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Quaderni 2004
p. 427
Cristian
Baumgarten,
Pontificia Università
Lateranense di Roma
La materia da cui spunta la riflessione di Blumenberg
sono i simboli, i miti e le metafore. Il Libro, il Naufragio, il Riso,
la Caverna, rappresentano “frammenti” in cui si riflette la
complessità del mondo. Una complessità in cui l’uomo ha il
compito di mettere ordine. Quest’ordine viene continuamente revocato e
rinnovato. Secondo l’autore, il contenuto della metafora produce un acquisto di
conoscenza; in questo senso la sua analisi riguarda la metafora nella sua
specificità. Esistono le cosiddette metafore-guida.
Esse contengono un sostrato, un nucleo iniziale, un’immagine, una figura. “Tali
figure si ripetono nella cultura filosofica, ma anche nella cultura
scientifica, o in quella letteraria: hanno una loro peripezia attraverso
metamorfosi, piccole variazioni, fino alla scomparsa, all’esaurimento, quando
la metafora si ribalta in sé stessa, si inverte nei suoi termini”[1].
Fino ad una ulteriore elaborazione, Blumenberg
considerava che le metafore fossero in numero ridotto. Le aveva nominate
«metafore assolute», ritenendole in qualche modo “un alfabeto, come se
l’umanità, nella sua storia culturale, avesse continuato a muovere
alcuni pezzi su una scacchiera che rimane la stessa”[2].
Dopo anni di lunga e dettagliata ricerca, considererà che difatti,
esistono innumerevoli di questo tipo di metafore. Si può dire
innumerevoli, perché se ne creano e se ne distruggono continuamente. Parlando
dei miti, invece, si possono paragonare con le «variazioni» nella musica: “E’
per mezzo di questa variabilità che i miti si distinguono dai testi
sacri, nei quali neanche uno ‘iota’ può essere modificato. Allo stesso
modo dei nomi anche i miti mirano all’unico obiettivo di impadronirsi del mondo
non-familiare”[3].
Prima di tutto, dobbiamo tracciare i confini del mondo
della metafora, per non confondere il suo ruolo e minimizzare la sua
utilità. Le metafore non forniscono “un aiuto ai concetti, i quali
poi le perfezionerebbero; non si tratta cioè di costruire dei supporti,
per poi, arrivati a produrre quello che ci si proponeva, liberarsi di queste
stampelle; la metafora non è più un artificio che serve
temporaneamente e in modo transitorio”[4];
le metafore, come vedremo, rappresentano un orientamento attivo ed
incancellabile del pensiero umano. Rivelano strutture polisemantiche,
intrinseche al
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mondo,
“condensano la molteplicità delle relazioni possibili che fanno da
sfondo ad ogni astrazione; rappresentano il limite e l’alone indicibile, i
presupposti impensabili di ogni pensato”[5].
Nella visione del nostro autore, alcune metafore, cariche
di significato, per esempio la Lebenswelt,
rappresentano un mondo d’esperienza che passa oltre la sfera della
dicibilità. Ricordando Valéry: «Ciò che non è ineffabile
non ha alcuna importanza», stiamo di fronte alla paradossalità: se
c’è un dire così trasparente in e a se stesso da
non lasciare nessun confine al non detto, di ineffabilità, quel dire non
ci interessa, non può produrre conoscenza. E’ chiaro che Blumenberg fa
giocare la frase di Valéry sulla scia della notissima affermazione di
Wittgenstein, secondo cui dobbiamo tacere di ciò di cui non possiamo
parlare. Un altro esempio potrebbe essere quello del «prato» che «ride»: “Ci
rimanda all’elemento del volto (pensando a Lévinas): qualcosa ci spinge oltre
la dicibilità; qualcosa ci spinge anche oltre la visibilità,
oltre il conoscere e oltre il puro e semplice vedere”[6].
E’ in questo senso, osserva Blumenberg, che si può parlare di
un’affinità fra la mistica e il mito. Caratteristico per entrambe
sarebbe proprio il rifiuto di cercare e di dare risposte a delle domande. Se
gli si chiede ancora perché il mito non abbia bisogno di rispondere a delle
domande, egli replica: «Il mito […] inventa prima che la domanda
diventi pressante e affinché essa non diventi pressante»”[7].
Il pensiero cerca nella metafora uno strato primario, “la soluzione
nutritizia delle cristallizzazioni sistematiche, ma vuole anche far conoscere
con quale «coraggio» lo spirito si espone allo scoperto nell’arditezza delle
sue immagini, e come in questo coraggio di arrischiare progetta la sua storia”[8].
La verità della metafora, considera Blumenberg,
è una pragmatica. Il loro contenuto orienta nel mondo, determina un
comportamento. Esse offrono una struttura al mondo, danno una rappresentazione
del tutto della realtà, che non si può mai sperimentare o
dominare. “Esse indicano le certezze, i presentimenti, le valutazioni fondamentali
e portanti che regolarono atteggiamenti, aspettative, azioni e omissioni,
aspirazioni e illusioni, interessi e indifferenze di un’epoca”[9].
Il pensiero sul mito di Blumenberg, è radicalmente
opposto all’impostazione illuministica mossa dal pregiudizio della ragione che
considera il mito come «accecamento», secondo la formulazione resa celebre
dalla «dialettica negativa» di Adorno. Contemporaneamente, esso si oppone alla
visione romantica, per la quale il mito rappresenta particolarmente l’affermazione
gioiosa della vita, una libera e piena manifestazione della natura: linea
teorica che parte da Vico e arriva a Schlegel. “Certamente, è vero –e
in questo Blumenberg concorda col romanticismo– che il mito è una
manifestazione della libertà; soltanto, tale libertà non è
un dato originario, bensì il
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risultato di un processo, un prodotto, una conquista anzi
proprio del rischiaramento. La mitologia, «in quanto rielaborazione di un
più antico patrimonio di rappresentazioni opprimenti e angosciose» non costituisce
allora «la condizione originaria, bensì una liberazione rispetto ad
essa»; si tratta dunque, di una «libertà secondaria», derivata, che si
è potuta realizzare solo «attraverso un processo di superamento”[10].
La funzione del mito è per Blumenberg, quella di liberare l’uomo
dall’angoscia di fronte all’«assolutismo della realtà» (da non
confondersi col senso di primordialità):
“Assolutismo della realtà significa che l’uomo quasi non controllava
le condizioni della propria esistenza e, ancora più importante,
semplicemente credeva di non controllarle”[11];
l’uomo, per la sua condizione originaria, è esposto alla sovrapotenza
dell’essere in uno stato naturale negativo che rende la vita impossibile.
Questa situazione, l’uomo la vive, la patisce con angoscia. Angoscia intesa da
Blumenberg, come “intenzionalità della coscienza senza un oggetto.
Essa rende equivalente l’intero orizzonte, come totalità delle direzioni
dalle quali «qualcosa può sopraggiungere»”[12];
l’uomo si sente debole di fronte ad un orizzonte indeterminato, totalmente
aperto. Per questo motivo, “l’angoscia viene continuamente razionalizzata in
paura, tanto nella storia dell’umanità quanto in quella dell’individuo”[13].
Siccome nell’opera Paradigmi
per una metaforologia del pensare, l’autore riesamina il rapporto fra
fantasia e logos, dovremmo chiarire quali sarebbero i confini reali fra le due
dimensioni, nel contesto di un rischio del rovesciamento delle loro
identità: “Il mito non è una fertile riserva di senso per la
sempre più esangue ratio della scienza, né esso si pone con una valenza
utopica rispetto alle «crisi di legittimazione» della società
contemporanea. Blumenberg non mira a stabilire un rapporto di compensazione
ovvero di complementarità fra mito e ragione. Il mito non è un
surrogato della ragione, bensì una sua peculiare e autonoma forma di
manifestazione. Sullo sfondo, mai del tutto esplicitato ma non per questo meno
evidente, opera qui un presupposto, in senso lato, naturalistico; la
ricognizione fenomenologica di Blumenberg si sostiene sulle basi di
un’antropologia filosofica, sostanzialmente antiroussoviana, che vede la
condizione umana quale si determina dopo la rottura di una primigenia
irrecuperabile fusione col mondo, come assoggettata alla dura necessità
di uscire allo scoperto, fuori dalla protezione della caverna originaria.
Esposto e insicuro, non garantito dall’automaticità di comportamento
dell’istintualità animale, l’essere umano deve con fatica costruire le
istituzioni che lo custodiscano e lo preservino”[14].
Esiste fra il carattere finito, mortale della nostra
esistenza e l’infinità della coscienza un dramma incommensurabile. Una
tensione incessante fra l’immemoriale della nostra origine e l’attuale
coscienza. Con altre parole, Blumenberg sottolinea questa
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tensione
come quella fra la preesistenza e l’esistere, fra «tempo di vita»
e «tempo del mondo». In questo senso, il mito acquista,
secondo lui, una funzione distanziante dall’«assolutismo della realtà»,
un valore di depotenziamento critico. Dunque non è più la ragione
che assume questo compito critico di valutare i problemi fondamentali
dell’esistere: “Le storie del mito «non venivano raccontate per rispondere a
domande, ma per scacciare il disagio e l’insoddisfazione, che sono la prima
condizione perché possano sorgere delle domande. Ovviare alla paura e
all’incertezza significa già impedire che sorgano oppure che si
concretizzino le domande relative a ciò che le suscita e le alimenta»”[15].
I miti non sono, come da sempre ha voluto l’allegorismo razionalistico
demitizzante, risposte distorte a problemi ben posti, bensì “procedure
narrative, «significatività» liberamente prodotte le quali esse stesse
generano problemi”[16].
Non si può parlare in Blumenberg di un passaggio dal
sistema delle metafore e dei miti al contesto di un pensiero filosofico e
scientifico; di una transizione dal mythos
al logos, in termini husserliani, dal
«mondo della vita» alla teoria: “Blumenberg dimostra come tale transizione
non esista, come le metafore e i miti non siano strutture prelogiche
provvisorie, che sarebbero poi sostituite da idee chiare e distinte. La
trasformazione ‘cartesiana’ dell’intera conoscenza in pura concepibilità
è riduttiva e talvolta fuorviante. Esistono altri modi del discorso che
non sono affatto più poveri di significato rispetto agli enunciati
‘scientifici’ o descritti. […] Come già sapeva Vico, vi è
anche una «logica della fantasia», che, peraltro, non si manifesta
esclusivamente durante i primi stadi della civiltà o della vita
individuale. Essa costituisce il «substrato» per le operazioni di pensiero, il
«catalizzatore» che arricchisce continuamente i concetti, senza consumarsi”[17].
Abbiamo nelle metafore degli atteggiamenti
pre-riflessivi, modi originari di situarsi e rivolgersi al mondo. E ancora il
motivo per cui “Vico aveva dichiarato la lingua della metafora altrettanto
«propria» quanto il linguaggio comunemente ritenuto tale, sennonché egli
è ricaduto a suo modo nello schema cartesiano allorché ha riservato per
la lingua della fantasia un’epoca primitiva della storia. L’esibizione di casi
di metafora assoluta, offre l’occasione a riesaminare il rapporto fra fantasia
e logos, e precisamente nel senso di considerare l’ambito della fantasia non
soltanto come substrato per operazioni di trasformazione a livello concettuale –per
cui, per così dire, un elemento dopo l’altro potrebbe venire sottoposto
a elaborazioni e modificazioni sino a esaurimento della disponibilità di
immagini– ma piuttosto come una sfera catalizzatore, alla quale il mondo
concettuale certamente di continuo si arricchisce, senza tuttavia modificare o
consumare questo sfondo costitutivo primario”[18].
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I miti e le metafore non sono semplici strutture
prelogiche, destinate alla chiarificazione dei concetti. Non si esauriscono nel
loro ruolo di «sostrato» o «catalizzatore», appunto perché la conoscenza non va
confusa con la concettualizzazione.
Esistono, dicevamo, per Blumenberg
«metafore assolute», che non possono ridursi o dissolversi nei concetti. Sono dei
«paradigmi» che hanno una vera storia.
“La metaforologia si presenta così come una disciplina, in via di
costituzione, che offre la cornice per comprendere meglio le teorie filosofiche
e scientifiche, che «cerca di ritoccare le sottostrutture del pensiero stesso,
la soluzione nutritiva delle cristallizzazioni sistematiche, ma vuole anche far
conoscere con quale ‘coraggio’ lo spirito si espone allo scoperto
nell’arditezza delle sue immagini, e come in questo coraggio di arrischiare
progetta la sua storia»”[19].
La metafora e il mito rappresentano un orizzonte di
intelligibilità, riforniscono di senso i nuovi problemi. Il mito, in
questo senso è al servizio del logos, “ha la funzione di
«depotenziare» lo strapotere della realtà, il suo «assolutismo».
Ciò significa che, quando gli uomini credono di non avere nelle proprie
mani il controllo della realtà, cercano spiegazioni per l’inspiegabile”[20].
Cercando di familiarizzarsi, avvicinarsi il mondo, la «paura» si razionalizza
attraverso il mito. In questo modo ci si allontana da un’angoscia che non ha
ancora un nome. A sua volta, la metafora “non è una regressione
intollerabile dal logos al mito, ma il quadro ‘tropico’ di riferimento del
pensiero. […] Anche le forme più astratte di conoscenza trovano
le loro radici nel ‘precategoriale’, a cui prescrivono un ‘progetto’, un campo
di proiezioni possibili”[21].
Il bisogno di razionalizzazione che rimanda al piano
elevato del contenuto dottrinale e dogmatico, sul piano del mito si risolve
nella semplice dimensione del racconto.
Il mito si realizza solo nella dimensione della coscienza ricettivo-
ermeneutica. Tramite un processo produttivo storico della ri-narrazione, il
mito si contrappone all’immobilismo antistorico e al culto esagerato
dell’arcaico. Esso indirizza sempre all’orizzonte della sua ricezione,
piuttosto che a quello della sua origine. La dimensione originaria del mito si
percepisce nella funzione del “racconto”:
“L’esigenza del raccontare, richiamando l’attenzione del lettore, è
primaria anche rispetto alla coerenza dottrinale. In quanto racconto, il mito
è sempre libero da contraddizioni, nel senso che esse non lo vincolano
ad alcun onere di verifica”[22].
Alla storia del mito non si può fissare nessuna
versione originaria o definitiva. La sua ricezione
coincide in un certo senso con la sua nascita.
Siccome diventa così impossibile parlare di una genesi del mito, è
“invece obbligatorio parlare di una loro «epigenesi» che si attua nella
ricezione. Nello stesso modo, è nella ricezione che dev’essere ricercato
il significato di un’opera, e non nel suo preteso «valore intrinseco».
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[…]
L’origine del mito è essa stessa lavoro sul mito, leggere il mito
significa costruirlo. Quanto più forte e motivata è la
distruzione operata dalla critica, tanto più forte diviene l’azione di
ricomposizione che si attua nella lettura”[23].
La ricezione, è essa stessa una produzione. Su questo terreno tematico,
Blumenberg sostiene che il mito ha una sua crescita, morte e rinascita, oltre
la sua sfera teoretica comprensibile. Il mondo delle sue immagini e proiezioni
si rinnova incessantemente.
Guardiamo al mito come ad una memoria dell’immemoriale,
come ad uno spazio scenico nudo; il mito è visto come “un’appropriazione
del senso virtualmente infinita, il limite sempre sfuggente e che nessuna
parola afferra una volta per tutte al di qua del quale la ragione,
indifferentemente, dispiega teogonie o lavora alla morte di Dio, edifica le
più audaci costruzioni intellettuali o ne smantella i presupposti, fonda
o sfonda. Ed è precisamente la consapevolezza di questa originaria
indifferenza (o, più esattamente, di questo costitutivo essere in
rapporto con il caos, come dicevano i romantici) che fa del mito il luogo
(teatrale o ludico) di un esercizio di emancipazione piuttosto che il veicolo
(terroristico) di un autoritarismo violento”[24].
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electronic copying, distribution in print form for educational purposes and
personal use.
Whether you intend to utilize it in scientific purposes, indicate the
source: either this web address or the Quaderni della Casa Romena 3
(2004) (a cura di Ioan-Aurel Pop e Cristian Luca), Bucarest: Casa Editrice dell’Istituto
Culturale Romeno, 2004
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© ªerban Marin, June 2005,
Bucharest, Romania
Last updated: July 2006
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[1] Pier Aldo Rovatti, Blumenberg,
il naufragio, in Idem, Il declino
della luce, Marietti Editrice, Genova 1988, pp. 113- 114.
[2] Ibidem, pp.
114 e segg.
[3] Hans–Ludwig Ollig, Blumenberg
in difesa del mito, in “Il Nuovo Areopago”, no. 1 (9), 1984, p. 124.
[4] P. A. Rovatti, op. cit., p. 120.
[5] Remo Bodei, Introduzione, in Hans Blumenberg, Naufragio
con spettatore. Paradigmi di una metafora dell’esistenza, Il Mulino,
Bologna 1985, pp. 9-10.
[6] Ibidem, p.
122.
[7] H.–L. Ollig, op. cit., p. 130.
[8] H. Blumenberg, Paradigmi
per una metaforologia, Il Mulino, Bologna 1969, p. 9.
[9] Ibidem, p. 10.
[10] Gianni Carchia, Introduzione, in H. Blumenberg, Passione
secondo Matteo, Il Mulino, Bologna 1992, p. 8.
[11] H. Blumenberg, Elaborazione
del mito, Il Mulino, Bologna 1991, p. 25.
[12] Ibidem, p. 26.
[13] Ibidem, p. 29.
[14] G. Carchia, op. cit., p. 9.
[15] H. Blumenberg, Elaborazione
del mito cit., p. 231.
[16] G. Carchia, op. cit., pp. 11-12.
[17] Remo Bodei, Introduzione,
in H. Blumenberg, La leggibilità del mondo, Il Mulino, Bologna
1984, p. 19.
[18] H. Blumenberg, La
leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, Il
Mulino, Bologna 1989, p. 7.
[19] H. Blumenberg, Paradigmi
per una metaforologia, Il Mulino, Bologna 1969, p. 9.
[20] R. Bodei, op. cit., p. 20.
[21] Ibidem, p. 21.
[22] Ibidem, pp.
21-25.
[23] Ibidem, pp.
26-30.
[24] Sergio Givone, Le
voci contraddittorie degli dei e il silenzio di Dio, in «Filosofia’90»,
Laterza, Bari–Roma 1991, pp. 47-48.