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Annuario 2003
p. 551
Mircea Cărtărescu
e il mito della
reintegrazione
Alvaro Barbieri,
Università di Verona
“Amico, come lottare contro la chimera?” Comincia
così, nella traduzione italiana di Bruno Mazzoni[1], l’allucinata
inchiesta condotta dall’io narrante (o meglio scrivente) di Travesti,
romanzo di Mircea Cărtărescu apparso in Romania nel 1994. Come si capirà
dal séguito dell’opera, l’“amico” chiamato in causa dall’apostrofe incipitaria
non è altro che un’ipostasi della voce emittente, un doppio fantasmatico
inchiodato ai territori crudeli dell’adolescenza, irretito dai sortilegi di un
passato indecifrabile. Tutta l’opera si dà programmaticamente come
“lotta con la [...] chimera”[2], come
“scontro psichico”[3]
ed esercizio di anamnesi. Specillando le pieghe sanguinanti di una memoria
lacunosa e di un immaginario turbato, il protagonista cerca di fare luce sulle
sue idee fisse e sui nodi segreti della sua esistenza. Questa indagine
dolorosa, perseguita attraverso la scrittura, ha finalità terapeutiche:
si tratta infatti di guarire da una paralisi mentale nutrita di nevrosi e
pensieri ossessivi. Victor, soggetto enunciante del racconto, sente con
sicurezza che tutti i suoi incubi promanano da un unico mistero primario che
interessa la psiche e la carne. Questo mistero, questo groviglio inestricabile
(frequente l’immagine del viluppo), è precisamente l’oggetto della quête, la chimera menzionata
nell’interrogativa iniziale. Il testo è molto esplicito al riguardo e
fornisce numerosi riscontri. Per ragione di brevità, mi limito qui a
riportare un passaggio emblematico: “Mi tengo adesso come all’ultimo filo di
speranza, con l’idea che è forse possibile guarire tramite la scrittura.
Per dipanare insomma [...] questa matassa, questo groviglio di viscere, questo
mandala che mi sta intessuto nel cervello. Se la scrittura è, come si
dice, una terapia, se può guarire, dovrebbe poterlo fare ora.
Imbratterò pagina dopo pagina, userò i fogli come garze che
s’impregneranno non d’inchiostro, ma della suppurazione della mia antica
ferita”[4].
Per mettere ordine nella sua mente tormentata, Victor, un
giovane scrittore di successo, si isola in una località di montagna,
Cumpătu. Lì, in una residenza solitaria sui Carpazi, si impone di interrogare
ostinatamente il suo passato, fissando lo sguardo su un magma di ricordi
paurosi, di visioni terrifiche. In particolare, la sua attenzione si concentra
su un fatto accaduto in un agosto di molti anni prima, durante una settimana
trascorsa a Budila, allorché si trovava in colonia estiva insieme ai compagni
di liceo.
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Durante una festa in
maschera all’aperto, Victor era rimasto sconvolto dall’apparizione di un suo
coetaneo, Lulu, pesantemente truccato e vestito da donna, con grossi seni di
ovatta, ciglia finte, una “parrucca lussureggiante, rosso fuoco, e un neo
appiccicato sul mento”[5]. Ma
l’evento traumatico si era compiuto più tardi, all’interno del vasto e
fatiscente edificio che ospitava gli studenti. Con aria ammiccante e mosse
lascive, Lulu aveva afferrato la mano di Victor premendosela sul pube:
“Improvvisamente, mi ha preso la mano e, sollevandosi la minigonna, me l’ha
messa sullo slip di merletto e per un attimo ho sentito, attraverso di esso, il
suo sesso duro e umido” (corsivo mio)[6].
Nel ricordo atterrito e disgustato di Victor, il sesso di Lulu è duro e
insieme umido, presenta cioè nello stesso tempo le manifestazioni
maschili e femminili dell’eccitazione. Ma l’accostamento confliggente di tratti
sessuali virili e muliebri era già emersa con conturbante evidenza nella
descriptio del liceale travestito: “I
seni rotondi, di una dimensione grottesca, ma le braccia muscolose, con mani
quadrate e potenti”[7].
È questa frizione irrisolta di contrari a far esplodere nell’inconscio
di Victor la certezza spaventosa di lontani orrori rimossi. Il contatto
schifoso col sesso di Lulu diventa “il centro osceno e misero”[8]
della sua vita, mentre la figura ripugnante del travesti si incista nei suoi pensieri come una “divinità
dell’abiezione”[9],
“un idolo colorato vistosamente”[10].
D’altra parte, il terrore suscitato dagli stati metamorfici e dall’ambivalenza
sessuale è un motivo che attraversa tutta l’opera rivelandosi
progressivamente mediante indizi, tracce, allusioni, rinvii espliciti e
anticipazioni disseminati in vari momenti del racconto e spesso cristallizzati
in figure ritornanti[11].
Anche in questo caso riduco all’osso l’esemplificazione, allineando soltanto
pochi indispensabili prelievi. La fisicità ambigua e artificiosa di Lulu
è assimilata al corpo mutante delle farfalle: “Quand’ero piccolo
prendevo delle farfalle [...] e ne trapassavo il corpo vermicolare con uno
spillo, così come avevo visto fare. [...] Con uguale crudeltà e
piacere ti immobilizzerei in queste pagine, Lulu, guarderei come ti contorci,
come stravolgi gli occhi, come sbatti le tue elitre fatte di abiezione, di
paillettes e di plastilina
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...”[12].
E ancora: “È chiaro che allora non prestavo alcuna attenzione a Lulu,
che sarebbe comunque diventato uno degli assi portanti della mia vita, allo
stesso modo in cui il verme con le sue antenne e le sue zampettine è
l’asse della farfalla”[13].
Più avanti, la giunzione dei sessi è rappresentata plasticamente
nell’unione di due amanti: “La penetra ancora, da dietro, stringendole il seno,
accarezzandole i fianchi e i glutei. Lei si porta una mano tra le gambe,
sentendo con le dita la fusione dei sessi”[14]. Ma
l’icona più potente dell’ermafroditismo è offerta dalla statua di
ninfa di una fontana, che nello sguardo stravolto e alterato del protagonista
assume d’un tratto le forme di una mostruosità bisessuata: “tra le cosce
piene e delicate, la ninfa aveva un sesso da maschio, di satiro pronto
all’accoppiamento”[15].
Come si vede, l’orrore per l’ambivalenza sessuale si associa
a quello per le osmosi e le trasmutazioni di stato (la natura metamorfica della
farfalla)[16].
L’irrequietezza mutante dei corpi e della materia si esprime anche nelle
immagini di disfacimento, necrosi e vita formicolante. I muri sono
invariabilmente gonfi d’acqua, scrostati, fioriti di muffe e infestati da
miriadi di insetti brulicanti che si annidano nel marciume delle crepe. I
profili e le superfici degli oggetti si deformano e colano liquefatti come in
certi quadri di Salvador Dalí, il cui nome è espressamente ricordato in
apertura di romanzo[17].
Mucide e cadenti sono certe case bucarestine visitate dal protagonista nei suoi
vagabondaggi, ma fatiscente e putrida è soprattutto la vecchia
costruzione della colonia estiva: “Castello della decomposizione!”[18].
Negli incubi e
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nelle visioni terrifiche di
Victor, le sostanze si modificano e si rimescolano in modo incessante,
degenerando verso forme corrotte. La distanza tra la carne e la materia inerte
si assottiglia in una climax di comparazioni: “Le pareti rugose erano scarlatte
come dei budelli. Le loro porte, sempre più rade, sembravano ferite
ovali, cucite grossolanamente. [...] Il lucchetto pendeva rotto e avvilito
dalla porta, come uno scroto scarlatto e peloso”[19]. Di
più. Quando ci si avvicina al cuore del mandala e l’angoscia cresce
smisuratamente, crolla la distinzione tra biologico e materico[20].
Così, le stanze della memoria infantile e dei segreti sono chiuse da
ributtanti serrature di carne: “un lucchetto molliccio, di carne, osceno,
pulsante evidentemente di vita, un lucchetto con venuzze azzurrognole e
porpora, con pieghe nella pelle, pendeva appena al di sopra della maniglia.
Soffocato da ondate di furia e di disgusto, ho afferrato il lucchetto e l’ho
strappato dagli anelli. Il sangue marrone è schizzato in tutte le
direzioni, macchiando la porta fino a terra e bagnandomi le mani”[21].
A questa modalità di coscienza alterata, che riguarda gli squarci
onirici e visionari, si aggiunge, in linea generale, una percezione amplificata
dei colori, con prevalenza di tonalità acriliche e radiose. C’è
come una sensibilità visiva sovreccitata, neobarocca, che potenzia
l’intensità delle cromie:
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“l’enorme casa rosa [...]
faceva ora brillare le finestre gialle come una fiamma di sodio”[22].
E a tale riguardo bisognerà notare come la varietà e il rilievo
acido delle tinte siano tratti perfettamente inseribili entro le
modalità percettive caratteristiche della postmodernità. Come ha
scritto Remo Ceserani, “il moderno era in bianco e nero; il postmoderno
è in ektachrome”[23]. D’altronde,
la meravigliosa policromia del mondo trova una potente incarnazione nel ragno
cosmico delle visioni di Victor. Al centro di un groviglio filamentoso di
putredine e mucillagini si annida uno smisurato aracnide, terribile e
splendente di colori accesi[24]. La
bellezza metamorfica e vorace dell’esistente brilla nel mezzo della materia in
decomposizione.
Questa ridda di geroglifici, tracce e frammenti compone il
quadro fluttuante da cui Victor cerca di estrarre il senso segreto della sua
storia personale. L’eremo di Cumpătu è, come dicevo più sopra, il
luogo della riflessione e dell’anamnesi. La colonia estiva di Budila si pone
invece come spazio della visione disorientante e dolorosa, che smuove strati
profondi, ma non schiude la rivelazione. Sull’asse Cumpătu/Budila si polarizza
la topologia della narrazione, che trova puntuale (e inquietante)
corrispondenza nei dati temporali. Quando si ritira a Cumpătu per lottare con
la sua chimera, Victor ha trentaquattro anni e si accorge di come la sua
biografia sia spartita in due segmenti uguali dall’esperienza di Budila:
“Allora, diciassette anni fa... Diavolo! ora noto la coincidenza delle date:
nel 1973 avevo diciassette anni, mentre ora ne ho trentaquattro”[25].
Budila, con l’agghiacciante mascherata della femmina-maschio, divide
esattamente a metà la parabola esistenziale del protagonista. La
comparsa del travesti si colloca,
sotto ogni profilo, al centro della vita di Victor. Anche cronologicamente.
Come ho appena ricordato, la visione di Lulu vestito da donna
non basta a sciogliere il nodo, non porta al cuore del mandala. Pure essa
costituisce una molla potente, un grilletto, un punto di innesco. Lo shock
prodotto dall’apparizione di Lulu fa riemergere d’un tratto memorie incerte e
sfrangiate, risveglia traumi lontani, fantasmi sedimentati nelle zone
più remote dell’inconscio. La guarigione definitiva dell’io narrante
passerà attraverso la ricomposizione di tutti questi messaggi
frammentari risaliti a fatica da un passato impenetrabile, quasi da un mondo
sommerso. Lo scioglimento dell’enigma, offerto in chiusura di romanzo come un
improvviso bagliore di conoscenza, è in realtà il culmine di un
lungo processo di rammemorazione, una lancinante presa di
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coscienza che comincia dalla
scossa ricevuta a Budila. Al momento della rivelazione finale scopriremo che la
verità nascosta, acquattata nei nascondigli dell’infanzia, riguarda
proprio l’identità sessuale di Victor[26]. Le
pagine conclusive spiegano le ossessioni del protagonista, illustrano
l’eziologia dei suoi incubi.
A lettura ultimata resta però l’impressione che
l’intimo segreto della storia non stia tanto nella vicenda biografica di
Victor, ossia in un ‘caso clinico’ di ermafroditismo, quanto piuttosto
nell’arcano della coincidentia
oppositorum, nella nostalgia dell’androgino primordiale. A dispetto delle
dichiarazioni esplicite dell’io narrante, che sembra voler identificare la
soluzione dell’enigma con la riemersione di un dramma infantile rimosso, la
chimera tanto ricercata e inseguita nel corso del racconto potrebbe consistere
nel mistero della perfezione originaria, indistinta e libera da qualsiasi
attributo, simbolizzata dall’unione dei due sessi nella medesima persona. Una
delle potenti allucinazioni del protagonista può forse autorizzare
questa ipotesi di interpretazione. Egli si vede avanzare con sforzo verso il
sole. D’improvviso dal globo di fiamma esce un raggio infuocato, che avvolge il
suo corpo in un abbraccio incandescente. In una istantanea combustione ossa,
fibre e tessuti sono dissolti, restituiti allo stato preformale e indeterminato
del caos primigenio. In tal modo, l’io è reintegrato nella condizione
indifferenziata degli inizi, espressa dalla misteriosa fusione del maschile e
del femminile: “La lava divina [...] mi ha riportato a ciò che ero stato
da sempre, ciò che avevo smesso di essere, ciò che sarei stato
per un migliaio di eternità, per un eone di eoni: chiome d’oro fino alla vita, seni rotondi femminili sul petto
muscoloso, fianchi larghi, che nascondono tra le loro curve il sesso virile”[27].
Certo, il polimorfismo e l’ambiguità sessuale sono
tematiche riportabili alla sensibilità postmoderna[28],
ma Cărtărescu le potenzia rifunzionalizzando il mitologema dell’androgino, la
creatura perfetta delle origini nella quale si annullano le opposizioni
bipolari[29].
La riflessione sui temi dell’ermafroditismo riceve profondità dalla
riattivazione di un archetipo tradizionale già complicato da una forte
carica di letterarietà per le sue innumerevoli rivisitazioni
ottocentesche. Al solito, Cărtărescu imposta un discorso plurivoco, articolato
su molteplici livelli di senso, che incrocia diverse implicazioni ideologiche,
diversi registri stilistici, diverse retoriche e modalità
rappresentative.
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e ricerca umanistica 5 (2003), edited by Şerban Marin, Rudolf Dinu, Ion
Bulei and Cristian Luca, Bucharest, 2004
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© Şerban Marin, March 2004, Bucharest, Romania
[1]
Cfr. Mircea Cărtărescu, Travesti (a cura di Bruno Mazzoni), Roma: Voland, 2000: 7.
[2]
Ibidem: 42.
[3]
Ibidem: 28.
[4]
Ibidem: 14.
[5]
Ibidem: 93.
[6]
Ibidem: 97.
[7]
Ibidem: 96.
[8]
Ibidem: 97.
[9]
Ibidem: 94.
[10]
Ibidem: 95.
[11]
Tra queste figure-emblema ritornanti, che prendono forma nei bagliori visionari
e negli incubi di Victor, si staglia con particolare forza l’immagine
misteriosa della sorellina morta-scomparsa (cfr., p. es., ibidem: 27-28,
101-102). L’importanza centrale di questo personaggio, scaturito dal ricordo di
una vecchia fotografia, emergerà in modo lampante nella rivelazione
finale.
[12]
Ibidem: 9.
[13]
Ibidem: 19.
[14]
Ibidem: 29.
[15]
Ibidem: 67. Segnalo di passata che in un episodio precedente (ibidem:
35-36), Cărtărescu sembra trasfondere nella statua della ninfa il terrore e il disgusto
provati dal protagonista. La figura in bronzo appare come fulminata dalla
nausea insostenibile di una visione schifosa e terrifica. Come Victor, anche la
ninfa soccombe di fronte all’orrore di un’immagine che trae “origine dai
meandri contorti del ricordo”.
[16]
Va detto che Travesti intrattiene
vistosi rapporti intertestuali con il libro precedente di Cărtărescu, Visul, una raccolta di tre racconti
uscita in Romania nel 1989 e ora disponibile in traduzione italiana: Cărtărescu, Nostalgia (a cura di Mazzoni),
Roma: Voland, 2003. Anche nelle prose di Nostalgia
compaiono con ricorrenza ossessiva i temi dell’ambivalenza sessuale e
dell’instabilità metamorfica, nonché il motivo dell’erotismo come
ostacolo alla piena realizzazione dell’artista e al dispiegarsi della sua
attività creatrice. In particolare, nel racconto intitolato I gemelli viene anticipata la scena
della sconvolgente apparizione di Lulu travestito: “Lulu, una specie di
pagliaccio volgare che, a un ballo in maschera, durante una vacanza estiva dove
eravamo stati insieme, si era truccato e si era vestito da donna, e la vista di
quel travestimento mi aveva fatto così male che dovetti tenermi a una
parete” (Cărtărescu, Nostalgia, cit.: 98).
[17]
Idem, Travesti, cit.: 7.
[18]
Ibidem: 83.
[19]
Ibidem: 53.
[20]
Questo rimescolamento del corporeo e del materico si ripresenta nell’equazione
corpo = libro, ripetuta ogni volta che Victor parla delle sue smisurate,
titaniche ambizioni creatrici. Ricalcando un percorso ben riconoscibile di
brucianti frustrazioni e di deliranti sogni compensativi, il protagonista
immagina di poter comporre un giorno il
romanzo universale e onniaccogliente in cui si troveranno raccolti tutti i
significati del mondo: “Pur di scrivere il Libro, mi sarei lasciato scorticare
la pelle da dosso, e con la mia pelle viva, con capillari, terminazioni nervose
e glomeruli sudoripari, avrei rilegato l’onnicomprensivo volume” (ibidem:
18); “libro prodotto non soltanto dalla mia mente, ma secreto dalle ghiandole
del mio corpo, espettorato dai miei polmoni, estratto dai miei testicoli,
eviscerato dal mio addome, sprizzato dalla mia carotide” (ibidem:
58-59); “Sono tutt’uno col testo che mi si è avvinto al corpo e mi
avvelena” (ibidem: 77); “Potranno ritrovarmi così come mi sono
augurato da sempre: putrefatto da tanto, leggero come l’aria, con il capo
abbandonato sul mio manoscritto, poggiato sopra, tutt’uno con esso... Lui carne
della mia carne, io testo del suo testo...” (ibidem: 118). Il tema del
Libro assoluto, di una Scrittura prima che produce e contiene l’intero
universo, è ricorrente nelle prose di Cărtărescu. La totalità
dell’esistente trova origine e giustificazione in un’opera-mondo che si dilata
in ogni direzione, inglobando sia la proliferante eterogeneità dei realia sia le infinite dimensioni dell’immaginazione
e del sogno. Sul motivo del Testo Universale nella narrativa di Cartarescu,
cfr. Maria Bulei, “Con Baricco e Cărtărescu alla ricerca del
Libro”, Quaderni della Casa Romena
di Venezia, 2 (2003):
329-336 [= http://www.oocities.org/serban_marin/mariabulei2.html].
[21]
Cărtărescu, Travesti: 103. L’immagine dei lucchetti di
carne che sprizzano sangue quando vengono forzati si trova già ne Il mendebile, racconto di apertura di
Nostalgia: “un lucchetto enorme, molle come fosse di carne, pendeva dalla
porta. [...] Al centro delle mille sale dalle pareti trasparenti stavamo io,
steso in terra, e la bimbetta nel vano della porta spalancata, e alle sue
spalle, dall’atrio del castello fino alla stanza centrale, centinaia di porte
aperte con i lucchetti insanguinati” (Idem,
Nostalgia, cit.: 11).
[22]
Idem, Travesti, cit.: 23.
[23]
Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno, Torino:
Bollati Borignhieri, 1997: 158.
[24]
Cfr. Cărtărescu, Travesti, cit.: 50: “Aveva il torace di un colore porpora-viola pallido,
i cheliceri del più scintillante turchese, l’addome del colore delizioso
del ciclamino, con peletti di quel verde che a malapena si stempera nel giallo
dei limoni, con punti di rosa e pressoché invisibili anelli fresia. Il colore
nocciola, l’oltremare, il giallo canarino, l’ocra e il mogano, il verde-azzurro
che trascolorava gradatamente, con passaggi d’acque infiniti, nell’azzurro
verdastro, il giada, il blu-pavone [...] luccicavano e scintillavano e si
confondevano e si separavano, scomparivano e riapparivano sulla pelle umida
dell’enorme ragno”.
[25]
Ibidem: 10.
[26]
Ibidem: 119-121.
[27]
Ibidem: 107.
[28]
Muovendo dalle acquisizioni di Ihab Hassan, David Harvey ha stilato un temario
contrastivo che compendia in forma schematica le caratteristiche antitetiche di
moderno e postmoderno. In questa tabella di tratti distintivi, il
“genitale/fallico” del moderno si contrappone al “polimorfo/androgino” del
postmoderno. Cfr. David Harvey, La crisi della modernità, Milano:
Il Saggiatore, 1993: 62.
[29]
Sul tema antropologico dell’androgino e sulle sue riprese letterarie, cfr.
Mircea Eliade, Il mito della reintegrazione
(introduzione e traduzione a cura di Roberto Scagno),
Milano: Jaca Book, 1989: 57-89.