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Istituto Romeno’s Publications
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Annuario 2004-2005
p. 449
Mirela Andrei,
Università degli Studi “Babeº-Bolyai” di
Cluj-Napoca
La storia delle mentalità collettive si propone di
studiare quello che cambia più difficilmente nel corso del tempo,
intende analizzare, capire e far capire certe reazioni, sentimenti,
atteggiamenti comuni ad una collettività. Questo settore assai generoso
della storia ha avviato un nuovo indirizzo storiografico che mette al centro dell’attenzione
non l’individuo o l’avvenimento, ma il gruppo, la massa anonima, il volgo. Un
argomento di studio stimolante per lo storico delle mentalità collettive
è il mito – la mitologia – visto che esso è più impregnato
di sentimento, si avvicina di più alla sensibilità ed è,
quindi, in maggiore misura, l’appannaggio
dell’irrazionale e dell’inconscio, che piuttosto quello della ragione e del
conscio. Il contenuto del mito è fantasioso, perché crea un mondo
diverso da quello dell’esperienza quotidiana, raccontando degli avvenimenti
straordinari, i cui personaggi sono degli esseri con poteri ed attributi fuori
dal comune. Questa tendenza di farneticare e di costruire un mondo illusorio migliore della realtà sorge proprio da quella
particolarità, specifica della sensibilità umana, di sfuggire ad
un presente deprimente per vivere nel passato, dal quale si conservano,
solitamente, solo le impressioni favorevoli, oppure nel futuro, sperando che
questo destini soltanto delle belle cose. Il
mito resta tale soltanto nel periodo in cui
viene riconosciuto il carattere sacro dell’evento o dell’eroe intorno al quale
esso si sia coagulato.
Oltre alla sua sostanza immaginaria e fantastica, il mito
contiene sempre un livello reale, visto che parte da un fatto e da un contenuto
veridici. Il mito è “una riflessione ed una proiezione delle azioni
della vita reale”[1] che
“racconta una storia sacra” – cioè vera, narra un avvenimento accaduto,
parla soltanto di “quello che è veramente successo, di ciò che
è del tutto avvenuto”[2].
Il mito, “espressione per eccellenza del pensiero collettivo”[3],
lo incontriamo particolarmente al livello delle società tradizionali,
governate da una mentalità collettiva, in cui l’individuo non ha un
proprio sistema per ragionare, per percepire il mondo circostante, non si
è ancora costruito dei concetti coscienti e logici. In un ambito del
genere, l’apparizione ossia l’“invenzione” di un mito è la cosa
più naturale. Ciò non vuol dire che le società moderne non
conoscono anche esse dei miti. Il mondo ha sempre bisogno di miti, è
assettato di sogni collettivi, soltanto che la società moderna ha spinto
assai lontano la desacralizzazione della vita e dell’universo, portando ad “un
processo di scioglimento semantico e di estensione anormale delle accezioni
della voce mito, la qualità di mito potendo accompagnare qualsiasi fatto di cultura”[4].
In questo senso, si parla del
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mito
dell’automobile, del sapone, del calcio, della società dei consumi, il
mito di Superman, il mito delle Bermuda ecc., ciò che non può
esser altro che una ridicola esagerazione, visto che, ad esempio, tra la parola
mito, che è un’astrazione, e
l’automobile, cosa concreta, non può esistere alcuna filiazione reale.
Possiamo solo affermare che “la novità del mondo moderno si traduce
tramite la rivalorizzazione ad un livello profano degli antichi valori sacri”[5].
Nell’intento di definire il mito, potremmo partire
dall’idea che tutti i specialisti nel settore ritengono che formulare una
definizione unitaria e generalmente accettata del mito sia quasi impossibile[6],
visto che abbiamo a che fare con una realtà complessa ed inoltre con una
tipologia varia di miti, a cominciare dai miti dell’antichità fino a
quelli del “nuovo mondo” oppure quelli medioevali, per arrivare a considerare
quali miti certe opere letterarie come Faust,
Hamleto, Don Giovanni o persino degli oggetti concreti. Tuttavia, una delle
più pertinenti definizioni del mito ce la fornisce un eccellente
specialista in mitologia, Mircea Eliade, il quale afferma che “il mito è
una realtà culturale estremamente complessa, il cui approccio ed
interpretazione si possono fare da prospettive molteplici e complementari”[7];
esso racconta una “storia sacra” e dei fatti esemplari, i cui protagonisti non
possono essere che degli eroi dalle straordinarie qualità. La
realtà mitica è un terreno estremamente scivoloso che non si
lascia afferrare in un’analisi e, quindi, in definizioni rigorose, essa non
può essere mai sorpresa in tutti i suoi aspetti. Soltanto chi vive il
mito attraverso la propria sensibilità può cogliere la sua
profonda realtà; visto da fuori, il mito è intento a svuotarsi
dal suo contenuto emozionale. Nella storia europea dei tempi moderni esistono
alcuni miti e mitologie politiche come la denuncia di una cospirazione malefica[8],
la fiducia nell’esistenza di un’età d’oro andata perduta, la speranza in
un paradiso futuro o in una rivoluzione liberatrice o restauratrice, il mito
del progresso – molto di moda a fine Ottocento e all’inizio del Novecento – il
mito del socialismo, il culto del leader
carismatico oppure la fede in un eroe salvatore ecc. Uno dei più
veicolati miti politici è quello dell’eroe salvatore[9],
che si presenta nella mentalità collettiva come l’eroe chiamato a
decongestionare ed a ripristinare una data situazione, nel suo stato legittimo
precedente. Egli è quello che riesce ad allontanare le forze del male,
essendo sempre associato al simbolo della luce, è quello chiamato a
restaurare un ordine rovesciato, ad esaudire un desiderio collettivo di grande
portata.
Per i romeni della Transilvania – come, d’altronde, per
tutte le nazionalità della monarchia austriaca – all’imperatore fu
talvolta attribuito questo statuto di salvatore, percepito ed invocato come
possibile liberatore dei romeni dal misero stato politico e sociale
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in
cui essi erano collocati, quello che avrebbe potuto inclinare la bilancia del
potere a favore dei romeni. La fede stessa nel “buon imperatore”
acquistò un valore salutare per il fatto che essa rappresentava la
speranza dei romeni nel miglioramento della loro situazione, nel trionfo del
bene sul male e della verità sulla menzogna; essa è la speranza
che spesso dà loro la forza di vivere e di combattere contro le
avversità del destino. Nell’intento di ricostruire la realtà
storica della nascita del mito del “buon imperatore”, vanno prima chiariti
certi problemi: i suoi limiti – quando e come nasce? quando e in che contesto
sparisce? – e la maniera in cui si è manifestata durante la sua
esistenza. Perifrasando G. Cocchiara – un grande folklorista di origine italiana
– il quale diceva che “prima che la ferocia sia stata scoperta, è stata
per forza inventata”[10]
dalle genti che vissero tra il Cinquecento e il Settecento, obbedendo ai loro
interessi morali, politici e sociali, potremmo affermare per analogia che il
mito del “buon imperatore” – nel nostro caso – è stato inventato a fine
Settecento e inizio Ottocento, come una risposta alle speranze ed alle imprese
politiche dei romeni, allo scopo di ottenere alcuni diritti che spettavano
loro, ma che, lungo il tempo, erano stati trasgrediti dalla nobiltà
ungherese. Tuttavia i suoi limiti non si possono stabilire con certezza,
proprio perché non si è mai potuto fissare il punto zero nella nascita
di un mito, come, d’altronde, non si è potuto determinare neanche la
data precisa della sua sparizione. Il mito non appare all’improvviso, la sua
nascita è una trasformazione tramite cui i dati preesistenti sono
rimodellati e risignificati a seconda delle tensioni sociali di una data epoca.
Presso i romeni troviamo uno sfondo preesistente predisposto a far sorgere la
fede in un buon sovrano, nel senso di eroe trovato “in un perpetuo stato di
tensione creatrice di beni e di valori storico-culturali che toccano il sublime
e procurano l’ammirazione della gente”[11].
Un tale sfondo esiste dai tempi più lontani,
formatosi probabilmente una volta con l’apparizione dell’imperatore Traiano
nella vita e nella storia del popolo della Dacia. Benché avesse invaso a due
riprese la terra dacica, pacificando i daci tramite il miscuglio di sangue e
trasformando la Dacia in provincia romana, egli è rimasto nella
coscienza etnica dei daco-romani un eroe storico mitizzato per i suoi fatti di
cultura, tramite i quali aveva promosso i nostri antenati nella schiera dei
popoli antichi di alta cultura e civiltà[12].
Possiamo capire, in questo modo, che effetto faceva per i romeni sottomessi
alla dominazione degli Asburgo la possibilità di servire un imperatore
romano, anche se di origine tedesca. Questa tendenza verso sentimenti
proimperiali non sparì lungo il tempo, poiché i romeni videro negli
imperatori bizantini gli eredi di quelli romani e allo stesso tempo i
rappresentanti sovrani del Cristianesimo ortodosso, nei confronti dei quali
manifestavano grande venerazione, anche se da una certa distanza.
Al delinearsi della fede nella monarchia austriaca
contribuisce, oltre a tutto questo, anche la concezione cristiana dei romeni
sulla dominazione, sul potere, che per essi incarnava l’espressione della
volontà divina – il suo titolare essendo il mandatario della grazia
divina – in nome del quale l’imperatore emette ordini e leggi, e rende
giustizia.
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Da
questo punto di vista sorge quest’atteggiamento pacifico nei riguardi della
monarchia, il ribellarsi contro la volontà e le leggi imperiali essendo
considerato pericoloso e rischioso, nonché illegittimo, visto che la
legittimità non può venire che dall’imperatore, il ministro di
Dio sulla terra. Questa concezione è stata funzionale presso tutti i
popoli dell’Europa centrale ed orientale, visto che tutti i moti di quest’area
“non hanno un contenuto antimonarchico, anche se alcuni di essi presentano
degli effetti solventi per il quadro politico-statale esistente”[13].
L’aura mistica che circonda il sovrano, il carattere carismatico, conferitogli
dall’unzione con l’olio santo, fanno del monarca una persona sacra ed
intangibile. Si è già accennato che ciascun mito contiene in sé
un seme di verità, che parte da fatti ed eventi reali. Per illustrare
quest’idea, si cercherà di dimostrare che il mito del buon sovrano
austriaco parte da fatti storici concreti, sintetizzati nel riformismo
terenziano-giuseppino. Ed ecco che sopra lo sfondo romeno preesistente e
predisposto alla fede nella bontà e nei buoni intenti monarchici si
sovrappone la politica “illuminata” dell’imperatrice Maria Teresa e del suo
figlio Giuseppe II.
I metodi impiegati nella coltivazione del patriottismo
dinastico nella coscienza dei romeni sono vari: scuola, chiesa, servizio
militare, amministrazione, intento di regolare i rapporti tra i servi della
gleba e la nobiltà[14].
Da notare nel processo di attivazione della fede nel “buon monarca” è
anche il fatto che Giuseppe II, oltre all’interesse effettivo per il destino
dei suoi sudditi, manifestato durante le tre visite in Banato e in
Transilvania, aveva riconosciuto i romeni quali eredi degli antichi romani,
appunto nel periodo in cui essi cominciavano a prendere coscienza della loro
propria origine.
È ben noto il fatto che in quel periodo gli
imperatori dell’Austria conservavano ancora il titolo di “imperatore romano”,
mentre Giuseppe II ne accentuò la nobiltà, affermando che era
fiero di avere dei sudditi romeni di origine latina, fatto provato soprattutto
dalla lingua che essi parlano – il romeno – una lingua romanza, e inoltre
grazie a loro si sentiva veramente un imperatore romano. L’atteggiamento dei
suddetti imperatori, realmente vicini e sensibili ai problemi dei propri
sudditi, nonché la politica austriaca di stimolazione dell’elemento romeno
dell’impero, parallelamente alla strategia politica di limitazione del potere
della nobiltà, la cui esistenza si giustificava soltanto in base ai
diritti ereditari e di sangue, concorreranno alla nascita della fede nel “buon
imperatore”, del patriottismo dinastico, tanto al livello della coscienza
popolare, quanto a quello dell’élite laica ed ecclesiastica. D’altronde,
le misure avviate miravano ad attirare e a collaborare con l’intelligenza
romena, il potere essendo persuaso della necessità di conquistare la sua
simpatia e la sua fiducia. Giuseppe II stesso ne era convinto, affermando in un
suo ordine che nessuno può avvicinarsi ai romeni prima di aver
guadagnato la fiducia dei loro bravi, ai quali essi si sottomettono ed
obbediscono incondizionatamente[15].
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Certo è che lo scopo della politica imperiale
è stato raggiunto. Il patriottismo dinastico non fu un’utopia, ma una
realtà che nacque e agì in una prima fase al livello dell’élite.
David Prodan parla della fedeltà degli intellettuali nei confronti della
dinastia e dei meccanismi interni che fecero scattare un tale sentimento: “Di
lui [dell’imperatore] l’intellettualità romena parla come se fosse il
più grande benefattore della nazione romena. Egli soltanto conobbe le
sue sofferenze e cercò di mitigarle, solo lui la inserì tra i
cittadini della patria”[16].
Per di più, si deve considerare il fatto che quest’élite divenne
nel corso del tempo il prodotto dell’istruzione viennese e che, in una certa
misura, essa arrivò ad essere, anche se indirettamente, lo strumento
della politica dello stato austriaco, soprattutto nel periodo anteriore alla
contaminazione con le idee liberali dell’epoca, che avevano cominciato a
diffondersi dalla Francia verso gli altri paesi europei.
Nell’intento di chiarire il problema della nascita del
mito del “buon imperatore”, si potrebbe dire che esso prende forma durante la
vita di Maria Teresa, si sviluppa sotto Giuseppe II, ma si manifesta
prevalentemente solo dopo la morte dell’imperatore. Ci avvaliamo, nel fare
quest’asserzione, del fatto che il mito nasce dal carattere di primordialità
e di esemplarità di un avvenimento ed ha il significato di una rivincita
sulla realtà contemporanea. Nel nostro caso il momento esemplare lo
costituisce l’epoca gloriosa di Giuseppe II, mentre la realtà
contemporanea è quella del periodo successivo al suo decesso, quando i
suoi eredi non mostrarono di essere altro che gli imitatori di un archetipo –
il modello offerto da Giuseppe II –, realtà tanto meno desiderata, anche
a causa delle difficoltà accadute nel contesto delle guerre napoleoniche.
Data questa situazione, l’intento di evadere dalla realtà per ritornare
all’“età d’oro” che la nazione romena conobbe sotto Giuseppe II appare
come naturale, mentre i soventi richiami dei benfatti ottenuti durante il regno
di quest’imperatore faranno sorgere la nostalgia del periodo giuseppino, il che
col tempo porterà nella coscienza romena alla creazione della fede nel
“buon monarca”.
La nascita di questo mito è anche la conseguenza
delle guerre napoleoniche, quando il contadino romeno – come, d’altronde,
quello ceco, serbo, croato ecc. – ed il monarca combattono insieme contro un
comune pericolo che sembrava minacciare ad un certo momento la loro esistenza:
Napoleone Bonaparte. Il mito compare in tutto il suo splendore a partire da
questo momento in cui sorge questa minaccia comune, di cui sono consapevoli
entrambe le parti, il che determina un’unione ed una solidarietà tra
contadino e imperatore, soprattutto sul piano militare, forte almeno quanto
quella determinata dall’attuazione delle riforme. Il pericolo li concordanza
creò una comunione d’interessi sincera, profonda e durevole. Da
ricordare che nell’intento di stabilire, a titolo soggettivo e transitorio, il
momento della nascita del mito degli Asburgo, Claudio Magris propone come data
l’anno 1806, anno in cui Francesco II, imperatore del Sacro Impero Romano di
nazione tedesca, diventò Francesco I di Austria[17].
Il mito del “buon imperatore” è una realtà storica per i romeni
transilvani che continua lungo tutto l’Ottocento – con momenti di varia
intensità; riteniamo, quindi, adatto il suo paragone ad una spirale che
include periodi
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di
manifestazione latente (1815-1847, 1866-1892) oppure di regresso (1849-1851),
come anche dei periodi di piena manifestazione (come per esempio, quello delle guerre
napoleoniche oppure il momento 1848-1849 e persino gli anni dell’assolutismo).
Ai metodi diversi e minuti usati dalla monarchia
austriaca per costruire e mantenere viva la fede nel “buon sovrano”, che si
sovrappone su uno sfondo mentale predisposto ad accoglierla, si aggiunge
l’abilità e la saggezza degli austriaci nell’uso del concetto “divide et
impera” come un principio politico la cui sostanza consiste nell’istigare le
nazioni dell’impero una contro l’altra. Nel nostro caso, si tratta dell’ampliamento
dell’importanza dell’elemento ungherese, pericolo imminente che minacciava lo status
dell’elemento etnico romeno. Con questo metodo fu resa possibile la
trasformazione del popolo romeno in un’“instrumento regni”, che essi
impiegarono come elemento di contrappeso alle pretese o alle azioni “ribelli”
degli ungheresi nei momenti di crisi per l’impero. Un episodio illuminante in
questo senso è anche la guerra civile degli anni 1848-1849, – svoltasi
ai confini della monarchia austriaca, quando i rivoltosi ungheresi misero
seriamente in pericolo l’integrità della corona imperiale –, momento di
riattivazione del mito del “buon imperatore” al livello della consapevolezza
collettiva romena, della sua manifestazione plenaria[18].
Perché gli ungheresi, gli ultimi ribelli del 1848, avendo resistito eroicamente
alle forze reazionarie, costituendo un serio pericolo, gli austriaci accolsero
con gioia l’aiuto militare della “fedele” e “coraggiosa” nazione romena.
D’altronde, i romeni, eccetto quelli del Banato, tramite la loro élite
laica ed ecclesiastica, e malgrado la loro simpatia per il liberalismo
economico e politico della rivoluzione democratica, promosso entro certi limiti
dai rivoltosi ungheresi, scelsero la via del dialogo diplomatico e militare con
la Casa d’Austria contro il comune nemico che, per alcuni, era una minaccia per
l’integrità territoriale, mentre per altri, assumeva il ruolo di
elemento basilare per preservare l’identità nazionale. La motivazione
dei romeni fu rafforzata anche dalla speranza che, in seguito alle rinnovate
prove di fedeltà nel confronto della dinastia, essa avrebbe ottenuto la
soddisfazione delle aspirazioni di unione nazionale e di autonomia nell’ambito
di un’Austria liberale e federalizzata su criteri etnici.
La realtà dimostrerà ai romeni,
però, ancora una volta, che la monarchia, una volta raggiunti i propri
fini, assicurata la pace e la tranquillità interna, dimenticò i
loro sacrifici e le promesse fatte nei momenti di crisi. Anche se, da un lato,
la rivoluzione rappresenta un esempio della funzionalità del
patriottismo dinastico, dall’altro, nel contesto della coscientizzazione della
propria identità, compare, almeno al livello del mentale dell’élite,
sennon anche a quello collettivo romeno, verso la fine degli avvenimenti degli
anni 1848-1849, un primo segnale d’allarme, di dubbio nei confronti dei buoni
propositi monarchici. Se il modo di pensare e di sentire al livello della
coscienza popolare è più difficile da inserire in certi archetipi
e da definire con precisione, al contrario, quello dell’élite è
accessibile grazie alle idee espresse negli scritti. Al livello dell’élite
romena di Transilvania possiamo parlare, quindi, di un certo patriottismo
dinastico distinguibile tanto nelle azioni svolte, quanto nelle dichiarazioni
fatte, ma nella stessa misura, si può
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notare
anche un certo pragmatismo politico, sorto dalla coscienza nazionale che d’ora
in poi rimarrà una linea di condotta per essa.
Il pragmatismo politico determina tra i membri dell’élite
romena una comprensione diversa nella maniera di abbordare i rapporti con il
potere centrale. In questo senso, al livello dei vertici politici, si delineano
due orientamenti: quello dei tradizionalisti[19],
formato soprattutto da chierici, diretto da Andrei ªaguna, il quale preferisce
le vie e le maniere più cerimoniose e che si pronuncia per una
risoluzione legale, pacifica, anche se più lenta, dei problemi romeni,
ed un altro, composto da giovani intellettuali di stampo laico, particolarmente
dei giuristi, il cui leader Simion
Bãrnuþiu si fa notare per la sua combattività e per il suo spirito
militante accentuato.
Un primo momento che segna questa differenziazione
è segnalato in occasione della redazione della seconda memoria
indirizzata all’imperatore da parte della delegazione romena inviata a Vienna
dal Consiglio Nazionale Romeno (CNR), nel giugno del 1848, per far conoscere al
sovrano le richieste legittime dei romeni. Un altro momento di tensione nelle
relazioni tra i rappresentanti romeni si presenta in occasione della consegna della
memoria, il 25 febbraio 1849. Il vescovo Andrei ªaguna informa il CNR delle
incomprensioni avvenute tra i membri della delegazione, mentre quest’istanza
rappresentativa romena all’epoca, chiede al vescovo ortodosso di far uso della
sua personalità influente allo scopo di conservare l’unità tra
tutti gli “spiriti” ed i “lavori” verso una sola meta, quella dell’interesse
nazionale, dinanzi al quale devono spegnersi “tutte le passioni, tutti gli
interessi privati e tutte le opinioni” per “il trionfo della causa nazionale”[20].
I dirigenti romeni oltrepassarono i momenti di crisi e, mettendo prima di tutto
l’interesse nazionale, riuscirono a far progredire la nazione ed a mantenere
l’unità di azione nella lotta comune per i loro diritti nazionali, per
via legale e petizionale, d’altronde, naturale e necessaria nelle condizioni
della promulgazione della Costituzione democratica del 4 marzo 1849.
In grandi linee, il carattere petizionario di questo
periodo rappresenta una continuazione ad un livello superiore di quello del
Settecento[21]; alle
richieste politiche si aggiunse il desiderato dell’unione
di tutti i romeni sotto la corona imperiale,
in un solo corpo politico autonomo, poiché le petizioni di questo periodo hanno
una legittimazione popolare, un carattere nazionale vero e proprio, essendo
sostenute moralmente e materialmente dall’intera nazione romena. La
legittimità è rafforzata anche dal supporto argomentativo che si
arricchisce con il leit-motiv della
fedeltà romena – esagerato a volte allo scopo di determinare una
decisione imperiale favorevole alla causa romena – fedeltà pienamente
dimostrata negli avvenimenti svolti già all’epoca della monarchia.
Analizzando il contenuto delle memorie appartenenti all’“epoca costituzionale”,
possiamo osservare due atteggiamenti dell’élite romena: da un lato,
l’attaccamento e la fiducia nella monarchia:
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“Maestà!
La nazione romena del gran principato di Transilvania, di Banato, dei territori
confini dell’Ungheria e di Bucovina […] ha da sempre mostrato la più
profonda fedeltà e il più sincero attaccamento all’augusta casa
austriaca, dai tempi in cui questi paesi hanno provato la gioia di
sottomettersi alla mite dominazione dell’Austria”[22],
da un altro lato, si può notare la manifestazione delle prime
scontentezze, sorte a causa delle promesse sempre rinviate, promesse “predicate
dall’alto trono di Sua Maestà”[23].
Un primo dubbio sulla sincerità dei buoni
propositi dell’imperatore, dai quali pendeva il destino dei romeni transilvani,
s’intravede in occasione della consegna della memoria del febbraio 1849, la
quale doveva anticipare la legiferazione della
Costituzione, appunto per ricordare ai vertici imperiali i bisogni e le
richieste della nazione romena. Tuttavia, la Costituzione, pur contenendo
provvedimenti speciali per i sassoni, per i serbi, non prende molto sul serio
in discussione i problemi dei romeni, considerati risolti in seguito alle
direttive costituzionali riguardanti lo statuto di eguaglianza di tutte le
nazionalità della monarchia. È un momento di sentita delusione
per le attese dei romeni e questo sentimento peggiorerà ulteriormente,
quando le richieste rinnovate tramite una vera e propria campagna petizionaria (il 12 marzo, il 23 marzo, il 15
aprile, il 26 aprile, il 26 maggio ecc. del 1849) saranno ripetutamente
ignorate.
In tutte le petizioni, l’accento cade sull’importanza che
i romeni prestano alla parola imperiale, che per essi aveva realmente un valore
sacro. Dalle diverse formule risulta che era inconcepibile che l’onesto e il
giusto monarca non rispettasse l’impegno preso, mentre si suggerisce la
delusione che produrrebbe il mancato mantenimento
delle promesse: “non sarebbe niente di più triste e di più
deludente per questa nazione duramente provata, che il rifiuto di
esaudire i loro più profondi desideri, dei quali essa è convinta
che sono giusti e corrispondono al tempo”[24].
Nella memoria consegnata all’imperatore il 12 marzo del 1849, la maniera di
rivolgersi è onesta, cordiale e diretta, ma allo stesso tempo, mette
sotto il segno interrogativo la giustezza della decisione imperiale espressa
nella Costituzione: “Maestà! La Nazione Romena, nei suoi continui
tentativi, è convinta che soltanto dai giusti imperatori dell’Austria
può attendere il giusto e la giustizia […]. Tuttavia, la Costituzione
che Sua Maestà ha dato, allo scopo di accontentare paternamente i
milioni di cittadini austriaci, ha reso più difficile l’unione”[25],
nel senso che la principale rivendicazione dei romeni, l’unione di tutti loro
in un solo corpo politico, era stata ignorata.
La successione di memorie indirizzate all’imperatore
continua con la “Petizione delle nazioni unite” (dei romeni, dei slovacchi, dei
slavi del sud), che attira l’attenzione del monarca sul fatto che “le anime
fedeli” dei popoli “fedeli all’Austria sono state sopraffatte dalla paura”[26],
petizione seguita dalla memoria del 26 maggio degli abitanti di Banato
(mediante Petru Mocioni, Petru Cermena e Ioan Dobran), che riprende i punti
della petizione di febbraio, segnalando allo stesso tempo anche le omissioni
della
p. 457
Costituzione
di marzo, attinenti alla situazione dei romeni, atto in cui “nemmeno si accenna
al loro nome, in seguito a quella Costituzione, essi continuano ad essere,
anche da allora in poi, sottomessi agli ungheresi il cui odio hanno attirato
nelle lotte per il trono di Sua Maestà”[27].
Finalmente, l’imperatore “si impietosisce” e “accontenta” i romeni con una
risposta che sembra dire tutto, ma che infatti non dice niente. Il sovrano
assicura il popolo romeno del ringraziamento per la sua fedeltà e la sua
sottomissione, compiange il loro destino duramente provato nella difesa del
trono, per la quale si merita “tutta la gratitudine” e assicura i deputati
romeni ed i loro connazionali che la nuova Costituzione “garantisce ai romeni
tali diritti e tale valore, come a tutti gli altri popoli del mio regno”[28].
Il 18 luglio 1849 una nuova delegazione romena, questa
volta diretta da Simion Bãrnuþiu, mette ai piedi del trono austriaco una nuova
memoria, chiamando in causa, per motivare la loro insistenza, l’importanza del
tempo storico in cui essi vivono ed il diritto ottenuto dalla nazione romena –
col prezzo di tante vittime durante la guerra civile – di raccogliere i frutti del cambiamento, volutamente democratici. Le
rassicurazioni dei circoli aulici sono di nuovo ottimistiche, tanto
l’imperatore, quanto i suoi ministri consigliano i romeni di fidarsi e di avere
pazienza, facendo un’altra volta delle promesse vane ai romeni. Malgrado la
delusione creata dall’atteggiamento del monarca, i romeni continuano le trattative
per la loro situazione politica. Nel settembre del 1849 la delegazione romena
ritorna da Vienna senza che le aspirazioni
nazionali venissero esaudite. Tuttavia, nel periodo successivo la serie di
memorie dei romeni viene ripresa con lo stesso ardore. Benché il linguaggio
usato sia sempre cerimonioso, la maniera di abbordare il potere è ora
più tagliente: “I romeni, facendo leva sulla
loro fedeltà, provata attraverso numerosi sacrifici, nonché sulla
grandissima grazia di Sua Maestà, si sono attesi a una migliore
volontà, ad una risoluzione favorevole del loro destino, nel senso
dell’unione in un solo corpo nazionale, non avendo mai pensato ad un più
profondo scioglimento della nazione romena”[29].
I romeni della Transilvania e soprattutto l’élite, più sensibile
alle sottilità politiche, fu provata allora dall’amaro sentimento del
tradimento, dell’oblio, dell’inappagamento dei loro sacrifici al servizio della
monarchia, ma fino al momento della rievocazione dell’atto legislativo del
marzo 1849, essi si rifiutano di accettare quanto furono ingannati nelle loro
attese e speranze dal preteso “buon monarca”. Possiamo spiegarci così la
continuazione degli appelli rivolti all’imperatore, il cui contenuto lascia
trasparire ancora una vana speranza nel miglioramento della situazione sociale
e politica[30].
p. 458
Il rifiuto sistematico di Vienna di soddisfare le
richieste legittime dei romeni, come anche l’applicazione della Costituzione
nel piano dell’organizzazione amministrativa, che svantaggiava i romeni,
determinò un cambiamento nell’atteggiamento dell’élite romena nei
confronti di Vienna e della Casa d’Austria, atteggiamento concretizzato
nell’azione di fronda dei leaders
romeni, come ad esempio il rifiuto di Avram Iancu oppure di Alexandru
Papiu–Ilarian di ricevere le insegne d’onorificenza concesse dall’imperatore
per i loro meriti durante la guerra civile. Ecco come spiega il suo gesto il
rivoluzionario Alexandru Papiu–Ilarian: “Noi abbiamo combattuto e abbiamo
versato il nostro sangue per l’imperatore, e per i diritti della nazione, non
per decorazioni e monete. Ora vediamo che il trono è stato rinforzato
dal sangue di circa 40.000 romeni assassinati, nonché dalla distruzione di
circa 300 villaggi, e malgrado tutto ciò, questa nazione giace ancora sotto
l’antiqua tirannia e si trova ora in uno stato più pietoso che prima del
1848”[31].
Progressivamente, tra i vertici politici romeni comparse il sentimento di
diffidenza verso l’imperatore è si fanno sempre di più sentite le
voci che parlano dell’“ingratitudine monarchica”, concretizzata nella tergiversazione
e, alla fine, nel mancato mantenimento delle
promesse fatte, nella mancanza di riconoscenza
verso la fedeltà e i sacrifici materiali ed umani dei romeni, i quali
pur avendo messo anima e corpo nella causa imperiale furono ripagati con
l’applicazione di un trattamento adatto ai ribelli. La promessa fatta da
Francesco Giuseppe, una volta salito al trono, cioè che si sarebbe
lasciato guidare dal principio dell’autodeterminazione dei popoli nella nuova costituzione della monarchia, promessa alla quale i
romeni appesero in vano le loro speranze, rimase pura illusione, che li fece
perdere, almeno per un certo tempo, la fiducia negli stranieri, fossero essi
addirittura “imperiali”. Il comportamento degli austriaci scoraggiò non
solo l’élite, ma anche il volgo, che cominciò a prendere atto del
fatto che i loro sforzi andarono in fumo e che l’imperatore, per non aver
mantenuto la parola data, si dimostrò un “bugiardo” ed un ingrato. Lo
stato di delusione risentito al livello del mentale popolare, conosce diverse
fonti: l’inappagamento delle imprese militari romene, il disarmo della
popolazione subito dopo la cessazione delle
ostilità militari, il duro trattamento, quasi nemico,
mostrato da Klam–Gallas, l’erede di Puchner, l’inseguimento, l’inchiesta aperta
e persino gli arresti dei leaders del
1848.
Il sentimento di diffidenza avvolge anche la gente
comune, ed in questo senso si nota la reazione del popolo in occasione
dell’incidente avvenuto il 15 dicembre 1848 al mercato di Halmegiu: “La
verità è che mi hanno acchiappato i soldati a Halmegiu – confessa
Avram Iancu – ma sono stato subito liberato. Sono stato portato dal comandante
di quel posto, il quale, però, non sapeva niente dell’arresto e mi
chiedeva di renderla nota al popolo. L’ho fatto. Allora fui pregato di
acclamare Sua Maestà l’Imperatore. Io ho gridato con tutte le mie forze:
Viva l’imperatore Francesco Giuseppe. Ma il popolo rimase muto. Nessuno ripeté
il mio grido”[32].
Si può notare, soprattutto in seguito
all’annullamento della Costituzione ed al ritorno ad un regime di tipo
assolutista, un inizio che segnava l’allontanamento dei romeni
p. 459
dal
“buon imperatore”, una certa diffidenza – sempre più visibile a tutti i livelli
della società romena – nei suoi buoni propositi e nella giustezza delle
sue azioni. La fiducia nel “buon imperatore” non sarà mai così
forte, così incondizionata e sincera come nel 1848. Il mancato mantenimento delle promesse imperiali fu una delle
premesse che segnarono l’inizio della destrutturazione del mito. Vi si
aggiunge, non per ultimo, la presa di coscienza, durante la guerra civile
dell’appartenenza e della solidarietà della nazione romena – il che
porterà allo sorgere di altri miti nazionali, come per esempio quello
dell’eroe Avram Iancu – miti che metteranno in ombra sempre di più,
senza però farlo sparire del tutto, il mito del “buon monarca”.
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(2004-2005), edited by Ioan-Aurel Pop, Cristian Luca, Florina Ciure, Corina
Gabriela Bãdeliþã, Venice-Bucharest 2005.
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October 2005, Bucharest, Romania
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[1] C. I. Giulian, Mit
si culturã, Bucarest 1968, p. 143.
[2] Mircea Eliade, Aspecte
al mitului, Bucarest 1978, p. 6.
[3] Idem, Eseuri: Mituri, vise, mistere, Bucarest 1991, p.
122.
[4] Mihai Coman, Mitos
ºi Epos, Bucarest 1985, p. 49.
[5] M. Eliade, Eseuri cit., p. 130.
[6] Esistono già circa 500 definizioni del mito, ma
nessuna di esse non è stata in grado di definire il mito in una maniera
unitaria e unanimemente accettata da tutti i specialisti del settore; si veda
Victor Kernbach, Dicþionar de mitologie
generalã, Bucarest 1989.
[7] M. Eliade, Aspecte cit., p. 14.
[8] È un’idea ricorrente quella del complotto
universale, che genera un clima di sospetto e di paura.
[9] Raoul Girardet, Mytes
et mythologies politiques, Parigi s. a., p. 15.
[10] M. Eliade, Eseuri cit., p. 140.
[11] Romulus Vulcãnescu, Mitologia
românã, Bucarest 1985, p. 576.
[12] Ibidem, p.
587.
[13] Iosif Wolf, Rãscoala
din Boemia (1775) ºi Rãscoala lui Horea. Studiu comparat, in Rãscoala lui Horea, 1784. Studii ºi
interpretãri istorice, coordinatori: Nicolae Edroiu e Pompiliu Teodor,
Cluj-Napoca 1989, p. 184.
[14] Toader Nicoarã, Transilvania
la începuturile timpurilor moderne (1680-1800), Cluj-Napoca 1997; si veda
il capitolo IX: Mitul “bunului împãrat” în sensibilitatea românescã, pp.
339-396.
[15] Ioan Slavici, Românii
din Ardeal, Bucarest 1911, p. 71.
[16] David Prodan, Supplex
Libellus Valachorum, Bucarest 1984, p. 244.
[17] Claudio Magris, Il
mito habsburgico nella letteratura austriaca moderna, Torino, 1982, passim.
[18] Mirela Andrei, Aspecte
privind mitul “bunului împãrat” în sensibilitatea românescã din Ardeal la 1848,
in Identitate ºi alteritate, Reºiþa
1996, pp. 79-89.
[19] Liviu Maior, Memorandul,
filozofia politico-istoricã a petenþionalismului românesc, Cluj-Napoca
1987, p. 106.
[20] Nicolae Popea, Arhiepiscopul
ºi mitropolitul Andrei, baron de ªaguna, vol. I, Sibiu 1889, p. 242.
[21] Keith Hitchins, Conºtiinþã
naþionalã ºi acþiune politicã la românii din Transilvania (1700-1868), Cluj-Napoca 1992, passim.
[22] T. V. Pacãþianu, Cartea
de aur, 2a edizione, vol. I, Sibiu 1904, p. 519.
[23] Ibidem, p. 522.
[24] Ibidem, p.
541.
[25] Ibidem.
[26] Ibidem, pp.
582-583.
[27] Ibidem, pp.
593-594.
[28] Ibidem, p.
595.
[29] Vasile Netea, Lupta
românilor din Transilvania pentru libertatea naþionalã (1848-1881),
Bucarest 1974, p.48; il 26 novembre del 1849 una nuova delegazione romena parte
dal Banato, per consegnare una petizione contenente 600 firme che protesta
contro la Patente Imperiale del 18 novembre, secondo la quale il Banato era
diviso tra la Voivodina serba ed il Banato di Timiº, senza tener conto della
posizione compatta e dominante dei romeni.
[30] Può trattarsi, ad esempio, della petizione comune
degli abitanti di Oradea e di Arad, del 10 gennaio 1850, che rappresenta una
sintesi delle memorie del 1848-1849.
[31] K. Hitchins, Ortodoxie
ºi naþionalitate: Andrei ªaguna ºi românii din Transilvania, 1846-1873, Bucarest
1995, p. 110.
[32] Florian Dudaº, Avram
Iancu în tradiþia poporului român, Timiºoara 1989, p. 189.