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Annuario 2004-2005
p. 585
Mariana Burnel,
Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di
Venezia
Il referente, come oggetto indefinito della materia,
può acquistare significato soltanto tramite il segno iconico-plastico
che abbia una struttura spaziale analoga, ovvero basata sui tratti pertinenti
che permettono la costituzione di un codice di riconoscimento. L’oggetto reale
appartenente ad un substrato comune, viene così individualizzato,
semiotizzato, differenziato e riceve un significato. I codici visivi offrono
l’illusione referenziale (Barthes) non tra i segni e i loro referenti,
l’isomorfismo verificandosi piuttosto a livello delle loro strutture
articolatorie. Considerando ciò, il significato può accettare dunque
definizioni concettualistiche o referenzialistiche.
Formulata da Saussure, la concezione concettualistica, cioè mentale, sostiene l’importanza dei
valori di sistema e non degli elementi singoli, opponendo langue e parole, ovvero
la norma, “sistema esterno all’individuo che non può né crearlo, né
modificarlo”, e la creazione individuale, “realtà concreta di ogni
singolo atto linguistico”. “Per quanto opposte, langue e parole stanno in
rapporto di interdipendenza”[1].
Un criterio referenzialistico
viene esposto da Ogden–Richards, i quali propongono il modello spazialistico
del triangolo semiotico. I vertici
del triangolo sono costituiti dal significante, dal significato e dal
referente: mentre la relazione fra i primi due e quella fra il significato e il
referente è diretta, quella tra referente e significante è
indiretta, non sono direttamente connessi; cioè il referente entra in
una definizione di segno, ma non direttamente come antagonista del
significante. I vertici del triangolo cambiano di continuo le denominazioni, a
seconda delle interpretazioni date dai numerosi specialisti del campo
semiologico, ma il referente risulta quasi sempre come punto di partenza, come
“il vertice” del processo comunicativo, per questo la sua posizione è
quella di “vetta”.
Nell’arte il rapporto tra referente e significante
è stato espresso magistralmente da Paul Klee nell’allegoria dell’albero,
le cui radici, identificabili col vertice (il referente) non hanno un renvoi, una ripresa “identica”nella
chioma (nel significante): “Quest’orientamento nelle cose della natura e della
vita, questo complesso, ramificato assetto, mi sia permesso di paragonarlo alle
radici di un albero. Di là affluiscono all’artista i succhi che ne
penetrano la persona, l’occhio. L’artista si trova dunque nella condizione del
tronco. Tormentato e commosso dalla possanza di quel fluire, egli trasmette
ciò che ha visto. […] Nessuno vorrà pretendere che l’albero la
sua chioma la formi sul modello della radice; non v’è chi non si renda
conto che non può esistere esatto rapporto speculare tra il sopra e il
sotto”[2].
È interessante osservare che mentre nei triangoli semiotici il referente
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venga
rappresentato in “alto”, dunque gli si conferisce una maggior importanza, per
Klee, per l’atto di comunicazione artistica, è la chioma che ha maggior
rilevanza, pur essendo un’immagine che deforma la realtà che l’ha
generata: “Ho parlato prima di rapporto tra chioma e radici, tra opera d’arte e
natura, ed ho chiarito la differenza con la diversità esistente tra regno
della terra e dell’aria e con la corrispondente diversità funzionale
della profondità e dell’altezza. Nell’opera d’arte […] si tratta di una
deformazione resa necessaria dall’ingresso nelle specifiche dimensioni
figurative, perché là si compie la rigenerazione della natura”[3]
e, asserisce ancora Klee: “non a tutti è dato giungervi”, dando come
esempio gli impressionisti che dimoravano tra le radici, “nel sottobosco delle
quotidiane apparenze”[4].
Questa deformazione, o negazione della realtà è, secondo Theodor Lipps, un’affermazione estetica. I mezzi oggettivi
di negazione (la negazione del
particolare nell’intero) devono essere intesi come mezzi di unificazione
dell’opera d’arte. Cominciando dalle procedure tecniche delle quali fa uso
l’arte possiamo riscontrare la funzione di negazione in genere (sostituire una
materia con un’altra “analoga”), che assieme ai mezzi oggettivi di negazione in
particolare, compongono il quadro dell’astrazione in duplice senso: in senso di
“de-realizzazzione” e in senso di “de-materializzazzione”. L’artista compie
dunque un atto razionale, l’organo centrale è per esso il cervello, il
“cuore della creazione” (Klee) che determina tutte le sue funzioni.
Il rapporto tra le parti implicate nel processo di
comunicazione e significazione avverte problemi a partire da un grado primario
di comunicazione; anche se la trirepartizione del triangolo semiotico è
un fatto unanimamente accettato, quello su cui non vi si concorda sono le
denominazioni dei poli: quello che alcuni definiscono come /significato/ viene
sostituito da ciò che altri chiamano /oggetto/, oppure /senso/ per
quelli che altri identificano come /significante/.
Comunque vengano denominati i poli del triangolo
semiotico, una cosa va chiarita: il significante (o segno) non può rappresentare
mai la totalità dell’oggetto, ma lo rappresenta solo unilateralmente,
tramite un processo di continua sintesi astrattiva. Chomsky sostiene che
l’oggetto deriva da uno “sguardo” la cui posizione e la direzione sono indicati
dal “punto di vista”, i fatti sono uniti da una organizzazione coesa e logica,
e l’insieme deriva dal principio di evidenza. È chiaro dunque che l’uomo
è condizionato sin dall’inizio, dall’atto di percezione, da restrizioni
fisiche; il punto di vista condiziona il modo di rappresentazione, il modello
perde le sue scale di iconicità
a causa della limitazione del campo percettivo. “I problemi del dialogo con il
mondo circostante cominciano a livello della percezione”, dice Mihai Mãnescu[5]
e ci dimostra questa constatazione con lo schema estremamente preciso, proposto
dal Groupe μ[6]. Mãnescu
distinguerà in base a questo schema e alle accezioni degli psicologi del
campo (che identificano quattro tipi di percezione visuale
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legata
ad interessi estetici: obbiettiva, fisiologica-soggettiva, associativa e
caratterizzante) cinque “ambiti”: l’ambito
oggettivo, l’ambito reale, l’ambito deformato, l’ambito imposto, ma anche l’ambito
della creazione plastica[7].
Il punto di vista è caratterizzante sia per l’emittente, che per il
destinatario. Per il primo, in quanto istanza di produzione, esso suppone una
certa organizzazione del sapere. A seconda delle due istanze in questione,
l’osservatore e l’informatore, siano loro embraiati
o debraiati, uniti e moltiplicati, i
punti di vista possono essere qualificati come: esclusivi, inclusivi, reclusivi o integratori.
I cubisti prendendo atto della limitazione specifica del
punto di vista, ovvero dell’incapacità di rappresentare l’oggetto nella
sua complessità reale, dissolveranno il mondo in molteplici
sfaccettature tramite il metodo della scomposizione dell’oggetto e della
prospettiva inversa; cercando così di introdurre nello spazio
bi-dimensionale del quadro il parametro bergsoniano spazio–tempo, ovvero la tridimensionalità,
che non può essere percepita frontalmente, da un unico punto di vista,
né tramite una percezione sincronica, ma implica una percezione diacronica. Si
può dire che “appiattiscono” il tridimensionale, volendo ottenere
maggior iconicità. Però, paradossalmente, rendono ancor
più estraneo l’oggetto alla percezione socializzata e ipercodificata,
abituata alla fissità di quelle forme
mentali dei denotatum.
L’iconicità, come sfruttamento discorsivo della figuralità (Greimas–Courtés), è fondata su un codice
comune, di conseguenza, deve essere considerata secondo un doppio punto di
vista, quello delle due istanze coinvolte nel processo di comunicazione
estetica. È assai strano che proprio l’oggetto più astratto e
convenzionale, l’elemento che nega la tridimensionalità, essendo in
assoluto bidimensionale, la parola (o un gruppo di lettere), che non ha quasi
mai intenzione comunicativa (si tratta quasi sempre di configurazioni
linguistiche aleatorie) e colei che, tramite la sua vera fisicità
(l’integrazione fisica nel collage),
ci rinvia all’universo reale. Più che di una tecnica o di un
procedimento, si tratta di assumere il punto di vista come una forma alla quale
viene conferito il valore della discorsivizzazione, nella misura in cui la
polarizzazione delle strutture suppone un investimento a livello assiologico.
Si può parlare di un débrayage
che si attua a livello cognitivo, perché nel processo comunicativo sviluppato
dall’arte cubista, l’osservatore e l’enunciatore non condividono lo stesso
punto di vista. L’arte contemporanea può fornirci innumerevoli esempi in
questo senso, la scelta dell’arte cubista nella fase analitica e sintetica,
essendo determinata (per rimanere in tema) in base ad un punto di vista
personale.
Se si pone fra parentesi la corrispondenza bi-univoca tra
referente e significante artistico, si osserverà che la conoscenza non
si riduce alla rappresentazione di un “soggetto” e di un “oggetto”, anche se le
regole sono molto rigorose. Paragonando queste due entità, Peirce
afferma che il segno sarebbe “something
wich stands to somebody for something
in some respect or capacity” (qualcosa che sta per qualcos’altro sotto certi aspetti o capacità)[8].
Qualunque cosa può essere accettata come icona di un oggetto, se capace
di venir interpretata da un’istanza di ricezione come segno o rappresentazione
di costui.
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L’impressione
referenziale, ineluttabilmente subordinata al funzionamento attinente ad un
universo semiotico inequivocabile, fonda su un contratto fiduciario istituito
tra gli enunciati. Dal punto di vista enunciazionale, si parlerà di
“modi d’integrazione” dell’osservatore capaci, in base ai criteri di
veridizione stipulate dal contratto, di far variare la sua modalità
d’adesione. Dunque si deve intendere il perché di quella causa causae, ovvero il perché dell’elaborazione di tali norme
nelle articolazioni della pratica e dell’arte, per far sì che l’icona
sia il segno che ha la capacità di rendere gli oggetti significativi,
anche se non esistenti in realtà.
Un segno iconico che rispetti il referente della
percezione deve mantenere la “linearità del significante” sostiene
Saussure[9].
“Non si comunica per segni isolati o per singole parole, ma per insiemi
strutturati di segni, mediante masse organizzate”[10];
le configurazioni iconico-plastiche sono dunque, un insieme di figure isotope
costituenti una forma tematico-narrativa, nella quale sono importanti sia il
rapporto tra le parti, che il rapporto sintagmatico fra le parti e il tutto.
Proseguendo per descrizione di tale norma, anche il
diagramma può venir considerato come un’icona, perché rappresenta un
rapporto tra le parti di un oggetto reale. Si stabiliscono così quelle
che Abraham Moles considera scale di
iconicità, ove lo spazio sintagmatico si impone per primo
all’osservazione dell’immagine icono-plastica, costituita per successione
topologica degli elementi che la compongono simultaneamente, nello stesso tempo
e nello stesso spazio. Quest’ordine sintagmatico proposto dal “testo visivo”
è assai importante, essendo definito da Hjelmslev processo. Hjelmslev sostituisce così l’opposizione
saussuriana tra langue e parole con quella tra sistema e processo[11].
Secondo Agostino (De Doctrina Christiana), il segno sarebbe “res, praeter, speciem quam ingerit sensibus,
aliud aliquid ex se faciens in congitationem venire”; dunque più che
un artificio intensionale, il segno (significante) è un artificio
estensionale, più che la configurazione grafica, il modello strutturale
delle unità componenti. “I segni formano una catena e anche gli elementi
di ogni segno formano una catena”[12].
La natura degli aliquid è il
modo di stare per, aldilà di
questa funzione, tutte le altre identità scompaiono, nonché la natura di
ciò a cui si rinvia si frangerebbe in una molteplicità irricomponibile
di artifici. L’atto di significazione sarebbe l’artificio indefinibile che gli
esseri umani, nell’impossibilità di possedere l’intero mondo
(reale/possibile), porrebbero in opera per supplire la mancanza dei segni.
Quelli che hanno insistito sul problema complesso della
fusione della natura e della cultura, dentro istituzioni interpretate come
segni simbolici o strutture, che diventano garanzie della comunicazione, hanno
voluto rilevare l’importanza dell’analisi linguistica
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per
i sistemi strutturalisti. Richard Wollheim (Art
and its Objects) sostiene l’interesse degli studiosi per le conclusioni di
Saussure secondo le quali: “il sistema o quadro linguistico è anteriore
all’atto individuale, del parlare e del messaggio, di conseguenza determina le
priorità logiche” e “qualunque atto comunicativo va inteso come operando
in base a una doppia articolazione del codice e del messaggio”. Anche per W.
Morris le icone non sono determinate da un atto individuale, ma comportano determinazioni
culturali, collettive, sono dunque delle “forme
mentali”. Le forme mentali non
implicano più i dettagli che particolarizzavano l’oggetto della
percezione. È come se la percezione venisse attuata non in
prossimità dell’oggetto, ma in sua lontananza.
Il lontano appoggia su una contiguità di piani e di scenari che si
avviano dal soggetto verso il punto di fuga in una prospettiva che lega il Sein
(l’essere inteso come l’apparire) all’altro Dasein (l’esserci inteso come
l’essere). Facendo parte della nostra percezione, comporta un ordine per poter
essere letto, compreso, una linearità del significante (Saussure). La
lontananza dal Sein, dal soggetto della percezione congettura un
rintracciamento più fiduciario della nota cosa in sé kantiana, ovvero il
Dasein. Nella memoria infatti rimangono soltanto i tratti essenziali di una
configurazione, la sua forma totale; in quanto totalità, il concetto fa riferimento ad un
sistema di relazioni, di dipendenze spaziali, tra cui Hjelmslev determina: le
dipendenze di parti con altri parti (relazioni sintagmatiche) e le dipendenze
fra queste parti ed il sistema (relazioni paradigmatiche).
Nell’arte la lontananza può essere interpretata
anche come parametro temporale, ciò che Barthes chiama punctum, ovvero il remoto, quella sospensione delle teorie
fenomenologiche, che si attua tra l’Ignoto e l’Oblio, termini che ammettono
sinonimi comuni come anonimato/oscurità caratterizzanti lo spazio
percorso da memoire volontaire e memoire involontaire. “Per il «soggetto
del remoto» ogni punto, piano, dello spazio e del tempo è isolato in una
spettrale sospensione di superficie, di epidermide, di pellicola interstiziale:
di frammenti di una prospettiva irricomponibile”[13],
come il punctum di Roland Barthes – punto 0 nella semiotica.
Per parlare di un’immagine parziale in modo che ne
risulti una rappresentazione plasticamente chiara, ci sono dati soltanto dei
mezzi temporalmente discreti, dice Klee: “[…] ciò dipende dalle
deficienze della natura temporale del linguaggio. Ci mancano i mezzi per parlare
sinteticamente della contemporaneità pluridimensionale […]. Ad ogni
dimensione trascorsa che temporalmente scada, dobbiamo dire: sì, ora tu
sei passato, ma chissà che nella nuova dimensione, prima o poi, non ci
si imbatta – forse per nostra fortuna – in un punto critico, che ristabilisca
la tua presenza”[14].
Nel processo creativo vi sono di conseguenza questi due
concetti: di lontananza (percezione
attuata a distanza dal referente), tramite la quale ci si sofferma sui dati
essenziali dell’oggetto, e di remoto
(percezione simultanea spazio-temporale), perché nel processo elaborativo
dell’opera d’arte gli elementi configurativi susseguenti si sovrappongono,
mantenendo un legame di grado zero con la realtà, e possono sorgere
improvvisamente
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dalla
massa degli ulteriori segni. Il distacco dalla realtà non avviene mai in
questo modo, non vi è l’imminenza del Nulla o di una possibile
vacuità dell’arte come si è polemizzato riguardo ad alcune
trasgressioni estreme operate dagli artisti contemporanei.
La lontananza come percezione che determina una
configurazione epurata, essenzializzata, si può identificarla nella Gestalttheorie che afferma che un minimo
di elementi configurativi rendono possibile un massimo di
informazione/significazione, tramite un rapporto sintagmatico di dipendenze in
duplice senso così come dimostra Hjelmslev. Si tratta dunque di un
rapporto in praesentia (rapporto tra
gli elementi percepibile), a differenza del remoto che attua un rapporto in absentia (assenza degli elementi con
i quali quelli presenti entrano in rapporto associativo). Nella struttura del
quadro composizionale, Rudolf Arnheim ci avverte dell’ ”esistenza” invisibile
di assi come la verticale e l’orizzontale principali, le diagonali e
soprattutto del centro composizionale che pur non essendo fisicamente presenti,
sono percepibili, azionando come vere forze di attrazione per gli elementi che
compongono un quadro[15].
Essi hanno la capacità di determinare posizioni forti (Arnheim parla di
un “power of the center”)[16],
ipercodificate, che possono essere facilmente “lette”, e posizioni deboli,
ipocodificate, che l’occhio non è capace di intendere. Roland Barthes
sostiene che il segno ha valore non per le sue origini o per sé stesso, ma per
quello che lo circonda, sia questo visibile o invisibile. Il rapporto
significante della presenza e dell’assenza può essere invertito,
cosicché l’assenza denoti ancor maggiormente la presenza dell’oggetto assente,
e la presenza sia un ostacolo per la presenza “vera” (assenza tramite presenza);
è l’eterna unità dicotomica hegeliana dell’universo sensibile,
delle apparenze, e di quello spirituale.
Il
remoto, come dimensione dello “stabile” nell’opera artistica, implica un
susseguirsi di tappe, di interazioni secondo il principio dell’entropia. Questo concetto della
termodinamica è entrato ufficialmente a far parte della terminologia
specifica della teoria dell’informazione.
L’entropia è il secondo principio della
termodinamica, enunciato da Clausius, secondo il quale, “mentre una data
quantità di lavoro può trasformarsi in calore (come dice il primo
principio) ogni qual volta si trasforma del calore in lavoro ci troviamo di
fronte a tali limiti per cui il processo non avviene in modo completo e totale
come nel caso del primo principio. Per ottenere lo scambio di una
quantità di calore in lavoro, una macchina deve avere scambi di calore
dalla sorgente, ma non trasforma tutto perché ne cede parte al refrigerante. Il
calore si trasforma quindi in lavoro Q1 più il calore Q-Q1 che viene
ceduto al refrigerante. Data quindi una trasformazione di lavoro in calore
(primo principio), quando si trasforma nuovamente questo calore in lavoro non
si ottiene più la quantità di lavoro da cui si ero partita. Si
è avuto una degradazione o come si vuol dire,
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un
“consumo” di energia che non sarà più recuperato”. L’energia si
“consuma”. Alcuni processi naturali non sono dunque completamente reversibili:
“questi processi hanno una direzione unica: con ognuno di essi il mondo fa un
passo in avanti, le cui tracce non possono essere cancellate in nessun modo”[17].
Nelle configurazioni artistiche, come nella natura, vi
esistono delle preferenze per certi stati verso cui evolvono i processi
irreversibili. Questi stati corrispondono a degli archetipi (che fanno intendibili i segni); su di essi Thom fonda
una teoria degli universali per ridurre il distacco tra il mondo linguistico e
quello reale[18]. Sono
dunque dei processi fondamentali che possono essere geometrizzati secondo un
centro organizzatore e un dispiegamento universale. Risultano così otto singolarità, per ciascuna delle
quali si possono dare altrettante rappresentazioni o suddivisioni distinte. Le
otto singolarità hanno un’interpretazione spaziale (sostantivi) o
un’interpretazione temporale (verbi) sia nel senso distruttivo, che nel senso
costruttivo[19]. Anche Thom
dunque rileva la presenza del parametro spaziale (il sostantivo) e di quello
temporale (il verbo), ovvero il principio statico della configurazione
gestaltista ed il principio dinamico della configurazione
fenomenologica (se la si può definire così in modo paradossale).
Per estrapolazione del concetto scientifico dell’entropia si giunge alla
linguistica e all’arte.
I segni plastici di Klee possono essere descritti
più da verbi secondo Carmine Benincasa, cioè nel loro continuo
processo evolutivo, che da sostantivi o aggettivi. I sostantivi, come le
configurazioni stabili plastiche, sono le entità sintattiche più
consistenti semanticamente, cioè gli ultimi stadi dell’evolversi della
forma, che perdendo energia raggiungono la stabilità. La seconda
categoria in ordine decrescente di densità sé rappresentata dai verbi,
ovvero i segni dinamici, che nella plastica trovano corrispondenti nella linea:
“La linea geometrica è un’entità invisibile, la traccia del punto
in movimento; nasce dal movimento, più precisamente dalla distruzione
del punto. Rappresenta dunque il salto dallo statico al dinamico, la massima
antitesi dell’elemento pittorico originario, il punto. Nella linea,
l’attività spaziale implica due momenti: quello dell’attività e
quello del movimento dell’arte”[20].
All’interno delle forme attività e
passività vi interferiscono, dando loro libertà interna. Thedor
Lipps considera il concetto di libertà il più importante per
l’estetica dello spazio: “Così come avviene per me, anche la forma
spaziale è libera quando essa si esprime senza impedimenti [ungehemmt]. […] La libertà di un
individuo viene empatizzata nella forma-individuo che io chiamo «me stesso»
[…]. Io sono solo questo io ideale, questo io contemplante. Come tale mi sento
nella forma libero, ed esplico la mia vitalità in essa
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liberamente.
La bellezza delle forme consiste in questo mio «ideale» libero godere a fondo
la vita [Sichausleben] in esse.
Quando nella contemplazione o nella forma mi sento invece interiormente
vincolato, sottoposto a costrizione, la forma è brutta. [...] Qui si
completa il senso dell’Einfühlung
nella forma geometrica”[21].
Kandinsky è colui che sostituisce il concetto di
movimento con quello di tensione
direzionata, perché il primo da luogo ad equivoci terminologici, mentre il
secondo rappresenta la forma viva insita nell’elemento, che esprime solo una
parte del movimento creatore, la “direzione”. Gli elementi della pittura sono i
risultati reali del movimento, e precisamente della forma, della direzione e
della tensione. La tensione e la direzione sono i punti distintivi tra il punto
e la linea: il punto ha soltanto una tensione, mentre la linea ha in più
la direzione spaziale[22].
Si potrebbe dire che l’intera arte parte da un punto e tramite il movimento e
l’estensione spaziale crea forme e configurazioni. Ma la stabilità ed il
movimento, come il sostantivo ed il verbo, formano insieme il nucleo della
struttura sintattica (per esempio Soggetto–Verbo–Oggetto) il criterio semantico
essendo colui che intensifica la loro relazione sintattica[23].
Le configurazioni artistiche verso cui evolvono le
sequenze irreversibili nel processo creativo sono le cosiddette “posizioni
forti”, ovvero quelle basate sulla centralità della forma, sulla
simmetria, ecc., in cui il calore passa da uno stato di temperatura più
alta a uno stato di temperatura più bassa perché lo stato di uguale
distribuzione della temperatura è più probabile di uno stato di
distribuzione ineguale. Arnheim asserisce il fatto che queste configurazioni
forti sono quelle che possono essere intese dall’osservatore, mentre le
configurazioni transitorie, a causa dell’equiprobabilità che avvertono,
del loro squilibrio, rendono difficile la loro comprensione.
La retorica artistica si instaura nella generale tendenza
al disordine che in natura esiste,
quando si propone l’instabilità apparente come ordine artistico (si veda
a questo proposito l’arte gestualista, l’action painting, la pittura materica,
ecc. che promuovono il movimento interno, lo stato transitorio come ordine
dell’opera). Questa organizzazione, che rappresenta apparentemente una
diramazione dalla curva generale dell’entropia, è di fatto l’attuarsi di
un ordine nuovo, di un ordine dei rapporti di causa-effetto propriamente
artistico.
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“L’esistenza di rapporti di causa ed effetto nei sistemi
organizzati a entropia decrescente stabilisce l’esistenza del “ricordo”:
fisicamente parlando un ricordo è una registrazione”, “è un
arrangiamento l’ordine del quale rimane preservato: è un ordine
congelato, per così dire”[24].
Esso ci aiuta a stabilire le catene causali, a ricostruire un fatto.
A questo modo si spiega il fatto che le due teorie
apparentemente polari, dei gestalttisti
e di Rudolf Arnheim sono accomunate attraverso il fenomeno dell’entropia, ed il
ricordo (quello che noi abbiamo chiamato “remoto”), a cui abbiamo attribuito un
movimento interno diventa “ordine congelato” (ovvero la forma “autosufficiente”
della teoria configurazionista). La seconda legge della termodinamica permette l’istaurazione
dell’esistenza sul ricordo del passato, constatava Reichenbach, che altro non
è che un archivio di informazioni; da tale considerazione sorge la
possibilità di uno stretto rapporto tra entropia ed informazione.
L’entropia verrà definita da Norbert Wiener (Introduzione alla
cibernetica), come misura negativa del significato di un messaggio. Il
messaggio nella comunicazione odierna per essere inteso, per non essere
alterato dal “rumore”, necessita una sovrabbondanza di probabilità, in modo
che comunque l’essenziale sia mantenuto. Questa sovrabbondanza di tali
probabilità è la ridondanza.
Ma nell’arte la ridondanza genera l’impossibilità di comprensione del
messaggio. In modo paradossale “di più” significa “di meno” e “di meno”
significa “di più”. Quando denominiamo o rappresentiamo qualcosa non
prendiamo in considerazione i tratti individualizzanti, ma ci riferiamo ad una classe di elementi, alle caratteristiche
che vi rimangono dopo lo scarto dell’informazione
ridondante. In questa forma generale, sintetica, la forma artistica è
ancora capace di rimandare al referente (sapendo che forma naturale è
essenzialmente ridondante)?
L’oggetto semiotico di una semantica non è in
primo luogo però il referente, ma piuttosto il contenuto, il contesto
inteso come unità culturale (o
raggruppamento di unità culturali interconesse). Piaget sostiene che i
processi semiotici sono tali soltanto in quanto reversibili come tutti i processi intellettuali: si può
passare dal segno al suo referente, quando si è capaci di compiere anche
la strada inversa; quando, per esempio, non soltanto tracciando una linea
ferma, impetuosa, avvertiamo l’esistenza della tensione, ma anche quando
esistendovi tensione c’è anche questo tipo di linea che la esprime.
Osservando delle “linee” tracciate, anche essendo loro in una dimensione
astratta assoluta, ci possiamo accorgere del bagaglio informativo intrinseco,
tramite la percezione del fattore “durata” (le linee dunque “parlano” da sole
degli stati interni dell’artista che le ha determinate). Attraverso i segni
plastici si evidenzia la durata dei gesti creatori: durata corta (Picasso,
Kandinsky), ripetitiva (Pollock), esistenziale (Giacometti), istantanea
(Fontana), che non può essere modificata senza modificarvi il significato,
il messaggio che è in sintonia con lo stato d’animo dell’artista nel
momento della creazione.
Se il segno non può essere un sostituto totale di
qualcosa (soltanto in casi particolari come il “duplice” al quale accenna
Morris, dunque quando il segno è lui stesso un denotatum […] ma qui
inferiamo connotazioni d’ordine diverso, sociali, culturali […]), allora
dobbiamo accettare l’asserzione peirciana del segno che può essere
spiegato soltanto
p. 594
mediante
un altro segno. È ancora possibile a questo punto accettare la proposta
che “nomina sunt numina”, verificata
in certi contesti culturali? I primi a fare una distinzione saranno gli stoici,
definendo il semainon (il segno come
entità fisica), il semainomenon (quello
che viene detto tramite il segno e non rappresenta un entità fisica) e
il pragma (l’oggetto al quale fa
riferimento il segno e che è nuovamente un’entità fisica). Pur
non essendo resa esplicita, la nozione di referente mostra che emettendo segni
cerchiamo più o meno di indicare cose. Se il segno non può essere
un sostituto totale di qualcosa, allora dobbiamo accettare l’asserzione
peirciana del segno che può essere spiegato soltanto mediante un altro
segno.
Morris dice che il ritratto di una persona è
iconico sotto qualche rispetto, ma non completamente, dal momento in cui la
tela non ha la grana della pelle, né la tridimensionalità della persona,
né la sua mobilità, dunque non può essere lui stesso un
denotatum. Questa negazione della vita è l’affermazione stessa dell’arte.
D’altronde più l’opera d’arte diventa appropriata al denotatum, dunque
ipercodificata, e più è forte la sensazione di allontanamento
dall’oggetto in sé. Si tratta del fenomeno di straniamento, di mutamento dall’ambito proprio, familiare, che lo
rendeva riconoscibile, in ambiti impropri. Perché più che nell’immagine
singola, abbiamo detto anteriormente, il significato, il senso che attribuiamo
ad un determinato elemento a livello concettuale, sta nel contesto
situazionale. George Segall avverte drammaticamente questo straniamento tramite
la negazione cromatica dei suoi ”esseri” che sembrano “popolare” veramente il
nostro mondo, (del quale riproduce anche gli ambienti più consueti);
avvertendo tale diniego ci rendiamo conto che stiamo sbagliando se gli
identifichiamo con i loro referenti reali; gli iperrealisti porteranno
all’estremo l’appropriamento tra referente e significante, proponendo delle
vere statue-sosia di uomini reali, imitati negli ultimi dettagli fisionomici,
corporali o vestimentari; neanche la scelta dell’uomo contemporaneo non
è casuale, (perché un personaggio remoto verrebbe facilmente compreso
come fantoccio, cosa che non avviene nel caso dell’uomo della realtà
immediata, approssimato per contemporaneità esistenziale), ma viene a
sottolineare più terribilmente l’ipostasi di straniamento, in duplice
senso: dal contesto esteriore, ma ancor di più, da sé stessi (se pur
realizzato attraverso ironia). L’immagine fortemente codificata, diventa
ridondante come l’oggetto referenzialistico. Rimane però poco interessante
in se stessa, se non in relazione al contesto (presente in Segall, ora
scomparso), e spaesata perché divisa
sia dal contesto esistenziale vero e proprio, sia dal contesto dell’arte che
viene espresso, secondo la teoria dell’Einfühlung,
negando la ridondanza configurativa della realtà. La rappresentazione
artistica rimane così “sospesa” tra due Realtà, non appartenendo
più a nessuna delle due, in uno spazio A-spaziale e A-temporale, nel
Nulla.
Dire che il significante corrisponda ad un oggetto reale
denota ingenuità, perché esistono significanti che fanno riferimento ad
entità inesistenti (ci ricordiamo l’esempio dell’unicorno di Eco), e da
qui vi risulta la necessità di un’estensione del grado “zero”, (Goodman,
1949) o di una teoria dei mondi possibili di (Lewis, 1969). Se dunque
accettiamo l’idea che l’esistenza reale dell’oggetto o referente non determina
l’iconicità, Hazlitt aveva
p. 595
pienamente
ragione quando in pieno romanticismo osservava che “le rane reali esistenti nei
giardini immaginari sono molto reali”[25]
dunque, possiamo intenderle come icone.
La rappresentazione artistica mediante la critica del
principio di somiglianza viene realizzata secondo due prospettive principali
nell’arte moderna: la prima è la prospettiva astratta, che non si
interessa più alla rappresentazione tout
court, interessandosi più alla struttura “autonoma” dell’opera
considerata nella sua concretezza fisica e nelle sua specificità
linguistica, la seconda è la prospettiva surrealista, che propone un
nuovo “realismo” massimizzato attraverso una critica attuata all’interno della
rappresentazione stessa. Il bisogno di empatia e quello di astrazione sono i
due poli della sensibilità artistica dell’uomo, termini antitetici che,
in principio, si escludono l’uno con l’altro. In realtà però la
storia dell’arte non è che un ininterrotto conflitto tra queste due
tendenze[26].
Nella ricerca artistica in prima istanza c’è il
rapporto visione–pensiero–interpretazione. Vedere equivale a comprendere, ad
apprendere e si può meglio apprendere se l’occhio, la meninge e la mano
interagiscono (percezione–concezione–processo). È importante considerare
l’atto di vedere come una riflessione prolungata, anche perché l’arte moderna
con le sue molteplici sfaccettature non si presta più a venir interpretata
come un contenuto specifico perché mostra la volontà di intervenire
sulle barriere convenzionali della comunicazione. Nella relazione tra representatem e oggetto la categoria
dell’iconismo non serve più a nulla, ma piuttosto confonde le idee
perché non definisce solo fenomeni semiotici; a questo modo avvertiva Eco il
drammatico caso dell’iconismo, la morte delle nozione classica di segno[27].
Anche la morte dell’arte è avvertibile nel suo distacco dalla
rappresentazione iconica classica tramite un processo di autonomizzazione, di
progressiva presa di coscienza. Fulvio Papi osserva che la “morte dell’arte” in
Hegel significa “che l’arte non è più la rappresentazione
sensibile di un’altra sostanza spirituale, […] ma deve misurarsi ora con la
propria possibilità di verità, e in questa prova, ovviamente
può anche fallire e diventare, come Hegel stesso aveva visto, il luogo
del futile, dell’arbitrario, del gioco”[28].
È importante dunque ridare spazio al “vedere” inteso come atto di
cognizione, di riconoscere la sua portata interpretativa. Nell’arte non
c’è più soltanto “il sapere” oggettivo, ma anche la relazione
soggettiva, non si tratta più di segni, ma di generare quel che Eco
definisce modi di produrre funzioni
segniche.
Mentre Saussure considerava il rinvio simbolico un’entità
psichica (unione tra significante e significato), nell’accezione rené-thomista
ha una realtà oggettiva, opposta alle interpretazioni echiane, che
ribatte affermando “di ciò che non si può matematizzare si deve
tacere”. L’oggettività segnica si trova (in principio) esclusivamente
nella condizione del significante e così, il rinvio che collega questo
significante con il significato sarebbe
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in
grado di acquisire una certa materialità. Ma allora, come spiegare il
fatto che il rinvio simbolico non conosce nessuna costrizione meccanica o
fisica? La spiegazione va ricercata nel fatto che il rinvio dimostra una
stabilità strutturale intrinseca, in altre parole, i due lati del rinvio
simbolico, del vettore sono entità oggettive, anzi è il
significato che assicura la strutturazione oggettiva (geometrica) del segno e
quindi del rinvio. Questa conclusione si verifica nel principio René–Thomista
della procreazione segnica[29].
Il significato è il referente, l’oggetto designato, dunque è
un’entità extra-linguistica e quindi apocrifa secondo Thom, per Eco
invece il significato è un’unità culturale, semiotica, mentre il
referente è un’entità extra-semiotica. Sottolineiamo anche che
per Thom quasi tutto è puro, oggettivo[30].
Il tipo astratto, il modello è sostenuto dalla
teoria degli psicologici della forma, secondo i quali le forme non esistono in
sé, ma tramite la possibilità di essere percepite. Tramite il segno,
l’uomo si disgiunge dalla percezione bruta, dall’esperienza, e astrae. Il
processo di astrazione deve essere inteso come una legalità di natura
generale che si manifesta come
intuizione pura, come evidenza immediata.
Le forme astratte sono “libere” (freigeschaffene),
perché esteticamente significative indipendentemente dal loro trovarsi in cose
di natura. Il loro valore positivo o negativo risiede in sé stesse.
La differenza tra l’uomo comune e l’artista è che
il primo vede attraverso dei modelli stabiliti in base a dei codici
socio-culturali, mentre il secondo ha la capacità di trasgredirli, e di
crearne dei nuovi. Senza astrazione non esiste concetto, né segno. Il nuovo non
ha mai tratti ben circoscritti, è sconosciuto: per questa ragione
è costitutiva nell’uomo una dimensione irazzionabile, che si avverte
come non ancora cosciente, chiaribile unicamente in una prospettiva auspicata e
che si decifra nella tensione e nel approfondimento di esso (Sehnsucht).
Qualunque rappresentazione può essere accettata
come icona di un oggetto se viene creata in base ad esso e viene adoperata come
segno o come sua rappresentazione; l’icona è il segno che possiede le
proprietà capaci di restituire all’oggetto significato; il segno
plastico incide sull’iconico, lo fa “crescere”, rende possibile la sua
identificazione, dandogli significato, mentre l’iconico, una volta individuato,
permette di attribuire un contenuto agli elementi di morfologia plastica. Si
tratta dunque di una gradualità del segno che, partendo dal referente,
diventa comunicante (segno iconico) e poi significante (segno plastico). Il
segno deve essere inteso nella sua struttura duale, comunicativa e
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significativa,
e per questo è neccesaria la conoscenza del contesto in cui avviene il
processo di percezione–significazione, affinché vi sia un vero “passaggio”
delle informazioni. Per attuarsi, questo processo richiede uno scenario e un
codice comune tra l’emittente ed il ricevente, dunque non può essere un
punto di vista particolare, ma un’astrazione. Hermann Günter Grassman emancipa
la geometria dalle limitazioni istituite dalla restrizione allo spazio reale[31]
ed è interessante osservare che questo”ampliamento” non procede
inizialmente da un progetto di costituzione di una geometria astratta e
generale, ma da uno sviluppo e dall’approfondimento dei problemi posti dalla
geometria reale. La stessa cosa vale per il processo graduale che va dal
referente verso il segno plastico. Non si tratta di separarsi dal punto di
partenza , ma di “ampliarlo”, che per l’arte, (dove la decodifica avviene per
via visiva), significa “farlo crescere” dal punto di vista visuale e dell’espressività.
Simili dilatazioni che prendono spunto nel mondo
concreto, non sono dei puri espedienti, ma estensioni capaci di portare avanti
una definizione dello spazio più globale, che parte dal caso specifico
dello spazio evidente. Così anche per l’arte, come per la geometria, vi
sarà la possibilità di inserire componenti irreali (come nella
geometria proiettiva), o le considerazioni di dualità della stessa
geometria proiettiva (sviluppate all’interno della geometria “reale”) che nell’arte
costituiscono necessarie coppie–opposizioni di esistenza.
La separazione del segno plastico da quello iconico
essendo una pratica assai difficile, l’analisi plastica prende in
considerazione i gruppi di opposizioni strutturali delle forme, dei colori,
delle texture, ad esempio:
concave–convesso, chiaro–scuro, rosso–verde (complementari), levigato–ruvido,
semplice–composto, ecc. Anche la langue
è composta da unità linguistiche che devono essere delimitate per
opposizione. Le unità hanno valore (qualisegni)
perché si oppongono le une alle altre, all’interno dello stesso sistema “Ogni
idioma compone le sue parole sulla base di un sistema di elementi sonori
ciascuno dei quali forma un’unità nettamente delimitata, il cui numero
è perfettamente determinato. Ora ciò che li caratterizza non
è, come si potrebbe credere, la loro qualità propria e positiva,
ma semplicemente il fatto che essi non si confondono tra di loro. I fonemi sono
anzitutto delle entità oppositive, relative, e negative”[32].
Ciascun componente delle coppie opposizionali in sé non ha valore, non
può essere evidenziato, ma giustapposto al suo contrario, in un paragone
immediato è reso rilevante alla percezione.
“A differenza del linguaggio, dove, per esempio, la
semplice pronuncia della parola «luminoso», chiama simultaneamente la nozione
opposta, «scuro», nella plastica qualunque condizione come ad esempio:
luminoso, ruvido, trasparente, non può essere apprezzata in sé, ma
soltanto in rapporto ad un’altra superficie scura, levigata, opaca,
accostatale. Un grigio è categoricamente scuro in confronto al bianco,
ma evidentemente più chiaro in confronto al nero. Nella pittura si sa
benissimo che lo stesso colore può acquistare qualità diverse di
saturazione, luminosità, purità, in diversi contesti e in diversi
rapporti”. Da questo
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punto
di vista è facilmente accettabile l’ipotesi che il segno plastico
rappresenta l’unione tra un’espressione ed un contenuto, come sostiene Mihai
Mãnescu[33].
L’asse sintagmatico è quello dei contrasti per
certi linguisti, che lo distinguono a questo modo dall’asse paradigmatico.
Hjelmslev lo definisce relazione di
contrasto e nota che questa relazione è selettiva e non compromette il
tipo individuale. Il termine di contrasto ha un’accezione più limitata
nella sfera della semiotica plastica; di natura sintagmatica come il contrasto
linguistico, il contrasto plastico viene determinato dalla contrapposizione su
una medesima superficie di due termini opposti di una stessa categoria, o di
unità più ampie disposte nella stessa maniera, distinguendosi a
questo modo dal contrasto linguistico. Hegel avverte nella questione del
“contenutismo” formale un forte disagio di fronte a queste “forme” che non
possono pienamente affermarsi, la sua ricerca confermandosi soprattutto per gli
esempi che le arti visive offrono[34].
Lo spazio reale, razionale e discontinuo è,
secondo Grassmann, piuttosto quello delle figure dello spazio, delle
entità variegate, eterogenee. Dato primario, ricettacolo di quest’ultime.
Anche se la metafisica aveva sottoposto ad interrogazioni tale riguardo, il
matematico non affrontava nessuna difficoltà nell’individuarlo. Lo
spazio, estensione indeterminata a tre dimensioni costituiva una realtà
neutra inerte e non esigeva nessuna investigazione. Kant, nonostante filosofo,
ebbe l’obbligo di consacrare questa visione nel momento in cui realizzò
lo spazio come categoria della ragione. Per di più, non mediante le
analisi generali e a priori si è compiuta l’evoluzione delle idee, ma
per mezzo dell’approfondimento della considerazione su problemi di “figure”,
quindi nel quadro della geometria classica. Grassmann, nel suo Ausdehnunglehre del 1844, poneva la
questione con generalità elevata, decretando una teoria dell’estensione
in base a considerazioni sulle molteplicità pluridimensionali,
indipendentemente dalla loro rappresentazione sensibile[35].
L’elemento di questa sorta di varietà istituisce l’analogo del punto
dello spazio reale. È
reiterata così l’idea che l’iconico e il plastico sono estensioni del
grado zero, che determinano reciprocamente, e che la crescita di quest’ultimo,
asserisce Grassmann, è resa possibile irrazionalizzando la realtà
e diventando a questo modo significativo ”in sé stesso”. In tal modo il
surrealismo, che pur non abbandona l’idioma iconico, dispone la crisi
dell’iconografia classica, in vista di una nuova rappresentazione, adottando
mezzi linguistici nuovi come il prelevamento di oggetti e dei loro frammenti,
servendosi di espedienti rappresentativi, quali il “trompe l’oeil” o le
prospettive illusionistiche. Questo nuovo “realismo” si immedesima alla
tendenza di eliminare dal quadro l’elemento artistico estetico e a rendere
“corporeo” il contenuto dell’opera d’arte per mezzo della semplice restituzione
dell’oggetto materiale. La semplificazione ai minimi termini dell’elemento
artistico rida
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all’oggetto
un’esistenza reale ed autosufficiente (oggetto in sé stesso, secondo
Grassmann), ed è proprio l’elemento artistico reso al minimo che diventa
l’elemento “astratto” più importante. Così, “un semplice
mozzicone di sigaro”, decontestualizzato, esibito al di fuori del suo contesto
comune, affiora con un vigore irruente, con una nuova energia “oggettuale”, che
non sta più per un’altra cosa, ma rappresenta solo
sé stessa. Nella forma artistica attuale si uniscono da una parte l’assoluta concretezza e dall’altra l’assoluta astrazione morfologica. Sussistono
così, secondo Bloch, due dialettiche distinte: la prima dialettica
è statica e chiusa, reclusa (da Platone a Hegel), di quella che Bloch
definisce malia dell’anamnesi; la
seconda dialettica, è dinamica e aperta al nuovo, mantenendo
costantemente la possibilità che il reale non sia ancora razionale.
Il secondo tipo di dialettica è caratteristico
dell’arte surrealista che mette in crisi i sistemi basati su codici inoperosi
attraverso una critica dall’interno della rappresentazione stessa. Nella
contemplazione estetica emerge l’io
ideale dell’osservatore che in questo immediato atto vissuto si abbandona
al sentimento di sé stesso trasposto nell’oggetto estetico. L’oggetto
dell’immedesimazione esprime a sua volta qualcosa: attraverso il termine “liegen” (trovarsi, esserci), Lipps arriva infatti a sostenere che
anche nell’oggetto “si trova” qualcosa di per sé, ovvero “un oggetto sensibile
diverso da me «esprime» qualcosa di interiore o di emotivo. In questo senso,
per esempio, un gesto può esprimere per me sofferenza”[36].
Il vero e proprio “compimento” della sensazione, della
percezione, dell’immaginazione, è dato dalla legge del sentimento di
piacere o dispiacere, l’appercezione:
“Questo notare, comprendere, osservare, questo intimo cogliere coniugato allo
specifico realizzarsi di un processo o di un’esperienza nella vita psichica si
chiama appercezione […] Il piacere si manifesta nella misura in cui un processo
psichico trova nell’animo condizioni favorevoli per la sua appercezione, o
nella misura in cui concorda con le condizioni per l’appercezione dettate
dall’animo”[37]. Riprendendo il postulato della teoria
prospettica quattrocentesca e albertiana, Breton considera il quadro come una
scena racchiusa entro una finestra, ponendo la questione di “savoir sur quoi
elle donne”. Avviene a questo modo uno stravolgimento dei dati tradizionali e
della prospettiva umanistica, ovvero lo strumento d’una certificazione del
mondo che sta fuori di ciò che è visibile, sulla base del
presupposto d’una identità e di una centralità scontate dall’uomo
che compie tale certificazione e rappresentazione.
Nella proiezione surrealista la centralità umanistica
viene disfatta in frammenti, aventi ciascuno un sistema proprio e una
convenzione simbolica che ha come proprio referente essenziale una
realtà interiore, frammentaria, contraddittoria. A questa direzione
plastica convergono altre ricerche con referenti esterni differenti che
preleveranno la finestra come ideazione simbolica, mediante tutta una serie di
paradossi visivi che sottolineano l’interferenza tra ciò che è
rappresentato e l’ambiguità complessa del rapporto tra ciò che
p. 600
è
interno e ciò che è esterno. Anche se con la visione surrealista
l’aria di intendimento del referente nel campo artistico va ampliando, in base
ad un insegnamento anteriore, siamo sempre intenti a vedere come un risultato
del precetto quello che Peirce definiva col termine “likeness” (assomiglianza),
in quello che è di fatto un risultato differente; nel disegno schematico
di un oggetto, la linea nera continua su una superficie bidimensionale,
è altrettanto l’unica caratteristica che l’oggetto non possiede. La
spazialità della linea non è propriamente la spazialità
dello spazio, ma separa lo spazio esteriore da quello interiore in
realtà quest’ultimo, essendo un volume integrato nell’ambiente che lo
circonda (abbiamo visto che l’arte ha accettato questa nuova idea di spazio interiore).
La linea del disegno è la semplificazione selettiva di un processo
più complessivo, è una convenzione percettiva o concettuale, che
ha motivato il segno. “La similarità è prodotta e deve essere
imparata”, affermava Gibson (1966) a questo proposito. Dunque una linea
continua che realizza il delineamento di un oggetto in un piano bidimensionale
è l’istituire di un rapporto di similitudine tramite corrispondenti
trasformazioni, punto per punto, tra il modello visuale astratto della mano e l’immagine
del disegno, è quindi una convenzione accettata culturalmente. Nella
relazione tra soggetto e oggetto, tra arte e mondo, ciò che conta in
prima istanza è la struttura della relazione e questa struttura è
portatrice di regole proprie, di proprie convenzioni. La natura particolare
delle opere si manifesta nel fatto che ognuna di esse tematizza in modo diverso
dei processi di percezione. Percezione, quindi, non come mezzo, ma come
atto/processo visivo, a sua volta assunto come oggetto in sé. Dato che la percezione
tuttavia indirizza ad un oggetto si pone l’interrogazione se si tratta di
processi di visualizzazione o di un problema di mimesis. Una risposta a questa domanda non può essere data
partendo unicamente dall’oggetto ma implica la messa in evidenza dell’intenzionalità
dell’artista. La similarità è una nozione scientifica,
manifestatasi nella geometria di due oggetti, uguali in tutto, ma non dal punto
di vista dimensionale, dunque basata su parametri spaziali.
Nell’arte figurativa vi sono altre manifestazioni della
similarità, che non si basano su parametri spaziali (il grafismo), ma su
certi rapporti topologici e di ordine strutturale che sono scelti mediante una
decisione culturale in rapporti spaziali. La veicolazione di questa
informazione è l’isomorfia, ovvero la similarità. L’isomorfia,
come il significato, va intesa dunque nella configurazione spaziale,
topologica, ecc. L’isomorfia topologica (come la similarità geometrica)
è la trasformazione che noi eseguiamo per far corrispondere ad un punto
reale dell’espressione un punto dello spazio virtuale del contenuto.
Questa similitudine dell’immagine punto per punto deve
essere intesa nelle arti visive non come il susseguirsi narrativo della
linguistica, ma come dei punti centrali,
dei nodi composizionali, punti di
convergenza della percezione (ampiamente analizzati da Rudolf Arnheim)[38].
Non si tratta di vere forme geometriche centriche, ma di centri di interesse, di nuclei che accumulando la massima forza
connotativa determinano la capacità orientativa e decodificativa della
percezione a seconda di una certa gerarchia
spaziale. Gli altri elementi che compongono lo sfondo del quadro,
costituendo il campo percettivo,
p. 601
richiamano
questi centri, riprendendoli come degli echi ed evidenziandoli. Essi si assomigliano
agli elementi articolatori di un testo linguistico aiutando lo strutturarsi
delle proposizioni che seguono una normale connessione nel susseguirsi del
nome, del verbo e delle marche adatte. Nella linguistica esiste una tale
gerarchia che Thom propone seguendo la densità
semantica; si ottengono così due categorie basilari: il sostantivo,
ovvero l’entità più consistente semantica, ed il verbo, ovvero la
seconda categoria in ordine decrescente di densità semantica. Il
sostantivo e il verbo formano un nucleo (Soggetto–Verbo–Oggetto). La
densità o la complessità semantica è proporzionale al
grado di stabilità dell’entità contese.
Collegando tale criterio ad un altro si potrà
costituire uno schema bidimensionale, l’asse verticale Oy corrispondendo
alla complessità semantica, mentre l’asse
orizzontale Ox alla graduazione che va dalla cosa in sé al locatore: sull’asse Ox verranno rappresentati gli aspetti che il linguista Kenneth L.
Pike chiama emico ed etico[39].
Si ha la possibilità di definire
a questo modo un isomorfismo tra l’extralinguistico ed il linguistico proprio.
L’arte è una dilatazione del significato, è un oltrepassare del
linguaggio dell’immediatezza convenzionale, iconica, alludendo attraverso
l’analogia alle realtà concrete.
Aspirando ad approssimare i valori estrinseci del mondo
al loro valore assoluto grazie alla riproduzione artistica (a cioè che
Riegl chiama la loro chiusa individualità materiale), si offrivano
all’uomo due circostanze. La prima constava nel riguadagnare il distacco da
questa chiusa individualità materiale scartando sia la rappresentazione
spaziale sia qualunque ingerenza soggettiva, e la seconda, nello svincolare
l’oggetto dalla sua relatività rendendolo eterno tramite l’accostamento
alle forme astratte. L’alternativa prima consiste quindi nel “rappresentare le
cose esterne nella loro chiara individualità materiale, evitando e
sopprimendo, di fronte all’apparenza sensibile delle manifestazioni della
natura, tutto quanto potrebbe offuscare e sminuire l’impressione immediatamente
convincente dell’individualità materiale” (Riegl). La riproduzione
globale del modello naturale tridimensionale non poteva saziare l’intento
artistico. Una riproduzione di questa sorta sarebbe stata impenetrabile per la
percezione. Era esclusa anche la rappresentazione impressionistica, generatrice
di apparenze, incapace di soddisfare l’avviamento verso la “cosa in sé”. E poi
non è proprio la percezione ottica a fornirci le informazioni meno
attendibili sull’individualità materiale e sulla chiusa entità di
un oggetto? Si dava così
p. 602
preferenza
ad una figurazione che non riproducesse l’oggetto né nella sua
corporeità tridimensionale dipendente dallo spazio, né nella sua
apparenza percepibile ai sensi.
“Nella natura non troviamo soltanto connessioni causali
tra questo o quel gruppo di cose, ma vi scopriamo anche legalità
generali dell’accadere nello spazio. Queste, però, in quanto leggi
generalissime, non hanno forme di cose concretamente date, loro specifiche
portatrici, ma sono legate a forme astratte”.[40]. Questo fa sì che tali forme
“astratte” appaiano piene di vita. La struttura–concetto dell’arte astratta,
paragonabile al concetto di glottocentrismo linguistico, appartiene più
alla centralità strutturale rinascimentale, che alla direttrice del
nuovo realismo. Nel contesto di una semiotica impregnata di linguistica
strutturale era insita la seduzione di avvicinare le manifestazioni
comunicative non verbali alle teorie semiotiche logocentriste come quelle della
semiotica greimasiana. Circoscrivendo la natura dei langages planaires, Greimas deve affrontare il problema
dell’iconismo, il quale riscontra il concetto di somiglianza, perché costretto
ad adattarsi al proprio glottocentrismo. L’illusione referenziale è
l’esito di un’organizzazione testuale specifica che da l’effetto del reale,
sostiene Barthes.
L’immagine iconica intrattiene una relazione simbolica
tra aspetto (Erscheinung) e quello che compare in esso (darin erscheint). Vediamo più di quanto vediamo. Non
distinguiamo solo lo spazio esteriore della forma, ma anche quello interiore.
Nel processo artistico il precetto contiene il concetto. Secondo A. Moles e R.
Claude si possono distinguere cinque tappe nel processo creativo: l’informazione e la documentazione, l’incubazione,
l’illuminazione, la verificazione e la formulazione. Ma la creazione ha un carattere “dinamico” e
continuo, perciò queste tappe sono relative. Per alcuni artisti di
genio, un’intuizione rimarchevole può costituire il punto di partenza
dell’intero processo creativo. Per altri l’illuminazione avviene in seguito ad
un’intensa preparazione, per altri ancora l’inspirazione dipende addirittura da
un’osservazione “accidentale”, imprevedibile. Però è chiaro che
all’inizio vi è sempre (lo testimoniano le ricerche a partire dal 1950
di Wallace e sino ad oggi) uno stadio in cui l’allestimento dell’opera
comprende: la percezione o l’osservazione e la documentazione, il “raccogliere” dei dati (direi piuttosto lo
“scegliere”, perché l’artista attua una scelta) e l’analisi di un materiale
fattico per poi formulare un’ipotesi e concepire delle idee-prototipo.
Alcuni specialisti del campo stabiliscono tre tappe della
creazione, tra cui l’ideazione, la progettazione, e la fase dell’obbiettivazione; quest’ultimo termine ci
riporta al punto di partenza? Ma si tratta veramente lo stesso punto di
partenza? La domanda è retorica, la risposta è, ovviamente, no!
L’immagine iconica-plastica, ovvero la forma mentale si materializza in base al
gioco libero dell’immaginazione e dell’intuizione euristica, perché soltanto
ora, guardando quest’ultima immagine, possiamo dire che il semplice primo atto
di guardare la realtà diventa “vederla”, cioè intenderla nella
sua struttura intima. Abbiamo osservato prima che allontanandoci dalla realtà
prossima riusciamo ad approssimarla veramente. Delle due realtà non vi
è rimane che il senso: ovvero le assi fondamentali costituenti lo
scheletro interno della configurazione spaziale, che possiamo
p. 603
rilevare
attraverso una decodifica basata sul criterio dello schema vettoriale. Non la materia è pertanto il rimanente,
ma l’intuizione di essa nella spazialità configurativa.
L’inventica,
come psicologia della creatività, ha
elaborato idee nuove su basi interdisciplinari di interpretazione (matematiche,
fisiche, biologiche), se pensiamo soltanto alle teorie a cui abbiamo in
precedenza accennato, ovvero quelle di Grassman e di Thom; in prima fase si
trattava di una frammentazione dell’oggetto e del suo utilizzo in nuove forme;
in seconda fase si ottenevano aspetti o idee originali tramite combinazioni,
permutazioni e arrangiamenti spaziali.
Lo spazio può essere inteso, dunque, anche
metonimicamente, come frammento, che preserva le caratteristiche dell’intero e
le dilata, sia a livello configurativo che a livello analitico; a questo
proposito dice Stephen Palmer “Le parti comportano lo stesso statuto
dell’intero”. Il frammento, che all’inizio era parte dipendente dell’insieme,
acquista autonomia dal punto di vista spazialistico-configurativo. Nella
rappresentazione plastica, secondo Lipps, si presenta sempre un “frammento”,
che pur essendo una negazione dello spazio infinito reale, è allo stesso
tempo l’affermazione plenaria dello spazio dell’arte. Klee si accorge
dell’impossibilità di una rappresentazione “globale” della realtà
nell’arte e constata che: “Per ridare l’uomo “cosi com’è”, per renderne
la figura, mi sarebbe occorso un tale intricato guazzabuglio di linee, che non
si sarebbe più potuto parlare di pura rappresentazione elementare e
avremmo avuto un’irriconoscibile confusione. A parte questo, non è mia
intenzione di ridare l’uomo così com’è, ma solo come potrebbe
essere. E così posso riuscire a combinare la mia visione del mondo
(Weltanschaug) col puro esercizio dell’arte. Come si dice, quell’ esempio di
«infantilismo», io mi occupo di certe «operazioni parziali»: e cosi, tra
l’altro, disegno”[41].
Nel suo susseguirsi di domande e pensieri a
circolarità ermeneutica, Heidegger afferma (sarà giusta la parola
per Heidegger che quasi mai afferma, ma piuttosto si interroga) che la crescita
dell’oggetto tramite la sua rappresentazione iconica e plastica è dovuta
proprio a criteri di mutamento spaziale, contestuale. Perché nel mondo reale la
condizione della “res” si manifesta proprio perché il contesto familiare lo rende
invisibile. La condizione di reità determina le sue connotazioni
funzionali e lo sottrae alla visualità. Tramutato nell’ambiente
dell’arte, esso afferma questa visualità che è specifica all’oggetto artistico. Mentre il numero
delle forme conformi allo scopo è limitato, la ricchezza delle forme
artistiche è infinito.
La referenzialità, ovvero il sentimento della
realtà, che abbiamo esaminato nelle sue diverse articolazioni dei codici
visivi sta più che nell’oggetto in sé, nel suo situarsi (spazio
esterno), nel suo delimitarsi (separazione spazio esterno-spazio interno) o nel
suo configurarsi/strutturarsi secondo lo schema vettoriale del segno iconico
(spazio interno), essendo di fatto un rapporto tra l’interno e l’esterno, tra
Natura e Cultura, tra l’essere e l’apparire di un’entità visibile
concreta ed il suo analogo astratto.
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[1] Patrizia Magli, Semiotica – Teoria, metodo, analisi,
Marsilio Editori, Venezia 2004, p. 47.
[2] Paul Klee, Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli,
Milano 1959 (conferenza occasionata da una mostra di pittura a Kunstverein,
Jena, 26 gennaio 1924), pp. 81-82.
[3] Ibidem, p. 83.
[4] Ibidem, p. 95.
[5] Mihai Mãnescu, Percepþia, labirint spre forma plasticã,
Corsi di Master presso l’Università degli Studi di Belle Arti di
Bucarest, Anno accademico 2002/2003, p. 36.
[6] Groupe μ
(Francis Edeline, Jean Marie Klinkeberg, Philipe Minguet): Traité du signe. Pour une rhétorique de l’image, Editions du Seuil,
Parigi 1992.
[7] M. Mãnescu, op. cit., p. 37.
[8] Charles S. Peirce, Collected Papers, 1897, in Idem, Semiotica, Einaudi, Torino 1980,
pp.132-133.
[9] Ferdinand de
Saussure, Cours de linguistique générale,
Edition Payot, Parigi 1922, p. 88 (traduzione italiana: Idem, Corso di linguistica generale, Laterza,
Roma–Bari 1986).
[10] F. de Saussure, op. cit., p. 155.
[11] P. Magli, op. cit., p. 51.
[12] Louis Hjelmslev, Prolegomena to a Theory of Language,
Wisconsin University Press, Madison 1943, p. 37 (traduzione italiana: Idem, I fondamenti della teoria del linguaggio,
Einaudi, Torino 1968).
[13] Pietro Bellasi, Lontano, Remoto, Frammento, in Mimmo Paladino En Do Re, Tema Celeste
Edizioni, s. l. 1990, pp. 84-86.
[14] P. Klee, op. cit, pp. 81-82.
[15] Si veda Rudolf
Arnheim, Art And Visual Perception: A
Psychology of the Creative Eye, The University of California Press,
Berkeley–Los Angeles 1967 (traduzione italiana: Idem, Arte e percezione visiva: una psicologia dell’occhio creativo,
Edizioni dell’Università degli Studi della California, Berkeley 1974).
[16] Si veda Rudolf Arnheim, The power of
the center – a study of composition in the visual arts, The University of
California Press, Berkeley 1982.
[17] Si veda Max Planck, La conoscenza del mondo fisico, Einaudi,
Torino 1954.
[18] “C’est assez naturel car, toujours dans l’univers
des archétypes, si l’on va vers quelque objet, c’est pour le détruire ou le
capturer. Si l’on est dans un objet, c’est pour s’en servir comme d’une
cuirasse ou d’un abri” (René Thom, Stabilité
structurelle et morphogenèse, Inter
Editions, Parigi 1972, p. 336).
[19] Ibidem, pp. 332-333.
[21] In Ästhetik Lipps dedica ampi capitoli al
problema dello spazio nell’arte e alla sua raffigurazione e percezione. Ästhetik, Psychologie des Schönen und der
Kunst, uscita in due volumi, di cui il primo, Grundlegung der Ästhetik, nel 1903, e il secondo, Die ästhetische Betrachtung und die bildende
Kunst, nel 1906.
[22] W. Kandinsky, op. cit, pp. 57-58.
[23] “Ainsi, le verbe est
nécessaire à la stabilité du substantif: les mécanismes géométriques qui
assurent la stabilité du verbe sont donc implicitement contenus dans ceux qui
assurent stabilité du substantif. Par suite, la densité sémantique du verbe est
– en principe – inférieure à celle du substantif. Le verbe, en principe,
décrit un «procès», une activité éminemment transiente d’un sujet, dont
l’image mentale exige, pour être stabilisée un effort permanent de
l’esprit” (R. Thom, Modèles
mathématiques de la morphogenèse, Parigi 1974, pp. 247-248).
[24] Si veda Hans Reichenbach, The
Direction of Time, University of California Press, Berkeley 1956.
[25] William Hazlitt, Lectures on English Poets, apud M. H. Abrahams, English Romanticism: The Spirit of the Age,
in Romanticism and Consciousness, a cura di Harold Bloom, W.W. Nation, New
York 1970, p. 90).
[26] Wilhelm Worringer, Astrazione
e empatia, Torino 1975, pp. 46-65.
[27] Umbert Eco, Trattato di semiotica generale,
Bompiani, Milano 1975, pp. 73-75.
[28] Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Per un’estetica propositiva, in “Agorà”, IV, 2000, p. 486.
[29] “Je crois qu’il
serait bon de poser en principe que tout signifiant est engendré par son
signifié: les ikones [sic!] […] proviennent par une copie directe du
modèle originel. Les indices ‘postérieurs’ sont issus du signifié par
causalité directe, comme la fumée est produite par le feu. Et s’il y a des
indices “antérieurs’’, comme le couvert pour le repas, c’est que l’indice a été
produit dans un processus finalistique dont le but ultime était le signifié”
(R. Thom, L’espace et les signes, in
“Semiotica”, 29, nos. 3/4, 1980, p. 196).
[30] “Un ikone est un
signe dont le vecteur est purement spatial, instantané, qui ne pointe ni vers
le passé, ni vers l’avenir; un indice est un signe dont le vecteur pointe vers
le passé (par réversion de la causalité génératrice); un symbole est un signe
dont le vecteur pointe vers le futur (par réversion de la finalité
génératrice). Peirce disait que l’essence du symbole est l’être au futur
(esse in futuro)” (Ibidem, pp. 193-194).
[31] Prima metà
del XIX secolo, Hermann Günter Grassman nella Teoria dell’estensione delle forme,
Ausdehnunglehre 1844.
[32] F. de Saussure, op. cit., p.144.
[33] Su questo argomento
ci sia concesso di rinviare a M. Mãnescu,
Semn, semnificare, semn plastic, Corso universitario di Master presso
l’Università degli Studi di Belle Arti di Bucarest, Anno accademico
2002/2003.
[35] Klein sottolinea il
contributo di Grassmann a questo proposito, cfr. Programma di Erlangen, p. 45 e p. 52
[36] T. Lipps, Ästhetik. Psychologie des Schönen und der
Kunst, parte I: Grundlegung der
Ästhetik (traduzione italiana: Idem, Estetica.
Psicologia del bello e dell’arte, 1a parte: Fondamenti di estetica, Amburgo–Lipsia 1903, p. 1).
[37] Ibidem, 2a parte, p. 11.
[38] R. Arnheim, The power
of the center cit., passim.
[40] T. Lipps, op. cit., p. 225.
[41] P. Klee, op. cit., p. 96.