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Istituto Romeno’s Publications
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Quaderni 2004
p. 389
Benito e Arnaldo Mussolini:
due scrittori per un regime
Oana Boºca–Mãlin,
Università degli Studi di Bucarest/
Accademia di Romania in Roma
Nel 1925, anno che sanciva l’istaurazione a pieno diritto
del Regime, al Primo Congresso Nazionale degli Istituti fascisti di cultura,
Giovanni Gentile stendeva il Manifesto
degli intellettuali fascisti, che poi veniva pubblicato (il 21 aprile) su
tutti i giornali più importanti. Tuttavia, la questione di un’arte e di
una letteratura fasciste venne aperta appena un anno dopo, nell’estate del
1926, quando sulla rivista “Critica fascista” ebbe inizio un vero e proprio
dibattito sull’argomento. A dare l’avvio alla polemica fu Ardengo Soffici, il
quale si rifaceva a un discorso pronunciato dal Duce a Perugia presso
l’Accademia delle Belle Arti, in cui quello aveva affermato: “Dobbiamo creare
un’arte nuova, un’arte dei nostri tempi, un’arte fascista”[1].
Mentre sull’essenza di quest’arte, sullo stile e soprattutto sulla posizione
che questa nuova direzione artistica avrebbe dovuto assumere nei confronti
della politica i letterati ebbero molto da discutere[2],
almeno su un punto furono d’accordo la maggior parte di loro: sull’idea che
l’unica espressione artistica del fascismo e l’unico modello valido da seguire
veniva offerto da Mussolini stesso. Lui era “l’unico grande artista del
Regime”, sennò addirittura “l’unico nostro grande prosatore
contemporaneo”[3].
Inutile insistere oggi sul ridicolo e sulla
falsità di un tale sproporzionato encomio, il quale saremmo tentati a
presumere, in un primo momento, che non venisse considerato neanche all’epoca
come proposta di nuovo canone, ma piuttosto come una captatio benevolentiae del Duce, rievocando in falsa riga
l’esperienza di scrittore e di giornalista dell’ex direttore dell’“Avanti”.
Quest’ipotesi del discorso opportunistico, d’altronde, va rafforzata dalle
parole di Soffici, pubblicate nello stesso periodo sulla “Critica fascista”:
“Secondo noi, la recente circolare ai
prefetti costituisce, dal punto di vista artistico, il più insigne
capolavoro di prosa italiana di questi ultimi tempi, il capolavoro della
letteratura fascista”[4].
Senz’altro questa valutazione doveva sembrare azzardata e piuttosto fuorviante
anche per il lettore dell’epoca, il quale aveva a disposizione, come confronto
letterario con la mirabile Circolare dal contenuto a noi non
p. 390
pervenuto,
testi come quelli di Pirandello, Svevo, Bontempelli, ma anche Papini, Vittorini
o Malaparte.
Tuttavia, va sottolineato lo scopo con cui Soffici
proferiva tali giudizi: avviare uno stile di scrittura fascista. E quale
variante migliore per non dare dei suggerimenti sbagliati o per non creare
delle arti poetiche eretiche, se non quella di rifarsi alle pagine scritte dal
promotore e capo del fascismo stesso? Tra l’altro, quello che va notato in
queste righe è il fatto che Soffici non si limita a elogi smisurati ed
assoluti del capo del Governo, ma tira in ballo il concetto di valore
artistico, con l’intento chiaro di imporre, attraverso la propria autorità
di specialista, la creazione di un nuovo sistema valorico e di darne al tempo
stesso un primo campione con cui relazionare l’auspicabile letteratura
fascista. Ed ecco, quindi, che l’ipotesi di un mero valore omaggiale degli
apprezzamenti di Soffici viene bocciata.
Purtroppo, i tiri incrociati nelle pagine della suddetta
rivista tra Marinetti, Bontempelli e Malaparte –i quali volevano ciascuno
imporre la propria corrente letteraria come arte del regime– non portarono a un
esito costruttivo ma riuscirono solo a dare un ritratto in negativo, ad
abbattere cioè gli elementi che la nuova letteratura fascista non doveva
contenere: essa non doveva essere “frammentaria, sincopata, psicanalitica,
intimistica, crepuscolare, ecc., perché tutte queste forme artistiche non sono
che malattie dell’arte, ribellioni cinico-estetizzanti alla grande tradizione
italiana”[5].
Ovviamente, una tale definizione lasciava piuttosto nel vago l’individuazione
della nuova maniera di scrittura e suggeriva come unico punto fermo, almeno inizialmente,
la prosa di Mussolini.
Volendo ripiegarmi adesso sull’esempio creativo del Duce
per poter definire quella che doveva essere la letteratura fascista, ho scelto
di non soffermarmi sui suoi discorsi o articoli, e quanto meno sulle circolari o
su altri numerosissimi ordini, decisioni, annunci, provvedimenti amministrativi
o politici dello stesso –per quanto essi potessero essere dei “capolavori”– per
una ovvia ragione di ordine metodologico: tutti questi testi non potrebbero mai
accedere alla letteratura intesa come produzione prosastica e poetica
caratterizzata da intento e valore artistico, cioè a quel
tipo di letteratura che fa l’oggetto della presente ricerca. È
così che ho approdato, per maggior intendimento, a due opere di Arnaldo
e Benito Mussolini, Il libro di Sandro e
di Arnaldo (1934). Si tratta di due testi narrativi che appartengono alla
zona della memorialistica e della biografia, come genere, e a quella del poema
eroico, come approccio e come stile. Il loro studio è intento non solo a
proporre, secondo il suggerimento di Soffici (e non solo), la scrittura del
Duce come modello di letteratura fascista, ma anche ad approfondire alcuni
aspetti della sua personalità e delle biografie dei suoi familiari.
Pubblicando nel ‘34 la Vita di Arnaldo con il pretesto –la scelta del termine verrà
giustificata al momento giusto– di commemorare la morte ed evocare la
personalità e l’attività di suo fratello, Benito Mussolini scelse
di far precedere al suo il
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testo
che Arnaldo stesso aveva scritto in onore di suo figlio, a un anno della
scomparsa di questo (1931). Alla prima apparizione, Il libro di Sandro aveva avuto una tiratura ridotta, destinata ad
una cerchia ristretta di persone, rimanendo quasi del tutto sconosciuta. Nel
riproporlo a un pubblico più vasto[6]
il Duce voleva probabilmente costituire una specie di epopea familiare, di Mussoliniade, se vogliamo.
Il libro
di Sandro si apre con una dedica:
“Alla memoria di Italico Sandro questo libro di fede è consacrato dal
dolore e dalla speranza de’ suoi cari”. Arnaldo Mussolini, Pasqua del 1931–IX[7]”.
Nelle sue pagine l’autore non offre solo il ritratto del figlio scomparso
ventenne a causa della leucemia, quanto soprattutto un’agiografia costruita
sullo stampo degli exempla medievali.
Tale intento lo rivela dalle prime righe: “Devo segnalarti come esempio, devo
fare di te un modello di probità fiera, di ardimento freddo; devo far
conoscere il tuo animo di idealista, di mistico, a tutti i giovani della terra”[8].
Anche così, l’ode narrata non riuscirebbe a superare i toni elegiaci e
il fine di un mero rimpianto paterno. Ma al lettore è lecito pensare ad
uno scopo ben più razionale e utile del testo: avviare la costituzione
di una mitologia familiare che possa imporsi e resistere “all’esame della storia”,
fine testimoniato dalle stesse parole dell’autore: “È giacché domani
è presumibile che tutta la nostra famiglia, anche nei cerchi lontani,
possa essere oggetto di esame, di valutazione, di critica, io devo mettere in
giusta luce il breve periodo della tua mirabile vita”[9].
Purtroppo, l’auspicata ode assume in certi punti i toni e il carattere patetico
di un lagno popolare (anche a causa della scelta espressiva di rivolgersi allo
scomparso in seconda persona) o di un necrologo (data la precisione e la rigorosità
di un’evocazione che non dimentica i dettagli importanti): “eri ospitale con i
tuoi compagni, affettuoso con tutti, sempre pronto a comprendere e a valutare
in silenzio”[10]. In altri
passi, invece, il padre-autore oltrepassa i toni del lagno e l’iconografia
della Pietà e sembra proporre l’Assunzione di Sandro, con una specie di
salmo sui generis: “Tu sei passato
nella vita terrena come un Santo; appartieni al numero dei predestinati, a
coloro che danno vibrazione alla vita e motivo alle speranze”[11],
per offrire poi un ritratto del figlio in gloria, visto come creatore di un
“patrimonio di vita e di morte, di insegnamenti e di riflessioni[12]:
“Composto nella bara, con la tua camicia nera, sembravi un angelo”[13].
Se alla biografia vengono decisamente dati dei riflessi
mistici, spesse volte essa assume anche accenti eroici altrettanto
ipertrofizzati, come nei passi in cui vengono celebrate le imprese in cui il
figlio aveva dato mostra di nobili sì, ma per niente
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eccezionali
qualità, come l’amicizia, l’affetto filiale, l’interesse per lo studio e
il gusto per l’arte. Ad Arnaldo Mussolini non pare troppo neanche raccogliere
le recenti vicende della propria famiglia sotto il nome di una “sublime e
nobile tragedia”, con cui allude alla letteratura classica greca e tenta di
incamminare, praticamente, il dramma familiare del figlio giovane morto per
malattia sulle nobili tracce di un Eschilo o di un Sofocle. Ma il crescendo di
quest’evocazione tocca l’apice celebrativo (e il punto massimo del ridicolo,
per noi oggi) con la conclusione dell’autore: “Posso affermare, con assoluta
convinzione, che tu sei morto perché eri perfetto”[14].
Come già accennato, Il libro di Sandro fa le veci del proemio per il secondo testo
–come disposizione nel volume, ma in realtà il primo come importanza–
vale a dire la Vita di Arnaldo scritta da
suo fratello, dove sono riscontrabili molti dei temi, delle impostazioni e
delle scelte stilistiche che vanno considerate come principi della letteratura
fascista. In tono didattico e moraleggiante, il Duce propone qui come exempla i fatti, le scelte, le
considerazioni e gli atteggiamenti dei familiari e di se stesso. Negli intenti
dell’autore, i gesti diventano gesta,
i ricordi –rievocazioni, i documenti riprodotti pagine di letteratura da antologare,
gli scorci di natura descritti– brani di prosa poetica. Qui ogni considerazione
o commento sembra essere scritto per una lettura diretta al pubblico e l’opera
nell’insieme sembra un componimento a metà fra un manuale scolastico e
un lungo discorso (auto)encomiastico.
La biografia del fratello è divisa in capitoli
scelti secondo criteri misti: cronologico (Adolescenza,
Arnaldo soldato, Dopo la guerra) e tematico (Il giornalista e lo scrittore, Fratello e uomo, Il testamento di
Arnaldo), ed è incorniciata fra l’introduzione (Primi ricordi) e il Congedo.
L’opera fa largo uso di temi letterari recuperati dalla produzione romantica di
livello divulgativo che i lettori dell’epoca, anche quelli meno preparati,
percepivano probabilmente come molto familiari e scontati. Vi sono delle lunghe
descrizioni di un paesaggio bucolico e dei quadri di vita campestre,
soprattutto nella prima parte, quella dell’infanzia e dell’adolescenza
trascorse dai tre fratelli[15]
a Predappio, nella zona dell’Appennino Tosco-Emiliano. L’infanzia dei Mussolini
viene proposta come modello universale ed è molto probabile che agli
occhi del lettore essa avrebbe dovuto scattare l’analogia con l’atmosfera che
faceva da sfondo alle tribolazioni e alle imprese di Ballila di De Amicis. D’altronde,
l’universo rurale e la cultura tradizionale rappresentano un tema molto caro a
Mussolini, se dobbiamo pensare all’insistenza con cui riproduce passi di
poemetti e filastrocche popolari. D’altra parte, però, oltre l’elogio
della tradizione e della spiritualità popolari vi è un’altra
ragione che giustifica questo quadro bucolico iniziale: una ragione che non va
cercata nel gusto letterario, quanto piuttosto nelle strategie propagandistiche
e nel populismo. Qui, come in altre occasioni (film documentari, discorsi,
dichiarazioni autobiografiche), Mussolini insiste sulle origini povere della
sua famiglia e sull’idea che l’uomo adatto a governare il popolo non può
provenire che dal popolo.
p. 393
La prosa letteraria mussoliniana è particolarmente
ricca di citazioni da vari documenti. La Vita
di Arnaldo è intrisa, se non addirittura sopraffatta da brani
diaristici, da spezzoni dagli articoli del fratello[16],
da citazioni frammentarie o da epistole intere riprese dal carteggio dei due.
Vi si possono ritrovare persino atti amministrativi, come per esempio una
dichiarazione di reddito. E questo non soltanto nell’intento di suggerire
l’autenticità e l’obiettività delle affermazioni e dei commenti
dell’autore, e di dare la sensazione di apertura e di disponibilità ad
esporre la vita personale, quanto soprattutto per altre ragioni magari non
dichiarate apertamente ma che, a mio avviso, giustificano la stesura stessa di
questa biografia: fare, innanzitutto, una rassegna in tono elogiativo del proprio operato politico e sociale,
delle proprie doti e capacità;
offrire, in un secondo luogo, l’interpretazione ufficiale di certi avvenimenti
politici del Regime e ricordare i momenti chiave della storia della stampa
asservita ad esso. Usando, praticamente, la figura del fratello come schermo
–impresa agevolata molto dal fatto che Arnaldo aveva dedicato completamente la
sua vita al fascismo ed era stato un perfetto luogotenente e fautore del Duce[17]–
e appoggiandosi ai documenti in cui quello sosteneva ed esaltava ogni gesto del
Capo del Governo, Benito Mussolini cerca di legittimare e di suggerire la
giustezza e la prodigiosità delle sue proprie scelte. Certe volte lo fa
in modo più sfumato, come per esempio allorquando cita la “gentilezza”
con cui Arnaldo rifiuta alti incarichi pubblici e si dichiara un modesto e
totale sostenitore del fratello: “Poi nel
Parlamento Nazionale vi è la figura dominante di Benito Mussolini e non
è necessaria la collaborazione dei minori[18].
[…] Ad ogni modo io mi studierò di non seccarti e cercherò invece
di esserti utile in qualche ramo del gran quadro della tua attività”[19].
Altre volte, invece,
l’autocelebrazione attraverso le citazioni è più palese, come
quando si sente “costretto” a riconoscere che ad Arnaldo non era stato facile
subentrare al comando del “Popolo d’Italia” a Benito stesso, avendo
quest’ultimo impresso, secondo le proprie spiegazioni, un carattere polemico al
giornale e avendolo trasformato in organo del regime:
“La mia eredità era –lo posso affermare senza i falsi pudori delle
false modestie– pesante per chiunque, anche per un giornalista già
provato. […] Io avevo abituatto qualche centinaio di migliaia di
Italiani –durante nove anni– alla mia prosa, la quale è figlia naturale
e legittima del mio temperamento: quindi una prosa personalissima, che io non
ho mai potuto mascherare, né con pseudonimi, né con altri espedienti”[20].
p. 394
Vi sono, poi, delle citazioni dagli articoli e dalle lettere di Arnaldo riprese dall’autore della biografia con spudorato orgoglio e con scopi esclusivamente autoencomiastici:
“Benito Mussolini col suo grande prestigio di condottiero, di politico, di
animatore, ha chiarito la situazione politica e spirituale dell’Italia, ha
vinto la retorica, ha obbedito all’istinto, ha intuito la grandezza di una
Conciliazione. Spirito inquieto che la giovinezza esuberante aveva portato al
di là delle piccole concezioni filosofiche, nella pienezza della vita,
dell’ingegno, dell’esperienza, egli ha saputo ricondursi alle grandi
verità divine che resistono all’urto dei secoli[21].
[…] Solo tu sei capace di far camminare in un movimento sincronico la Nazione e
il Partito”[22].
Oltre alla lecita –sebbene facile– supposizione di egocentrismo patologico e di atteggiamento totalitaristico, vorrei proporre anche un’altra interpretazione per queste citazioni: forse non sarebbe del tutto sbagliato pensare che, riportando le parole di un valente giornalista del regime, lo scrittore volesse suggerire il tono giusto da adoperare nelle colonne dei periodici accreditati, il punto di vista e l’interpretazione ufficiale di certi avvenimenti politici –come per quello che sarebbe stato più tardi il ruolo delle veline– nonché gli atteggiamenti graditi di affetto, sostegno, cura, ecc:
“Fortunati quei Segretari responsabili che potranno assistere alla cerimonia
singolare. Ecco il segno della Patria, grande, una, immortale. Sfumano nelle
nebbie salse del mare i rancori puerili, le ambizioni e le vicende del piccolo
mondo[23].
[…] Ebbene, se la vita politica italiana, non la nostra piccola esistenza, ma
quella dell’Italia maestosa di grandezza e di potenza, può venire minata
e umiliata dalle forze che abbiamo elencate, Duce, non è necessario
sciogliere le mani agli squadristi, basta sciogliere la scure del littorio e
colpire inesorabilmente. Mezza Europa ha tolto dalla circolazione dei giornali
e l’Europa non si è vista per questo in gramaglie. Si possono, si devono
sciogliere società segrete, si può considerare un delitto aderire
ad un partito che attende l’ispirazione di una potenza straniera e che, a ogni
modo, si dichiara nemico dell’ordine costituito”[24].
Se a quelli riportati sopra aggiungiamo un’altro brano autentico –il telegramma scritto dal fratello in seguito al mancato attentato alla vita del Duce dell’11 settembre ‘26– scopriamo che i meccanismi di manipolazione del capo fascista sono ben più raffinati e subdoli, in quanto il messaggio che arriva al lettore è uno di protezione divina e di invincibilità di Mussolini e di doverosa venerazione degli italiani al loro capo:
p. 395
“Iddio ti protegge, gli
Italiani ti venerano: due forze che rendono vana la criminalità degli
avversari. Turbato, commosso, ti abbraccia Arnaldo”[25].
D’altronde,
la mia supposizione viene confermata da altri passi, come per esempio quello in
cui l’autore sceglie di riportare nel libro un altro testo di Arnaldo con lo
stesso intento di mandare al lettore un messaggio velato del tipo: “il vostro
Capo è intoccabile e nessun suo giudizio va discusso. […] I fascisti tutti hanno questo merito: non discutono il loro Capo”[26].
Stillate con precisione, le parole di Arnaldo Mussolini
cessano di essere, nel libro scritto dal fratello, dei meri elogi e diventano
dei veri e propri stalagmiti innalzati per sostenere la mitologia fascista che
ha al centro il Duce stesso: guida infallibile e invincibile, salvatore
provvidenziale della Patria. Ma a questi, Mussolini scrittore aggiunge un altro
mito destinato a fare carriera nell’arte fascista di massa: quello del martire.
Come rappresentante del movimento, il direttore del “Popolo d’Italia” viene
proposto/imposto come figura emblematica della Rivoluzione e ne diventa a
posteriori uno degli eroi sacrificati. Ed è per aumentare il valore
simbolico della vita e morte da fascista di Arnaldo che il fratello Benito ne esalta
necessariamente la bontà, lo spirito cristiano, la virtù del
perdono e la cura per gli umili –tutte qualità atte a conferirgli
un’aura da martire; l’impresa viene appoggiata dalla citazione del Testamento
politico fascista del giornalista e portata a termine da un ultimo tocco
dell’autore della sua biografia: nel contesto dei valori cristiani che il Duce
attribuisce al fratello, lui cita l’ultima conferenza sostenuta da questo
presso la Scuola di Mistica Fascista, accostando deliberatamente il
cristianesimo alla mistica fascista.
Nel momento in cui il capo politico si decide di
“corteggiare” la letteratura, con il volume preso in discussione qui, è
normale pensare che lo faccia per commemorare la vita e l’attività del
fratello e per offrire agli scrittori e al pubblico una mostra di scrittura
fascista –secondo l’ipotesi che si vuole promuovere in questa sede– ma lo fa
anche per condividere qualcosa delle sue esperienze giovanili da giornalista.
È così che si potrebbero spiegare il frequente accenno a questa
professione e le teorizzazioni che ama fare in merito, nelle pagine della Vita di Arnaldo. In questo senso, il
capitolo sull’attività di redattore del fratello si conclude con un
elogio in cui spicca il concetto di “giornalista” nel pensiero del Duce:
“Arnaldo è stato il grande e fin qui non superato giornalista della
Rivoluzione delle Camicie Nere e [...] in tutto ciò che rappresenta la
parte minore del giornalismo. Arnaldo non dimenticava mai la nota educativa,
quella che nobilita la professione e ne fa qualche cosa di fondamentalmente
diverso da un semplice commercio di notizie e di carta stampata”[27].
In altri passi dell’opera, poi, il Duce analizza il rapporto tra il giornalismo e la letteratura:
p. 396
“In genere, l’attività giornalistica è troppo legata al
‘fatto’ per permettere le elevazioni della letteratura. Non v’è dubbio
però che il giornalista può ginnasticare il cervello, così
come una palestra prepara gli atleti [sic!]. Il giornalista diventa scrittore
quando si ‘interiorizza’, quando comincia a vedere le cose non più sotto
l’aspetto cinematico della contingenza, ma in quello della trascendenza; quando
piega il capo per riflettere sui problemi originari; quando, come nel caso di
Arnaldo, portato da un atroce dolore sulla cima, si sente liberato dagli
impacci che lo legavano alla pianura e respira ormai nell’atmosfera delle cose
infinite ed eterne. Il giornalismo quotidiano finisce e comincia la poesia.
Poesia dell’amore e della morte, della speranza e della rassegnazione; della
vita terrena e del al di là seducente e consolatore”[28].
Ne deriva la concezione di una letteratura ossigenata
nell’aria rarefatta delle idee “eterne” ed “infinite”, capace di cogliere
l’essenza delle cose e dei fenomeni e di aprire al lettore l’accesso al
trascendente, ma allo stesso tempo espressione di forti sentimenti e ispirata
ai grandi temi originari come l’amore e la morte, la speranza e la
rassegnazione e così via.
È con questo pensiero che il Duce intende
promuovere il lungo dialogo astratto fra padre e figlio che è il Libro di Sandro, di cui apprezza il
patetismo che permette al lettore di empatizzare con l’autore, gli “accenti
quasi non terreni”, la forza drammatica, la “cristiana rassegnata malinconia” e
non in ultimo luogo la forma compiuta. Ed è sempre con questo pensiero
che integra nella sua propria opera dei brani in prosa ed in versi tratti dalla
creazione del fratello, per offrirli a mo’ di esempio di letteratura fascista.
Proprio per questo reputo necessario riportare questi frammenti in seguito,
integrando un breve commento alla fine di ognuno di essi:
“Viaggiando per i campi dunosi che la pioggia recente ha fatto coprire di
un verde tenero che sparirà col caldo incipiente, vedo improvvisamente
vaste macchie di fiori dal tono caldo dei tropici. Rossi cupi, azzurro intenso,
prati di fiori gialli o margherite tenui. Dove ho provato ancora queste
sensazioni di ambiente, di colore, di tempo lontano che io non ricordo, in un
quadro che non riesco a costruire? Qualche mio lontano antenato ha forse
percorso questa terra? O viva, nei toni violenti e decisi, è una vita
che mi è stata strappata e per la quale l’angoscia più acuta mi
stringe? Ritorno a Tripoli nel tramonto. Il sole che cade nel mare tinge di
rosso vivo l’orizzonte. Pensieri lontani, sentimenti che si dibattono nei
confini inafferrabili, ricordi di glorie antiche e di dolori recenti.
Malinconia dolce e grave nel crepuscolo”[29].
Si tratta di annotazioni dal viaggio fatto da Arnaldo Mussolini in Libia nel marzo ‘31, in seguito alla morte del figlio. Il paese africano, parte di quello “spazio vitale” ricorrente nel pensiero politico fascista, era stata qualche anno prima meta di uno degli ultimi viaggi del figlio Sandro, prima della morte. È a lui che il padre accenna parlando di quella “vita che mi è stata strappata”. Tuttavia, non è l’elemento
p. 397
autobiografico che va notato in questo brano, ma il tema (la descrizione di un paesaggio); il tipo di prosa poetica impressionistica senza particolari rilievi stilistici, sebbene intrisa di epiteti piuttosto comuni; e soprattutto il messaggio che traspare non ad una lettura letterale ma ad una simbolica. Vale a dire, l’idea che gli antenati romani avevano già percorso, nel passato, le stesse strade e che il loro ricordo è ancora vivo nell’atmosfera dei luoghi e nel subconscio di un italiano per cui l’incontro con la terra intorno a Tripoli non è una visita in un posto sconosciuto ma una specie di rientro a casa.
“Nuvole
Ho visto stamane ridente
la terra.
Ho aspirato l’acre odore ferigno
delle zolle riarse
imbevute
della pioggia feconda!
Le piante sembravano uscite
da un lavacro di festa
nella gloria del sole
e tendevano
i rami, le vette, gli steli
verso il cielo
a ringraziare e benedire
stracci di nuvole
fuggenti
ad irrorare
altre terre lontane!
Così io vorrei un mattino
svegliarmi improvviso
sentirmi leggero
perdute le scorie
della materialità
sentirmi vicino
agli esseri cari
librato lo spirito
ai lidi immortali!
Non credere al male
gioire accendendo!
Abbracciare nell’impeto
i fratelli che soffrono
coloro che sperano,
nel pensiero che illumina
il mondo.
Tendo lo spirito in alto
come gli steli e le piante
verso i cieli!
p. 398
Ma i desideri dell’anima
fuggono anch’essi
come le nuvole
verso lidi lontani”[30].
Questa seconda citazione non ha altro scopo che di far
notare alcuni elementi di uno stile poetico promosso da Mussolini –critico
d’arte: le metafore che riecheggiano quelle dannunziane, gli epiteti ricercati
e di sapore ottocentesco, il tono estatico, la brevità dei periodi (si
veda anche la citazione in prosa) e la scelta del verso ristretto, la
semplicità, per non dire povertà, di idee o di sentimenti
comunicati, l’ottimismo misto di patetismo –tutti elementi che generano un’immagine
complessiva di poesia piuttosto maldestra; uno stile parzialmente riscontrabile
pure nelle scelte formali di Mussolini– scrittore, il quale, d’altronde, fa
largo uso di evocazioni retoriche[31],
ama la sentenziosità delle frasi brevi e concentrate e il tono patetico.
Proponendo la Vita
di Sandro e di Arnaldo scritta da Arnaldo e Benito Mussolini come modello
di letteratura del regime, un’analisi contenutistica e formale dei due testi
letterari si imponeva con necessità. Con la stessa necessità con
cui si impone, a mio avviso, la considerazione di queste opere congiunte in un
unico volume come due parti di una stessa epopea: una cosiddetta Mussoliniade, avendo come protagonisti
un santo e un beato, un puro e un eroe, tutt’e due assunti come di Manes della famiglia.
Una volta tirate le somme sulle due opere, sembrerebbe
giusto mettere punto al presente studio. Tuttavia, non lo farò prima di
ricordare un insolito e allo stesso tempo felice incidente avvenuto in
occasione della lettura del volume di cui sopra. Quella che ho potuto consultare
presso la Biblioteca Monteverdi dell’Università degli Studi “La
Sapienza” di Roma era un volume appartenente alla prima (e forse unica)
edizione dell’opera mussoliniana, vale a dire quella del ‘34, fra le cui pagine
ho avuto la fortuna di trovare uno spezzone da giornale. Purtroppo, non ho
avuto modo di rintracciare il titolo della pubblicazione, e neanche la data in
cui apparve l’articolo che riporto in seguito. Tuttavia, da un’attenta lettura
dello stesso si può dedurre con molta probabilità che si tratti
dell’edizione del 30 luglio 1935. La ragione per cui ho pensato di riprodurre
qui la cronaca di uno dei tanti atti celebrativi del Duce –oltre che quella di
segnalare un interessante documento dell’epoca– è che, alla luce del
commento di cui sopra, l’articolo è complementare delle due biografie e
soprattutto rispetta il modello di scrittura del regime. In poche righe, il
cronista nobilita le origini del luogo di nascita del Duce (facendole risalire
addirittura al Medioevo), esalta la disponibilità, la popolarità,
gli affetti filiali e il dinamismo dello stesso, e allude alla rovina del
podere –luogo che aveva visto sfruttare per generazioni la famiglia Mussolini–
vista quasi come una hybris divina. Al di là dell’umorismo involontario,
il pezzo resta per il lettore odierno un’interessante e utile prova di
giornalismo di parte.
p. 399
“Un’epigrafe del Duce sulla sua casa ove vissero e
lavorarono i Mussolini
Forlì, 2 – Nella parrocchia di Santa Maria di Montemaggiore, frazione
di Predappio Nuova, dove nel 1168 Candolino ebbe investitura dai vescovi
forlivesi feudatari di Culmano e Marsignano, giunsero l’altro giorno alcune
automobili, che sorpresero in piena operosità agreste la gente della
vallata e dei colli vicini. Dalla prima vettura discesero il Capo del Governo
con la consorte, e dalle altre i figlioli Vittorio e Bruno, il nipote Vito e
pochi altri familiari, il Prefetto di Forlì, il Segretario federale,
pure di Forlì, ed il Podestà di Predappio Nuova.
Il priore don Ciro Damiani fu sollecito ad accorrere,
seguito da un limitato gruppo di rurali, attratti dall’insolito passaggio delle
automobili. A piedi il Duce con i familiari ed il seguito percorse il sentiero
campestre, per sostare sul limite del pianoro, che si stende poco al di sotto
del culmine del colle.
La mèta del viaggio è stata una vecchia
casa colonica, che alle impronte delle diverse epoche della sua costruzione
unisce le deturpazioni del lungo tempo trascorso. E’ il podere ‘Collina’
condotto dal mezzadro Giovanni Romualdi, di 40 anni, e padre di sei
figlioletti. Egli ha ricevuto il Duce e Donna Rachele con quelle espressioni di
gratitudine che sorgono spontanee dal più profondo del cuore. Sulle mura
corrose, sull’ibrida unione dei sassi e dei mattoni posti a nudo, tra
l’ingresso della stalla e quello della cantina, un drappo bianco di semplice
tela campagnola ricopriva una limitata superficie. Il duce tolse il velo, ed
agli occhi dei presenti una lapide semplicissima, sulla quale sono trascritti i
seguenti pensieri dettati da Mussolini:
Dal 1600 al 1900 – In questo
podere chiamato “Collina” – Vissero e lavorarono – Le generazioni contadine –
Dei Mussolini – E qui nacque mio padre – L’11 novembre 1854. Questo ricordo –
Volle Benito Mussolini – il 29 luglio 1935 – Anno XII Era Fascista. Dopo lo scoprimento compiuto nella forma più semplice ed austera,
il priore don Damiani lesse un nobile indirizzo alla memoria di Alessandro
Mussolini, esaltando il rito dell’onore reso alla paternità e alla
maternità. Dopo una breve sosta sul memore luogo, il Capo del Governo,
intrattenutosi con l’umile gente accorsa dai vicini casolari, faceva ritorno
con i familiari alla Rocca delle Caminate”.
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(2004) (a cura di Ioan-Aurel Pop e Cristian Luca), Bucarest: Casa Editrice dell’Istituto
Culturale Romeno, 2004
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© ªerban Marin, June 2005,
Bucharest, Romania
Last updated: July 2006
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Quaderni 2004
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[1] Cfr. Giuliano Manacorda, Storia della letteratura italiana tra le due
guerre, 1919-1943, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 20.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem, p. 21; e Cfr. le parole di Mario Puccini, apud Ibidem,
p. 21: “Ben altro esempio ci dà Colui che tutti ci supera in statura
intellettuale e morale, il Duce”.
[4] Ibidem, p. 21.
[5] Cfr. articolo conclusivo della
polemica su “Critica fascista”, febbraio 1927, apud G. Manacorda, op. cit.,
p. 21.
[6] Il volume editato presso la
Ulrico Hoepli Editore era incluso nella collana “Scritti e discorsi di Arnaldo
Mussolini. Edizione definitiva”.
[7] Il IX segnava il nonno anno della nuova era fascista.
[8] Arnaldo Mussolini, Benito Mussolini, Vita di Sandro e di Arnaldo, Ulrico
Hoepli Editore, Milano 1934, p. 11.
[9] Ibidem, p. 12.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem, p. 14.
[12] Ibidem.
[13] Ibidem, p. 54.
[14] Ibidem, p. 64.
[15] Benito, Arnaldo ed Edvige.
[16] Arnaldo Mussolini, giornalista, aveva assunto nel 1922
la direzione del quotidiano “Popolo d’Italia”, subentrando al fratello.
[17] Il Duce si autodefiniva, in rapporto al fratello,
“l’uomo al quale era fiero [Arnaldo – n. n., O. B–M.] di obbedire come gregario”,
Cfr. A. Mussolini, B. Mussolini, op. cit., p. 146.
[18] Ibidem, p. 154:
frammento tratto da un articolo del “Popolo d’Italia” con cui il direttore del
giornale aveva giustificato il proprio rifiuto nel 1928 di candidarsi per un
posto nel Parlamento.
[19] Ibidem, p. 118; si tratta di una lettera di ringraziamento di
Arnaldo per l’invito che il fratello gli aveva fatto di soggiornare a Roma per
un periodo [n. n., O. B–M.].
[20] Ibidem, p. 126; va notato che qui Mussolini
propone addirittura una critica letteraria del proprio stile.
[21] Ibidem, p. 142; la citazione è riprodotta
da un articolo scritto da Arnaldo Mussolini in occasione della firma dei Patti
Lateranensi del ’29.
[22] Ibidem, p. 169; riproduzione da una lettera di
Arnaldo Mussolini dell’8 novembre 1926.
[23] Ibidem, p. 131; l’articolo di Arnaldo Mussolini,
da cui viene estratto il brano, faceva la cronaca del Rapporto dei segretari
federali tenuto dal Duce nei primi di aprile del ‘26 sulla nave “Cavour” che lo
portava in Libia.
[24] Ibidem, p. 132; frammento tratto da un articolo
apparso su “Il Popolo d’Italia”, il 16 settembre 1924, scritto in seguito al
ritiro dei parlamentari sull’Aventino e in cui si giustifica e si sollecita la
censura di alcuni giornali.
[25] Ibidem, p. 168.
[26] Ibidem; frammento tratto da una lettera di
Arnaldo Mussolini del settembre ‘24.
[27] Ibidem, p. 159.
[28] Ibidem, pp. 146-147.
[29] Ibidem, pp. 147-148.
[30] Ibidem, pp. 148-149.
[31] Si veda, per esempio, la prosopopea della Patria: “La
Patria chiama oramai tutti i suoi figli a difenderla. Arnaldo è chiamato
alle armi”, Ibidem, p. 10.