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Annuario 2004-2005
p. 121
Ştefan Andreescu,
Istituto di Storia “Nicolae Iorga” di Bucarest
Il grande storico d’arte bizantina, André Grabar,
dedicò molto tempo fa un saggio al tema delle “crociate nell’Europa
Orientale”, ovvero al loro rispecchiarsi nell’arte di questa area. La ricerca
prende spunto dall’analisi di una scena ampia dipinta all’interno della chiesa
di Pătrăuţi, la quale fu eretta nel 1487 da Stefano il Grande[1].
La scena alla quale si accenna, che stanzia su tutta la larghezza della parete
occidentale del pronao della chiesa, rappresenta “un gruppo di santi cavalieri
che sfilano davanti allo spettatore, in una processione grave e solenne”. Il
cavaliere in testa al gruppo è “un angelo dalle ali distese”.
L’iscrizione che lo accompagna rende chiaro che egli sia l’Arcangelo Michele.
Lasciamo André Grabar descrivere questa scena: “Montato su un bel cavallo
bianco, Michele sembra invitare i suoi compagni a seguirlo, volgendosi verso il
cavaliere che gli sta dietro, cavalcando un cavallo arancione. L’iscrizione ce
lo segnala quale Costantino il Grande. D’altronde s’intravedono la corona e la
dalmatica dell’imperatore romano e i tratti familiari del grande eroe
cristiano. A una certa distanza, alle spalle di Costantino, avanzano due santi
guerrieri adolescenti, nobilmente portati dai loro cavalli, l’uno bianco e
l’altro rosa. Sono i santi tassiarchi bizantini, Giorgio e Demetrio; il primo
tiene in cima alla sua lunga lancia un pennoncello rosso fiammante. Alla fine,
un esercito d’angeli della cavalleria celeste segue a file strette il capo
coronato e i suoi strateghi. Vi si riconoscono i due Teodoro dai volti
identici; i santi Procopio, Mercurio, Nestore, Artemio ed Eustazio, il quale
è più difficilmente identificabile e deve essere fra coloro che
li circondano”[2]. Davanti e
sopra l’intero corteo brilla una croce bianca. Essa spiega, come notò
André Grabar, il significato della scena nel suo insieme: l’imperatore Costantino
“parte per la battaglia che arrecherà la vittoria della fede cristiana;
l’arcangelo si volge per fargli vedere il segno apparso in cielo; i santi
guerrieri lo seguono e difendono il suo esercito”[3].
Particolarmente significativa è l’osservazione di
A. Grabar secondo la quale l’immagine di Pătrăuţi non è prescritta da
alcuna Erminia. Al contempo, essa non
si ritrova in nessun altro ciclo di affreschi ortodossi. Il fatto che la festa
della chiesa sia il giorno di “S.ta Croce” e che nel quadro votivo collocato
nella cella il S. Imperatore Costantino sia il mediatore che introduce il
voivoda di Moldavia e la sua famiglia a Gesù Cristo ha indubbiamente uno
stretto legame con la scena già descritta. Secondo lo stesso André
Grabar, l’erezione di una chiesa dedicata alla S.ta Croce da parte di Stefano –
“questo
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presunto
condottiero di una crociata” – significava “un omaggio ovvio al simbolo che
ispirò la sua intera attività bellica”[4].
André Grabar compì un unico errore allorquando
suppose che Pătrăuţi sarebbe stato l’unico edificio religioso dell’epoca ad
avere questa festa[5]. Anche la
festa della chiesa di Volovăţ, eretta da Stefano nel 1500, è il giorno
di “L’Elevazione della S.ta Croce”. La sua costruzione fu ultimata il 14
settembre 1502, ossia proprio il giorno in cui ogni anno si celebra la festa
dell’Elevazione della S.ta Croce[6].
Di recente è stata richiamata l’attenzione degli
studiosi interessati su un altro elemento che mette in luce l’attenzione
speciale che dimostrava Stefano voivoda per il simbolo della S.ta Croce: il suo
secondo matrimonio, con la principessa Maria di Mangop, fu officiato il giorno
di 14 settembre (1471 oppure 1472), il che suggerisce veramente che nella mente
del voivoda questo sposalizio con una discendente degli imperatori bizantini
fosse destinato, in prospettiva, a preparare la rivincita della
cristianità orientale per la tragedia del 1453[7].
Benché il giorno di 14 settembre in chiesa si legga l’Inno acatisto alla S.ta Croce, la cavalcata dipinta – molto probabilmente proprio
nell’anno 1487[8] –
all’interno della chiesa di Pătrăuţi rimanda ad un altro testo ovvero al Panegiricul împăraţilor Constantin şi Elena
(Panegirico degli imperatori Costantino
ed Elena), lavoro del patriarca Eftimie di Târnovo risalente al XIV secolo.
La più antica copia slavo-romena del manoscritto del Panegirico, invece, risale all’anno 1474
e fu opera del monaco Iacov (Jacopo) del monastero di Putna. Nella sua nota del
20 maggio 1474, l’ieromonaca Iacov precisa di aver scritto “questo codice” –
che contiene anche il Panegirico – su
ordine di Stefano voivoda “per il suo monastero di Putna”. È di
particolare rilevanza il fatto che, nella sua copia, Iacov eliminò un
passaggio che si trovava alla fine del testo di Eftimie di Târnovo, nel quale
quest’ultimo si rivolgeva direttamente allo tzar bulgaro Ivan Şisman. Il che
vuol dire, da quanto notò Emil Turdeanu in base all’esame di altre
copie, più tarde, del Panegirico,
che la lettura era destinata all’udito di un principe romeno. La successiva
scoperta del
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manoscritto
di Iacov di Putna non lasciò posto ad alcun tipo di dubbio: questo
principe era proprio Stefano il Grande[9]!
Nel testo del Panegirico,
nella forma tramandata nella Moldavia di Stefano, il miracolo della visione
della S.ta Croce si ripete esattamente tre volte e solo in diretto collegamento
con le campagne militari dell’imperatore Costantino. Possiamo leggere, per
prima, in occasione dell’apparizione che precedette la vittoria del ponte
Milvio sopra il Tevere contro Massenzio: “Andando egli [Costantino il Grande]
con l’esercito su un campo e invocando in mente l’aiuto di Dio, alle ore
meridiane, gli appare un segno divino a guisa di croce di stelle, lanciando
raggi più brillanti del sole stesso, e spronandolo in latino: «Con
questo vincerai, Costantino!»”[10].
La seconda volta, Costantino ebbe la stessa visione prima della miracolosa
conquista della roccaforte del Bisanzio dai “barbari”: “Sull’imbrunire e al
calar della notte, l’imperatore era confuso e sollevò gli occhi al cielo
e vide un’iscrizione, scritta con lettere come di seguito: «Chiamami il giorno
della tua tristezza e ti salverò e mi adorerai». Meravigliandosene,
l’imperatore non capiva che cosa significasse tutto ciò. Guardando
un’altra volta, vide lassù in cielo una croce di stelle e un’iscrizione
che diceva: «Con questo segno sconfiggerai tutti i tuoi nemici»”[11].
Finalmente, in occasione di una celebrazione della vittoria di Costantino sugli
“sciti” – sui goti, infatti – del Danubio rinveniamo per l’ultima volta in
un’evocazione della visione della croce: “E l’imperatore raggiunse subito il
fiume Danubio e, gettandovi un ponte di pietra, sottomise gli sciti, dopo che
il sacrosanto segno della croce gli apparse in cielo, come già successo
prima”[12].
Si è accennato e dimostrato che la fonte
principale di Eftimie di Târnovo è stata l’opera di uno scritto
bizantino, La storia ecclesiastica di
Nichifor Calist Xanthopoulus (ca. 1256-1317), ex prete della chiesa di S.ta
Sofia di Costantinopoli all’epoca dell’imperatore Androne II. Di fatti, in
questo scritto, il miracolo della visione della croce viene tre volte
moltiplicato[13].
Naturalmente, noi siamo interessati solo alla ricezione del motivo in Moldavia,
che condusse alla nascita dell’ammirevole scena di Pătrăuţi. Or dunque,
l’evento della moltiplicazione del miracolo della visione della croce nel Panegirico copiato e adattato
dall’ieromonaca Iacov del monastero di Putna ci spinge a vedere nella scena di
Pătrăuţi non un rinvio ad una precisa battaglia, come fu quella del ponte
Milvio del
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ottobre 312, bensì una
composizione a senso generico e con una grande carica simbolica[14].
*
* *
In un breve articolo, intitolato Arezzo e Pătrăuţi, Răzvan Theodorescu cercava, un quarto di secolo
fa, di fare un paragone, a prima vista estremamente rischiante, tra la scena
della Cavalcata di Pătrăuţi e il
ciclo della leggenda della S.ta Croce, dipinto intorno all’anno 1460 nella
cappella principale – dell’altare – della chiesa di S. Francesco di Arezzo,
nella Toscana. L’autore di questo celebre ciclo d’affreschi fu il pittore
rinascimentale Piero della Francesca. Per Răzvan Theodorescu l’opera di Arezzo
rappresenta un’espressione dell’impatto mentale che la caduta di Costantinopoli
ebbe sull’Occidente, riportando all’attualità l’idea di una crociata,
destinata ad allontanare per sempre il pericolo dell’Islam. Benché la scena di
Pătrăuţi sia “strettamente imparentata da punto di vista tematico” con alcune
di quelle dipinte ad Arezzo, “gli affreschi della cappella della piccola
città italiana, da una parte, e i dipinti del narthex monumentale
moldavo, dall’altra, si rifanno, da punto di vista stilistico, al loro mondo, i
primi all’orizzonte umanista del Rinascimento, gli altri alla visione medievale
del Levante bizantino. Tra loro non si può fare nessun altro rapporto
storico o di storia dell’arte. Sono tuttavia accomunati – di là dalla
vicinanza cronologica – da una stessa atmosfera politica, da una
mentalità alquanto simile, in un mondo ancora molto medievale che, al
sud delle Alpi e all’est dei Carpazi, nutriva nello stesso Quattrocento il
medesimo desiderio di allontanamento del pericolo comune e di ripresa, per
l’Europa, della meravigliosa città-simbolo sul Bosforo”[15].
Dopo aver visto gli affreschi di Piero della Francesca ad
Arezzo, ma anche dopo aver percorso una serie di saggi e ricerche più
recenti su questo argomento – specialmente l’eccezionale esegesi dello storico
italiano Carlo Ginzburg –, ci siamo resi conto che è possibile stabilire
un legame più stretto tra le due opere iconografiche, seppure,
stilisticamente, appartengano veramente a mondi diversi. D’altro canto, il modo
in cui, in alcune delle scene dipinte nella chiesa francescana “una cosa sia
rappresentata per mezzo di un’altra” ci permetterà di meditare di nuovo
sul significato di alcune immagini molto controverse nella Moldavia, ma non ai
tempi di Stefano il Grande, bensì di suo figlio Pietro Rareş, come ad
esempio la scena dell’Assedio di
Costantinopoli.
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Tutto quello che si sa con certezza sulla datazione degli
affreschi della cappella principale della chiesa di S. Francesco di Arezzo
è che, nell’anno 1466, essi erano compiuti. Il lavoro fu avviato nel
1447, ma da un altro pittore, Bicci di Lorenzo. Questi, però, essendosi
gravemente ammalato, fu rimpiazzato da Francesco Bacci – il committente del
lavoro – con Piero della Francesca, probabilmente nel 1452. Nello stesso tempo,
va detto che non si sa se il tema della leggenda della vera Croce fosse stato
dettato da principio a Bicci di Lorenzo essendo, dunque, ripreso insieme con la
commissione da Piero della Francesca oppure se esso fosse apparso solo nel
momento in cui quest’ultimo si accinse al lavoro ad Arezzo[16].
Il tema della leggenda della vera Croce, ispirata alla versione
della celebre Leggenda Aurea
dell’arcivescovo genovese Jacopo da Varagine (Varazze) – opera agiografica ad
ampia diffusione alla fine del Medioevo – fu coltivato in maniera tradizionale
in ambito francescano. Così, il ciclo di Arezzo fu preceduto da altri
simili tre cicli di affreschi, dei quali due furono dipinti in chiese
francescane: nella basilica S.ta Croce di Firenze da Agnolo Gaddi (1388-1393),
e nella basilica S. Francesco di Volterra da Cenni di Francesco (verso il
1410). Bisogna pur dire che l’iconografia di Cenni, a Volterra, non fa altro
che copiare quella di Agnolo Gaddi[17].
Solo che, da quanto si vedrà in seguito, ad Arezzo l’iconografia della
S.ta Croce di Firenze è seguita fino ad un certo punto, dopo di che il
programma di Piero della Francesca presenta modifiche molto significative.
Il ciclo della leggenda della Croce di Arezzo è
solitamente associato alla preoccupazione per il pericolo ottomano, dominante
nell’Italia di quell’epoca. Un fatto ben noto è quello che nel 1459 il
pontefice Pio II riunì il Congresso di Mantova appunto per discutere la
possibilità di una nuova crociata, destinata a liberare “la seconda
Roma” e a scacciare gli Ottomani dall’Europa. Tuttavia, a buona ragione, fu
formulata la seguente osservazione: “Affermare che gli affreschi di Piero
furono un appello alla crociata è eccessivo. In fondo, di che cosa
sarebbe stato capace Arezzo contro Mehmet II?” Un’eventuale spiegazione,
più antica, degli accenti antiottomani sarebbe quella che “l’interesse
ovvio di Piero per i problemi orientali poté incitarlo a collaborare
all’impresa pontificia”[18].
Senza più indugiare diremo che il più
prezioso contributo dell’ultimo quarto di secolo alla comprensione dell’opera
iconografica di Arezzo la dobbiamo allo storico Carlo Ginzburg. In quanto
segue, trarremo quasi esclusivamente da questo lavoro una serie di spunti, che
alla fine ci permetteranno di stabilire, tuttavia, un rapporto storico con
l’affresco di Pătrăuţi che Răzvan Theodorescu non credette possibile. Il merito
principale di Carlo Ginzburg è quello di aver dimostrato in maniera
convincente che dietro la modifica del
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programma
iconografico di Arezzo vi è
un’imponente personalità del mondo bizantino, ossia il cardinale
Bessarione (Visarion). Come si sa, Bessarione fece parte della delegazione
bizantina al concilio di Ferrara–Firenze, egli essendo uno dei sostenitori
molto accaniti dell’unione delle due Chiese cattolica e ortodossa.
Ritornò a Costantinopoli insieme con la delegazione bizantina, per via
marittima, intorno alla metà dell’autunno del 1439, con precisione il 19
di ottobre, arrivandoci soltanto il 1 febbraio 1440. Fu nominato cardinale il
18 dicembre 1439, e il 4 gennaio dell’anno seguente ricevette il titolo in absentia. Secondo il parere,
plausibile, di Carlo Ginzburg, fu proprio Giovanni Bacci a portargli la notizia
nella capitale bizantina. Dopo la sparizione di suo padre, Francesco, nel marzo
del 1459, il Bacci riprese l’incarico di continuare i lavori della chiesa S.
Francesco di Arezzo. In verità, una breve nota biografica, redatta verso
la metà del secolo XVII, indica Giovanni Bacci quale “chierico della
Camera Apostolica, nunzio presso
l’imperatore, giureconsulto celeberrimo” [il corsivo è nostro – Şt.
A.]. Or dunque, la menzione che fu anche “nunzio presso l’imperatore” si
può spiegare se si ammette che nel 1440 egli compì la missione
menzionata su domanda del pontefice Eugenio IV[19].
Da una prospettiva diversa, questa interpretazione
è sostenuta tramite l’analisi di un’altra opera di Piero della
Francesca, La flagellazione di Cristo,
che si trova a Urbino, nella quale, nel primo piano, un personaggio che indossa
un sontuoso mantello di broccato sembra identificabile con Giovanni Bacci, nel
momento stesso in cui porse le insegne di cardinale a Bessarione, rappresentato
anch’egli, dunque, sullo stesso panello[20].
Nel caso dell’opera in discussione abbiamo da fare, infatti, con l’approccio,
nell’ambito della stessa unità pitturale, di certi livelli di
realtà diversi – procedimento più volte adoperato nel Quattrocento
–, la realtà quotidiana o in ogni caso contemporanea essendo raffigurata
nel primo piano, mentre l’altra, la realtà sovrannaturale o, altrimenti
detto, la storia sacra, in un secondo piano, sullo sfondo[21].
Altri elementi staccatisi dall’analisi del quadro
menzionato hanno suggerito che esso contenesse un’allusione al Congresso di
Mantova e hanno spinto alla presupposizione che fu dipinto a Roma, “tra
l’autunno del 1458 e l’autunno del 1459”. In più, sembra che allora,
ovvero alla fine del 1458 oppure nei primi mesi del 1459, avesse avuto luogo un
incontro tra Bessarione, Giovanni Bacci e Piero della Francesca, che condusse
al cambio di programma iconografico di Arezzo[22].
Bisogna senz’altro aggiungere che a partire dal 10 settembre 1458 Bessarione fu
nominato protettore dell’Ordine francescano, il che trasforma il suo intervento
nella decorazione della cappella principale della chiesa di S. Francesco in una
cosa del tutto naturale[23].
Finalmente, ecco un ultimo fatto che va menzionato prima
di occuparci direttamente degli affreschi di Piero della Francesca. Nel 1451 fu
portato in Italia da
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Gregorio
Melissenos (Mammas), patriarca uniate di Costantinopoli, un cofanetto
meravigliosamente decorato, contenente una reliquia della vera Croce. Per causa
della caduta di Costantinopoli, la suddetta scatola rimase definitivamente in
Italia. Gregorio, poco prima della sua morte, che avvenne intorno al 20 aprile
1459, lasciò in eredità la preziosa reliquia a Bessarione. Il
fatto che il frammento dalla vera Croce provenisse dall’imperatore Giovanni
VIII Paleologo, che lo aveva regalato al patriarca Frigorie, il suo confessore,
spiegherebbe l’introduzione del ritratto dell’imperatore bizantino nel ciclo di
Arezzo. Tanto più quanto Bessarione era stato legato sin dalla giovinezza
a Giovanni VIII, con il quale era venuto a Firenze nel 1438 per l’attuazione
dell’unione delle Chiese, e per il conseguimento del molto atteso aiuto
destinato a salvare il Bisanzio dalla scomparsa[24].
Vediamo ora, in breve, il contenuto della leggenda della
vera Croce, così come appare nella versione di Jacopo da Varagine (XIII
secolo) e come fu ripresa da Carlo Ginzburg. Alla vigilia della sua morte,
Adamo si ricordò che l’arcangelo Michele gli aveva promesso un olio
miracoloso che avrebbe salvato la sua vita. Mandò suo figlio Set alle
porte del Paradiso, ma costui ricevette dall’arcangelo solo un ramoscello dal
quale sarebbe schizzato l’olio della redenzione. Ciò sarebbe avvenuto
soltanto fra cinquemila e cinquecento anni. Quando Set ritornò a lato di
suo padre, lo trovò morto. Allora piantò il ramoscello sulla sua
tomba. Ne spuntò un albero che Solomone cercò in vano di
utilizzare per la costruzione del Tempio: ogni volta che il legno era tagliato,
si dimostrava sia troppo grande sia troppo piccolo. Ci si rinunciò e fu
gettato come ponte sopra il fiume Silo. Quando la regina di Sabba andò
da Solomone, scorse il legno ed ebbe una visione. Perciò, invece di
attraversare il ponte, ella v’inginocchiò davanti. Poi disse
profeticamente a Solomone che da quel legno sarebbe arrivata la fine del regno
dei Giudei. Per ostacolare il compimento della profezia, Solomone lo fece
interrare in profondo nella terra. Il legno, però, spuntò fuori e
ne fu fatta la croce sulla quale fu crocefisso Gesù Cristo. Trecento
anni più tardi, nel mezzo della battaglia del ponte Milvio contro
Massenzio, Costantino a sua volta ebbe una visione: gli si presentò un
angelo che lo esortò di combattere sotto il segno della Croce. E
così che Costantino vinse e divenne imperatore di Roma. Quindi si
convertì e inviò sua madre, Elena, a Gerusalemme, a cercare il
legno della vera Croce. Là, l’unica persona che sapeva dove esso si
trovasse era l’ebreo Giuda. Poiché non volle parlare, l’imperatrice lo fece
gettare in una fontana seccata. Sette giorni più tardi, tolto fuori
della fontana, Giuda confessò che la bramata Croce era interrata sotto
il tempio dedicato alla dea Venere. Elena fece demolire il tempio e così
furono portate alla luce le tre croci del momento della crocifissione di
Cristo. La vera Croce fu individuata tra esse solo quando, al contatto con un
giovane morto, costui risuscitò. L’imperatrice la riportò
solennemente a Gerusalemme. Dopo altri trecento anni, la reliquia fu rubata dal
“re” persiano Cosroes che la mise sopra un altare insieme con altre cose
idolatre. Eraclio, l’imperatore dell’Oriente, sconfisse Cosroes è lo
fece decapitare. Venne a Gerusalemme in gran trionfo, ma trovò le porte
della fortezza sprangate. Esse si aprirono solo nel momento in cui, dopo aver
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ascoltato
l’esortazione di un angelo, Eraclio decise di imitare l’umile ingresso di
Cristo nella Gerusalemme. E così che la reliquia della vera Croce
ritornò al S. Sepolcro.
A Jacopo da Varagine questa storia è divisa in
due, in funzione del calendario liturgico. La sezione della leggenda, compresa
tra la morte di Adamo e la riconsegna della reliquia a Gerusalemme da parte
dell’imperatrice Elena, corrisponde alla giornata di 3 maggio, quando i
cattolici festeggiano il Ritrovamento della S.ta Croce. Il resto del racconto,
invece, è collegato all’altra festa dell’Elevazione della S.ta Croce del
14 settembre[25]. Rispetto
all’iconografia tradizionale del ciclo della leggenda della vera Croce, le
novità appaiono negli affreschi di Arezzo, a cominciare dal registro
mediano e nella zona inferiore. Le scene che sono rilevanti per quest’aspetto
sono: 1. La scena della Visita della
regina di Sabba a Solomone, che prima non c’era tra le rappresentazioni
pitturali della leggenda della S.ta Croce; 2. La trasformazione del Sogno d’Eraclio, dell’affresco di Agnolo
Gaddi della basilica S.ta Croce, nel Sogno
di Costantino; 3. La scena della Vittoria
di Costantino su Massenzio, che non compare nell’affresco di Firenze; 4. La
rappresentazione di Costantino, nella scena della Vittoria, con i tratti dell’imperatore Giovanni VIII Paleologo[26].
È ovvia, nel ciclo di Arezzo, l’intenzione di
mettere in risalto la figura di Costantino, quella che, a buona ragione, fece avvertire
in questa prova un’allusione al tema della crociata. Da un’altra parte
però, già dal 1957, Constantin Marinescu richiamò
l’attenzione sul fatto che, in realtà, Piero della Francesca dipinse
l’imperatore Giovanni VIII Paleologo due
volte, poiché anche nella scena del Sogno
di Costantino la figura del penultimo imperatore del Bisanzio può
essere facilmente riconosciuta[27].
Il merito di Constantin Marinescu è ancora più importante per
quanto riguarda l’individuazione dell’origine
delle modifiche del programma iconografico di Arezzo. È vero, con
un’altra occasione egli sostenne con fermezza che vi ci confrontiamo con un
incatenamento bizantino. E quale prova del fatto che, da punto di vista
iconografico, la leggenda della Croce era collocata nel mondo bizantino del
IXsecolo indicò il codice greco 510 della Biblioteca Nazionale di Parigi[28].
Il relativo manoscritto, risalente al 879 o al periodo 880-886, racchiude a un
certo punto – senza alcun legame con il testo! – un gruppo di tre miniature: il
sogno di Costantino, la battaglia del ponte Milvio e il ritrovamento della S.ta
Croce da parte dell’imperatrice Elena[29].
Secondo Constantin Marinescu, quindi, nel Bisanzio, questi temi iconografici
corrispondevano a “molti secoli prima dell’epoca di Piero della Francesca ”.
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Il fatto che l’imperatore Costantino non compare affatto nel ciclo dipinto da Agnolo Gaddi nella
basilica S.ta Croce di Firenze, mentre invece ad Arezzo esiste una chiara
preoccupazione per metterlo nelle vesti di una “vedette”, ci convince che nelle
pitture di Piero della Francesca è presente – di là della
preoccupazione per l’illustrazione dei testi della Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine – anche il programma
iconografico bizantino, che era veramente incentrato per lo più sulla
figura di Costantino. In queste condizioni, ci sembra del tutto naturale
considerare che la modifica d’accento sia il risultato dello stretto legame che
l’ex metropolita di Nicea, Bessarione, ebbe a partire dal 1458-1459, con la
seconda fase di esecuzione dei lavori di pittura della cappella Bacci di
Arezzo. Da un altro canto, in questo modo abbiamo fissato i tratti fondamentali
che stabiliscono il legame tra gli affreschi di Arezzo e Pătrăuţi.
Le due scene maggiori di Arezzo, destinate ad attirare
l’attenzione dello spettatore tanto per le loro dimensioni eccezionali, quanto
per la loro collocazione ad altezza umana, sono quelle sulle pareti laterali,
nel registro inferiore: sulla sinistra fu dipinta la sconfitta e la
decapitazione di Cosroes, mentre sulla destra la vittoria di Costantino contro
Massenzio. Il messaggio propagato da questi dipinti può essere
facilmente decifrato se guardiamo le bandiere. Vediamo così, nella prima
scena ricordata, sulla destra, vicino al trono di Cosroes, la bandiera … ottomana,
con la semiluna, piegata verso terra. Nella stessa zona, s’intravede il
vessillo moro stracciato e, accanto, sullo stendardo nero con la vetta della
lancia recisa, si scorge uno scorpione, simbolo dell’eresia e della mancanza di
religiosità. Invece, verso la metà dell’immagine possiamo
ammirare la bandiera crociata – croce bianca su fondo rosso –, insieme con le
insegne pontificie – il leone rampante di Paolo II, eletto pontefice il 30
agosto 1464 – e con quelle dell’Impero romano-germanico. Tra questi ultimi due
stendardi s’intravedono i gigli angioini su fondo azzurro. Chiunque, dunque,
può accorgersi che ci troviamo davanti a un manifesto per una crociata,
destinata a liberare la Cristianità orientale29 bis. Quanto
all’altra immagine, sulla parete opposta, che rappresenta la battaglia del
ponte Milvio, assistiamo in pratica alla fuga di Massenzio e dei suoi soldati,
dopo la conclusione dello scontro. Sulle bandiere dei combattenti sono
raffigurati il drago e la testa di moro.
Siamo, di conseguenza, invitati a capire che quello che vediamo davanti ai
nostri occhi è, da un lato, la fine del paganesimo, e dall’altro la
crociata – ambita da tutti – per la liberazione dai “saraceni”.
*
* *
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Ritornando in Moldavia, ma questa volta nella Moldavia di
Pietro Rareş e, avendo in mente quanto detto sopra, meditiamo di nuovo sul
significato della famosa scena dell’Assedio
di Costantinopoli, dipinta sui muri esterni, molto “in vista”, cioè
ad altezza umana e, in genere, accanto all’ingresso nelle chiese. Si sa che
quest’immagine illustra la prima strofe, la strofe introduttiva, dell’Inno Acatisto. Altresì, in
maniera tradizionale, quest’immagine rappresenta l’assedio di Costantinopoli da
parte dei persiani, nel 626, che, secondo la leggenda, fu respinto grazie
all’intervento miracoloso della Vergine. Solo che nei dipinti di Moldavia
appaiono delle innovazioni che fanno pensare: gli assediatori indossano abiti
turchi e per l’assedio fanno uso di … canoni! Solo nella chiesa di Arbure,
dipinta nel 1541, nella scena in discussione non ci compaiono né Turchi né …
canoni! Inoltre, l’iscrizione sopra l’immagine precisa, come per non lasciare
più spazio al dubbio, che ci confrontiamo con l’assedio di
Costantinopoli da parte dei persiani, del 626. La maniera in cui, ad Arezzo,
furono “attualizzate” le scene con le vittorie di Costantino e di Eraclio ci
determina a condividere il punto di vista di Sorin Ulea con riguardo al
significato attribuito alla scena dell’Assedio
sulle facciate delle chiese moldave: lontani da trattarsi di un “anacronismo”
oppure, al contrario, dell’illustrazione della caduta del 1453, l’adattamento
fattosi qui ebbe un altro senso. Esso suggerisce che, così come la
Vergine aiutò i Bizantini a sconfiggere e ad allontanare i persiani,
nello stesso modo può appoggiare i moldavi per lo sterminio dei pagani
ottomani[30]. Di tutte
le interpretazioni proposte finora, a nostro parere, questa rimane la
più plausibile[31].
Lo stesso Sorin Ulea, ha fatto, da un’altra parte, anche la considerazione
secondo la quale nella scena dell’Assedio
la fortezza circondata e attaccata sia dal mare che dalla terra ha, infatti,
una doppia identità: in verità, essa rappresenta Costantinopoli,
ma al contempo anche Suceava e, per estensione, l’intera Moldavia[32].
Gli diamo ragione per questa volta, perché negli affreschi di Piero della
Francesca, più esattamente nella scena Il ritrovamento e la messa alla prova della vera Croce, si è
notato che l’immagine di Gerusalemme sia di fatti quella della città di
… Arezzo[33]!
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Molto interessanti sono le circostanze in cui riapparve,
nella pittura moldava, la scena de La
Cavalcata dell’imperatore Costantino. Sorin Ulea ha scoperto questa scena
sul muro occidentale del pronao della chiesa di Arbure. Per via del contesto
politico, ossia la riconciliazione di Pietro Rareş con gli Ottomani, il che gli
permise di rioccupare il seggio principesco nel 1541, la scena dell’Assedio di Costantinopoli sulle pareti
esterne della chiesa di Arbure riacquistò – come abbiamo accennato – il
significato iniziale. Secondo Sorin Ulea, “per accentuare che non si tratta se
non di un cambiamento di forma imposto dalle necessità del momento e che
l’idea antiottomana continua a vivere” l’artista di Arbure riportò
all’attualità la Cavalcata
dell’imperatore Costantino. La dipinse, però, all’interno
dell’edificio ovvero in maniera più discreta[34].
Tuttavia le ricerche più recenti hanno stabilito
che Stefano il Grande concluse quella che si potrebbe chiamare la sua pace
definitiva con l’Impero Ottomano nel mese di aprile dell’anno 1486[35].
La costruzione e la pittura della chiesa di Pătrăuţi, con la sua famosa scena,
risale all’anno seguente. Il parallelismo delle situazioni di Arbure e di
Pătrăuţi ci sembra, in queste condizioni, evidente: in entrambi i casi la scena
della Cavalcata appare in un preciso
contesto storico, il che suggerisce che sia stata investita con un significato
identico. Dal piano concreto, delle realtà probabili in un intervallo
più lungo o più breve, l’idea di crociata, che guida la genesi di
quest’immagine, sembra di aver trasceso per mezzo di essa in uno spazio
atemporale delle speranze di un futuro del tutto imprevedibile.
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[1] L’iscrizione votiva è del 13 giugno 1487, si veda
Repertoriul monumentelor şi obiectelor de
artă din timpul lui Ştefan cel Mare, Bucarest 1958, pp. 60-61.
[2] André Grabar, Les
croisades de l’Europe orientale dans l’art, in Mélanges Charles Diehl, vol. II, Parigi 1930, p. 19.
[3] Ibidem, p. 20.
[4] Ibidem, p. 21.
[5] Ibidem.
[6] Repertoriul
cit., pp. 182-183. È sicuro che la festa della chiesa di Pătrăuţi sia la
stessa con quella di Volovăţ dato che un Tetravangelo,
il quale fu copiato su ordine della principessa Maria e ultimato il 30
settembre 1493 “con lo sforzo” di Toader diacono, fu regalato al primo luogo di
culto, dove si trovava “la casa dell’Elevazione della S.ta Croce di Dio” (Ibidem, p. 403). D’altronde, nel mondo
cattolico esistono soltanto due simili feste: Inventio Crucis, il 3 maggio, ed Exaltatio Crucis, il 14
settembre. Abbiamo fatto queste precisazioni perché nell’iscrizione di Pătrăuţi
sta scritto solo che la chiesa fu dedicata alla “S.ta Croce”.
[7] Maria–Magdalena Székely, Ştefan S. Gorovei, “Semne şi minuni” pentru Ştefan voievod.
Note de mentalitate medievală, in “Studii şi materiale de istorie medie”,
XVI, 1998, pp. 53-54.
[8] Ho adottato la datazione proposta da Sorin Ulea, Gavril Ieromonahul, autorul frescelor de la
Bălineşti. Introducere la studiul picturii moldoveneşti din epoca lui Ştefan
cel Mare, in Cultura moldovenească în
timpul lui Ştefan cel Mare (Culegere de studii), a cura di Mihai Berza,
Bucarest 1964, p. 447.
[9] Gheorghe Mihăilă, Cultură
şi literatură română veche în context european (Studii şi texte), Bucarest
1979, pp. 206-261 e pp. 263-264; Andrei Pippidi rilevò il parallelismo
tra il modello di comportamento esaltato nell’opera di Eftimie e alcune gesta
di Stefano il Grande, il che dimostra chiaramente che il principe moldavo
cercò di imitare Costantino (Idem, Tradiţia
politică bizantină în ţările române în secolele XVI-XVIII, 2a edizione
revisionata e aggiornata, Bucarest 2001, pp. 102-103).
[10] Gh. Mihăilă, op.
cit., p. 237 e p. 339; la notte seguente, a Costantino comparì in
sogno Gesù Cristo che gli ordinò di mettere il segno della croce
in fronte ai suoi soldati. In questo modo, avrebbe sconfitto non solo
Massenzio, ma anche i suoi altri nemici.
[11] Ibidem, p. 240
e p. 346.
[12] Ibidem, p. 241
e p. 347.
[13] Ibidem, p.
230.
[14] Sorin Ulea, al contrario, crede che nell’affresco di
Pătrăuţi “si tratta […] della trasposizione iconografica della famosa leggenda
raccontata da Eusebio nella Vita
Constantini, secondo la quale, Costantino partito alla lotta di difesa
della Cristianità, avrebbe visto, strada facendo verso Roma, sopra il
sole al tramonto, una croce splendente con a fronte le parole:
«Toΰτω vίκα» (Con questo vinci)” (Istoria artelor plastice în România,
vol. I, a cura di George Oprescu, Bucarest 1974 p. 19).
[15] Il saggio di Răzvan Theodorescu, apparso prima sulla rivista
“Viaţa Studenţească”, fu ripreso nel volume di Idem, Istoria văzută de aproape, Bucarest 1980, pp. 80-83.
[16] Carlo Ginzburg, Enquête
sur Piero della Francesca (Le «Baptême», le cycle d’Arezzo, la
“Flagellation” d’Urbino), traduzione di Monique Aymand, Parigi 1983, 166
pp. + 94 ill. in bianco e nero (edizione originale in lingua italiana apparsa a
Torino nel 1981).
[17] Ibidem, p. 49.
[18] Si veda Paul Warzée, Les
maîtres italiens au XVe siècle (1420-1500), Skira 1973,
p. 46 (La grande histoire de la peinture,
vol. III).
[19] C. Ginzburg, op.
cit., pp. 95-97.
[20] Ibidem, p. 80
e pp. 90-95.
[21] Ibidem, p. 81,
p. 82 e p. 97.
[22] Ibidem, pp.
86-87 e p. 99.
[23] Si veda Dizionario
biografico degli italiani, vol. IX, Roma 1967, p. 688 (l’articolo dedicato
a Bessarione, molto dettagliato, è firmato da L. Labowsky); C. Ginzburg,
op. cit., p. 57.
[24] Ibidem, pp.
57-58.
[25] Si veda Jacques de Voragine, La légende dorée, vol. I, traduzione di J.–B. M. Roze, Parigi 1967,
pp. 341-350 e Ibidem, vol. II, pp.
192-198; Jacopo da Varazze, Leggenda
Aurea, a cura di Alessandra e Lucetta Brovalone, Torino 1995, pp. 380-388
(Cap. LXVIII: “L’invenzione della S.ta Croce”) e pp. 750-756 (Cap. CXXXVII:
“L’esaltazione della S.ta Croce”); C. Ginzburg, op. cit., pp. 49-51; si veda anche Peter and Linda Murray, The Oxford Companion to Christian Art and
Architecture, Oxford–New York 1996, pp. 545-546.
[26] C. Ginzburg, op.
cit., pp. 53-54.
[27] Comptes rendus de
l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, Parigi 1957, p. 32.
[28] Constantin Marinescu, Echos byzantins dans l’œuvre de Piero della Francesca, in
“Bulletin de la Société Nationale des Antiquaires de France”, 1958, p. 194.
[29] Si veda Kurt Weitzmann, Bizantine Book Illumination and Ivories, vol. IV, Londra 1980, p.
87, pp. 126-128 e p. 134.
29 bis Cf. André
Castel, L’Italie et Byzance, edizione
a cura di Christiane Lorgnes–Lapouge, Parigi 1999, pp. 262-263, per il quale il
leone sarebbe “peut-être l’emblème de Bohême ou des
Flandres. Dans un cas c’est une référence à l’Europe centrale, dans
l’autre au grand-duché de Bourgogne”. Dall’altra parte, A. Chastel sostiene che
lo stendardo a croce bianca su fondo rosso è “le nouvel étendard de la
France”. L’emblema sullo stendardo dell’estremità sinistra della scena,
che rappresenta un cigno o un alcione (uccello fiabesco), sarebbe dell’Ordine
cavalleresco fondato da Federico di Hohenzollern nel 1440.
[30] Sorin Ulea, L’origine
et la signification idéologique de la peinture extérieure moldave (I), in
“Revue Roumaine d’Histoire”, II, no. 1, 1963, pp. 41-47.
[31] La più recente interpretazione appartiene a Sorin
Dumitrescu, Chivotele lui Petru Rareş şi
modelul lor ceresc (o investigaţie artistică a bisericilor-chivot din nordul
Moldovei), Bucarest 2001, pp. 78-80 e pp. 168-169: “il prototipo al quale
rimanda [la scena dell’Assedio] non
è, però, come si credeva, né l’assedio dei persiani di Cosroes,
né la presa di Costantinopoli, bensì la figurazione del lavoro della
Pronia nella storia”.
[32] S. Ulea, L’origine
cit., p. 57.
[33] Una guida recente della città di Arezzo pubblica
un particolare della scena Il
ritrovamento e la messa alla prova della Vera Croce, con la seguente
spiegazione: “La leggenda della Vera Croce: particolare della veduta di Arezzo
e del ritrovamento della Croce”. Guardando con attenzione ci accorgiamo di
avere davanti agli occhi la fortezza medievale toscana, poiché essa si è
conservata benissimo fino ad oggi e può essere facilmente messa a
confronto con l’immagine dipinta da Piero della Francesca.
[34] S. Ulea, L’origine
cit., pp. 49-50 e p. 61; secondo un altro parere, la pittura interiore di
Arbure risalirebbe agli anni 1503-1504 ovvero all’intervallo 1503-1511 (Ion I.
Solcanu, Datarea ansamblului de pictură
de la biserica Arbure (I). Pictura interioară, in “Anuarul Institutului de
Istorie şi Arheologie «A. D. Xenopol»”, XII, 1975, pp. 35-55; R. Theodorescu,
I. Solcanu e Tereza Sinigalia, Artă şi
civilizaţie în timpul lui Ştefan cel Mare, [Bucarest] 2004, p. 71).
[35] Nicoară Beldiceanu, Jean–Louis Bacqué–Grammont, Matei
Cazacu, Recherches sur les Ottomans et la
Moldavie ponto-danubiennes entre 1484 et 1520, in “Bulletin of the School
of Oriental and African Studies”, XLV/1, 1982, pp. 51-52; Tashin Gemil, Quelques observations concernant la
conclusion de la paix entre la Moldavie et l’Empire ottoman (1486) et la
délimitation de leur frontière, in “Revue Roumaine d’Histoire”,
XXII, no. 3, 1983, p. 235.