Back to Homepage Annuario 2003
Maria Bulei,
Istituto
Romeno di Cultura e
Ricerca
Umanistica, Venezia
Come premessa a questo contributo vorrei precisare
che il materiale analizzato comprende sia monografie su autori romeni, storie
della letteratura romena, che introduzioni a traduzioni dal romeno
all’italiano, saggi, recensioni, articoli pubblicati in riviste specializzate o
atti di vari convegni. Per la scarsa reperibilità di alcuni studi, non
siamo riusciti a percorrere l’intero materiale, pertanto, il presente studio
non può avere un carattere esauriente. Saldi punti di riferimento per il
nostro lavoro sono state le ricerche bibliografiche pubblicate da Pasquale
Buonincontro (La presenza della Romania in Italia nel secolo XX), Ioan
Guţia (Le traduzioni d’opere letterarie romene in italiano 1900-1989) e,
per quanto riguarda gli ultimi decenni, da Bruno Mazzoni (La presenza della
letteratura romena in Italia 1989-2001), attente rassegne concernenti le
pubblicazioni di e sulla letteratura romena apparse in Italia.
Negli ultimi anni l’attenzione dellla critica letteraria si è
rivolta sempre di più al destinatario di un’opera, al lettore, nella
consapevolezza che il senso e il valore della letteratura vanno riscontrati
soprattutto nella sua ricezione, nell’insieme delle sue letture possibili. La
vitalità letteraria dell’opera risiederebbe, dunque, nel dinamismo
interattivo delle manifestazioni di consenso e dissenso provocate nei diversi
pubblici che ne affrontano la lettura. Ma con questo non si dichiara estinta la
funzione del critico e la validità dei suoi giudizi. La critica continua
ad identificarsi con la coscienza stessa, con la teoria e la pratica della
letteratura. Se oggi, per conoscere l’impatto di un’opera sui suoi destinatari
si possono compiere analisi sociostatistiche della massa dei lettori, ed
ermeneutiche, che svelino il modo in cui sia stata letta l’opera in questione,
per quanto riguarda la prima parte del Novecento ci resta da studiare i vari
commenti dei critici, lettori in fondo anche loro, che hanno saputo,
però, far tramandare le loro impressioni tramite la scrittura, che
rimane.
Il periodo fra le due guerre rapprresenta la stagione più intensa
e vivace delle relazioni italo-romene. Nell’ambito letterario ne sono testimoni
le numerose traduzioni in italiano di opere romene e gli studi critici apparsi
soprattutto sulla stampa. Sulla rivista Europa Orientale pubblicata a
Roma dall’Istituto per l’Europa Orientale troviamo nel 1923 una recensione[1]
alle Novelle romene dello scrittore Mihail Sadoveanu, a cura di Carlo
Tagliavini, un grande romenista e promotore della letteratura romena, sotto la
cui direzione usciranno anche i prestigiosi Studi romeni (1927-1930). In
poche ma incisive righe vengono evidenziati i tratti principali della prosa di
questo classico romeno: tematica epica, tradizionale, stile sobrio “pieno di
musicalità e di bagliori”, vigoroso narratore “innamorato degli aspetti
talvolta soavi, tal’altra paurosi del proprio paese”.
p. 530
Sulla rivista mensile Giornale di politica e letteratura troviamo
nel 1929 un numero speciale dedicato alla Romania. Di notevole importanza ci
appaiono due articoli[2]
firmati da Ramiro Ortiz, a quei tempi docente di lingua e letteratura romena
presso l’Università di Bucarest. Nel primo studio, il prestigioso
romenista passa in rassegna le principali correnti della letteratura, ma anche
della critica romena contemporanea. Il secondo studio sulla prosa romena del
Novecento sarà poi ripreso e integrato con passi scelti tradotti dalle
opere della maggior parte degli scrittori commentati nella sua pregevole opera Letteratura
romena, pubblicata a Roma nel 1941. Ci riferiremo in seguito direttamente
agli ultimi due capitoli di questo volume che presentano un ampio quadro della
narrativa romena e delle sue tendenze. Con un commento chiaro, che non si perde
in ideologie, si delineano significativi ritratti di scrittori che mantengono
vivo lo spirito letterario romeno: dal novellista Brătescu–Voineşti,
“cesellatore pieno di grazia, settecentescamente idillico”[3]
fino a Livio Rebreanu, lo scrittore ritenuto il più degno di
rappresentare la letteratura romena contemporanea. Senza perdere di vista le
tematiche delle opere prese in considerazione, Ortiz adopera di fatto una
critica stilistica, molto attenta all’analisi del linguaggio, metodo d’altronde
diffuso in quelli anni. Ma lo studioso italiano non è preoccupato
soltanto dell’espressività dei testi letterari esaminati; il proprio
stile di interpretazione diventa altrettanto rilevante. Con Ortiz la critica
svela la sua genesi e la sua finalità essenzialmente letteraria. Citerei
in questo senso alcuni passi di rara liricità. Sadoveanu, “l’interprete
perfetto dell’anima popolare moldava” gli appare come “un fiume dalle acque
abbondanti, ma calme e serene, che rispecchiano azzurro di cieli e verde di
boschi”[4],
mentre il fascino di Hortensia Papadat-Bengescu, la scrittrice di romanzi di
tipo proustiano, “consiste in un mistero un po’ grigio, un po’ di giornata di
pioggia, o meglio di un giardino abbandonato, un po’ solitario, un po’
malinconico, ma con rosai fioriti veduti attraverso il velo di una pioggerella
lenta e triste; ma sommamente armonico, melodioso, suadente nella delicatezza
dei toni grigi e violetti meravigliosamente fusi nella tavolozza di questa
esploratrice d’ombra, di questa deliziosa pittrice amante della luce
crepuscolare”[5]. Come lo
sottolinea anche Gino Lupi in una recensione[6]
alla Letteratura romena apparsa sull’Europa Orientale nel 1941,
il merito di Ortiz sta anche nell’aver saputo accostare, anche senza
approfondimenti, i nostri prosatori con autori italiani, il che contribuisce a
rilevare al lettore lo spirito dei singoli scrittori.
Al 1930 risale una breve recensionne[7]
al romanzo Ciuleandra di Livio Rebreanu tradotto da Venere Isopescu,
apparsa sul Giornale di politica e letteratura a cura di Umberto
Biscottini, il direttore della rivista. Il romanzo, che prende il titolo da una
danza popolare romena “selvaggia e dionisiaca” rileva ancora una volta la
personalità vigorosa di narratore di Rebreanu, e il recensore ne
è consapevole. Tramite un approccio rivolto più al contenuto,
Biscottini nota la curiosità psicologica con cui viene analizzata questa
“passione triste e fatale”.
Su Cezar Petrescu, altro scrittoree emergente del primo dopoguerra, ma di
formazione seminatorista, punta invece Giulio Cogni in un suo saggio intitolato
Cose romene: Creangă e
p. 531
Petrescu[8], apparso sulla rivista Conviviium nel 1931. Come lo suggerisce in
un certo senso anche il titolo, nella visione di Cogni la realtà romena
è qualcosa di lontano e di particolare “ove tutto prende un colore, alla
russa”. Considerare oggettiva, equilibrata, realistica la novellistica di
Petrescu, avvicinarla addirittura alle opere di Pirandello è forse
esagerato per quanto concerne questo scrittore molto fecondo, ma di scarsa profondità,
la cui narrativa abbonda anche troppo di fantasia e di eterogeneità, per
rifarci alle parole del nostro più importante critico, Călinescu. Cogni
si sente però affascinato da quella che egli chiama “un’accurata e umanissima
nostalgia del tempo e del mare, e della giovinezza fuggente e dei ricordi” di
cui sarebbero pervase le sue novelle. E come lui sono in tanti i lettori
italiani che apprezzano l’inventiva scrittura di Petrescu, visto le numerose
traduzioni che hanno conosciuto le sue opere.
Nel 1933, Mario Ruffini, professorre di lingua e letteratura romena
all’Università di Torino pubblica sull’Europa Orientale un saggio
dedicato alle Correnti spirituali nella moderna letteratura romena[9].
Nonostante consideri la nostra una letteratura rappresentativa, Ruffini sembra
aver colto soltanto in maniera parziale le sue caratteristiche. Secondo la sua
superficiale valutazione c’è soltanto il tradizionalismo ad affermarsi
in quel periodo sulla scena letteraria romena, corrente d’altronde da lui criticata
per la mancanza di intellettualità dei personaggi e il culto del passato
che ne derivano. Affermare che “la letteratura romena è rimasta ancora
alle manifestazioni primitive dello spirito, alle vecchie idee dei moti del
1840, idee in evidente contrasto coi suoi bisogni attuali di evoluzione”,
significa negare l’esistenza di opere fondamentali per la letteratura romena,
che hanno rivoluzionato il romanzo romeno, sia dal punto di vista della forma
che della tematica affrontata.
Ecco apparire nel 1937 una vera e propria monografia di più di
cento pagine su Livio Rebreanu, scrittore che ha saputo arricchire la prosa
romena non soltanto di due monumentali romanzi della terra, ma anche di
pregevoli pagine di guerra e di fine analisi psicologica. Nonostante il titolo Un
naturalista romeno: Livio Rebreanu[10],
Anna Giambruno mette in rilievo i pregi e i difetti del romanziere romeno
cercando di vedere se di lui si potrà dire ciò che di Italo Svevo
dice il critico Camillo Pellizzi: “che il suo pregio essendo reale non deriva
menomamente dal fatto che i suoi scritti echeggino tendenze letterarie di sorta
nazionale o straniere”. L’autrice evidenzia come Rebreanu si sia distaccato per
certi aspetti dal naturalismo e dal realismo diffusi in Europa e sia riuscito a
rappresentare un modello di obiettività veramente raro. Diversamente da
Verga che alterna alla storia delle perdite quella delle speranze, Rebreanu,
come afferma Giambruno, “fa esclusivamente la storia della conquista in cui
l’uomo si accanisce e verso cui l’uomo si volge da una posizione quasi irreale:
quando avviene il contatto con la realtà, avviene allora fatalmente la
rovina”, che è per i suoi personaggi “più immediata e terribile”[11].
Attraverso simili raffronti l’autrice di questo studio approfondisce in maniera
originale le opere più importanti ma anche quelle minori di Rebreanu,
riuscendo a “liberarsi dal groviglio di precedenti critiche” come ci ricorda
Padrini nel suo articolo[12]
sugli studi italiani di letteratura romena apparso
p. 532
nel
1940 sul Meridiano di Roma. La Giambruno sa trovare anche accenti lirici
nella prosa di Rebreanu, soprattutto nella Foresta degli impiccati, ma
è la “magnificazione della terra attraverso ogni creatura, questo amore
che resta intatto pur tra le miserie, le cadute, le colpe […] la vera
originalità dello scrittore romeno”[13].
Nel valutare la fase attraversata dalla letteratura romena di quel
tempo, un approccio molto più oggettivo di quello esposto da Ruffini
adopera Marcello Camillucci, professore di lingua e letteratura romena
all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nel suo articolo
intitolato proprio Evoluzione dell’ideologia letteraria romena[14],
apparso sulla rivista Vita e pensiero nel 1941. Per Camillucci è
evidente che per quanto concerne la cultura romena sia già in atto il
processo di creazione di valori che affermino una loro vitalità
originale, pronte a cristallizzarsi nelle forme della cultura universale. Dopo
un accurato esame dei principali orientamenti maturati dalla letteratura romena
prima e dopo la prima guerra mondiale, Camillucci conclude affermando che “una
cultura che può annoverare valori come Blaga, Călinescu, Eliade […]
possiede già l’orgoglio legittimo di sentirsi nel cuore di questa
civiltà”.
Anche in un articolo della rivistaa Italia che scrive[15]
del 1941 Camillucci traccia un panorama culturale dei latini d’oriente. Egli
avverte ancora una volta l’esplosione dei germi, di una generazione nuova
pronta a toccare la luce col vertice della sua volontà di vita. Sotto la
penna di giovani di grande ingegno la prosa sta cercando di attingere un volto
che disveli un nuovo e riapprofondito tormento umano. Camillucci auspica che
questi giovani ancora “romanticamente in lotta con se stessi, in polemica
confusa con il tempo” possano uscire “dagli esasperati egocentrismi, dal
crudele ossequio ai maestri del diluvio per ritrovare un centro umano, […]
un’illusione meno sterile”. In conclusione del suo articolo, lo studioso
italiano esprime una speranza: che la poesia domani “aiuterà, anche
sulle rive del Danubio, a ricostruire il mondo”.
Nel suo studio[16],
apparso sul Meridiano di Roma del 1942, Franco Cardinali, per rendere
più chiare le sue considerazioni sulla narrativa romena contemporanea,
porta come esempio l’opera di Livio Rebreanu. Ci troviamo così, ancora
una volta, di fronte ad un articolo di un’intera pagina dedicato a Rebreanu,
testimone di quella spontaneità, di quella specie di “ingenua
novità nel sentire l’influsso, di docilità virginea a plasmarsi
al primo impulso creativo” che rappresenta, secondo Cardinali, il carattere
predominante della prosa romena. Attraverso un commento ricco di citazioni
dalla critica romena e italiana ma anche di preziosi giudizi personali,
Cardinali analizza le opere dello scrittore romeno tramite le quali si delinea
il suo temperamento di artista forte, sobrio, obiettivo. È possente il
quadro dei vari strati di popolazione della sua patria che Rebreanu sa
presentare attraverso una prosa tutta permeata di materia, tutta
capacità di notazione. Accanto ad altre opere romene la sua narrativa
può essere stimata di “innegabile valore estetico” ed è pronta,
così, a varcare i confini del luogo della sua creazione.
Anche Agnese Silvestri Giorgi, eleegante traduttrice di numerose opere di
spicco della letteratura romena, considera già concreto l’inserimento
della nostra cultura nel più vasto quadro di quella europea. È
riconosciuta a Rebreanu, cui ella dedica il saggio Un grande romanziere
p. 533
romeno[17] apparso sulla rivista Augusteaa nel 1942, “la profonda
sensibilità artistica”, la capacità di passare dal personale
all’oggettivo, dall’individuale all’umano, dall’autobiografia del reale a
quella del possibile, attributi questi di un vero prosatore, secondo
Perpessicius[18]. Rebreanu
è sì “romeno fino alle midolla delle ossa”, ma allo stesso tempo,
sono poche le pagine nella letteratura moderna universale che possono stare a
pari di quella in cui Ion bacia la terra, mentre la Foresta degli impiccati,
si ricorda, è “il più bel romanzo che abbia espresso la grande
tragedia europea della prima guerra mondiale”. Senza seguire un particolare
metodo critico le riflessioni di Agnese Silvestri, incentrate per lo più
su Ion, romanzo d’altronde da lei tradotto, si configurano piuttosto
come una presentazione, sicuramente pertinente e di un certo fascino. La
traduttrice avverte qualcosa di sacro nel tenace e feroce amore per la terra
dimostrato dal contadino Ion – un amore che “basterebbe a rilevare in questi
Latini d’oriente la nobile discendenza da Roma”. Affermando la
difficoltà di individuare il carattere di Rebreanu, visto la
diversità dei suoi romanzi, Agnese Silvestri percepisce quello che Sorin
Alexandrescu nel suo libro La modernité à l’Ést chiama “il
paradosso della simultaneità”[19],
una particolarità della letteratura romena per cui coesistono più
tendenze e linee di pensiero nello stesso autore, mentre ad un livello
più esteso, le correnti che nell’Occidente si sono susseguite, si
manifestano da noi contemporaneamente. Assistiamo così nel Novecento al
realismo di Rebreanu che compare insieme ai romanzi proustiani di Camil
Petrescu, all’esistenzialismo di Mircea Eliade e alla prosa “assurda” di Urmuz.
E questo nel tentativo di recuperare quel tempo perduto nei confronti della
cultura occidentale.
Con l’osservazione che il popolo rromeno abbia dovuto non solo creare
tutti i generi letterari, ma anche condurli rapidamente a gareggiare con le
letterature degli altri paesi, apre anche Gino Lupi il suo primo saggio
dedicato al prosatore Damian Stănoiu, apparso sulla Rassegna italo-romena
del 1940. Futuro professore di lingua e letteratura romena presso
l’Università di Milano, Gino Lupi si dimostra un critico attivo, autore
di una storia della letteratura romena ma anche di numerosi saggi e recensioni,
di cui tanti sono pubblicati sulla Rassegna italo-romena. In ben sei
numeri[20]
di questa rivista troviamo articoli firmati da Lupi dedicati a Damian Stănoiu,
ex monaco che presenta con un umorismo mite e bonario che si trasformerà
poi in satira, l’ambiente ecclesiastico. Lupi analizza dettagliatamente sia le
novelle che i romanzi di questo scrittore, insistendo particolarmente sulla
natura angelica dei peccati dei suoi personaggi, monaci semplici e ingenui che
sanno distinguere il male dal bene, ma spesso non sanno evitarlo per debolezza
di volontà. Lo studioso italiano seleziona i giudizi buoni dati dalla
critica romena alla narrativa di Stănoiu, li cita e ne aggiunge i suoi,
eccedendo nel considerare pregevoli anche lo studio degli ambienti e dei caratteri,
la costruzione dei personaggi. Damian Stănoiu è rimasto in fondo nella
nostra storia della letteratura solo per il sapore del linguaggio tipicamente
monacale attraverso il quale si esprimono i suoi personaggi. Riflettere
sull’opera di D. Stănoiu, “scrittore indipendente da tutte le scuole e da tutte
le imitazioni”, è per Lupi un’occasione in più di scagliarsi
contro quella che egli chiama la “falsa cultura attuale”, creata da scrittori
mediocri “che mostrano con troppa evidenza l’ispirazione francese e russa”[21].
Si tratta in realtà della fase più fiorente che
p. 534
la
letteratura romena del Novecento abbia conosciuto, caratterizzata dagli sforzi
di creare un nuovo ordine, stabile, di valori pronti a superare la dimensione
estetica per approdare a quella etica, in sintonia con la realtà
letteraria occidentale. Come lo dimostrerà anche nel 1943, recensendo il
romanzo Ochii strigoiului di Cezar Petrescu sulla Rassegna
italo-romena[22], Gino Lupi
non riesce a superare preconcetti ideologici e personali. Lo troviamo, infatti,
ancora una volta nell’atto di criticare l’asservimento dei personaggi di questo
romanzo alla cultura e alla moda francese “come se altre non esistessero”.
Mentre un’osservazione del tutto permeata dall’ideologia fascista è
quella che si riferisce alla condanna delle società borghese degli anni
Trenta, che è segno, secondo Lupi “di una vera incomprensione dei tempi
nuovi”, “della magnifica rinascita dell’Italia fascista”.
Alla luce di quanto è statoo esposto fin’ora si può
affermare che nel periodo fra le due guerre la critica italiana ha privilegiato
gli scrittori romeni cosiddetti tradizionalisti, che hanno saputo costruire in
tono sentimentale rappresentazioni ideali ma anche realistiche del popolo
romeno, come Mihail Sadoveanu, che d’altronde risulta lo scrittore romeno
più tradotto in Italia. È sicuramente poco probabile che appaiano
commenti critici su opere poco note in Italia, in quanto poco tradotte. E le
traduzioni sono strettamente collegate ad un contesto editoriale e culturale,
dovendo rispondere all’orizzonte d’attesa del fruitore. La volontà di
sfuggire all’incontro con il mondo moderno si traduce presso i lettori italiani
nella tendenza di lasciarsi coinvolgere sempre di più da una letteratura
di evasione, senza complicazioni, caratterizzata da uno spirito di moderazione
etico-estetica. Ecco dunque la ragione per cui i racconti fantastici di Cezar
Petrescu, gli affreschi storici di Sadoveanu o le storie degli affetti di anime
semplici raccontate da Ion Agârbiceanu attecchiscono presso il pubblico largo,
arrivando a inserirsi in quella narrativa di successo dell’epoca fascista.
Ma nel periodo interbellico si fa strada anche un altro filone
letterario proposto questa volta al pubblico più colto; si tratta di
quella letteratura che si nutre della tragica esperienza della guerra e penetra
nelle profondità della coscienza tormentata di chi ha visto crollare
fedi e miti. Sulla scia dei romanzi di Borghese, Moravia o Svevo, scrittori
romeni come Camil Petrescu o Hortensia Papadat-Bengescu abbandonano la dimensione
nazionalista e provinciale per contribuire con i loro scritti alla scoperta
della crisi dell’uomo contemporaneo. Senza questi autori l’immagine della prosa
romena in Italia non può corrispondere alla realtà. Le loro
opere, però, non solo non sono state tradotte in italiano, ma sono
veramente pochi anche i critici che hanno segnalato la loro presenza. Il
critico, d’altronde, che si presuppone sia al corrente anche con le nuove
pubblicazioni, oltre a ribadire il successo o l’insuccesso di scrittori
già conosciuti, ha anche il ruolo di orientare il pubblico nella lettura
di opere appartenenti ad autori emergenti.
Un altro aspetto a sfavore della rricezione della nostra prosa nel
contesto italiano è la quasi mancanza di studi di comparatistica. “La
letteratura romena colta è, in essenza, di struttura e vocazione
europea”[23], afferma
Adrian Marino, ed è importante rilevarla accanto alla sua
specificità. Il critico letterario è chiamato ad avere davanti a
sé ciò che è individuale, diverso, cercando però di farlo
diventare nello stesso tempo, momento di un discorso più ampio e comune.
Un’opera può in fondo riscrivere in se stessa tutte le altre;
l’intertestualità è divenuta anche
p. 535
modalità
di lettura che recupera a livello della ricezione la produzione stessa del
testo, rendendo possibile la lettura degli intertesti che sono all’origine del
processo creativo. Valutare la nostra narrativa tramite l’analisi delle
influenze e dei temi più suggestivi anche rispetto alla prosa italiana
porterebbe sicuramente alla scoperta di nuove realtà, di significati
ancora più profondi.
Purtroppo, come si vedrà annche più avanti nella nostra
ricerca, questo non si verifica neanche per quanto concerne la prosa romena del
secondo dopoguerra. Inoltre, si assiste in questo periodo ad un declino di
quella passione e di quel spirito di militanza che portava gli studiosi
precedenti a svolgere un’efficace opera divulgativa. D’altronde è anche
giusto affermare che ci troviamo negli anni dogmatici in cui la letteratura
romena è soffocata e paralizzata dal realismo socialista imposto dal
regime. Scrittori di talento della tradizione umanistico-borghese affermatisi
nel periodo interbellico si conformano alle nuove disposizioni, mentre giovani
autori fanno a gara per esaltare la realtà di una società ancora
inesistente. Ad affacciarsi, però, sulla scena letteraria ritroviamo in
quelli anni anche scrittori che hanno saputo aggirare i vincoli e i divieti
loro imposti per lasciarci pagine di autentico valore. E qui mi riferisco ai romanzi
di idee di George Călinescu oppure a “I Moromete” di Marin Preda, prosatore
molto interessato ai casi di coscienza, all’estrazione di significati morali
dall’osservazione degli stati d’animo.
Ma in un contesto politico-ideologgico di sinistra, come quello italiano
degli anni ’50-’70, l’immagine della letteratura romena è ancora una
volta travisata. Com’è stato rilevato anche da Ioan Guţia, antologie
della narrativa romena come quella curata da Giuseppe Petronio[24]
apparsa nel 1956 hanno piuttosto lo scopo di dare “un taglio tendenzioso alla
letteratura romena, cioè strumentalizzarla ai fini propagandistici, a
scapito dei valori artistici”[25].
Lo testimoniano le omissioni di scrittori importanti come Hortensia
Papadat–Bengescu, Mircea Eliade, Marin Preda e le inclusioni abusive di autori
privi di valore letterario come Eusebiu Camilar. Il critico Giacinto
Spagnoletti, famoso per essere sempre attento ad una fenomenologia il
più possibile ampia della cultura letteraria, fuori da schemi
ideologici, nota con acume in una recensione all’antologia di Petronio, apparsa
nel 1957 sulla rivista Tempo presente diretta da Ignazio Silone:
“Petronio ha piegato la genericità del suo assunto ad un modo molto
parziale di osservazione, scegliendo gli scrittori dentro un quadro già
bell’e pronto della propaganda ufficiale del regime comunista”[26].
Sono due in particolare le osservazioni di Petronio in cui culmina la sua falsa
interpretazione del fenomeno letterario romeno: “La maggior parte dei prosatori
romeni fino al 1944 rappresentano e denunziano la falsità
dell’organizzazione sociale, ma non riescono a vedere la possibilità di
uscirne”. E ancora: “Dopo il 23 agosto 1944 la prosa, come l’intera letteratura
romena ha conosciuto una svolta decisiva”[27].
Nel 1968 Gino Lupi pubblica pressoo la casa editrice Sansoni una Storia
della letteratura romena[28]
intesa da lui come “un’opera organica che al mondo culturale manca”. In
realtà si tratta ancora una volta di un’analisi deformata per motivi
personali o per simpatie o antipatie artistiche e ideologiche. Esponenti di
spicco della corrente modernista sono non soltanto esaminati in maniera molto
frettolosa, ma anche giudicati negativamente. Persino le opere di Mircea
Eliade, opere che
p. 536
d’altronde
non sono neanche nominate, risultano a Lupi “faticose per prolissità e
divagazioni”. La mancanza di un approccio critico-estetico caratterizza anche i
commenti che riguardano la prosa del secondo dopoguerra.
Nell’Italia degli anni Sessanta sii registra una grande diffusione dei
tascabili, fenomeno che coinvolge anche le traduzioni d’opere letterarie romene
in italiano. Anche se case editrici come le Edizioni Paoline guardano piuttosto
indietro che in avanti, puntando sulla narrativa del periodo fra le due guerre
mondiali, vengono proposte al pubblico anche delle novità come la prosa
di Ionel Teodoreanu, Gala Galaction, Zaharia Stancu. Studi critici degni di
nota stentano, tuttavia, ad apparire. Dobbiamo aspettare gli anni Ottanta,
quando viene scoperta la letteratura romena d’esilio, per ritrovare articoli e
persino monografie critiche caratterizzate anche da un netto miglioramento del
livello scientifico.
Sul dramma dell’intellettuale romeeno costretto a fuggire, a perdere
tutto per salvare almeno una cosa: la verità e la realtà, si
è espresso varie volte Petru Dumitriu, scrittore che a sua volta ha
scelto l’esilio, sul settimanale La Fiera letteraria[29]
degli anni Sessanta. Citerei un brano apparso nel numero Trenta della rivista:
“La nostra libertà non vale probabilmente una terza guerra mondiale, ma
proprio per questo noi abbiamo più bisogno di aiuto morale di quanto non
ne abbia qualsiasi intellettuale che vive in libertà”. Eppure una delle
figure enciclopediche più complesse di tutti i tempi come Mircea Eliade
ha dovuto prima affermarsi negli Stati Uniti e in Francia per poter approdare
in Italia in veste di letterato.
Nel 1980 Nicolò Di Fede pubbblica sulla rivista Humanitas
una recensione[30] a Il
vecchio e il funzionario, il secondo romanzo di Eliade proposto al lettore
italiano. Si tratta del romanzo più completo di Eliade, in cui si
fondono la prosa epica e di analisi psicologica e quella fantastica. Il merito
di Nicolò di Fede sta nell’aver saputo svelare la pluralità di
sensi e interpretazioni che una tale opera dispiega: dalla parabola dell’uomo
fragile, dell’innocenza, della memoria che si oppone al potere ossessivo, fino
alla metafora di un racconto, della narrazione per eccellenza che si dilata
fino ai limiti estremi del tempo e dello spazio, interpretazione quest’ultima
che si inserisce con successo nel contesto letterario italiano di quelli anni,
molto attento al metaromanzo, al processo testuale. “Ci troviamo nell’universo
inesauribile dei vecchi racconti che sempre ci incanta. Forse è giusto
solo lasciarsi andare nel vortice …”[31]
ci consiglia con accortezza Nicolò di Fede. Come risposta da parte degli
editori alla necessità avvertita dallo studioso di un’autentica
iniziazione del lettore italiano che gli potrebbe essere offerta dagli altri
romanzi di Eliade, ben presto, eppure con grande ritardo rispetto alla data della
loro prima pubblicazione, gran parte della narrativa degli anni Trenta dello
scrittore romeno viene tradotta e fa la sua comparsa nelle librerie. Romanzi
come Il serpente, Il segreto del dottor Honigberger, Diciannove
rose sono accompagnati da prefazioni brevi ma incisive di studiosi come
Silvia Lagorio, Renato Minore, che rivelano i punti forti ed essenziali del
pensiero di Eliade di cui essi sono pervasi: il fascino delle ierofanie, la
vitalità dei simboli, la ricerca dell’autenticità intesa come una
forte sete ontologica di conoscenza del reale.
Un contributo molto importante alll’opera di Eliade è il libro Mircea
Eliade e l’Italia a cura di Marin Mincu e Roberto Scagno, pubblicato presso
la Jaca Book di Milano nel 1987. Il
p. 537
volume
raduna non solo testi inediti e frammenti del carteggio dello scrittore con
varie personalità, ma anche nuove testimonianze sul suo rapporto con la
cultura italiana e interpretazioni della sua opera scientifica e letteraria.
Fra i saggi attinenti alla nostra ricerca ricordiamo Il fascino della notte
in cui Giovanni Filoramo delinea i tratti enigmatici del volto più
trascurato della personalità eliadiana, quello del letterato, il
meritorio saggio di Roberto Scagno sull’ermeneutica creativa di M. Eliade e la
cultura italiana e le accurati analisi dei suoi romanzi pubblicati in Italia
firmate da Monica Farnetti, profonda studiosa dell’Eliade narratore fantastico
e mitologo. Agli anni Ottanta, più precisamente al 1986 risale anche la
pubblicazione degli Atti del Convegno La Romania nella coscienza
intellettuale italiana. Di particolare interesse ci sembra il contributo di
Claudio Magris, instancabile viaggiatore negli spazi di frontiera.
Ripercorrendo la narrativa di Sadoveanu, Zaharia Stancu, fino a quella di Emil
Cioran, Magris intravede la rassegnazione dell’anima romena di fronte al male
che si è spesso rilevato per i romeni come un eccesso di storia.
Negli anni Novanta gli studi critiici italiani puntano sempre su Eliade.
Nel volume La ferita della modernità. Intellettuali, totalitarismo e
immagine del nemico[32]
Maurizio Serra dedica un ampio saggio a Eliade e al confronto tra storia e mito
che si delinea nel suo romanzo La foresta proibita (pubblicato nel 1986 presso
la Jaca Book). Ne ricaviamo spunti critici sicuramente interessanti riguardanti
l’esemplare ritratto dell’intellighenzia europea tra le due guerre e il
concetto dell’uomo che tende “a liberarsi dalla scorza di un’identità
fugace e sottomessa agli eventi per giungere all’affermazione del suo vero
destino”[33]. Lo
studioso italiano non esita di attribuire la difficile ricezione di questo
romanzo all’eccesso di erudizione e di carica simbolica. Serra non riesce,
però, a distaccarsi dai pregiudizi del dibattito ideologico per cui
Eliade è considerato un “viscerale antisemita”[34].
Nel volume Studi rumeni e romannzi[35]
(1995), a cura di Coman Lupu e Lorenzo Renzi, Marco Cugno e Laura Miani ci
lasciano studi di grande competenza sulle Interferenze folclorico-mitologiche
e letterarie nella narrativa fantastica di Eliade e, rispettivamente, sulla
Donna nella narrativa di Eliade, adoperando metodi della critica
tematologica ben articolati e puntuali. Un’altra testimonianza del fatto che
l’opera vasta di Eliade si rivela sempre più attuale e ricca di fascino,
aperta a riletture metodologiche e sviluppi creativi è la pubblicazione
del volume Confronto con Mircea Eliade. Archetipi mitici e identità
storica[36] (1998) a
cura di Luciano Arcella, Paolo Risi e Roberto Scagno. Vi si notano in
particolare la riflessione di Scagno sul percorso intellettuale di Eliade
inteso come sintesi tra la creatività orientale e quella occidentale e
il saggio di Cugno sul rapporto fra la concezione eliadiana di letteratura
fantastica e quella di pensiero mitico. Approfondendo, però, la nostra
ricerca sulla critica degli ultimi due decenni, ci appare evidente lo scarso
interesse per la prosa romena contemporanea. Eppure, proprio in questo periodo
le tendenze della produzione narrativa italiana e romena sembrano convergere,
seguendo anche gusti di lettura simili. Come ci rivela anche Vittorio
Spinazzola nella Modernità
p. 538
letteraria[37], continua a sussistere, anche se il suo ciclo più profondo
appare superato, un filone dello sperimentalismo avanguardistico incentrato
sull’io dell’autore, teso a stabilire una comunione estetica immediata con la
totalità dell’essere. Ma ci si è accorti che la crisi dei valori
sia pienamente romanzabile anche seguendo le strutture letterarie tradizionali.
Accanto alla diffusione di libri di memorie, biografie più o meno
romanzate, si assiste così al ripristino di una narrativa d’ambiente,
con forti connotati di bella letterarietà. Questi aspetti comuni
dovrebbero costituire uno stimolo a lasciarsi appassionare dalle esperienze
della modernità che traspaiono dalla narrativa romena.
Uno stimolo non soltanto alla letttura ma anche alla critica della
letteratura romena potrebbe venire anche dalle traduzioni in italiano di saggi
e monografie dei nostri più rappresentativi critici letterari.
Ricordiamo, però, alcuni aspetti negativi che hanno impedito ai vari
teorici e critici romeni di affermarsi in Italia come negli altri paesi. Da noi
non esiste una vera e propria tradizione critica di pubblicare in lingue
straniere o di collaborare alle pubblicazioni straniere. Negli anni Trenta e
Quaranta, anni molto fecondi per la critica romena, prestigiosi critici come
George Călinescu, Eugen Lovinescu, non si sono preoccupati di far circolare le
loro idee anche all’estero e il loro esempio negativo è stato seguito
anche da altri critici romeni. Inoltre, con l’avvento del regime comunista si
è instaurato un clima di isolamento culturale che ha reso difficile, se
non impossibile, la circolazione e la partecipazione a vari congressi e
convegni di livello internazionale dei critici romeni, classici o no. Per
quanto riguarda la critica romena dei nostri giorni, com’è stato
evidenziato anche da Adrian Marino nel suo libro Pentru Europa[38],
essa si rivolge soprattutto alla letteratura attuale, già poco conosciuta,
il che rende scarso l’interesse dei traduttori e delle case editrici straniere.
Sono, dunque, ben poche le storie e le teorie della letteratura romena
autoctone che sono riuscite a penetrare nello spazio culturale italiano. Ci
sarebbe, tuttavia, anche un aspetto favorevole che ha contribuito molto alla
loro diffusione: la pubblicazione di queste opere presso case editrici
importanti come il Mulino, Laterza, Sansoni.
Una molto ben articolata Storiaa della letteratura romena moderna[39]
è apparsa nel 1947 tradotta da Agnese Silvestri Giorgi. L’autore
è Basil Munteanu, presenza internazionale valorosa che per molto tempo
è stato segretario di redazione alla Revue de littérature comparée.
Prima di iniziare la sua analisi critica, Munteanu presenta il contesto
storico-geografico in cui si è formato lo spirito romeno e i caratteri
generali della letteratura che ha creato, originale per la sua ricchezza di
contrasti, per il “grande soffio di freschezza” che emana, per la
rappresentazione che ne dà dell’uomo, un uomo che si definisce non tanto
nei suoi rapporti collettivi quanto in quelli propriamente umani, metafisici e
naturali. Munteanu ci tiene a ricordare anche il gusto vivissimo dei romeni per
la critica “mordace e mai disarmata, che si esplica in tutti i campi della vita
e dello spirito”. Prima di dedicare un ampio capitolo al fiorire del romanzo
nel periodo interbellico, il critico romeno contestualizza in maniera chiara e
approfondita lo sforzo creatore del dopoguerra, riferendosi allo studio e
l’organizzazione delle realtà nazionali, alle varie correnti di pensiero
che hanno ispirato originali pubblicazioni e opere letterarie. Il motto
dell’intellettuale-tipo romeno di quell’epoca è, infatti, quello di
creare valori originali, di allargare i suoi orizzonti europei man mano che si
addentra nelle realtà locali. Il critico romeno riesce a cogliere il
dinamismo
p. 539
irresistibile
che trascina la produzione letteraria del periodo fra le due guerre mondiali,
soffermandosi sugli scrittori che hanno saputo crearsi uno stile personale fra
tutti e dotare la nuova letteratura di alcune delle sue più belle
pagine.
Nel 1957, a Roma, furono poste le basi della Società Accademica
Romena con lo scopo di promuovere la cultura romena oltre confine. Fra le
pubblicazioni di questa società ricordiamo gli Acta philologica,
curati da Mircea Popescu, dove apparvero contributi inediti di docenti romeni
in Italia, ma anche di studiosi italiani. Nel secondo volume della Storia
delle letterature moderne d’Europa e d’America diretta da Carlo Pellegrini
appare nel 1958 una breve storia della letteratura romena[40]
a cura di Giorgio Caragaţă, professore di romeno all’Università di
Firenze. Soltanto sette pagine ne sono dedicate alla prosa novecentesca ma
è significativo il fatto che Caragaţă ci dia approfondimenti proprio su
quelli scrittori più vicini alle tendenze delle poetiche
decadentistiche, spesso trascurati dai critici italiani. Lo studioso romeno ci
rende così partecipi della ricchezza d’analisi di Hortensia
Papadat-Bengescu, del suo sprofondarsi nel gioco degli istinti e del
subcosciente, come della narrativa di Camil Petrescu, “il creatore innamorato
di valori puramente poetici e rari”[41].
Nel 1970, Mircea Popescu, diventatto incaricato di Lingua e Letteratura
romena presso la Facoltà del Magistero dell’Università di Roma,
pubblica una breve Storia della letteratura romena[42]
nel volume Storia delle letterature del sud-est europeo. Il suo disegno
storico è alquanto sommario, ma ricco di spunti interessanti e audaci
della letteratura romena. Un’Introduzione alla letteratura romena[43]
corredata da frammenti tradotti in italiano delle principali opere letterarie
romene viene pubblicata nel 1971 da Ioan Guţia, professore incaricato presso
l’Università di Roma. Anche se risulta alquanto relativo il criterio di
presentazione degli scrittori romeni e, cioè, in base alle correnti che
hanno ispirato le loro creazioni, il lavoro di Guţia è pieno di gusto e
di buon senso.
Nel quarto numero della rivista
p. 540
degli
sviluppi significativi e sottili nell’ambito della produzione letteraria
romena. Gli scrittori che si sforzano di lottare contro i terribili meccanismi
della dittatura si aprono meglio ai movimenti letterari europei, ripristinando
nei suoi diritti lo scrivere letterario. Optando per un linguaggio spesso
ermetico, allusivo, metaforico, scrittori come Radu Petrescu, Mircea Horia
Simionescu, conquistano il pubblico dando alla luce alcuni fra i migliori libri
di prosa della letteratura romena contemporanea. Si verifica, così,
quello che viene definito da Marian Papahagi “uno dei paradossi più
difficilmente accettabili: il fatto che venisse tollerata sotto il regime
più chiuso e più repressivo dell’Est una letteratura che, nella
quasi totalità delle sue pagine esteticamente valide, non faceva che
respingerlo”. Se per il pubblico romeno Papahagi auspica, in conclusione del
suo studio, un rapido recupero delle opere di più di un centinaio di
autori romeni di valore dell’esilio, noi, per il pubblico italiano speriamo
nell’avvento di iniziative che possano far conoscere anche la letteratura
prodotta in Romania negli anni fervidi del comunismo.
Nel 1993 appare in Italia, a cura di Gheorghe Carageani e Gabriella
Bertini Carageani, l’Introduzione alla teoria della letteratura[45]
di un importante storico della letteratura, autore di numerosi lavori con
prevalente taglio comparatista e sociologico. In questa opera il romeno Paul
Cornea prende in esame sistematicamente tutti i nostri comportamenti in quanto
lettori, analizzando l’operazione tecnica della lettura che va dalla sua
esecuzione alla codificazione, in seguito alla comprensione, perché si approdi
poi alla vera e propria ricezione di un testo. Nella Presentazione del
libro Carageani arriva persino ad affermare che, “a differenza di tutti i
lavori pubblicati finora in Italia e nel mondo, il libro di Cornea risponde
idealmente a un maggior numero di quesiti relativi alla teoria della lettura,
riuscendo ad abbinare felicemente l’atteggiamento critico a quello
costruttivo”.
La più recente delle traduzzioni di critica e teoria letteraria
romena che possiamo registrare è la Teoria della letteratura[46]
del già citato Adrian Marino, apparsa nel 1994 a cura di Marco Cugno. Autore
dell’equilibrio che mira sempre a creare delle sintesi, superiori secondo lui
alle analisi, Marino insegue la totalità nel complesso delle “idee della
letteratura”. La letteratura si presenta, secondo la sua teoria, in ordine
sistematico, stabile ma inesistente nel tempo storico concreto ed è
attraverso il metodo ermeneutico che occorre renderlo efficiente. Il suo
obiettivo è, dunque, quello di stabilire un inventario completo dei
luoghi in cui la letteratura si caratterizza, svela se stessa e questo
prendendo in considerazione sia elementi stranieri che romeni, tentando di
gettare ponti ingegnosi tra le posizioni classiche e quelle moderne.
Com’è stato notato da Marco Cugno nell’Introduzione alla poderosa
opera, ma anche da Franceso Muzzioli nel volume Le teorie letterarie
contemporanee[47],
quello che colpisce è la novità dell’impostazione. Muzzioli ci
ricorda che anche l’antiletteratura, in cui filtrano le dimensioni più
moderne della scrittura, è inclusa nel sistema dell’idea di letteratura
in quanto “il ciclo si chiude per aprirsi […] negata, la letteratura rinasce
dalle sue ceneri”. Nella stessa Introduzione Cugno ci tiene a precisare
che il libro di Marino “reca i segni delle intrusioni mutilatrici della
censura, ma resta il lavoro di un uomo libero, cittadino della “Repubblica
delle Lettere”. Un altro merito di Marino è quello di riferirsi nella
sua opera a diverse letterature europee, senza far predominare alcuna, il che
solo uno
p. 541
studioso
senz’alcun complesso di inferiorità può farlo. Anzi, la sua convinzione
è che la crisi riguardi l’Occidente, “mentre la letteratura mantiene
intatte la sua vitalità e la sua attualità […] all’Est, dove
continua a rispondere a contesti e a necessità specifiche essenziali”[48].
Spirito attivo, importante promotore della nostra letteratura, Marino si
è sempre preoccupato di far apparire i suoi contributi su varie
pubblicazioni e riviste specializzate com’è il caso dei Quaderni di
Gaia che hanno preso avvio sotto l’iniziativa della Cattedra di Letterature
comparate della Facoltà di Lettere dell’Università La Sapienza.
Nel volume Comparare i comparatismi, a cura di Armando
Gnisci e Franca Sinopoli, è segnalata ad un certo punto la
collaborazione a questa rivista di Adrian Marino definito “uno dei maestri
della comparatistica contemporanea”.
Ma il più grande maestro deella critica romena resta indubbiamente
George Călinescu. La sua lezione è stata seguita sia da Adrian Marino
che da tanti altri critici romeni fra cui Nicolae Manolescu, critico consacrato
dalla scrittura elegante e dall’osservazione fine, che, purtroppo, non è
stato ancora tradotto in Italia. Eppure Călinescu, spirito di alto ingegno, “di
gusto squisito”, “scrittore polemista delizioso, mente chiara e sintetica”[49],
per rifarci alle parole di Ramiro Ortiz che l’aveva notato sin da quando era
studente all’Università di Bucarest dove egli aveva insegnato
l’italiano, rimane ancora uno sconosciuto nello spazio culturale italiano. La
sua Storia della letteratura romena dalle origini a oggi del 1941
rappresenta ancor’oggi uno strumento molto prezioso, essenziale, si potrebbe
dire, per chiunque si accinga a studiare la letteratura romena. Si aspetta,
dunque, l’avvento di un traduttore che possa dare alla luce la versione
italiana di questo capolavoro, o almeno di parte di esso. L’attesa non si
annuncia lunga. Angela Tarantino, docente di lingua e letteratura romena presso
l’Università di Firenze sta già preparando la traduzione di un
compendio del famoso volume che sarà pubblicata l’anno prossimo.
Nella speranza che, semmai fosse iin atto una crisi della critica –
ipotesi d’altronde emersa anche nell’ambito del Convegno Un’idea del
Novecento tenutosi nel dicembre dell’anno scorso presso l’Università
degli Studi di Padova – la si possa ben presto superare, auspichiamo l’apparizione
di nuovi studi critici italiani che riguardino la nostra prosa più
recente, ma anche quella del passato, nel tentativo di ripristinare la memoria
dentro la letteratura universale che ha sempre riservato uno spazio alla
verità, in modo che se dovesse perire, possa risuscitare. In fondo, per
rifarci a quello che Ezio Raimondi afferma nel libro Letteratura e
identità nazionale, “il passato non è fatto solo di
ciò che si è realizzato, ma anche di ciò che non si
realizzò, di possibilità che rimasero inevase. E questi sono gli
spazi che ancora rimangono a noi (lettori e critici), gli spazi sui quali
possiamo ancora operare”[50].
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e ricerca umanistica 5 (2003), edited by Şerban Marin, Rudolf Dinu, Ion
Bulei and Cristian Luca, Bucharest, 2004
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© Şerban Marin, March 2004, Bucharest, Romania
[1]
Cfr. “Rassegna bibliografica”, Europa Orientale 3 (1923): 840.
[2]
Cfr. “Correnti nella letteratura romena contemporanea” e “La prosa romena
contemporanea”, Giornale di politica e di letteratura 5 (1929), 12:
1289-1296 e 1335-1347.
[3]
Cfr. R. Ortiz, Letteratura
romena, Roma: Signorelli, 1941: 144.
[4]
Ibidem: 147.
[5]
Ibidem: 208.
[6]
Cfr. Europa Orientale 21 (1941): 364.
[7]
Cfr. “Cronache di cultura” , Giornale di politica e letteratura 6
(1930): 544-545.
[8]
Cfr. Convivium 3 (1931): 674-678.
[9]
Cfr. Europa Orientale 13 (1933): 272.
[10]
A. Giambruno, Un naturalista
romeno: Livio Rebreanu, Roma: Istituto per l’Europa Orientale, 1937: 109
pagine.
[11]
Ibidem: 63-64.
[12]
Si veda E. Padrini, “Studi
italiani di letteratura romena”, Meridiano di Roma 5 (1940), 29: IX.
[13]
Cfr. Giambruno, Un naturalista,
cit.: 109.
[14]
Cfr. M. Camillucci, “Evoluzione
dell’ideologia letteraria romena”, Vita e pensiero 27 (1941), 6:
269-278.
[15]
Si veda Idem, “La letteratura
romena”, Italia che scrive. Rassegna per il mondo che legge 19 (1941),
4: 106-107.
[16]
Si veda F. Cardinali, “Livio
Rebreanu”, Meridiano di Roma 7 (1942), 22: VI.
[17]
Cfr. Augustea 17 (1942), 23-24: 817-818.
[18]
D. P. Perpessicius, Scriitori
români, Bucarest: Minerva, 1990: 51.
[19]
Si veda S. Alexandrescu, La
modernité à l’Est, Piteşti: Paralela 45, 1999: 20-21.
[20]
Cfr. Rassegna italo-romena 1940 (6): 9-15; 1940 (7-8): 11-16; 1940 (9):
8-12; 1940 (10): 10-15; 1940 (11): 3-10.
[21]
Ibidem, cit., 1940 (6): 11.
[22]
Cfr. ibidem, cit., 1943 (21): 23.
[23]
A. Marino, Pentru Europa.
Integrarea României. Aspecte ideologice şi culturale, Iassi: Polirom, 1995:
119.
[24]
Cfr. Narratori romeni (a cura di G. Petronio),
Parma: Guanda, 1956.
[25]
I. Guţia, Le traduzioni
d’opere letterarie romene in italiano 1900-1989, Roma: Bulzoni, 1990: 70.
[26]
Cfr. Tempo presente 2 (1957), 12: 170-171.
[27]
Cfr. Narratori romeni, cit.: XXIV.
[28]
Cfr. Letteratura romena, Milano: Sansoni, 1968.
[29]
Si veda La Fiera letteraria 16 (1961), 30: 5 e 16 (1961), 42: 1-2.
[30]
Cfr. “Mircea Eliade come romanziere”, Humanitas 36 (1980), 6: 869-887.
[31]
Ibidem: 874.
[32]
Si veda il capitolo “La foresta sospesa tra storia e mito”, La ferita della
modernità, Bologna: Il Mulino, 1992: 311-346.
[33]
Ibidem: 330.
[34]
Ibidem: 328.
[35]
Padova: Unipress, 1995.
[36]
Milano: Jaca Book, 1998.
[37]
Milano: Fondazione Arnoldo e Alberto Mondatori, 2001.
[38]
Marino, Pentru Europa,
cit.: 93.
[39]
B. Munteanu, Storia della
letteratura romena moderna, Bari: Laterza, 1947.
[40]
Si veda G. Caragaţă, “Letteratura
romena”, in Storia delle letterature moderne d’Europa e d’America, vol.
II, Milano: Dr. Francesco Vallardi, 1958: 249-357.
[41]
Ibidem: 335-336.
[42]
M. Popescu, “Storia della
letteratura romena”, in AA. VV., Storia delle letterature del Sud-Est
europeo, Milano, 1970: 105-204.
[43]
Guţia, Introduzione alla letteratura romena, Roma: Bulzoni, 1971.
[44]
Si veda M. Papahagi, “Il
letterato in crisi: dall’epoca della censura alla rivoluzione”, Romània
Orientale 4 (1991): 230.
[45]
P. Cornea, Introduzione alla
teoria della lettura (edizione curata da Gh. Carageani e G. B. Carageani),
Firenze: Sansoni, 1993.
[46]
Bologna: Il Mulino, 1994.
[47]
Roma: Carocci, 2000: 205-206.
[48]
Marino, Teoria della
letteratura, cit.: 33.
[49]
Ortiz, Varia Romanica,
Firenze: La Nuova Italia, 1932: 445.
[50]
E. Raimondi, Letteratura e
identità nazionale, Milano: Mondadori, 1998: 198.