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Studi critici sulla narrativa romena del Novecento apparsi in Italia

 

Maria  Bulei,

Istituto Romeno di Cultura e

Ricerca Umanistica, Venezia

 

Come premessa a questo contributo vorrei precisare che il materiale analizzato comprende sia monografie su autori romeni, storie della letteratura romena, che introduzioni a traduzioni dal romeno all’italiano, saggi, recensioni, articoli pubblicati in riviste specializzate o atti di vari convegni. Per la scarsa reperibilità di alcuni studi, non siamo riusciti a percorrere l’intero materiale, pertanto, il presente studio non può avere un carattere esauriente. Saldi punti di riferimento per il nostro lavoro sono state le ricerche bibliografiche pubblicate da Pasquale Buonincontro (La presenza della Romania in Italia nel secolo XX), Ioan Guţia (Le traduzioni d’opere letterarie romene in italiano 1900-1989) e, per quanto riguarda gli ultimi decenni, da Bruno Mazzoni (La presenza della letteratura romena in Italia 1989-2001), attente rassegne concernenti le pubblicazioni di e sulla letteratura romena apparse in Italia.

Negli ultimi anni l’attenzione dellla critica letteraria si è rivolta sempre di più al destinatario di un’opera, al lettore, nella consapevolezza che il senso e il valore della letteratura vanno riscontrati soprattutto nella sua ricezione, nell’insieme delle sue letture possibili. La vitalità letteraria dell’opera risiederebbe, dunque, nel dinamismo interattivo delle manifestazioni di consenso e dissenso provocate nei diversi pubblici che ne affrontano la lettura. Ma con questo non si dichiara estinta la funzione del critico e la validità dei suoi giudizi. La critica continua ad identificarsi con la coscienza stessa, con la teoria e la pratica della letteratura. Se oggi, per conoscere l’impatto di un’opera sui suoi destinatari si possono compiere analisi sociostatistiche della massa dei lettori, ed ermeneutiche, che svelino il modo in cui sia stata letta l’opera in questione, per quanto riguarda la prima parte del Novecento ci resta da studiare i vari commenti dei critici, lettori in fondo anche loro, che hanno saputo, però, far tramandare le loro impressioni tramite la scrittura, che rimane.

Il periodo fra le due guerre rapprresenta la stagione più intensa e vivace delle relazioni italo-romene. Nell’ambito letterario ne sono testimoni le numerose traduzioni in italiano di opere romene e gli studi critici apparsi soprattutto sulla stampa. Sulla rivista Europa Orientale pubblicata a Roma dall’Istituto per l’Europa Orientale troviamo nel 1923 una recensione[1] alle Novelle romene dello scrittore Mihail Sadoveanu, a cura di Carlo Tagliavini, un grande romenista e promotore della letteratura romena, sotto la cui direzione usciranno anche i prestigiosi Studi romeni (1927-1930). In poche ma incisive righe vengono evidenziati i tratti principali della prosa di questo classico romeno: tematica epica, tradizionale, stile sobrio “pieno di musicalità e di bagliori”, vigoroso narratore “innamorato degli aspetti talvolta soavi, tal’altra paurosi del proprio paese”.

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Sulla rivista mensile Giornale di politica e letteratura troviamo nel 1929 un numero speciale dedicato alla Romania. Di notevole importanza ci appaiono due articoli[2] firmati da Ramiro Ortiz, a quei tempi docente di lingua e letteratura romena presso l’Università di Bucarest. Nel primo studio, il prestigioso romenista passa in rassegna le principali correnti della letteratura, ma anche della critica romena contemporanea. Il secondo studio sulla prosa romena del Novecento sarà poi ripreso e integrato con passi scelti tradotti dalle opere della maggior parte degli scrittori commentati nella sua pregevole opera Letteratura romena, pubblicata a Roma nel 1941. Ci riferiremo in seguito direttamente agli ultimi due capitoli di questo volume che presentano un ampio quadro della narrativa romena e delle sue tendenze. Con un commento chiaro, che non si perde in ideologie, si delineano significativi ritratti di scrittori che mantengono vivo lo spirito letterario romeno: dal novellista Brătescu–Voineşti, “cesellatore pieno di grazia, settecentescamente idillico”[3] fino a Livio Rebreanu, lo scrittore ritenuto il più degno di rappresentare la letteratura romena contemporanea. Senza perdere di vista le tematiche delle opere prese in considerazione, Ortiz adopera di fatto una critica stilistica, molto attenta all’analisi del linguaggio, metodo d’altronde diffuso in quelli anni. Ma lo studioso italiano non è preoccupato soltanto dell’espressività dei testi letterari esaminati; il proprio stile di interpretazione diventa altrettanto rilevante. Con Ortiz la critica svela la sua genesi e la sua finalità essenzialmente letteraria. Citerei in questo senso alcuni passi di rara liricità. Sadoveanu, “l’interprete perfetto dell’anima popolare moldava” gli appare come “un fiume dalle acque abbondanti, ma calme e serene, che rispecchiano azzurro di cieli e verde di boschi”[4], mentre il fascino di Hortensia Papadat-Bengescu, la scrittrice di romanzi di tipo proustiano, “consiste in un mistero un po’ grigio, un po’ di giornata di pioggia, o meglio di un giardino abbandonato, un po’ solitario, un po’ malinconico, ma con rosai fioriti veduti attraverso il velo di una pioggerella lenta e triste; ma sommamente armonico, melodioso, suadente nella delicatezza dei toni grigi e violetti meravigliosamente fusi nella tavolozza di questa esploratrice d’ombra, di questa deliziosa pittrice amante della luce crepuscolare”[5]. Come lo sottolinea anche Gino Lupi in una recensione[6] alla Letteratura romena apparsa sull’Europa Orientale nel 1941, il merito di Ortiz sta anche nell’aver saputo accostare, anche senza approfondimenti, i nostri prosatori con autori italiani, il che contribuisce a rilevare al lettore lo spirito dei singoli scrittori.

Al 1930 risale una breve recensionne[7] al romanzo Ciuleandra di Livio Rebreanu tradotto da Venere Isopescu, apparsa sul Giornale di politica e letteratura a cura di Umberto Biscottini, il direttore della rivista. Il romanzo, che prende il titolo da una danza popolare romena “selvaggia e dionisiaca” rileva ancora una volta la personalità vigorosa di narratore di Rebreanu, e il recensore ne è consapevole. Tramite un approccio rivolto più al contenuto, Biscottini nota la curiosità psicologica con cui viene analizzata questa “passione triste e fatale”.

Su Cezar Petrescu, altro scrittoree emergente del primo dopoguerra, ma di formazione seminatorista, punta invece Giulio Cogni in un suo saggio intitolato Cose romene: Creangă e

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Petrescu[8], apparso sulla rivista Conviviium nel 1931. Come lo suggerisce in un certo senso anche il titolo, nella visione di Cogni la realtà romena è qualcosa di lontano e di particolare “ove tutto prende un colore, alla russa”. Considerare oggettiva, equilibrata, realistica la novellistica di Petrescu, avvicinarla addirittura alle opere di Pirandello è forse esagerato per quanto concerne questo scrittore molto fecondo, ma di scarsa profondità, la cui narrativa abbonda anche troppo di fantasia e di eterogeneità, per rifarci alle parole del nostro più importante critico, Călinescu. Cogni si sente però affascinato da quella che egli chiama “un’accurata e umanissima nostalgia del tempo e del mare, e della giovinezza fuggente e dei ricordi” di cui sarebbero pervase le sue novelle. E come lui sono in tanti i lettori italiani che apprezzano l’inventiva scrittura di Petrescu, visto le numerose traduzioni che hanno conosciuto le sue opere.

Nel 1933, Mario Ruffini, professorre di lingua e letteratura romena all’Università di Torino pubblica sull’Europa Orientale un saggio dedicato alle Correnti spirituali nella moderna letteratura romena[9]. Nonostante consideri la nostra una letteratura rappresentativa, Ruffini sembra aver colto soltanto in maniera parziale le sue caratteristiche. Secondo la sua superficiale valutazione c’è soltanto il tradizionalismo ad affermarsi in quel periodo sulla scena letteraria romena, corrente d’altronde da lui criticata per la mancanza di intellettualità dei personaggi e il culto del passato che ne derivano. Affermare che “la letteratura romena è rimasta ancora alle manifestazioni primitive dello spirito, alle vecchie idee dei moti del 1840, idee in evidente contrasto coi suoi bisogni attuali di evoluzione”, significa negare l’esistenza di opere fondamentali per la letteratura romena, che hanno rivoluzionato il romanzo romeno, sia dal punto di vista della forma che della tematica affrontata.

Ecco apparire nel 1937 una vera e propria monografia di più di cento pagine su Livio Rebreanu, scrittore che ha saputo arricchire la prosa romena non soltanto di due monumentali romanzi della terra, ma anche di pregevoli pagine di guerra e di fine analisi psicologica. Nonostante il titolo Un naturalista romeno: Livio Rebreanu[10], Anna Giambruno mette in rilievo i pregi e i difetti del romanziere romeno cercando di vedere se di lui si potrà dire ciò che di Italo Svevo dice il critico Camillo Pellizzi: “che il suo pregio essendo reale non deriva menomamente dal fatto che i suoi scritti echeggino tendenze letterarie di sorta nazionale o straniere”. L’autrice evidenzia come Rebreanu si sia distaccato per certi aspetti dal naturalismo e dal realismo diffusi in Europa e sia riuscito a rappresentare un modello di obiettività veramente raro. Diversamente da Verga che alterna alla storia delle perdite quella delle speranze, Rebreanu, come afferma Giambruno, “fa esclusivamente la storia della conquista in cui l’uomo si accanisce e verso cui l’uomo si volge da una posizione quasi irreale: quando avviene il contatto con la realtà, avviene allora fatalmente la rovina”, che è per i suoi personaggi “più immediata e terribile”[11]. Attraverso simili raffronti l’autrice di questo studio approfondisce in maniera originale le opere più importanti ma anche quelle minori di Rebreanu, riuscendo a “liberarsi dal groviglio di precedenti critiche” come ci ricorda Padrini nel suo articolo[12] sugli studi italiani di letteratura romena apparso

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nel 1940 sul Meridiano di Roma. La Giambruno sa trovare anche accenti lirici nella prosa di Rebreanu, soprattutto nella Foresta degli impiccati, ma è la “magnificazione della terra attraverso ogni creatura, questo amore che resta intatto pur tra le miserie, le cadute, le colpe […] la vera originalità dello scrittore romeno”[13].

Nel valutare la fase attraversata dalla letteratura romena di quel tempo, un approccio molto più oggettivo di quello esposto da Ruffini adopera Marcello Camillucci, professore di lingua e letteratura romena all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nel suo articolo intitolato proprio Evoluzione dell’ideologia letteraria romena[14], apparso sulla rivista Vita e pensiero nel 1941. Per Camillucci è evidente che per quanto concerne la cultura romena sia già in atto il processo di creazione di valori che affermino una loro vitalità originale, pronte a cristallizzarsi nelle forme della cultura universale. Dopo un accurato esame dei principali orientamenti maturati dalla letteratura romena prima e dopo la prima guerra mondiale, Camillucci conclude affermando che “una cultura che può annoverare valori come Blaga, Călinescu, Eliade […] possiede già l’orgoglio legittimo di sentirsi nel cuore di questa civiltà”.

Anche in un articolo della rivistaa Italia che scrive[15] del 1941 Camillucci traccia un panorama culturale dei latini d’oriente. Egli avverte ancora una volta l’esplosione dei germi, di una generazione nuova pronta a toccare la luce col vertice della sua volontà di vita. Sotto la penna di giovani di grande ingegno la prosa sta cercando di attingere un volto che disveli un nuovo e riapprofondito tormento umano. Camillucci auspica che questi giovani ancora “romanticamente in lotta con se stessi, in polemica confusa con il tempo” possano uscire “dagli esasperati egocentrismi, dal crudele ossequio ai maestri del diluvio per ritrovare un centro umano, […] un’illusione meno sterile”. In conclusione del suo articolo, lo studioso italiano esprime una speranza: che la poesia domani “aiuterà, anche sulle rive del Danubio, a ricostruire il mondo”.

Nel suo studio[16], apparso sul Meridiano di Roma del 1942, Franco Cardinali, per rendere più chiare le sue considerazioni sulla narrativa romena contemporanea, porta come esempio l’opera di Livio Rebreanu. Ci troviamo così, ancora una volta, di fronte ad un articolo di un’intera pagina dedicato a Rebreanu, testimone di quella spontaneità, di quella specie di “ingenua novità nel sentire l’influsso, di docilità virginea a plasmarsi al primo impulso creativo” che rappresenta, secondo Cardinali, il carattere predominante della prosa romena. Attraverso un commento ricco di citazioni dalla critica romena e italiana ma anche di preziosi giudizi personali, Cardinali analizza le opere dello scrittore romeno tramite le quali si delinea il suo temperamento di artista forte, sobrio, obiettivo. È possente il quadro dei vari strati di popolazione della sua patria che Rebreanu sa presentare attraverso una prosa tutta permeata di materia, tutta capacità di notazione. Accanto ad altre opere romene la sua narrativa può essere stimata di “innegabile valore estetico” ed è pronta, così, a varcare i confini del luogo della sua creazione.

Anche Agnese Silvestri Giorgi, eleegante traduttrice di numerose opere di spicco della letteratura romena, considera già concreto l’inserimento della nostra cultura nel più vasto quadro di quella europea. È riconosciuta a Rebreanu, cui ella dedica il saggio Un grande romanziere

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romeno[17] apparso sulla rivista Augusteaa nel 1942, “la profonda sensibilità artistica”, la capacità di passare dal personale all’oggettivo, dall’individuale all’umano, dall’autobiografia del reale a quella del possibile, attributi questi di un vero prosatore, secondo Perpessicius[18]. Rebreanu è sì “romeno fino alle midolla delle ossa”, ma allo stesso tempo, sono poche le pagine nella letteratura moderna universale che possono stare a pari di quella in cui Ion bacia la terra, mentre la Foresta degli impiccati, si ricorda, è “il più bel romanzo che abbia espresso la grande tragedia europea della prima guerra mondiale”. Senza seguire un particolare metodo critico le riflessioni di Agnese Silvestri, incentrate per lo più su Ion, romanzo d’altronde da lei tradotto, si configurano piuttosto come una presentazione, sicuramente pertinente e di un certo fascino. La traduttrice avverte qualcosa di sacro nel tenace e feroce amore per la terra dimostrato dal contadino Ion – un amore che “basterebbe a rilevare in questi Latini d’oriente la nobile discendenza da Roma”. Affermando la difficoltà di individuare il carattere di Rebreanu, visto la diversità dei suoi romanzi, Agnese Silvestri percepisce quello che Sorin Alexandrescu nel suo libro La modernité à l’Ést chiama “il paradosso della simultaneità”[19], una particolarità della letteratura romena per cui coesistono più tendenze e linee di pensiero nello stesso autore, mentre ad un livello più esteso, le correnti che nell’Occidente si sono susseguite, si manifestano da noi contemporaneamente. Assistiamo così nel Novecento al realismo di Rebreanu che compare insieme ai romanzi proustiani di Camil Petrescu, all’esistenzialismo di Mircea Eliade e alla prosa “assurda” di Urmuz. E questo nel tentativo di recuperare quel tempo perduto nei confronti della cultura occidentale.

Con l’osservazione che il popolo rromeno abbia dovuto non solo creare tutti i generi letterari, ma anche condurli rapidamente a gareggiare con le letterature degli altri paesi, apre anche Gino Lupi il suo primo saggio dedicato al prosatore Damian Stănoiu, apparso sulla Rassegna italo-romena del 1940. Futuro professore di lingua e letteratura romena presso l’Università di Milano, Gino Lupi si dimostra un critico attivo, autore di una storia della letteratura romena ma anche di numerosi saggi e recensioni, di cui tanti sono pubblicati sulla Rassegna italo-romena. In ben sei numeri[20] di questa rivista troviamo articoli firmati da Lupi dedicati a Damian Stănoiu, ex monaco che presenta con un umorismo mite e bonario che si trasformerà poi in satira, l’ambiente ecclesiastico. Lupi analizza dettagliatamente sia le novelle che i romanzi di questo scrittore, insistendo particolarmente sulla natura angelica dei peccati dei suoi personaggi, monaci semplici e ingenui che sanno distinguere il male dal bene, ma spesso non sanno evitarlo per debolezza di volontà. Lo studioso italiano seleziona i giudizi buoni dati dalla critica romena alla narrativa di Stănoiu, li cita e ne aggiunge i suoi, eccedendo nel considerare pregevoli anche lo studio degli ambienti e dei caratteri, la costruzione dei personaggi. Damian Stănoiu è rimasto in fondo nella nostra storia della letteratura solo per il sapore del linguaggio tipicamente monacale attraverso il quale si esprimono i suoi personaggi. Riflettere sull’opera di D. Stănoiu, “scrittore indipendente da tutte le scuole e da tutte le imitazioni”, è per Lupi un’occasione in più di scagliarsi contro quella che egli chiama la “falsa cultura attuale”, creata da scrittori mediocri “che mostrano con troppa evidenza l’ispirazione francese e russa”[21]. Si tratta in realtà della fase più fiorente che

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la letteratura romena del Novecento abbia conosciuto, caratterizzata dagli sforzi di creare un nuovo ordine, stabile, di valori pronti a superare la dimensione estetica per approdare a quella etica, in sintonia con la realtà letteraria occidentale. Come lo dimostrerà anche nel 1943, recensendo il romanzo Ochii strigoiului di Cezar Petrescu sulla Rassegna italo-romena[22], Gino Lupi non riesce a superare preconcetti ideologici e personali. Lo troviamo, infatti, ancora una volta nell’atto di criticare l’asservimento dei personaggi di questo romanzo alla cultura e alla moda francese “come se altre non esistessero”. Mentre un’osservazione del tutto permeata dall’ideologia fascista è quella che si riferisce alla condanna delle società borghese degli anni Trenta, che è segno, secondo Lupi “di una vera incomprensione dei tempi nuovi”, “della magnifica rinascita dell’Italia fascista”.

Alla luce di quanto è statoo esposto fin’ora si può affermare che nel periodo fra le due guerre la critica italiana ha privilegiato gli scrittori romeni cosiddetti tradizionalisti, che hanno saputo costruire in tono sentimentale rappresentazioni ideali ma anche realistiche del popolo romeno, come Mihail Sadoveanu, che d’altronde risulta lo scrittore romeno più tradotto in Italia. È sicuramente poco probabile che appaiano commenti critici su opere poco note in Italia, in quanto poco tradotte. E le traduzioni sono strettamente collegate ad un contesto editoriale e culturale, dovendo rispondere all’orizzonte d’attesa del fruitore. La volontà di sfuggire all’incontro con il mondo moderno si traduce presso i lettori italiani nella tendenza di lasciarsi coinvolgere sempre di più da una letteratura di evasione, senza complicazioni, caratterizzata da uno spirito di moderazione etico-estetica. Ecco dunque la ragione per cui i racconti fantastici di Cezar Petrescu, gli affreschi storici di Sadoveanu o le storie degli affetti di anime semplici raccontate da Ion Agârbiceanu attecchiscono presso il pubblico largo, arrivando a inserirsi in quella narrativa di successo dell’epoca fascista.

Ma nel periodo interbellico si fa strada anche un altro filone letterario proposto questa volta al pubblico più colto; si tratta di quella letteratura che si nutre della tragica esperienza della guerra e penetra nelle profondità della coscienza tormentata di chi ha visto crollare fedi e miti. Sulla scia dei romanzi di Borghese, Moravia o Svevo, scrittori romeni come Camil Petrescu o Hortensia Papadat-Bengescu abbandonano la dimensione nazionalista e provinciale per contribuire con i loro scritti alla scoperta della crisi dell’uomo contemporaneo. Senza questi autori l’immagine della prosa romena in Italia non può corrispondere alla realtà. Le loro opere, però, non solo non sono state tradotte in italiano, ma sono veramente pochi anche i critici che hanno segnalato la loro presenza. Il critico, d’altronde, che si presuppone sia al corrente anche con le nuove pubblicazioni, oltre a ribadire il successo o l’insuccesso di scrittori già conosciuti, ha anche il ruolo di orientare il pubblico nella lettura di opere appartenenti ad autori emergenti.

Un altro aspetto a sfavore della rricezione della nostra prosa nel contesto italiano è la quasi mancanza di studi di comparatistica. “La letteratura romena colta è, in essenza, di struttura e vocazione europea”[23], afferma Adrian Marino, ed è importante rilevarla accanto alla sua specificità. Il critico letterario è chiamato ad avere davanti a sé ciò che è individuale, diverso, cercando però di farlo diventare nello stesso tempo, momento di un discorso più ampio e comune. Un’opera può in fondo riscrivere in se stessa tutte le altre; l’intertestualità è divenuta anche

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modalità di lettura che recupera a livello della ricezione la produzione stessa del testo, rendendo possibile la lettura degli intertesti che sono all’origine del processo creativo. Valutare la nostra narrativa tramite l’analisi delle influenze e dei temi più suggestivi anche rispetto alla prosa italiana porterebbe sicuramente alla scoperta di nuove realtà, di significati ancora più profondi.

Purtroppo, come si vedrà annche più avanti nella nostra ricerca, questo non si verifica neanche per quanto concerne la prosa romena del secondo dopoguerra. Inoltre, si assiste in questo periodo ad un declino di quella passione e di quel spirito di militanza che portava gli studiosi precedenti a svolgere un’efficace opera divulgativa. D’altronde è anche giusto affermare che ci troviamo negli anni dogmatici in cui la letteratura romena è soffocata e paralizzata dal realismo socialista imposto dal regime. Scrittori di talento della tradizione umanistico-borghese affermatisi nel periodo interbellico si conformano alle nuove disposizioni, mentre giovani autori fanno a gara per esaltare la realtà di una società ancora inesistente. Ad affacciarsi, però, sulla scena letteraria ritroviamo in quelli anni anche scrittori che hanno saputo aggirare i vincoli e i divieti loro imposti per lasciarci pagine di autentico valore. E qui mi riferisco ai romanzi di idee di George Călinescu oppure a “I Moromete” di Marin Preda, prosatore molto interessato ai casi di coscienza, all’estrazione di significati morali dall’osservazione degli stati d’animo.

Ma in un contesto politico-ideologgico di sinistra, come quello italiano degli anni ’50-’70, l’immagine della letteratura romena è ancora una volta travisata. Com’è stato rilevato anche da Ioan Guţia, antologie della narrativa romena come quella curata da Giuseppe Petronio[24] apparsa nel 1956 hanno piuttosto lo scopo di dare “un taglio tendenzioso alla letteratura romena, cioè strumentalizzarla ai fini propagandistici, a scapito dei valori artistici”[25]. Lo testimoniano le omissioni di scrittori importanti come Hortensia Papadat–Bengescu, Mircea Eliade, Marin Preda e le inclusioni abusive di autori privi di valore letterario come Eusebiu Camilar. Il critico Giacinto Spagnoletti, famoso per essere sempre attento ad una fenomenologia il più possibile ampia della cultura letteraria, fuori da schemi ideologici, nota con acume in una recensione all’antologia di Petronio, apparsa nel 1957 sulla rivista Tempo presente diretta da Ignazio Silone: “Petronio ha piegato la genericità del suo assunto ad un modo molto parziale di osservazione, scegliendo gli scrittori dentro un quadro già bell’e pronto della propaganda ufficiale del regime comunista”[26]. Sono due in particolare le osservazioni di Petronio in cui culmina la sua falsa interpretazione del fenomeno letterario romeno: “La maggior parte dei prosatori romeni fino al 1944 rappresentano e denunziano la falsità dell’organizzazione sociale, ma non riescono a vedere la possibilità di uscirne”. E ancora: “Dopo il 23 agosto 1944 la prosa, come l’intera letteratura romena ha conosciuto una svolta decisiva”[27].

Nel 1968 Gino Lupi pubblica pressoo la casa editrice Sansoni una Storia della letteratura romena[28] intesa da lui come “un’opera organica che al mondo culturale manca”. In realtà si tratta ancora una volta di un’analisi deformata per motivi personali o per simpatie o antipatie artistiche e ideologiche. Esponenti di spicco della corrente modernista sono non soltanto esaminati in maniera molto frettolosa, ma anche giudicati negativamente. Persino le opere di Mircea Eliade, opere che

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d’altronde non sono neanche nominate, risultano a Lupi “faticose per prolissità e divagazioni”. La mancanza di un approccio critico-estetico caratterizza anche i commenti che riguardano la prosa del secondo dopoguerra.

Nell’Italia degli anni Sessanta sii registra una grande diffusione dei tascabili, fenomeno che coinvolge anche le traduzioni d’opere letterarie romene in italiano. Anche se case editrici come le Edizioni Paoline guardano piuttosto indietro che in avanti, puntando sulla narrativa del periodo fra le due guerre mondiali, vengono proposte al pubblico anche delle novità come la prosa di Ionel Teodoreanu, Gala Galaction, Zaharia Stancu. Studi critici degni di nota stentano, tuttavia, ad apparire. Dobbiamo aspettare gli anni Ottanta, quando viene scoperta la letteratura romena d’esilio, per ritrovare articoli e persino monografie critiche caratterizzate anche da un netto miglioramento del livello scientifico.

Sul dramma dell’intellettuale romeeno costretto a fuggire, a perdere tutto per salvare almeno una cosa: la verità e la realtà, si è espresso varie volte Petru Dumitriu, scrittore che a sua volta ha scelto l’esilio, sul settimanale La Fiera letteraria[29] degli anni Sessanta. Citerei un brano apparso nel numero Trenta della rivista: “La nostra libertà non vale probabilmente una terza guerra mondiale, ma proprio per questo noi abbiamo più bisogno di aiuto morale di quanto non ne abbia qualsiasi intellettuale che vive in libertà”. Eppure una delle figure enciclopediche più complesse di tutti i tempi come Mircea Eliade ha dovuto prima affermarsi negli Stati Uniti e in Francia per poter approdare in Italia in veste di letterato.

Nel 1980 Nicolò Di Fede pubbblica sulla rivista Humanitas una recensione[30] a Il vecchio e il funzionario, il secondo romanzo di Eliade proposto al lettore italiano. Si tratta del romanzo più completo di Eliade, in cui si fondono la prosa epica e di analisi psicologica e quella fantastica. Il merito di Nicolò di Fede sta nell’aver saputo svelare la pluralità di sensi e interpretazioni che una tale opera dispiega: dalla parabola dell’uomo fragile, dell’innocenza, della memoria che si oppone al potere ossessivo, fino alla metafora di un racconto, della narrazione per eccellenza che si dilata fino ai limiti estremi del tempo e dello spazio, interpretazione quest’ultima che si inserisce con successo nel contesto letterario italiano di quelli anni, molto attento al metaromanzo, al processo testuale. “Ci troviamo nell’universo inesauribile dei vecchi racconti che sempre ci incanta. Forse è giusto solo lasciarsi andare nel vortice …”[31] ci consiglia con accortezza Nicolò di Fede. Come risposta da parte degli editori alla necessità avvertita dallo studioso di un’autentica iniziazione del lettore italiano che gli potrebbe essere offerta dagli altri romanzi di Eliade, ben presto, eppure con grande ritardo rispetto alla data della loro prima pubblicazione, gran parte della narrativa degli anni Trenta dello scrittore romeno viene tradotta e fa la sua comparsa nelle librerie. Romanzi come Il serpente, Il segreto del dottor Honigberger, Diciannove rose sono accompagnati da prefazioni brevi ma incisive di studiosi come Silvia Lagorio, Renato Minore, che rivelano i punti forti ed essenziali del pensiero di Eliade di cui essi sono pervasi: il fascino delle ierofanie, la vitalità dei simboli, la ricerca dell’autenticità intesa come una forte sete ontologica di conoscenza del reale.

Un contributo molto importante alll’opera di Eliade è il libro Mircea Eliade e l’Italia a cura di Marin Mincu e Roberto Scagno, pubblicato presso la Jaca Book di Milano nel 1987. Il

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volume raduna non solo testi inediti e frammenti del carteggio dello scrittore con varie personalità, ma anche nuove testimonianze sul suo rapporto con la cultura italiana e interpretazioni della sua opera scientifica e letteraria. Fra i saggi attinenti alla nostra ricerca ricordiamo Il fascino della notte in cui Giovanni Filoramo delinea i tratti enigmatici del volto più trascurato della personalità eliadiana, quello del letterato, il meritorio saggio di Roberto Scagno sull’ermeneutica creativa di M. Eliade e la cultura italiana e le accurati analisi dei suoi romanzi pubblicati in Italia firmate da Monica Farnetti, profonda studiosa dell’Eliade narratore fantastico e mitologo. Agli anni Ottanta, più precisamente al 1986 risale anche la pubblicazione degli Atti del Convegno La Romania nella coscienza intellettuale italiana. Di particolare interesse ci sembra il contributo di Claudio Magris, instancabile viaggiatore negli spazi di frontiera. Ripercorrendo la narrativa di Sadoveanu, Zaharia Stancu, fino a quella di Emil Cioran, Magris intravede la rassegnazione dell’anima romena di fronte al male che si è spesso rilevato per i romeni come un eccesso di storia.

Negli anni Novanta gli studi critiici italiani puntano sempre su Eliade. Nel volume La ferita della modernità. Intellettuali, totalitarismo e immagine del nemico[32] Maurizio Serra dedica un ampio saggio a Eliade e al confronto tra storia e mito che si delinea nel suo romanzo La foresta proibita (pubblicato nel 1986 presso la Jaca Book). Ne ricaviamo spunti critici sicuramente interessanti riguardanti l’esemplare ritratto dell’intellighenzia europea tra le due guerre e il concetto dell’uomo che tende “a liberarsi dalla scorza di un’identità fugace e sottomessa agli eventi per giungere all’affermazione del suo vero destino”[33]. Lo studioso italiano non esita di attribuire la difficile ricezione di questo romanzo all’eccesso di erudizione e di carica simbolica. Serra non riesce, però, a distaccarsi dai pregiudizi del dibattito ideologico per cui Eliade è considerato un “viscerale antisemita”[34].

Nel volume Studi rumeni e romannzi[35] (1995), a cura di Coman Lupu e Lorenzo Renzi, Marco Cugno e Laura Miani ci lasciano studi di grande competenza sulle Interferenze folclorico-mitologiche e letterarie nella narrativa fantastica di Eliade e, rispettivamente, sulla Donna nella narrativa di Eliade, adoperando metodi della critica tematologica ben articolati e puntuali. Un’altra testimonianza del fatto che l’opera vasta di Eliade si rivela sempre più attuale e ricca di fascino, aperta a riletture metodologiche e sviluppi creativi è la pubblicazione del volume Confronto con Mircea Eliade. Archetipi mitici e identità storica[36] (1998) a cura di Luciano Arcella, Paolo Risi e Roberto Scagno. Vi si notano in particolare la riflessione di Scagno sul percorso intellettuale di Eliade inteso come sintesi tra la creatività orientale e quella occidentale e il saggio di Cugno sul rapporto fra la concezione eliadiana di letteratura fantastica e quella di pensiero mitico. Approfondendo, però, la nostra ricerca sulla critica degli ultimi due decenni, ci appare evidente lo scarso interesse per la prosa romena contemporanea. Eppure, proprio in questo periodo le tendenze della produzione narrativa italiana e romena sembrano convergere, seguendo anche gusti di lettura simili. Come ci rivela anche Vittorio Spinazzola nella Modernità

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letteraria[37], continua a sussistere, anche se il suo ciclo più profondo appare superato, un filone dello sperimentalismo avanguardistico incentrato sull’io dell’autore, teso a stabilire una comunione estetica immediata con la totalità dell’essere. Ma ci si è accorti che la crisi dei valori sia pienamente romanzabile anche seguendo le strutture letterarie tradizionali. Accanto alla diffusione di libri di memorie, biografie più o meno romanzate, si assiste così al ripristino di una narrativa d’ambiente, con forti connotati di bella letterarietà. Questi aspetti comuni dovrebbero costituire uno stimolo a lasciarsi appassionare dalle esperienze della modernità che traspaiono dalla narrativa romena.

Uno stimolo non soltanto alla letttura ma anche alla critica della letteratura romena potrebbe venire anche dalle traduzioni in italiano di saggi e monografie dei nostri più rappresentativi critici letterari. Ricordiamo, però, alcuni aspetti negativi che hanno impedito ai vari teorici e critici romeni di affermarsi in Italia come negli altri paesi. Da noi non esiste una vera e propria tradizione critica di pubblicare in lingue straniere o di collaborare alle pubblicazioni straniere. Negli anni Trenta e Quaranta, anni molto fecondi per la critica romena, prestigiosi critici come George Călinescu, Eugen Lovinescu, non si sono preoccupati di far circolare le loro idee anche all’estero e il loro esempio negativo è stato seguito anche da altri critici romeni. Inoltre, con l’avvento del regime comunista si è instaurato un clima di isolamento culturale che ha reso difficile, se non impossibile, la circolazione e la partecipazione a vari congressi e convegni di livello internazionale dei critici romeni, classici o no. Per quanto riguarda la critica romena dei nostri giorni, com’è stato evidenziato anche da Adrian Marino nel suo libro Pentru Europa[38], essa si rivolge soprattutto alla letteratura attuale, già poco conosciuta, il che rende scarso l’interesse dei traduttori e delle case editrici straniere. Sono, dunque, ben poche le storie e le teorie della letteratura romena autoctone che sono riuscite a penetrare nello spazio culturale italiano. Ci sarebbe, tuttavia, anche un aspetto favorevole che ha contribuito molto alla loro diffusione: la pubblicazione di queste opere presso case editrici importanti come il Mulino, Laterza, Sansoni.

Una molto ben articolata Storiaa della letteratura romena moderna[39] è apparsa nel 1947 tradotta da Agnese Silvestri Giorgi. L’autore è Basil Munteanu, presenza internazionale valorosa che per molto tempo è stato segretario di redazione alla Revue de littérature comparée. Prima di iniziare la sua analisi critica, Munteanu presenta il contesto storico-geografico in cui si è formato lo spirito romeno e i caratteri generali della letteratura che ha creato, originale per la sua ricchezza di contrasti, per il “grande soffio di freschezza” che emana, per la rappresentazione che ne dà dell’uomo, un uomo che si definisce non tanto nei suoi rapporti collettivi quanto in quelli propriamente umani, metafisici e naturali. Munteanu ci tiene a ricordare anche il gusto vivissimo dei romeni per la critica “mordace e mai disarmata, che si esplica in tutti i campi della vita e dello spirito”. Prima di dedicare un ampio capitolo al fiorire del romanzo nel periodo interbellico, il critico romeno contestualizza in maniera chiara e approfondita lo sforzo creatore del dopoguerra, riferendosi allo studio e l’organizzazione delle realtà nazionali, alle varie correnti di pensiero che hanno ispirato originali pubblicazioni e opere letterarie. Il motto dell’intellettuale-tipo romeno di quell’epoca è, infatti, quello di creare valori originali, di allargare i suoi orizzonti europei man mano che si addentra nelle realtà locali. Il critico romeno riesce a cogliere il dinamismo

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irresistibile che trascina la produzione letteraria del periodo fra le due guerre mondiali, soffermandosi sugli scrittori che hanno saputo crearsi uno stile personale fra tutti e dotare la nuova letteratura di alcune delle sue più belle pagine.

Nel 1957, a Roma, furono poste le basi della Società Accademica Romena con lo scopo di promuovere la cultura romena oltre confine. Fra le pubblicazioni di questa società ricordiamo gli Acta philologica, curati da Mircea Popescu, dove apparvero contributi inediti di docenti romeni in Italia, ma anche di studiosi italiani. Nel secondo volume della Storia delle letterature moderne d’Europa e d’America diretta da Carlo Pellegrini appare nel 1958 una breve storia della letteratura romena[40] a cura di Giorgio Caragaţă, professore di romeno all’Università di Firenze. Soltanto sette pagine ne sono dedicate alla prosa novecentesca ma è significativo il fatto che Caragaţă ci dia approfondimenti proprio su quelli scrittori più vicini alle tendenze delle poetiche decadentistiche, spesso trascurati dai critici italiani. Lo studioso romeno ci rende così partecipi della ricchezza d’analisi di Hortensia Papadat-Bengescu, del suo sprofondarsi nel gioco degli istinti e del subcosciente, come della narrativa di Camil Petrescu, “il creatore innamorato di valori puramente poetici e rari”[41].

Nel 1970, Mircea Popescu, diventatto incaricato di Lingua e Letteratura romena presso la Facoltà del Magistero dell’Università di Roma, pubblica una breve Storia della letteratura romena[42] nel volume Storia delle letterature del sud-est europeo. Il suo disegno storico è alquanto sommario, ma ricco di spunti interessanti e audaci della letteratura romena. Un’Introduzione alla letteratura romena[43] corredata da frammenti tradotti in italiano delle principali opere letterarie romene viene pubblicata nel 1971 da Ioan Guţia, professore incaricato presso l’Università di Roma. Anche se risulta alquanto relativo il criterio di presentazione degli scrittori romeni e, cioè, in base alle correnti che hanno ispirato le loro creazioni, il lavoro di Guţia è pieno di gusto e di buon senso.

Nel quarto numero della rivista Romània Orientale, diretta dalla professoressa Luisa Valmarin, vengono pubblicati nel 1991 gli atti del convegno L’intellettuale e la rivoluzione: l’esempio romeno tenutosi a Roma e organizzato dal Dipartimento di Studi Romanzi dell’Università La Sapienza. Fra questi atti troviamo il pregevole contributo di Marian Papahagi, illustre italianista e romanista, che si sofferma sul letterato in crisi: dall’epoca della censura alla rivoluzione[44]. Il suo merito sta nell’aver saputo ricostruire in maniera esaustiva un periodo difficile che la cultura romena dovette attraversare. L’ampio saggio di Papahagi è come un diario che ti commuove ad ogni nota o riflessione su queste tristi vicende di sopravvivenza di fronte ad un regime che invade le profondità dello spirito. La censura rimane il segno più efficace di quest’epoca e sono tanti gli scrittori repressi, proibiti, cancellati dalla memoria collettiva. La scelta che si offriva al letterato romeno di allora era, infatti, “priva di alternative: morte, esilio o compromesso”. Negli anni Sessanta e Settanta, anche se la censura continua ad agire, si verificano

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degli sviluppi significativi e sottili nell’ambito della produzione letteraria romena. Gli scrittori che si sforzano di lottare contro i terribili meccanismi della dittatura si aprono meglio ai movimenti letterari europei, ripristinando nei suoi diritti lo scrivere letterario. Optando per un linguaggio spesso ermetico, allusivo, metaforico, scrittori come Radu Petrescu, Mircea Horia Simionescu, conquistano il pubblico dando alla luce alcuni fra i migliori libri di prosa della letteratura romena contemporanea. Si verifica, così, quello che viene definito da Marian Papahagi “uno dei paradossi più difficilmente accettabili: il fatto che venisse tollerata sotto il regime più chiuso e più repressivo dell’Est una letteratura che, nella quasi totalità delle sue pagine esteticamente valide, non faceva che respingerlo”. Se per il pubblico romeno Papahagi auspica, in conclusione del suo studio, un rapido recupero delle opere di più di un centinaio di autori romeni di valore dell’esilio, noi, per il pubblico italiano speriamo nell’avvento di iniziative che possano far conoscere anche la letteratura prodotta in Romania negli anni fervidi del comunismo.

Nel 1993 appare in Italia, a cura di Gheorghe Carageani e Gabriella Bertini Carageani, l’Introduzione alla teoria della letteratura[45] di un importante storico della letteratura, autore di numerosi lavori con prevalente taglio comparatista e sociologico. In questa opera il romeno Paul Cornea prende in esame sistematicamente tutti i nostri comportamenti in quanto lettori, analizzando l’operazione tecnica della lettura che va dalla sua esecuzione alla codificazione, in seguito alla comprensione, perché si approdi poi alla vera e propria ricezione di un testo. Nella Presentazione del libro Carageani arriva persino ad affermare che, “a differenza di tutti i lavori pubblicati finora in Italia e nel mondo, il libro di Cornea risponde idealmente a un maggior numero di quesiti relativi alla teoria della lettura, riuscendo ad abbinare felicemente l’atteggiamento critico a quello costruttivo”.

La più recente delle traduzzioni di critica e teoria letteraria romena che possiamo registrare è la Teoria della letteratura[46] del già citato Adrian Marino, apparsa nel 1994 a cura di Marco Cugno. Autore dell’equilibrio che mira sempre a creare delle sintesi, superiori secondo lui alle analisi, Marino insegue la totalità nel complesso delle “idee della letteratura”. La letteratura si presenta, secondo la sua teoria, in ordine sistematico, stabile ma inesistente nel tempo storico concreto ed è attraverso il metodo ermeneutico che occorre renderlo efficiente. Il suo obiettivo è, dunque, quello di stabilire un inventario completo dei luoghi in cui la letteratura si caratterizza, svela se stessa e questo prendendo in considerazione sia elementi stranieri che romeni, tentando di gettare ponti ingegnosi tra le posizioni classiche e quelle moderne. Com’è stato notato da Marco Cugno nell’Introduzione alla poderosa opera, ma anche da Franceso Muzzioli nel volume Le teorie letterarie contemporanee[47], quello che colpisce è la novità dell’impostazione. Muzzioli ci ricorda che anche l’antiletteratura, in cui filtrano le dimensioni più moderne della scrittura, è inclusa nel sistema dell’idea di letteratura in quanto “il ciclo si chiude per aprirsi […] negata, la letteratura rinasce dalle sue ceneri”. Nella stessa Introduzione Cugno ci tiene a precisare che il libro di Marino “reca i segni delle intrusioni mutilatrici della censura, ma resta il lavoro di un uomo libero, cittadino della “Repubblica delle Lettere”. Un altro merito di Marino è quello di riferirsi nella sua opera a diverse letterature europee, senza far predominare alcuna, il che solo uno

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studioso senz’alcun complesso di inferiorità può farlo. Anzi, la sua convinzione è che la crisi riguardi l’Occidente, “mentre la letteratura mantiene intatte la sua vitalità e la sua attualità […] all’Est, dove continua a rispondere a contesti e a necessità specifiche essenziali”[48]. Spirito attivo, importante promotore della nostra letteratura, Marino si è sempre preoccupato di far apparire i suoi contributi su varie pubblicazioni e riviste specializzate com’è il caso dei Quaderni di Gaia che hanno preso avvio sotto l’iniziativa della Cattedra di Letterature comparate della Facoltà di Lettere dell’Università La Sapienza. Nel volume Comparare i comparatismi, a cura di Armando Gnisci e Franca Sinopoli, è segnalata ad un certo punto la collaborazione a questa rivista di Adrian Marino definito “uno dei maestri della comparatistica contemporanea”.

Ma il più grande maestro deella critica romena resta indubbiamente George Călinescu. La sua lezione è stata seguita sia da Adrian Marino che da tanti altri critici romeni fra cui Nicolae Manolescu, critico consacrato dalla scrittura elegante e dall’osservazione fine, che, purtroppo, non è stato ancora tradotto in Italia. Eppure Călinescu, spirito di alto ingegno, “di gusto squisito”, “scrittore polemista delizioso, mente chiara e sintetica”[49], per rifarci alle parole di Ramiro Ortiz che l’aveva notato sin da quando era studente all’Università di Bucarest dove egli aveva insegnato l’italiano, rimane ancora uno sconosciuto nello spazio culturale italiano. La sua Storia della letteratura romena dalle origini a oggi del 1941 rappresenta ancor’oggi uno strumento molto prezioso, essenziale, si potrebbe dire, per chiunque si accinga a studiare la letteratura romena. Si aspetta, dunque, l’avvento di un traduttore che possa dare alla luce la versione italiana di questo capolavoro, o almeno di parte di esso. L’attesa non si annuncia lunga. Angela Tarantino, docente di lingua e letteratura romena presso l’Università di Firenze sta già preparando la traduzione di un compendio del famoso volume che sarà pubblicata l’anno prossimo.

Nella speranza che, semmai fosse iin atto una crisi della critica – ipotesi d’altronde emersa anche nell’ambito del Convegno Un’idea del Novecento tenutosi nel dicembre dell’anno scorso presso l’Università degli Studi di Padova – la si possa ben presto superare, auspichiamo l’apparizione di nuovi studi critici italiani che riguardino la nostra prosa più recente, ma anche quella del passato, nel tentativo di ripristinare la memoria dentro la letteratura universale che ha sempre riservato uno spazio alla verità, in modo che se dovesse perire, possa risuscitare. In fondo, per rifarci a quello che Ezio Raimondi afferma nel libro Letteratura e identità nazionale, “il passato non è fatto solo di ciò che si è realizzato, ma anche di ciò che non si realizzò, di possibilità che rimasero inevase. E questi sono gli spazi che ancora rimangono a noi (lettori e critici), gli spazi sui quali possiamo ancora operare”[50].

 

 

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[1] Cfr. “Rassegna bibliografica”, Europa Orientale 3 (1923): 840.

[2] Cfr. “Correnti nella letteratura romena contemporanea” e “La prosa romena contemporanea”, Giornale di politica e di letteratura 5 (1929), 12: 1289-1296 e 1335-1347.

[3] Cfr. R. Ortiz, Letteratura romena, Roma: Signorelli, 1941: 144.

[4] Ibidem: 147.

[5] Ibidem: 208.

[6] Cfr. Europa Orientale 21 (1941): 364.

[7] Cfr. “Cronache di cultura” , Giornale di politica e letteratura 6 (1930): 544-545.

[8] Cfr. Convivium 3 (1931): 674-678.

[9] Cfr. Europa Orientale 13 (1933): 272.

[10] A. Giambruno, Un naturalista romeno: Livio Rebreanu, Roma: Istituto per l’Europa Orientale, 1937: 109 pagine.

[11] Ibidem: 63-64.

[12] Si veda E. Padrini, “Studi italiani di letteratura romena”, Meridiano di Roma 5 (1940), 29: IX.

[13] Cfr. Giambruno, Un naturalista, cit.: 109.

[14] Cfr. M. Camillucci, “Evoluzione dell’ideologia letteraria romena”, Vita e pensiero 27 (1941), 6: 269-278.

[15] Si veda Idem, “La letteratura romena”, Italia che scrive. Rassegna per il mondo che legge 19 (1941), 4: 106-107.

[16] Si veda F. Cardinali, “Livio Rebreanu”, Meridiano di Roma 7 (1942), 22: VI.

[17] Cfr. Augustea 17 (1942), 23-24: 817-818.

[18] D. P. Perpessicius, Scriitori români, Bucarest: Minerva, 1990: 51.

[19] Si veda S. Alexandrescu, La modernité à l’Est, Piteşti: Paralela 45, 1999: 20-21.

[20] Cfr. Rassegna italo-romena 1940 (6): 9-15; 1940 (7-8): 11-16; 1940 (9): 8-12; 1940 (10): 10-15; 1940 (11): 3-10.

[21] Ibidem, cit., 1940 (6): 11.

[22] Cfr. ibidem, cit., 1943 (21): 23.

[23] A. Marino, Pentru Europa. Integrarea României. Aspecte ideologice şi culturale, Iassi: Polirom, 1995: 119.

[24] Cfr. Narratori romeni (a cura di G. Petronio), Parma: Guanda, 1956.

[25] I. Guţia, Le traduzioni d’opere letterarie romene in italiano 1900-1989, Roma: Bulzoni, 1990: 70.

[26] Cfr. Tempo presente 2 (1957), 12: 170-171.

[27] Cfr. Narratori romeni, cit.: XXIV.

[28] Cfr. Letteratura romena, Milano: Sansoni, 1968.

[29] Si veda La Fiera letteraria 16 (1961), 30: 5 e 16 (1961), 42: 1-2.

[30] Cfr. “Mircea Eliade come romanziere”, Humanitas 36 (1980), 6: 869-887.

[31] Ibidem: 874.

[32] Si veda il capitolo “La foresta sospesa tra storia e mito”, La ferita della modernità, Bologna: Il Mulino, 1992: 311-346.

[33] Ibidem: 330.

[34] Ibidem: 328.

[35] Padova: Unipress, 1995.

[36] Milano: Jaca Book, 1998.

[37] Milano: Fondazione Arnoldo e Alberto Mondatori, 2001.

[38] Marino, Pentru Europa, cit.: 93.

[39] B. Munteanu, Storia della letteratura romena moderna, Bari: Laterza, 1947.

[40] Si veda G. Caragaţă, “Letteratura romena”, in Storia delle letterature moderne d’Europa e d’America, vol. II, Milano: Dr. Francesco Vallardi, 1958: 249-357.

[41] Ibidem: 335-336.

[42] M. Popescu, “Storia della letteratura romena”, in AA. VV., Storia delle letterature del Sud-Est europeo, Milano, 1970: 105-204.

[43] Guţia,  Introduzione alla letteratura romena, Roma: Bulzoni, 1971.

[44] Si veda M. Papahagi, “Il letterato in crisi: dall’epoca della censura alla rivoluzione”, Romània Orientale 4 (1991): 230.

[45] P. Cornea, Introduzione alla teoria della lettura (edizione curata da Gh. Carageani e G. B. Carageani), Firenze: Sansoni, 1993.

[46] Bologna: Il Mulino, 1994.

[47] Roma: Carocci, 2000: 205-206.

[48] Marino, Teoria della letteratura, cit.: 33.

[49] Ortiz, Varia Romanica, Firenze: La Nuova Italia, 1932: 445.

[50] E. Raimondi, Letteratura e identità nazionale, Milano: Mondadori, 1998: 198.