a Bologna attraversando Parma, Reggio Emilia e Modena con diramazione da Reggio a Mantova e da Bologna a Pistoia.
La direzione dei lavori venne affidata all'ing. Gian Luigi Protche, il quale fu costretto a rivedere lo studio dell'intero tracciato perché il progetto, nella fase di prima esecuzione, era stato attuato in maniera oltremodo disordinata.
Le maggiori difficoltà si presentavano nel tratto terminale, quello da Pracchia a Pistoia. In soli 14 chilometri doveva essere superato un dislivello di oltre 500 metri. L'ostacolo venne aggirato con la realizzazione di una galleria elicoidale.
Questo progetto, estremamente innovativo, venne in seguito ripreso dagli ingegneri che idearono il tunnel del Gottardo. La galleria elicoidale fu costruita fra Pracchia e San Mommè al termine di un tratto la cui pendenza oscilla intorno al 26 per mille.
La Porrettana, sul cui percorso di 99 km si trovano 23 stazioni, 35 ponti e viadotti e 49 gallerie, costò circa 580mila lire per chilometro, una cifra per l'epoca altissima. I costi elevati scaturirono da tutte le difficoltà incontrate nella realizzazione dei quattro tronchi: Bologna-Porretta su terreno instabile, Porretta-Pracchia su terreno stabile ma in una valle stretta dai fianchi scoscesi, Galleria dell'Appennino e discesa su Pistoia in pendenza accentuata.
L'attivazione della linea avvenne in tre tappe successive: il tratto Bologna-Vergato (39 km) fu inaugurato il 18 agosto 1862; il tratto Vergato-Pracchia (35 km) fu aperto il 1° dicembre 1863; il tratto Pracchia-Pistoia (circa 25 km) il 3 novembre 1864. Con la realizzazione dell'ultimo tratto (Pracchia-Pistoia) veniva così completata la linea da Bologna a Firenze, in quanto il collegamento Firenze-Prato-Pistoia (detto "Maria Antonia") era già in esercizio.
Nel novembre 1864 la "Gazzetta della Romagna" pubblica la notizia dell'inaugurazione della Pracchia-Pistoia, avvenuta il 2 novembre 1864, e della prima corsa tra Bologna e Pistoia: «il tratto tra Pracchia e Pistoia è un vero miracolo d'arte; è una di quelle opere che rivelano la potenza del genio, che sa affrontare e vincere le più ardue difficoltà».
Malgrado la particolare attenzione rivolta dai tecnici a questo nuovo percorso, i problemi non tardarono ad arrivare. A causa dell'intenso traffico l'aria all'interno delle numerose gallerie era irrespirabile, al punto che i macchinisti erano costretti ad usare una bombola di aria compressa per respirare quella pulita. Nel 1896 vennero installati nelle gallerie di Pracchia, Pitecchio e Signorino dei grandi ventilatori, realizzati dall'ing. Saccardo, per aspirare il fumo che rimaneva all'interno dei tunnel. Ma i gravi disagi per i macchinisti non erano finiti. Dopo qualche anno, infatti, vennero introdotte le nuove e più potenti locomotive a cinque assi accoppiati che sprigionavano il vapore rovente sulla volta della galleria, dalla quale lo stesso veniva rigettato sul viso e sulle mani dei macchinisti che spesso rimanevano ustionati.
Per evitare questi grossi inconvenienti nel 1927 venne introdotta la trazione elettrica trifase. L'innovazione permetteva di aumentare la velocità dei treni in salita e di eliminare le noie e i pericoli del fumo nelle gallerie. La trazione trifase rimase attiva fino al 1934, quando venne trasformata in corrente continua.
Il 22 aprile 1934, la Porrettana vide la nascita della "Direttissima" tra Firenze e Bologna che iniziò ad assumere il ruolo di arteria principale tra nord e sud. L'antica linea ferroviaria lasciava il grande traffico ferroviario a questo nuovo percorso che permetteva di raggiungere Bologna da Firenze in soli sessanta minuti.
Il duro colpo che, tuttavia, rischiò di mettere fine alla storica linea fu inferto dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Quando le truppe tedesche che difendevano la linea gotica ebbero la certezza che per loro non c'era più niente da fare cominciarono, infatti, a bombardare in modo irreparabile la ferrovia. Solo nel tratto da Bologna a Pracchia furono distrutti 29 ponti, 8 gallerie, 10 stazioni, 45 case cantoniere, 52 chilometri di binario.
Dopo gli eventi bellici, il tratto da Bologna a Pracchia fu reso percorribile in soli due anni dalla fine del conflitto (5 ottobre 1947) mentre quello tra Pracchia e Pistoia il 29 maggio 1949.
Ancora oggi la Porrettana continua a vivere, servendo una parte importante dell'Appennino tosco-emiliano. Pronta in qualsiasi momento, malgrado i suoi quasi 140 anni di storia, ad assorbire il traffico deviato da altre linee (soprattutto della Direttissima) per circostanze eccezionali.
Testi di Flavio Scheggi
FINO A PANICO!
E' risaputo che i confini settentrionali dell'antico Distretto Pistoiese non si limitarono al solo Alto Reno Bolognese, ma giunsero sino a Brigola, presso l'atuale casello autostradale di Rioveggio in comune di Monzuno (N. RAUTY, "Sambuca dalle origini alla età comunale", Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 1990, p. 6). Meno noto è il fatto che l'antica giurisdizione dell'altro potere pistoiese (quello del Vescovo) giunse, in qualche modo, fino alle porte di Sasso Maroni...
Con un atto rogato a Panico (in Comune di Marzabotto ma vicino a Sasso MArconi) il 07/04/1223, infatti, i Conti Panico giurarono fedeltà a Graziadio, che da poco era stato eletto Vescovo di Pistoia, riconoscendosi come suoi "vassalli honorifici". Tale atto, che manifestava un rapporto di dipendenza feudale dei Conti Panico col Vescovo di Pistoia, doveva essere di origine remota, un'epoca nella quale il Vescovo della città sull'Ombrone esercitava un reale potere sui Panico...
Alla data del 1223, invece, il rapporto di dipendenza feudale era ormai di natura esclusivamente nominale, ma comunque essenziale per i Conti di Panico, dato che poteva costituire la ragione legale con la quale i Panico stessi potevano rivendicare la loro piena indipendenza e autonomia rispetto al Comune di Bologna che, nel 1219, giunse a conquistare anche vasti territori nelle valli della Limentra Orientale e dell'Alto Reno (1).
NOTA:
(1) Per chi vuole saperne di più: AA.VV., "La Sambuca Pistoiese", Pistoia, 1992, pp. 46 - 50
LA FLAMINIA MILITARE
Una strada del Mugello o dell’Alto Reno?
La storia di una popolazione è anche la storia del suo territorio, e la storia del suo territorio è anche la storia delle sue strade.
Discorrere delle strade dell’Alto Reno è dunque una maniera di discutere dell’Alto Reno in generale.
Una disputa sulle antiche strade che percorsero (o meno) questa terra è dunque un modo per contribuire alla storia dell’Alto Reno.
Il pretesto, in questo caso, ci viene offerto dalla strada "Flaminia militare", detta anche "Flaminia minore".
Secondo la testimonianza di Tito Livio (XXXIX, 2) questa strada fu realizzata successivamente alla guerra condotta nel 187 a.C. dal Console Flaminio Nepote contro i Liguri "per non tenere in ozio i soldati".
Gli studiosi, fino alla metà del XX secolo, tendevano ad identificare il territorio in cui si trovava la Flaminia Militare con la Valle del Reno, sia perché già importante via di collegamento delle città etrusche toscane e padane, sia perché le popolazioni liguri erano ben insediate nel territorio pistoiese (cfr. N. RAUTY, "Storia di Pistoia", Vol. I, Firenze, 1988, pp. 9, 11-12).
A partire, però, dagli anni ’30 dello scorso secolo ha incominciato a farsi strada l’ipotesi che la Flaminia Militare dovesse sorgere tra la direttrice Setta – Savena e il Mugello. Inizialmente solo alcuni labili tracce di toponomastica (Santa Maria a Vigesimo) sembravano supportare l’ipotesi . Poi la scoperta di alcuni tratti lastricati fra il Passo della Futa e il Monte Bastione è parsa come la conferma decisiva della veridicità di questa ipotesi di lavoro.
A tenere, tuttavia, il tutto nell’ambito dell’incertezza è sia la memoria della gente del luogo che le acquisizioni scientifiche che sembrano datare l’opera ad una età ben posteriore a quella della guerra contro i Liguri.
Analisi di laboratorio paiono, infatti, datare i tratti lastricati a una epoca non anteriore al V – VII secolo d.C., mentre la memoria degli anziani del luogo vuole che l’opera fosse frutto dela lavoro di boscaioli in epoca piuttosto vicina a noi (cfr. pp. 30 – 31 di "Microstoria", anno III, n. 19 (2001)).
Pertanto, pur non escludendo la possibilità che esistessero una pluralità di direttrici che collegassero la Toscana con l’Emilia, non sembra che esistanodati concreti che possano attribuire alla direttice Mugello – Setta – Savena, anziché all’Alto Reno, la Flminia Militare. Al contrario ulteriori elementi indiziari sembrano spostarci in Alto Reno, fra la Via Francigena e l’antico itinerario che, passando da gaggio e Fanano, collegava l’Emilia alla Toscana (cfr. "Il brocciolo", n. 1, anno I (1998), p. 7).
Come abbiamo detto la Flaminia Militare venne realizzata a seguito della guerra contro la popolazione dei Liguri Friniati, i quali "rimasti senz’armi, riuscirono a fuggire attraverso sentieri impraticabili e rupi scoscesi, dove il nemico non risucì a inseguirli", al di là dell’Appennino (Tito Livio XXXIX, 2, 3). Secondo numerosi storici, fra cui il Rauty, è assai probabile che i Liguri Friniati si rifugiassero nel Frignano:
"E’ ritenuto, con buon fondamento, che la regione dove i Friniati trovarono scampo sia quella detta oggi Frignano, contigua al territorio pistoiese della’Alta Val di Lima" (N. RAUTY, Op. cit., p. 14).
E’ facile ipotizzare, così, che i Romani non dovettero costruire questa strada nel Mugello, luogo piuttosto distante dal Frignano, ma in una zona più vicina alla via di fuga dei Friniati (durante – o subito dopo – il vano tentativo di inseguimento).
Per ovvie ragioni geografiche, dunque, la Via Flaminia miliatare doveva sorgere nella zona dell’Alto Reno, fra le Provincie di Modena, Bologna e Pistoia, ed è plausibile ritenere che l’antico percorso che passava per Gaggio e Fanano sia lo stesso percorso (o un percorso vicino) realizzato dalle milizie romane per ordine di Flaminio Nepote.
FRANCESCO DATINI E L'ITINERARIO DI LIZZANO
Una interessante ipotesi che conferma gli stretti rapporti che sono intervenuti nel corso dei secoli fra l'Alto Reno e la Toscana
Francesco di Marco Datini fu uno dei più straordinari personaggi della società mercantile italiana del trecento; il suo motto era "Nel nome di Dio e del guadagno". Di Datini si sa che quando Pisa era chiusa al commercio fiorentino egli inviava la mercanzia, contenente stoffe lavorate a Prato, attraverso gli appennini fino a Ferrara e Venezia.
La principale via usata dal Datini per superare gli Appennini era la Futa, ma a casua dei briganti venivano, talvolta, seguite strade alternative. A metà degli anni '90 "La Musola", rivista culturale di Lizzano in Belvedere, ipotizzò che una di queste vie dovesse passare da Pistoia e Porta Franca per sfociare nel territorio del comune di Lizzano in Belvedere e scendere verso Bologna e Modena [1].
A sostegno di questa ipotesi "La Musola" ritiene che un affresco custodito nella Chiesa di Gabba, rappresentante la Madonna assunta che tiene una cintura nella mani, prova l'idea di un coinvolgimento del mercante pratese. Di Datini, infatti, è nota la devozione alla Sacra Cintola: egli era orgoglioso di ospitare i più illustri e famosi personaggi del tempo che si recavano a Prato per venerare la sacra reliquia. E' noto, peraltro, che il Datini si recò, nel periodo 1389/91, a Pistoia per sfuggire la peste, località da dove era facile raggiungere la via di Belvedere per trasportare le merci fino alle città della Padania.
In effetti, non è dato sapere se queste congetture corrispondano a reali eventi storici, ma certamente si tratta di una ipotesi affascinante che rafforza la nostra convinzione che i rapporti storici, economici e culturali fra Alto Reno e Toscana sono sempre stati intensissimi.
NOTA:
[1] La Musola n. 56 / 1994 - La Musola n. 58 /1995
Sopra: ritratto di Francesco di Marco Datini
L’INTERPRETAZIONE STORICA E LA RICERCA DELLE FONTI
Chi si occupa di storia (e di storia locale in particolare) è talvolta costretto a confrontarsi con l’assenza di fonti scritte che possono offrire una visione esaustiva di un determinato evento storico o di un certo periodo.
Nondimeno l’appassionato di storia (e lo storico) ha il dovere di utilizzare tutte le fonti che si rendono disponibili per ipotizzare, ragionevolmente, l’accadere di certi avvenimenti del passato.
Questo metodo è stato utilizzato da numerosi storici o studiosi di storia locale:
- Rauty ha ipotizzato la presenza di un itinerario etrusco fra le valli dell’Ombrone e del Reno sulla base di alcuni, limitati, elementi indiziari (N. RAUTY; "Storia di Pistoia", vol. I, p. 9).
- La Nieri, prima, e il Chiappelli, poi, hanno cercato di disegnare il confine dell’antico Municipio Romano di Pistoia sulla base non di atti coevi ma di un diploma (quello di Ottone III) del 998 (cfr. Nueter, XXII, pp. 368 ss.);
- Boldri ha ricostruito, sulla base di dati indiziari e di alcuni reperti, le più antiche vicende del territorio di Casio (G. BOLDRI, "Storia di Casio", vol. I, pp. 31 ss.).
Noi stessi abbiamo accolto questo metodo di ricerca per ipotizzare le più antiche forme di rapporto fra Toscana ed Alto Reno (vai a "Rapporti Storici"), accogliendo in proposito l’ipotesi di Rauty (e di altri studiosi) dell’antico itinerario etrusco.
Questo metodo, ovviamente, non offre certezze, tuttavia non condividiamo l’approccio "storico – diplomatico" esposto da Renzo Zagnoni a pagina 23 del "Dizionario Toponomastico del Comune di Granaglione", per il quale parlare dei secoli antecedenti alla tarda romanità è "una operazione del tutto inacettabile dal punto di vista di una seria indagine storica".
Sostenere questa tesi significa sostenere che chiunque (compreso una figura prestigiosa come il Rauty) ragioni su dati indiziari, e non su prove documentali certe, è in fatto di storia null’altro che un maldestro dilettante.
E questa accusa ci pare ancora più strumentale e gratuita se pensiamo che proprio Zagnoni sostiene molte sue tesi storiche proprio su dati indiziari e di epoca molto successiva a quella che vuole trattare.
E’ un dato soltanto indiziario, ad esempio, quello sostenuto da Zagnoni per cui l’Alto Reno dipese "ab ovo" e senza soluzione di continuità (almeno fino al 1784) dalla Diocesi di Bologna:
i documenti che definiscono l’Alto Reno, e altre zone della montagna bolognese, come "territorio Bononiense, Iudicaria Pistoriensis", infatti, non sono antecedenti allo XI – XII secolo e nulla possono dire sull’Alto Medioevo e la tarda romanità (al contrario, anzi, di quanto sostenuto da Zagnoni anche prove documentali sembrano dimostrare che l’Alto Reno dipese per un certo tempo (forse secoli) dalla Diocesi di Pistoia (clicca qui).
E’ bene quindi ricordare che per parlare della storia di un certo periodo non bastono le fonti scritte, ma anche la "utilizzazione attenta e accorta di fonti di differente natura" quali la toponomastica, la lettura del terreno, l’interpretazione dei resti archeologici, l’intitolazione di chiese (cfr. l’introduzione al primo volume della Storia di Pistoia del Rauty).
Per concludere osserviamo che gli studi di Leonardo de Marchi stanno confermando (e spostando a età lontanissime) i primi rapporti fra il versante emiliano e il fronte toscano dell’Appennino, corroborando l’ipotesi del Rauty e di altri studiosi e che noi abbiamo fatto nostra.
SU LUSTROLA PISTOIESE
Avendo letto nella pagina dedicata alla Storia del sito www.lustrola.it il seguente passo:
Attorno all'anno mille, i Bolognesi fusero i borghi di Granaglione e Succida, l'odierna Borgo Capanne, in un unico comune, al quale aggiunsero poi Boschi e Lustrola, allora chiamata "Buscola"il cui governo era concentrato nelle mani di poche famiglie,tra le più ricche della comunità, i cosiddetti "antichi originari".
Abbiamo lasciato questo messaggio nel "Firma questo GuestBook"
"Messaggio# 2 - Firmato il: May-27-2003 11:32:36 |
Nome: andrea |
Sito web: http://groups.msn.com/ALTORENOTOSCANO |
Commenti: A quanto mi risulta nell'anno 1000 Granaglione, Succida, Lustrola e quant'altro non erano bolognesi, ma pistoiesi (fino al XIII secolo) (vedi le varie pubblicazioni di Nueter, della Società Pistoiese di Storia Patria, etc.)" |
A seguito del quale abbiamo ricevuto questa lettera in data 13/06/2003
LETTERA DA UN GESTORE DEL SITO WWW.LUSTROLA.IT
Ciao Andrea, sono Enrico uno dei due redattori del sito lustrola.it; intanto mi scuso per il ritardo con cui ti rispondo, ma ho tantissima carne al fuoco e non so più dove girarmi. Mi ha fatto piacere la tua visita e sopratutto mi fa piacere il fatto che tu mi abbia indicato alcune correzioni sulla storia. Io i dai che ho riportato li o avuti da fonte certa, documenti cartacei tramandati, però vorrei avere maggiori indicazioni sulle tue fonti per integrare ciò che già è in nostro possesso, circa la storia del nostro paesino. Certo di un tuo pronto interessamento, ti saluto e ti ringrazio ancora ! enrico
Alla quale abbiamo così risposto lo stesso 13/06/2003
NOSTRA RISPOSTA
Con riferimento alla tua gradita nota rimando ad alcuni dei libri che citano
Granaglione come terra pistoiese fino al 1219 (gastaldato longobardo
pistoiese, contea franca pistoiese, terrritorio degli stagnensi feudatari in
nome di Pistoia):
G. BOLDRI, "Storia di Sambuca", Castel di Casio, 1991
N. RAUTY, "Sambuca dalle origini all'età comunale", Pistoia, 1990
N. RAUTY, "Storia di Pistoia", vol. 1, Firenze 1988
R. ZAGNONI, "I Signori di Stagno", Nueter Ricerche n. 10
AA.VV., "Dizionario Toponomastico del Comune di Granaglione", Porretta
Terme, 2001
Alcune pagine del sito ALTO RENO TOSCANO sul tema sono:
http://groups.msn.com/ALTORENOTOSCANO/rapportistoricii.msnw
http://groups.msn.com/ALTORENOTOSCANO/rapportistoriciii.msnw
http://groups.msn.com/ALTORENOTOSCANO/altorenoediocesidipistoia.msnw
http://groups.msn.com/ALTORENOETOSCANA/loriginedeidialettigallotoscanialmenodanoi.msnw
IN OGNI CASO TI RIPORTO UNA CITAZIONE TESTUALE:
"Nel 1219 Granaglione entrò a far parte del contado bolognese e nel 1223
venne inserito nella ripartizione delle comunità del territorio a seconda
dei quartieri cittadini" (AA.VV. "Dizionario Toponomastico del Comune di
Granaglione, op. cit, p. 131)
Peraltro anche il Palmieri nella sua opera sulla montagna bolognese parla di
Granaglione come terra pistoiese fino al XIII secolo.
Ti segnalo ancora che il primo documento che si occupa di Lustrola è un documento pistoiese custodito nell'Archivio di Stato di Firenze (ASF. Città di Pistoia, 18 marzo 1021). In questo documento il paese è chiamato "Lusturla" (Dizionario Toponomastico del Comune di Granaglione, p. 135). Nel 1220 un successivo atto Pistoiese cita ancora Lustrola che era passata a Bologna solo l'anno precedente. Successivamente a questa data bisogna aspettare il 1288 per trovare un nuovo riferimento a Lustrola
Da segnalare, peraltro, come la documentazione medioevale su Pieve di Capanne e Granaglione sia sostanzialmente ricavata da carte pistoiesi
Andrea
I documenti storici, che sono ben diversi dalle tradizioni familiari o dalle leggende (in base alla leggenda locale il ponte di Biagioni (costruito nella seconda metà dell'800) è un antico ponte romano) ci confermano dunque che Lustrola fu terra pistoiese. Dunque Lustrola non ebbe nulla a che fare con la municipalità Bolognese fino al XIII secolo
MACROSTORIA
Senza un Alto Reno Pistoise ci sarebbe mai stato un Rinascimento?
Le conseguenze sulla grande storia della Guerra fra Bologna e Pistoia (XIII secolo)
"Il crinale appenninico è fortemente avanzato verso la Città di Pistoia, dalla quale lo separano una quindicina di chilometri, ed è invece molto distante da Bologna (quasi ottanta chilometri dal valico della Collina). Non è difficile comprendere, pertanto, che sin dai tempi più remoti, con il succedersi e il fronteggiarsi delle diverse dominazioni, chi provenisse da sud sentisse l'esigenza di conquistare e mantenere uno spazio vitale oltre lo spartiacque, perché l'avversario schierato a ridosso dei monti più alti della catena avrebbe rappresentato per la pianura pistoiese e per il centro cittadino un pericolo costante e un'angoscia insopportabile" (G.BOLDRI, Storia di Sambuca, Bologna, p. 31).
Con queste parole Boldri introduce le motivazioni per le quali Pistoia doveva difendere i propri territori in Alto Reno durante la guerra ai primi del XIII secolo, ma implicitamente le stesse parole illustrano anche le motivazioni per le quali Bologna intendesse conquistare tutti i territori dell'Alto Reno pistoiese.
Conquistare Pistoia avrebbe peraltro significato mettere a rischio tutte le città della Toscana. Sempre a proposito delle guerra fra Bologna e Pistoia per la conquista dei territori d'Alto Reno scrive infatti lo storico Quinto Santoli:
"Non era utile per Firenze aiutare Bologna nelle sua marcia in avanti verso le porte della Toscana; anche se i fiorentini non videro che il loro dovere era quello di aiutare Pistoia, la quale rappresentava sull'Appennino la sentinella avanzata di Firenze" (Q.SANTOLI, citato in BOLDRI, Op. cit, p. 40).
Firenze, infatti, dopo una iniziale alleanza con Bologna contro Pistoia (1204) dichiarò una neutralità benevola verso i pistoiesi.
Alla metà del XIV secolo i Visconti di Milano cercarono di conquistare Pistoia partendo dai loro possedimenti bolognesi e passando per la Sambuca.
Conquistare Pistoia avrebbe significato mettere in ginocchio Firenze e conquistarla:
"Se i Visconti di Milano avessero attraversato gli Appennini in direzione di Pistoia, muovere verso Firenze sarebbe stato per loro un passo facile. E se i milanesi si fossero stabiliti in quella parte settentrionale alla piana fiorentina, avrebbero bloccato alla capitale toscana il commercio attraverso molte delle principali vie di accesso" (W.J.CONNEL, La città dei crucci, Pistoia 2000, p. 19).
Probabilmente solo la mancanza di insediamenti radicati sul territorio costrinsero i soldati viscontei a ritirarsi nel territorio bolognese poco dopo la conquista del Castello di Scarperia.
E' sempre alla luce di questa prospettiva che si spiegano i tentavi bolognesi di rivendicare (nel 1380) Sambuca, Pistoia, Pavana, Pracchia, Orsigna (AA.VV, Pistoia e la Toscana nel medioevo, Pistoia, 1997, pp. 144 - 145).
Se, dunque, le pretese bolognesi sull'Alto Reno pistoiese avessero avuto successo, probabilmente, la storia come la conosciamo oggi non sarebbe mai stata: Firenze non sarebbe mai stata capitale del Rinascimento e non ci sarebbero stati né un Lorenzo il Magnifico, né un Michelangelo, né un Leonardo da Vinci (1).
Esiste una controprova a questa asserzioni: nel 1643 le truppe pontificie attaccarono Pistoia passando per l'Alto Reno, ma essendo privi di basi logistiche sul territorio furono respinte alle porte di Pistoia e ricacciati nel bolognese (2).
Le truppe Granducali, memori dei numerosi tentativi di Bologna di soggiogare le città toscane, decisero a quel punto di farla finita una volta per tutte, dando una lezione esemplare al nemico felsineo attraverso la distruzione dell'abitato di Casio (G.BOLDRI, Storia di Casio, vol. III, Bologna 2001, pp. 9 ss).
Oggi Bologna ci riprova e, anche se non ha più interesse verso Pistoia e Firenze, vuole Sambuca Pistoiese, la vuole per la sua acqua e le sue risorse.
NOTE:
(1) Pare che anche Cesare Borgia intendesse occupare la Toscana attraverso la conquista di Pistoia, è probabile inoltre che l'invasione sarebbe passata attraverso la via bolognese dato che il corpo di spedizione era lo stesso approntato contro Faenza (cfr. AA.VV. Storia di Pistoia, vol. III, Firenze,1999, p. 69).
(2) Le truppe pontificie, nell'attraversare la montagna sambucana e pistoiese, non passarono inosservate, ciò consentì agli uomini posti a difesa di Pistoia di essere avvisate per tempo, al fine di chiedere i necessari aiuti ( cfr. Storia di Pistoia, vol. III, pp. 114 e ss.). Se Sambuca fosse stata bolognese l'effetto sorpresa sarebbe stato al contrario assicurato.
MONACHINO E IL DUCA DI MANTOVA
Da Microstoria (Anno V, n. 27 gennaio - febbraio 2003, p. 43)
"Pochi ricordano che nelle ferriere di montagna la fabbricazione dei pezzi di armatura aveva raggiunto l'eccellenza, magari avendo derivato il necessario know how da brescia e producendo celate, morioni, cosciali, golette, braccioli, manopole. Forse erano le parti non articolate dell'armatura, le meno difficoltose, potrebbe dire qualcuno; però il Duca di Mantova si fidava della Ferriera di Monachino per ordinare i suoi corsaletti "a prova di moschetto""
MONTICELLI
così passa la gloria del mondo ...
Dal "Dizionario Toponomastico del Comune di Sambuca Pistoiese", Società Pistoiese di Storia di Patria, Pistoia, 1993, p. 123:
"Fascia di terreno oggi boschiva, sulla destra del fosso della Cappuccia, a monte della strada che da Torri scende alla Limentra. la zona detta Monticelli si estenderebbe anche sulla sinistra del Fosso, verso la Casaccia. Nel medioevo era qui un centro abitato, doumentato fino dall'XI secolo (1056), con chiesa dedicata a San martino. nel XIII secolo il Comune rurale di Torri e monticelli faceva parte del districtus del Comune di Pistoia. Nel Settecento Monticelli non risulta più nominato tra i centri abitati elencati dagli Stati d'Anima. Fino ai primi decenni del Novecento erano visibili molti cumoli di pietre, anche lavorate, provenienti da rovine di edifici"
I MISTERI DI MONTOVOLO E SAN SALVATORE DI BADIA A TAONA
lunetta del portale di Santa Maria di Montovolo con croce di Malta e l'acrostico ROIP (Regnante l'Imperatore Ottone IV di Brunswich)
MONTOVOLO (GRIZZANA MORANDI)
Questa località (così vicina all'Alto Reno) è interessantissima per molte ragioni:
In primo luogo perché Montovolo fu, nell'Alto Medioevo, uno dei confini settentrionali della Longobardia Toscana legata a Pistoia e contrapposta alla Romania bolognese - romagnola. Anche successivamente alla conquista franca essa segnò il confine tra i territori toscani (che all'epoca si spinsero molto oltre il crinale appenninico) e il territorio bolognese.
In secondo luogo perché il suo complesso cultuale (due chiese) mostrano una bellisima struttura romanica che attesta la presenza di maestranze di origine lombarda ma di provenienza toscana.
In terzo luogo perché Montovolo fu un importante centro cultuale pagano: il suo nome originario (mantenuto fino al XVIII secolo) era infatti Monte Palense in onore della Dea Pale. Questa divinità agreste, infatti, era adorata da un nucleo di pastori etruschi che si erano insediati su Montovolo, come testimoniano reperti archeologici del 1960 (cfr. Nueter, anno 2, n. 4, 1976, p. 12)
*. La 'forza sacra' di questa località si perpetuò anche nel medioevo dato che "La costruzione di Santa Caterina di Alessandria [una delle Chiese di Montovolo] potrebbe essere interpretabile come il tentativo di riprodurre su questa montagna una rappresentazione del Monte Sinai; anche Montovolo presenta una duplice cima, allo stesso modo del monte delle tavole della legge, e su di esso fu edificata una chiesa dedicata alla stessa santa il cui monastero si trova sulle pendici del Sinai; il riferimento a quest'ultimo sarebbe confermato dalla presenza del culto del profeta Elia conservatosi anche negli affreschi databili alla seconda metà del XV secolo. Montovolo richiamerebbe dunque il Monte Sinai allo stesso modo in cui la Sancta Ierusalem del complesso delle basiliche stefaniane di Bologna richiama la città di Gerusalemme e il Sacro Sepolcro" (R.Zagnoni, A. Antilopi, B. Homes, "Il Romanico Appenninico", Porretta Terme, 2000, p. 213).Delle varie leggende che hanno per protagonista Montovolo una ci ha particolarmente colpito, eccola:
"La leggenda, a mio avviso più interessante,
l'ho potuta ascoltare a
Vigo, dove mi hanno raccontanto
che «tè in che poz d'ciotà da e muraion
» cioè nel pozzo al di sotto del
muro che sta proprio di fronte alla
Chiesa di Montovolo, c'è un tesoro.
Per averlo bisogna trovarsi in quel
luogo, senza peccati ed in grazia di
Dio e aspettare mezzanotte. A quell'ora
deve arrivare un serpente con
una chiave d'oro in bocca. A questo
serpente bisogna dire: «Margherita
dammi la chiave» e se chi chiede si
trova nelle condizioni richieste, il
serpente consegna la chiave per scoprire
un tesoro che si dice ricchissimo.
Ma per scommessa non si può
fare e siccome è assolutamente necessario
essere soli, nessuno ha il coraggio
di tentare, anche perché si
racconta che alcuni «audaci» in passato
provarono ma, oltre a non ricevere
alcuna chiave, poiché evidentemente
non si trovavano nelle condizioni
richieste, sembra che in breve
tempo fecero tutti una brutta fine.
Anche il Palmieri parla dell'esistenza
di un tesoro che egli dice
essere il frutto di un grosso furto di
zecchini d'oro. Ed anch'egli mette a
custode di questo tesoro un serpente
o meglio una biscia. Chiamandola
per tre volte col nome di «Margherita
» e poi baciandola essa porterà le
chiavi di un tesoro, contenuto in tre
camere, una dentro l'altra, situate
sotto l'altare maggiore della Chiesa.
Dell'esistenza di un sotteraneo
sotto la Chiesa ho sentito parlare ancora
a Vigo. Sembra che in passato
questo sotteraneo fosse molto più
grande e profondo di quello che non
è ora, tanto che nessuno si era mai
spinto ad esplorarlo oltre un certo
limite. Si racconta che una volta un
maiale s'inoltrò per questo sotteraneo
e nonostante le ricerche non fu
più ritrovato. Un'altra volta ad un
uomo che vi stava lavorando sfuggi
un palanchino attraverso un varco
nel suolo e questo fu sentito precipitare
come se stesse scivolando su
di una lunga scalinata. Molti si ricordano
anche di una galleria che
da questo sotteraneo conduceva fino
alla Rocca di Vigo e a Carpineta, distante
ben sei chilometri da Montovolo.
Pare che di essa si servissero
i Panico, ultimi feudatari del luogo
per sfuggire ai loro nemici ed in particolare
all'esercito bolognese che
aveva stretto d'assedio il loro castello
posto sulla Rocca di Cantalia".
(Nueter, anno 2, n. 4, 1976, p. 17)
Non si dimentichi che il serpente è non solo simbolo cristico (Giovanni 3, 14), ma è anche il simbolo del mistero alchemico, della rigenerazione (l'oroboro) etc.
SAN SALVATORE DI BADIA A TAONA (SAMBUCA PISTOIESE)
Fu una importantissima abbazia regia fondata, pare, dai cluniacensi e di cui oggi rimagono poche vestigia (vedi "Il Romanico Appenninico", op. cit., p. 192). E una certa aurea di mistero aleggia su questo luogo anche considerato che Cluny stessa fu un luogo di potere e mistero (cfr. AA.VV., "Il Romanico", Koenemann, Koeln, pp. 8 ss.). Questo mistero aumenta se si pensa che San Salvatore è legato in qualche modo ai templari attraverso la piccola chiesa pistoiese di San Giovanni Battista del Tempio che fu donata proprio ai templari dagli abati di San Salvatore (cfr. AA.VV. "Il taccuino del Viaggiatore: Appunti di viaggio a Pistoia", Pistoia, s.d., pp. 50 - 51).
Un'ultima suggestione pare, infine, legare questa località ad ancestrali culti etruschi al Dio Thyna: Molte carte medioevali ci parlano di un Monte Giove che, tuttavia, non è mai stato individuato (cfr. AA.VV., "La Sambuca Pistoiese", Pistoia, 1992, p. VII). Esaminando il nome "Taona" non possiamo, però, fare a meno di collegarlo a quello del dio etrusco Thyna che risulta essere molto simile a questi (e come è noto, l'omonimo latino di Thyna era Jupiter (cfr. R. A. Staccioli, "Gli etruschi mito e realtà", Roma, 1987, p. 134 e G. M. Facchetti, Lingua Etrusca, Roma, 2000, p. 253)).
___________________________________________________________________________
*
sulla toponomastica etrusca cfr. l'articolo Toponomastica etrusca di Guido Baldelli pubblicato sul numero 23 (dicembre 2002) della rivista "Savena Setta e Sambro" (con seguito al n. 24 del giugno 2003)[Sul complesso di Montovolo assai prossimo all'Alto Reno segnaliamo anche questo interessante link di un professore di Chimica Organica dell'Università di Bologna.
http://www2.fci.unibo.it/~baccolin/sommario.html (Montovolo Etrusca)]
MONTOVOLO, LA TOSCANA, I CROCIATI E LA VIA FRANCIGENAA seguito di una breve corrispondenza col Prof. Baccolini dell'Università di Bologna (1) ci è parso opportuno riprendere il tema di Montovolo anche se per sommi capi.
Tuttavia, pur nell'estrema sinteticità di questo intervento, è bene partire con una lunga citazione dal numero 4 di Nueter
"Interessantissimo per storia e per arte è l'attiguo oratorio, risalente al XIII secolo, dedicato a S. Caterina d'Alessandria. Può stupire come il culto di una santa non italiana venisse introdotto proprio in questo luogo e con addirittura la costruzione di una chiesa totalmente intitolata a lei, ma c'è una spiegazione.Dal secolo XI si ebbero le crociate e vi, parteciparono anche molti uomini dell'appennino. Questi soldati amavano perpetuare anche in patria il ricordo dei luoghi sacri per i quali avevano combattuto, erigendo al ritorno costruzioni sacre che imitassero i luoghi della Passione di Cristo. Un'opera analoga era già stata edificata, si tratta del complesso delle «Sette Chiese» o di santo Stefano in Bologna, dove ogni chiesa ha un riferimento ad un luogo della Terra Santa. Si sa che alla spedizione crociata tra il 1217 e il 1221 parteciparono molti bolognesi e che si trovarono all'assalto vittorioso di Damietta. Questo luogo è molto vicino al monte Sinai, che possiede le due cime di Mosé e di S. Caterina d'Alessandria. Questa santa era molto venerata nel medio evo ed a lei fu dedicato un oratorio appunto sulla vetta omonima, dove si era rifugiata. Ai crociati ed ai susseguenti pellegrini non sfuggì la somiglianza del Monte Vigese col monte di Mosé e di Montovolo con la cima di S. Caterina. Quindi fu deciso di costruire su Montovolo una chi esetta che ricordasse la riconquista del Sinai, imitando il più possibile quella costruita in Terra Santa. Venne imitato anche il sarcofago di S. Caterina e posto come questo a destra dell'altare, si vuole che contenesse le reliquie di S. Acazio. La perfezione stilistica e la finitura dei conci coi quali è costruito l'oratorio sono inconsueti per queste zone nel periodo in cui fu edificato. L'opera è infatti anch'essa dovuta all'arte dei maestri comacini, che comparvero però ufficialmente nei nostri monti solo nel secolo XIV. Si sa però che anche nei due secoli precedenti essi lavorarono nelle città di Lucca, Pisa e Pistoia, ed è possibilissimo che i nostri reduci crociati abbiano ammirato in queste città le opere dei maestri e commettessero a loro la costruzione di S. Caterina. Supposizione avvalorata dal fatto che Pisa ebbe frequenti scambi commerciali col nostro appennino, inoltre i crociati della montagna bolognese si imbarcavano e sbarcavano a Pisa" (Nueter, n. 4, 1976, pp. 13 - 14)
Dunque a Montovolo sostavano i Crociati diretti verso Pisa. Appare a questo punto necessario precisare che da Montovolo per giungere a Pisa il percorso obbligato passava per Pistoia attraverso il diverticolo sambucano della Via Francigena. Il punto non pare affatto secondario considerato che a Pistoia si trova una reliquia di San Giacomo Apostolo (noto a Pistoia col nome di San Jacopo):
"Il vallambrosano Atto, Vescovo di Pistoia dal 1133 al 1153, ottenne dal vescovo di Santiago di Campostella una reliquia dell'Apostolo San Giacomo Maggiore, Santo al quale venivano tributati altissimi onori nel santuario a lui dedicato nelle estreme propaggini della penisola iberica. La reliquia di Santiago (o meglio San Jacopo) giunse nel 1145 accolta solennemente dalle magistrature cittadine così Pistoia si trasformò da appartato Comune della Toscana settentrionale in una delle più importanti tappe dell'iter campostellano. Il percorso per Campostella frequentato dai fedeli di ogni parte d'Italia e d'Europa" (AA.VV. "Il taccuino del Viaggiatore", Pistoia, s.d., p.15).
In questa maniera Montovolo e Pistoia diventano in qualche modo immagini l'una dell'altra essendo entrambe le località investite da una improvvisa e importantissima sacralità. Attraverso il diverticolo sambucano della Via Francigena possiamo dunque immaginare i crociati e i pellegrini padani passare per Montovolo (immagine della Terra Santa) e per Pistoia (immagine di Santiago). Da non dimenticare il fatto che anche le crociate sono nella mentalità medioevale una forma di "pellegrinaggio armato" (clicca qui). Vale la pena ricordare, per inciso, che l'iconografia ufficiale di San Giacomo Maggiore può essere divisa in tre tipi principali:
1) l'Apostolo evangelizzatore;
2) il pellegrino;
3) il matamoros (l'ammazza arabi).
Una iconografia perfetta dunque sia per i pellegrini che si recano a Santiago che per i crociati (per chi vuole saperne di più sull'iconografia iacopea legga LUCIA GAI, "Iconografia e agiografia iacopee a Pistoia", Pistoia, 1999).
Il percorso della Francigena Sambucana era così una sorta di microscopico pellegrinaggio verso una vicina Santiago (per chi era intento a combattere per le crociate) e una sorta di Terra Santa locale (per chi si recava in pellegrinaggio in Spagna). Da segnalare che tutt'oggi è possibile trovare alcuni punti del diverticolo sambucano della Via Francigena (tra Pavana e Sambuca) in cui è si può scorgere con estrema facilità Montovolo.
Sulla Via Francigena della Sambuca clicca anche qui.
nota:
Si riporta una breve corrispondenza col docente universitario
Le comunico che ho letto alcune delle sue pagine web sull'Alto Reno. Sarei molto interessato a localizzare il presunto monte Giove vicino a Sambuca pistoiese. Se puo darmi ulteriori notizie le sarei molto grato.Mi avevano riferito di un monte Giove vicino all'Abetone.Sambuca Pistoiese era una delle dodici parrocchie che raggiungevano Montovolo in settembre.
http://www2.fci.unibo.it/~baccolin/montovolo-retreat-2.html La leggenda del serpente di Montovolo io la ho sentita in modo leggermente diversa ma la sostanza è la stessa. Sono originario di Vimignano e conosco anche il dialetto di Vigo che è diverso da quello di Vimignano nonostante siano distanti solo un paio di Km, ma hanno avuto una storia diversa nel MedioEvo. Anche l'uso di deporre un sasso nelle varie Maesta era in uso fino a pochi anni fa anche a Montovolo.Io lo ho sempre fatto fin da bambino e continuerò a farlo anche se continuano a toglire questi sassi come se fosse un insulto alla "religione".Un tempo,non molto lontano, era un sacrilegio toglierli! Continuero a leggere le sue interessanti e numerosissime pagine, complimenti !! Graziano Baccolini > >Solo per comunicarLe di avere limkato le sue pagine su Montovolo in una >pagina del mio sito sull'Alto Reno dedicata a Montovolo e alla Badia a Taona >(Sambuca Pistoiese) > >http://groups.msn.com/ALTORENOETOSCANA/montovolo.msnw > >Cordiali saluti. > >Andrea Signorini > >_______________________________________ > >http://groups.msn.com/ALTORENOETOSCANA > >sito di supporto di ALTO RENO TOSCANO > >http://groups.msn.com/ALTORENOTOSCANO > >_________________________________________________________________Chiarissimo Professore!
Dovrà perdonare la forma stringatissima che devo usare, ma ho pochissimo tempo:
1) non conosco nessun monte Giove vicino l'Abetone, ma esiste un Monte Giovo (1991 metri) vicino al Lago Santo non lontano dall'Alpe Tre Potenze.
2) il toponimo Taona, come derivato dall'etrusco Thyna, lo ritrovo anche in G.JORI, "Alta Montagna Pistoiese", Diple Edizioni, Pistoia 2001, p. 33 (altri teonimi etruschi sarebbero secondo lo Jori Calamecca e Montaddone in Comune di Marliana, questi ultimi tuttavia lontani dall'Alto Reno)
3) La Badia Taona è nei pressi di Acquerino, non lontano dal passo della Collina;
4) il riferimento al Monte Giove mai identificato è il seguente: "Anche Natale Rauty interviene sull'etimo del toponimo Casio ed avanza una nuova ipotesi: Casio fu uno degli attributi di Giove e questo potrebbe essere in relazione con quel monte Giove presente in molte pergamene [sull'Alto Reno], ma mai identificato" (AA.VV. "La Sambuca Pistoiese", Pistoia, 1992, p. VII). A mio avviso, tuttavia, appare più ragionevole pensare a Taona piuttosto che a Casio.
5) sia Taona che Montovolo furono centri di passaggio transappeninico e per entrambi è accertato il passaggio dei crociati (quindi può darsi che anche gli etruschi usassero quegli stessi percorsi (consideri che moltissimi studiosi parlano di una via che collegava i territori etrusco - padani e i territori dell'agro pistoiese e fiorentino attraverso le valli Ombrone Pistoiese - Reno));
6) E' accertato (in funzione della percorrenza transappennica di cui al punto 5) la presenza di numerosi reperti mesolitici sia alla Badia a Taona che a Montovolo (cfr. Nueter, n, 54, 2001, p. 343 e 345).
Saprà inoltre che il celebre glottologo Carlo Alberto Mastrelli ha identificato il toponimo Pavana come derivato da antroponimo etrusco "PAPA" + na (AA.VV. "Storie della Sambuca", Pistoia, 2001, p. 53 - a p. 54 si ricorda che a Pian del Cerro furono trovati delle antiche suppelletili, forse etrusche). Lo stesso Mastrelli ipotizza (ma qui il caso è dubbio e io propendo per un relitto ligure) il nome "Limentra" (idronomo che caratterizza il Limentra di Treppio, il Limentrella e il Limentra di Sambuca) derivi anch'esso da un antroponimo etrusco: "Armena" (AA.VV. "Le Valli della Sambuca", Sambuca Pistoiese, 1997, p. 77)
Sul culto del Dio Thyna nella Valle del Limentra di Treppio è da ricordare il graffito con l'invocazione "Tin Affnin arse verse" ovvero "Iuppiter Appennine, averte ignem" (G. Boldri, "Storia di Casio", vol. 1, Bologna 1990, pp. 35 ss).
Cordialissimi saluti.
LETTERA DEL 30 NOVEMBRE 2003 AL PROF. BACCOLINI
Ora la sorprenderò con un effetto speciale...
nel suo articolo parla delle dodici parrocchie che si univano alle altre dodici durante l'anno santo
http://www2.fci.unibo.it/~baccolin/montovolo-retreat-2.html
Tra le dodici parrocchie dell'Anno Santo c'è Sambuca, ma non c'è Porretta, Capugnano o Borgo Capanne.
Il punto davvero divertente della vicenda è l'assenza non tanto di Porretta e Capugnano, ma di Borgo Capanne! Oggi Borgo Capanne è una chiesa di poca importanza... ma nel medioevo fu una chiesa importantissima (la Chiesa di Succida che compare in moltissimi documenti medioevali): Gli storici locali (da quelli di Nueter a quelli della Società Pistoiese di Storia Patria, fino al famosissimo storico bolognese Palmieri) hanno sempre ricordato che Succida (Borgo Capanne) fu nel medioevo la più antica chiesa montana la cui giurisdizione ecclesiastica s'imponeva sull'intera montagna (la dedicazione a San Pietro ancora oggi testimonia la sua antichità).
Come mai non compare Borgo Capanne e compare, quasi isolata nel contesto, Sambuca Pistoiese? La mia ipotesi è che il collegamento Montovolo - Pistoia fosse molto più forte di quello che si possa oggi immaginare! Le mie suggestioni le conosce... in fondo il collegamento via francigena - Montovolo / antico itinerario etrusco (o delle pietre scritte) è l'unico che sembra collegare Montovolo a Sambuca escludendo, nel contempo, Borgo Capanne!!!
Tenga, peraltro, presente che un'altra località in cui sono state ritrovati sassi scritti (Piteglio) (deve vedere la pagina del sito di Alto Reno Toscano dedicata alla cultura appenninica) fu anche un centro sacro oracolare (Microstoria n. 7, anno 2000, pp. 26 - 27)
Andrea
Naturalmente siamo ancora in tema di suggestioni... per quanto suggestive!
RISPOSTA DEL PROFESSOR BACCOLINI (02.12.03)
Gentilissimo Dottore. La sua ipotesi è molto suggestiva e anche con qualche riscontro. Quando trovai su un testo tra le dodici parrocchie Sambuca Pistoiese rimasi anch'io sorpreso. Pensai genericamente ad un luogo che ora è Toscana, ma pensai che tale luogo in periodo etrusco fosse importante e che considerasse il Montovolo la loro Montagna Sacra, mentre altre località più note ora come per esempio Porretta ma anche Vergato non erano presenti nell'elenco probabilmente perchè in epoca Etrusca non c'era alcun insediamento. Riola invece c'era, ma recentemente, anni 70, vicino a Riola in località Archetta si sono trovate diverse tombe etrusche. La sua ipotesi dà una ulteriore spiegazione della presenza di Sambuca Pistoiese inserito in un arcaico (pietre scritte)percorso etrusco o pre-etrusco che portava da Montovolo a Pistoia e probabilmente anche al porto di Pisa. Fino a 30 anni si faceva a Montovolo un grosso Mercato e Fiera che un tempo durava anche una settimana, tra i mercanti vi erano moltissimi toscani. Si tramanda che una delle più antiche famiglie del luogo, i Pisi, fossero in origine mercanti pisani. Anche i glifi della croce sulle "pietre scritte" può essere ricondotto al simbolo arcaico della croce con valenza sacra anche per gli etrusci come ho ritrovato anche in tre pietre ovali al Mmuseo Etrusco di Marzabotto. Penso quindi che questa sua suggestiva ipotesi debba essere presa gia da ora in seria considerazione!Sto leggendo di nuovo le sue interessanti pagine del sito! Graziano Baccolini
PAVANA
Una terra toscana
A partire dagli studi della Nieri e del Chiappelli si è attribuita al "Municipium Pistoriense" almeno la parte occidentale di Pavana fin dall'antichità romana. Secondo il Chiappelli l'antico municipio romano di Pistoia si estendeva fino a Casio e Castiglione.
A partire dal VII secolo questi territori, insieme agli altri territori dell'Alto Reno, erano sicuramente pistoiesi (cfr. A.GUIDOTTI, Insediamenti di età antica, Nueter, XXII, 1996, pp. 353 ss.).
Sotto l'imperatore franco Lodovico II (844 - 875) i territori di Camugnano e Pavana vengono attribuiti come feudo al Vescovo di Pistoia Oschisi, il successivo atto di Ottone III del 998, che attribuisce Pavana e Camugnano al Vescovo di Pistoia (clicca su
editto), non è in effetti che la conferma di un diritto attribuito "ab antiquo" (cfr. N. RAUTY, Pavana, Pistoia, 1999, pp. 20 - 22).Nel 1055 gli uomini di Sambuca e Pavana prestano giuramento al Vescovo di Pistoia alla presenza dei Signori di Stagno, Agiki e Tegrimi.
Nel 1105, con bolla di Papa Pasquale II, si conferma al Vescovo di Pistoia "la curtem que vocatur Pavana infra Pistoriensem Comitatus" (Ibid., p. 27).
Nel 1219, dopo lunghi secoli, il territorio di Camugnano, Capugnano, Casio, Granaglione passano a Bologna, Pavana e la Sambuca rimangono soggette a Pistoia attraverso il feudo vescovile. Di fatto, tra il XII secolo e il XIII secolo, il Comune di Pistoia estende il proprio protettorato su Sambuca e Pavana (Ibid., p. 24).
A seguito del protettorato pistoiese Pavana perse (a scapito della Sambuca) il suo ruolo di centro del feudo vescovile, non soggetta ad altri che al suo signore: il Vescovo di Pistoia. E' in questa chiave che va letta la rivendicazione di autonomia riportata in un atto del 1223 secondo il quale Pavana fa "terra per sé".
Di fatto Pavana era e rimase toscana
DAL DIPLOMA DI OTTONE III A FAVORE DEL VESCOVO DI PISTOIA ANTONINO, DATO IN ROMA IL 25 FEBBRAIO 998
"A TUTTI I NOSTRI FEDELI SIA NOTO CHE NOI ... CORROBORIAMO CON LA NOSTRA SOVRANA AUTORITA' E CONFERMIAMO ALL'EPISCOPATO PISTOIESE ...TUTTE LE PROPRIETA' E I BENI AD ESSO PERTINENTI, E CIOE' ... LA VILLA DI PAVANA ... LA CORTE DI CAMUGNANO ..."
PISTOIA: UNA CITTA' "EMILIANA"
Il contributo altorenano alle peculiarità di Pistoia
"Pistoia, disponendo di una via naturale che la metteva in contatto diretto con Bologna e la val Padana, si era potuta autonomamente aprire a quegli influssi settentrionali determinanti per la formazione della varietà toscana che definiamo occidentale" (AA.VV. Storia di Pistoia, vol. II, Firenze, 1998, p. 348)
Chi ha occasione di sfogliare le varie pubblicazioni dedicate alla Storia, alla cultura, alle tradizioni di Pistoia si accorgerà che il numero di citazioni dedicate a Bologna è straordinariamente alto. I rapporti fra Pistoia e la città felsinea sono sempre stati, infatti, intensissimi e non soltanto dettati da contrasti. Pistoia è in effetti la città più "emiliana" e più "bolognese" della Toscana, come avremo modo di dimostrare:
Durante tutto il periodo medioevale "i legami tra le due città [Bologna e Pistoia] furono fitti e molteplici "(ibid. p. 52). Da Bologna i pistoiesi copiarono "al momento opportuno, anche la legislazione" (Ibid., p. 55), e sempre a Bologna i pistoiei mandavano i loro figli a studiare e i propri mercanti e banchieri ad operare (Ibid. p. 55).
La presenza di mercanti e banchieri pistoiesi a Bolgna è tanto consistente da fare della città emiliana la casa madre delle loro compagnie, "dato che ivi si trovavano i maggiori dirigenti" (ibid., p. 170 e p. 185).
Bologna viceversa apprezzò molto i pistoiesi che furono in più riprese nominati Podesta di Bologna, ovvero Capitani del Popolo (ibid., p. 59).
Personalità di punta della Scuola pittorica bolognese operarono a Pistoia (ibid. p. 36), come sta a tutt'oggi a testimoniare il bell'affresco dipinto sull'abside della Chiesa di san Francesco (ibid. p. 308 ss). Sempre nel campo dell'arte è da ricordare come a Pistoia e a Bologna operassero Nicola Pisano e Guglielmo Pisano.
L'università bolognese fu assiduamente frequentata da alunni pistoiesi: A Bologna studiò e insegnò Cino da Pistoia (ibi. pp. 327 ss) e, sempre a Bologna, si formavano i medici pistoiesi (ibid. p. 327).
Lo studioso americano William J. Connell c'informa che Bologna era uno dei maggiori importatori di grano e bestiame prodotto a Pistoia (W.J. Connell. "La Città dei Crucci", Pistoia, 2000, p. 38). Ed è ancora a Bologna che i pistoiesi si rivolgono per gli studi universitari (Connell, p. 91). Sempre il Connell c'informa dei tentativi da parte della nobiltà pistoiese di consegnare la città alla sovranità di Bologna (Connell, pp. 15, 100, 186 - 187, ma leggi anche AA.VV. Storia di Pistoia, vol III, Firenze, 1999, pp. 6, 20 ss, 68).
Durante il XVIII secolo il più importante compositore (assieme a Torelli) della Scuola Musicale di Bologna fu il pistoiese Francesco Manferdini. Sempre in campo musicale va ricordato che il celebre costruttore d'organi Pietro Agati iniziò la sua rinomata produzione "dopo un periodo di addestramento a Bologna " (AA.VV., Storia di Pistoia, vol IV, Firenze, 2000, p. 287).
Rimanendo al XVIII secolo si deve ricordare che l'azione del Vescovo di Pistoia Alamanni era ispirata (come quella del Vescovo di Fiesole) a quanto stava facendo a Bologna il Cardinale Lambertini (cfr. Storia di Pistoia vol. III, Firenze 1999, p. 308). Sia pure di sfuggita si ricorda, peraltro, come la Cattedrale di Pistoia sia dedicata anche al Santo bolognese Procolo (cfr. Storia di Pistoia, vol. I, Firenze 1988, p. 221).
Rimanendo nel campo della cultura numerosi furono i contatti anche in pieno ottocento fra Bologna e Pistoia (cfr. Storia di Pistoia, vol. IV).
Anche lo stile archiettonico di Pistoia (almeno di certe sue parti) fu influenzao dalla città emiliana: le case di Porta al Borgo realizzate nell'800 erano tutte ad un piano e con porticati "secondo lo stile bolognese e modenese" (Storia di Pistoia, IV, p. 195).
Ma chi o cosa ha reso Pistoia e Bologna così legate?
Il brano che abbiamo letto all'inizio dovrebbe aiutarci a comprendere: quella ragione siamo noi stessi, l'Alto Reno, la sua strada. Non è un caso che durante il XVIII secolo si continuò a preferire per i collegamenti con la pianura padana l'antica via bolognese anziché la modernissima via per Modena (Storia di Pistoia, III, p. 172)
REGGIO EMILIA E TORRI
Abbiamo visto in altra pagina di questo sito come il Comune medioevale di Reggio Emilia decise ch partecipare alla guerra fra Bologna e Pistoia del XIII secolo, prendendo le parti del Comune felsineo (cfr. G. BOLDRI, "Storia di Sambuca", pp. 22-23). Il contributo di Reggio Emilia alla storia dell'Alto Reno toscano non fu tuttavia solamente negativo...
"Michelangelo Salvi nel suo lavoro delle Historie di Pistoia del 1657 ricorda che nella prima metà del 1400 il Castello di Torri era pressoccHé privo di abitanti. Il Comune di Pistoia promise molti benefici a coloro che erano entrati a colmare tale vuoto di popolazione. Giunse fra gli altri Niccolò Giffredi del Secchio, del Contado di Reggio, con l'impegno di portare con sé almeno quaranta persone e di costruirvi in due mesi quattro case. Questo fatto darebbe una spiegazione alla presenza in paese di molte famiglie con il cognome Gioffrdi" (AA.VV, Storie della Sambuca, Pistoia, 2001, p. 110).
E la colonia reggiana a Torri fu sicuramente fedele e legata a Pistoia, visto che Torri è una delle rare località dell'Alto Reno in cui si registra una delle caratteristiche più tipicamente toscane: la aspirazione consonantica o "gorgia toscana" (cfr. "Dizionario Toponomastico del Comune di Sambuca Pistoiese, Pistoia, 1993, p. 27)
LA RELIGIOSITA' NELL'ALTO RENO MEDIOEVALE
Compredere il significato della religiosità nella nostra montagna durante il medioevo è un compito oltremodo difficile tanto è lontana dalla nostra mentalità e dal nostro modo di vivere. Durante tutto il medioevo, infatti, la religiosità era sentita non come una sintesi di vita fondata principalmente sull'amore, bensì sull'angoscia e il timore reverenziale. Persino le alte gerarchie della Chiesa vivevano con impotenza questa dimensione. Leggiamo, ad esempio, nel testamento spirituale dettato, nel 1085, dal Vescovo di Pistoia:"A me che meditavo su quanto ogni uomo potrà portare a sua discolpa davanti al tremendo Giudice ... improvvisamente si fece manifesta la pochezza delle mie buone azioni. Scosso da queste paure, cominciai a pensare a cosa avrei potuto fare per migliorare la scarsa misura dei miei meriti". Se questo era l'atteggiamento di un Vescovo è facile immaginare quale senso di impotenza e paura prendeva possesso della gente comune, sovente ignara delle Sacre Scritture e spettatori passivi delle celebrazioni liturgiche. L'unica speranza di salvezza offerta per ottenere la "vita eterna" era affidarsi alla misericordia divina, la quale però poteva essere ottenuta soltanto attraverso la pratica del pellegrinaggio oppure delle elemosine.
La pratica dei pellegrinaggi era allora molto diffusa. Recarsi in un luogo sacro ai fini di edificazione spirituale assumeva sovente caratteristiche votive o penitenziali. Le stesse crociate erano considerate, in primo luogo, una "peregrinazione". Il medioevo, infatti, è - contrariamente a quanto s'immagina correntemente- un periodo in cui alla religiosità s'unisce un forte desiderio di conoscere e sapere. Il nostro territorio doveva essere favorito in questa pratica dalla vicinanza a Pistoia che fu, per secoli, una delle tappe più importanti dell'iter campostellano; il percorso per raggiungere San Giacomo di Campostella in Galizia, che fu frequentato da fedeli di ogni parte di Italia e d'Europa. A tale proposito si deve ricordare che nella nostra zona gli ospitali furono numerosissimi e dipesero, ad esempio, dalle abbazie di Fontana Taona, Montepiano o dalla Cattedrale pistoiese di San Zeno (è il caso di Spedaletto). L'origine longobarda della nostra gente, abituata a sanare con il denaro anche i delitti di sangue (il cosiddetto "gudrigildo"), ci fa tuttavia sospettare che l'aspetto "mercantilistico" delle elemosine fosse molto in uso. In un prezioso documento, custodito nell'Archivio di Stato di Pistoia e scoperto dallo storico Natale Rauty, si parla di due abitanti della Val Limentra che ottengono di cambiare un periodo di penitenza con il pagamento di una decima. "Essendo stata imposta a noi, Alfredo e Bernardo, una penitenza di trent'anni da parte del Vescovo di Bologna, ed avendo noi confessato di fronte a lui di non poterla sopportare, lo stesso Vescovo ha ordinato che noi, per la remissione dei nostri peccati, offriamo all'Ospizio di San Salvatore a Fontana Taona le decime di tutti i nostri beni" Sarebbe comunque azzardato e presuntuoso ridurre la complessa religiosità medioevale a semplici meccanismi di dare e avere. La pratica devozionale, infatti, risiede non in semplici congegni mercantilistici, ma nella coscienza e nelle convinzioni intime dell'uomo
RINASCIMENTO D'ALTO
RENOAnche l'Alto Reno ha contribuito al Rinascimento in maniera diretta.
Già importanti esponenti del dolce stil nuovo erano legati all'Alto Reno.
Celebre è Cino da Pistoia le cui poesie al doloroso amore per Selvaggia rimandano alla Sambuca:
"Io fu' 'n l'alto e 'n sul beato monte,
ch'i' adorai baciando 'l santo sasso,
e caddi 'n su quella petra, di lasso,
ove l'onesta pose la sua fronte"
La rubrica del Casanatese dice in proposito di questi versi: "Essendo Sambuca in su 'l monumento de la vaga sua".
Anche Guido Cavalcanti aveva in Alto Reno una "sua donna", la Pinella di Lizzano. E di Lizzano così parla:
"Ciascuna fresca e dolce fontanella prende in Lisciano chiarezz' e vertute"
E' durante tuttavia il XV secolo che abbiamo i contributi più importanti:
Sabatino degli Arienti e Girolamo da Casio.
Sabatino degli Arienti ambienta nella cornice dei Bagni della Porretta la sua raccolta di novelle le "Porrettane" (che ricorda il Decameron di Boccaccio) dove ci mostra l'allegra compagnia di Andrea Bentivoglio, la quale dopo pranzo si diletta in giochi, suoni,canti e balli.
Girolamo da Casio (nato nel 1464) fin da giovane si divertì a comporre versi, ma la sua fama è da collegare ai quadri di cui fu commitente e personaggio: La Madonna Casio(oggi al Louvre) e il Ritratto della pinacoteca di Brera (tutti ad opera del Boltraffio)
LE TERME DI PORRETTA FRA TARDO MEDIOEVO E RINASCIMENTO
In mancanza di contabilità amministrativa le fonti più importanti per conoscere il fenomeno termale fra tardo medioevo e rinascimento a Porretta sono rappresentate dalle novelle di Sabattino degli Arienti e da relazioni scritti da medici del tempo.
Come è noto le località termali erano considerate come luoghi licenziosi e mondani, dedicati ai piaceri corporei e alla dissolutezza (vedi anche N. MACHIAVELLI, La Mandragola, Atto 1, scena 2 dove peraltro è citata Porretta).
In questo quadro s'inseriscono le sessantuno novelle dell'Arienti raccolte sotto il titolo "Le Porrettane". Già nell'introduzione possiamo notare un certo tono "cortese" delle "Porrettane". Conversazione, svago e moto contraddistinguono, secondo l'Arienti, il soggiorno dei bagnanti a Porretta. Tali "attività" peraltro coincidevano con le indicazioni dei medici del tempo che sconsigliavano a un tempo l'ozio pomeridiano e l'eccessiva fatica.
Possiamo altresì certamente affermare che a Porretta, come in numerose altre località termali dell'epoca, la nuova borghesia emergente e le classi sociali egemoni trovavano nelle terme un luogo non solo per curare i corpi, ma anche per dare sfogo alla "pieghevolezza dei sentimenti".
Rimane solo da accennare ora alla provenienza della clientela che a Porretta può vantare il pittore Andrea Mantegna al seguito del Cardinale Gonzaga, ma la più parte erano fiorentini e toscani (come ci informa una nota di un dipendente del mercante pratese Francesco di Marco Datini) a conferma che all'epoca Porretta intratteneva più rapporti col sud toscano che non col nord emiliano.
Vale infine la pena ricordare due tracce toponomastiche di questo passato a Porretta: Vicolo Cerva e Via Falcone che ricordano, nel nome, degli antichi medioevali ostelli.
IL MONUMENTO AI CADUTI DI PORRETTA
lo spregio del "caduto fascista"
Nel numero 26 di "Gente di Gaggio" (Anno XIII / dicembre 2002) è uscito un bell'articolo di Francesco Berti Arnoaldi sul monumento ai caduti di Porretta (pp. 93 -96).
Nel segnalare l'articolo riteniamo doverso rispolverare una denuncia che il tempo ha archiviato troppo frettolosamente:
Alcuni anni addietro (ai tempi del Sindaco Mauriti) la Giunta Municipale di Porretta diede ordine di cancellare la scritta di "caduto fascista" sotto quella di "Mellini Romolo". Nonostante le proteste della minoranza e (perfino) di Rifondazione Comunista, tale spregio è rimasto.
Parliamo di autentico spregio per più ragioni:
1) spregio nel confronto del morto (cancellare l'attributo di fascista è comunque offendere la memora di questa persona);
2) spregio nel confronto degli altri morti ricordati nel monumento (caduti della prima geurra mondiale, caduti partigiani che nulla hanno a che spartire con un morto fascista);
3) spregio nei confronti dei contemporanei (i quali non potendo più leggere la scritta "caduto fascista" possono credere che il Signor Mellini sia morto per la difesa della patria o per i valori della Libertà e della Resistenza);
4) spregio nei confronti della storia (il fascismo deve essere un monito per gli uomini, non qualcosa da cancellare con un colpo di cazzuola, la Giunta Municipale di allora si è comportata con canoni degni del più odioso revisionismo);
5) spregio nei confornti delle precedenti amministrazioni (specie quelle dell'immediato dopoguerra che, nonostante tutte le barbarie del fascismo e forse proprio perché hanno vissuto quelle barbarie, hanno avuto pietà umana per quella persona e una maggiore considerazione della storia).
I TOSCANI NEL LIZZANESE
"Questa non è la vera storia del Mulin del Tosco, ma a me piace raccontarla così in omaggio alle varie tracce di "Toschi" o "Toscani" che dal versante dell'Orsigna, di Maresca, di San AMrcello e di Cutigliano, hanno sempre valicato i monti facendo sentire la loro influenza fra le ultime propoaggini del bolognese.
Basta ricordare, a questo proposito, le quattro statuette lignee dei Brunori che, fuggendo dalla Toscana, col loro dono votivo custodito nell'ombrosa frescura del Santuario dedicato alla Beata Vergine dell'Acero, hanno affidato all'eternità la testimonianza della presenza toscana nelle nostre valli" (La Musola, n. 40 (1986), p. 110)
ALTO RENO
SEDE DI UNIVERSITA' E SCUOLE MEDICHE
(Il contributo toscano e segnatamente pisano)
Il 16 marzo 1478 il piccolo abitato di Spedaletto visse un breve, ma intenso periodo di notorietà accademica: parte della prestigiosa Università di Pisa vi si trasferisce a causa di una epidemia di peste che aveva colpito questa e altre città toscane. Le lezioni si protrassero a Spedaletto fino al novembre dello stesso anno (cfr. F. DOMESTICI, I Della Robbia a Pistoia, Octavio, Firenze, 1995, p. 146).
Peraltro l'Alto Reno e le zone limitrofe (compresa la stessa Spedaletto) ospitarono Ospedali e Ospizi, che fecero sì che nascesse e prosperasse una vera e propria Scuola Medica a Costonzo, nei pressi di Montecavalloro.
Il Palmieri nella sua opera sulla montagna bolognese nel medioevo (A. PALMIERI, La Montagna bolognese nel Medioevo, Arnaldo Forni Editore, Bologna, 1981, pp. 284 ss.) ci illustra le caratteristiche di questa scuola: una scuola empirica i cui principi venivano tramandati di generazione in generazione, contaminati di superstizione e nuove acquisizioni scientifiche provenienti dall'oriente e dalla celebre Scuola Medica di Salerno attraverso Pisa.
E proprio "ai Pisani della nostra montagna" che dobbiamo sia la creazione di centri di cura (A.PALMIERI, Op. cit., p. 291) che la Scuola Medica di Costonzo (Ibid., p. 296), una scuola che fece nascere una duratura predilezione per l'esercizio della medicina nella nostra terra. Ancora ai principi del XVIII secolo uno dei più illustri anatomici di Bologna fu un Molinelli di Bombiana (Ibid., p. 293).
VITE, CASTAGNO E OLIVO
Piante importanti nella storia dell'Alto Reno
La vite (vitis vinifera) è la specie più importante del genere vitis e si ritiene derivi dalla vite selvatica (vitis silvestris), originaria della transcaucasica. Per il suo frutto, l'uva, è coltivata fin dai tempi preistorici; è citata nella Bibbia (Genesi 9,20), in Egitto era già coltivata nel periodo predinastico (5000-3000 a.C) e secondo la tradizione ebraica l'albero della vita sarebbe stato la vite.
In Italia, anticamente chiamata Enotria , per l'abbondanza dei vigineti ("enos" in greco sta per vino), la sua coltura risale all'anno 1000 a.C., prima da parte degli etruschi e quindi dei Romani. Con il cristianesimo il vino viene vissuto come pienezza della felicità messianica (Giole 2,4) e simbolo della nuova era (si veda le numerose rappresentazioni della vite nelle Chiese Medioevali, fra cui i resti del lunotto della Chiesa di San Bartolomeo a Spedaletto).
Durante l'intero medioevo, e ben oltre lo stesso, il vino dunque è la bevanda per eccellenza, quella che si beve in ogni occasione. Il vino non solo assume un carattere sacramentale, ma è ritenuto fonte di salute, dono di vita e "profumo di natura".
La vite viene così coltivata ovunque, ben oltre il confini climatici e anche a detrimento del terreno arativo. A distinguersi, in particolare, sono le cattedrali e le abbazie, fino alle lontane York e Lincoln in Inghilterra.
Anche nella nostra montagna si assiste al fenomeno della coltivazione della vite, pure se la montagna dell'Alto Reno appare inadatta a questi impianti. Una tal scelta era da addebitarsi agli alti costi dek trasporto del vino, peraltro dal vino non completamente maturato si poteva, comunque, ottenere aceto, utile anche in cucina ma anche come antisettico.
E' per queste ragioni che le carte dei monasteri bolognesi, pistoiesi e pratesi si preoccupavano di acquisire o inserire nei loro possedimenti montani le coltivazioni di vite.
Decisamente più importante, fin quasi ai giorni nostri è la coltivazione del castagno
Il castagno è un albero di media altezza che può vivere diversi secoli, con foglie verdi giallastro e frutti color bruno mogano, raggruppati solitamente a tre a tre e racchiusi in un involucro spinoso (riccio).
Il castagno appare massicciamente presente nella motagna bolognese, pistoiese e pratese, trattandosi di una vera coltivazione da frutto che ha conteso lo spazio alle piante autoctone (faggi, querce) meno produttivi ed utilizzati per la alimentazione animale.
L'importanza del castagno nella nostra montagna è testimoniata anche dallo Statuto del 1291 della Sambuca che vieta (art. 142) di ruspare nel castagneto altrui e di rubare castagne.
La castagna era infatti l'alimento chiave della alimentazione dei montanari:
"Nelle aree di montagna era forte anche l'uso della farina di castagne, con cui si confezionavano i 'necci' e i 'castagnacci', sostitutivi in molti casi del pane" (AA.VV., Storia di Pistoia, Vol. II, p. 132, Firenze, 1998).
Una ultima pianta da ricordare è l'olivo: una pianta non coltivata in Alto Reno, ma già presente a poca distanza da esso (subito dopo il Signorino, a 20 / 25 chilometri da Porretta). Il Palmieri e altri studiosi attestano che le importazioni del suo prodotto principale (l'olio) erano una voce molto importante dei rapporti commerciali fra la Toscana e l'Alto Reno. E se anche la "Strenna Storica Bolognese" del 2002 (Anno LII) ha un articolo sulle colture di olivo nel bolognese (pp. 77 ss.) è necessario ricordare che la produzione di olio era del tutto insufficiente alle necessità perfino locali. In Alto Reno, poi, non esistevano le condizioni per la coltivazione neppure precaria dell'olivo (cfr. Nueter, XXVII (2001), p. 250) e, quindi, doveva essere importato da Pistoia (AA.VV., "Di baratti, di vendite e d'altri spacci, Pistoia, 2002, p. 13).
Che dire di tutto ciò?
Che la nostra storia è anche una storia di piante ... ed è una storia di Alto Reno ... Toscano!
IL NAVIGLIO BELVEDERIANO
La vera storia del mitico "canale navigabile" dell'Alto Reno
Nel n. 5 della rivista Lizzanese "La Musola" (anno III, gennaio - giugno 1969) compare un lungo ed interessante articolo a firma C. Odino del Martignone (alias l'avvocato Giorgio Filippi) sull'antico canale che servì nel medioevo a deviare le acque del Dardagna dal suo corso naturale (il bacino del Panaro) verso il Reno.
All'epoca della realizzazione dell'opera (fine del XIII secolo) Bologna possedeva un importante porto fluviale che gli consentì addirittura di diventare (sia pure per un breve periodo) una potenza marittima, tale da sconfiggere in mare la stessa Repubblica Serenissima di Venezia (anno 1271).
Il canale partiva dalla località di Poggiolforato (il nome è chiaramente indicativo) per giungere fino al crinale spartiacue nei pressi delle Serre e, presumibilmente, proseguiva dal crinale stesso fino all'odierno abitato di Silla.
Le motivazioni che indussero i bolognesi a realizzare l'opera possono essere molteplici: rubare l'acqua al Panaro (e quindi ai modenesi all'epoca nemici di Bologna), costruire un canale di fluitazione per i tronchi degli alberi, oppure (addirittura) di costruire un canale navigabile sia pure per imbarcazioni minime.
L'avvocato Giorgio Filippi, dopo avere attentamente illustrato le caratteristiche del canale, le testimonianze storiche e le ipotesi avanzate nel corso dei secoli, conclude - sia pure dubitamente - che si trattasse in effetti di un canale navigabile oltre che essere utilizzato per "condurre per via acqua il legname, allora merce di primissiam necessità, dal confine toscano fino a Bologna e poi, sempre per via d'acqua, fino a Ferrara, al Po e all'Adriatico". (La Musola, anno III (1969), n. 5, p. 12).
Fin qua la Musola ed ora la nostra ipotesi: è possibile che il canale del Bevedere fosse davvero navigabile? A nostro modesto avviso il naviglio belvederiano non era in effetti davvero navigabile (è quanto meno il dislivello da Poggiolforato a Silla che ci lascia ritenere impossibile questa ipotesi), ma nondimeno riteniamo che l'aggettivo naviglio non fosse fuori luogo, infatti:
I) Bologna, come abbiamo visto, fu per un certo tempo una potenza marinara, come tale doveva perciò assicurarsi - per quanto possibile - una percorribilità del suo celebre Canale Navile durante tutti i periodi dell'anno;
II) le acque del Reno, durante il periodo estivo, tendono a ridurre drasticamente la loro portata ed è quindi necessario assicurare una costante presenza di acqua;
III) per assicurare un icremento delle capacità idriche del Reno si doveva, per forza, cercare risorse idriche estranee al bacino del Reno stesso da deviare al bacino del Reno stesso;
IV) l'unica risorsa idrica a cui si poteva guardare per "rinforzare" le acque del bacino del Reno è il Dardagna che risulta relativamente vicino al Reno e ricco d'acqua in tutti i periodi dell'anno (estate compresa);
V) per quanto una risorsa d'acqua importante si trattava anche di una risorsa preziosa (perché l'unica che si poteva tecnicamente deviare verso il bacino del Reno) e quindi era necessario realizzare un canale che ne impedisse (per quanto tecnicamente possibile) una dispersione lungo il traggitto.
Mettendo insieme i punti I, II, III, IV si spiega perché il canale belvederiano si potesse chiamare naviglio, mettendo insieme il punto V si comprende il perché del fatto che il Naviglio Belvederiano non potesse concludersi alle Serre di Lizzano, ma dovesse continuare il suo percorso fino a Silla.
Un opera quindi ciclopica che l'ingegno del progettista (Andrea da Savignano) rese possibile.