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Referenzializzazione e spazialità configurativa

(riflessioni sintattiche sull’iconicità plastica)

 

 

Mariana  Burnel,

Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia

 

Il referente, come oggetto indefinito della materia, può acquistare significato soltanto tramite il segno iconico-plastico che abbia una struttura spaziale analoga, ovvero basata sui tratti pertinenti che permettono la costituzione di un codice di riconoscimento. L’oggetto reale appartenente ad un substrato comune, viene così individualizzato, semiotizzato, differenziato e riceve un significato. I codici visivi offrono l’illusione referenziale (Barthes) non tra i segni e i loro referenti, l’isomorfismo verificandosi piuttosto a livello delle loro strutture articolatorie. Considerando ciò, il significato può accettare dunque definizioni concettualistiche o referenzialistiche.

Formulata da Saussure, la concezione concettualistica, cioè mentale, sostiene l’importanza dei valori di sistema e non degli elementi singoli, opponendo langue e parole, ovvero la norma, “sistema esterno all’individuo che non può né crearlo, né modificarlo”, e la creazione individuale, “realtà concreta di ogni singolo atto linguistico”. “Per quanto opposte, langue e parole stanno in rapporto di interdipendenza”[1].

Un criterio referenzialistico viene esposto da Ogden–Richards, i quali propongono il modello spazialistico del triangolo semiotico. I vertici del triangolo sono costituiti dal significante, dal significato e dal referente: mentre la relazione fra i primi due e quella fra il significato e il referente è diretta, quella tra referente e significante è indiretta, non sono direttamente connessi; cioè il referente entra in una definizione di segno, ma non direttamente come antagonista del significante. I vertici del triangolo cambiano di continuo le denominazioni, a seconda delle interpretazioni date dai numerosi specialisti del campo semiologico, ma il referente risulta quasi sempre come punto di partenza, come “il vertice” del processo comunicativo, per questo la sua posizione è quella di “vetta”.

Nell’arte il rapporto tra referente e significante è stato espresso magistralmente da Paul Klee nell’allegoria dell’albero, le cui radici, identificabili col vertice (il referente) non hanno un renvoi, una ripresa “identica”nella chioma (nel significante): “Quest’orientamento nelle cose della natura e della vita, questo complesso, ramificato assetto, mi sia permesso di paragonarlo alle radici di un albero. Di là affluiscono all’artista i succhi che ne penetrano la persona, l’occhio. L’artista si trova dunque nella condizione del tronco. Tormentato e commosso dalla possanza di quel fluire, egli trasmette ciò che ha visto. […] Nessuno vorrà pretendere che l’albero la sua chioma la formi sul modello della radice; non v’è chi non si renda conto che non può esistere esatto rapporto speculare tra il sopra e il sotto”[2]. È interessante osservare che mentre nei triangoli semiotici il referente

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venga rappresentato in “alto”, dunque gli si conferisce una maggior importanza, per Klee, per l’atto di comunicazione artistica, è la chioma che ha maggior rilevanza, pur essendo un’immagine che deforma la realtà che l’ha generata: “Ho parlato prima di rapporto tra chioma e radici, tra opera d’arte e natura, ed ho chiarito la differenza con la diversità esistente tra regno della terra e dell’aria e con la corrispondente diversità funzionale della profondità e dell’altezza. Nell’opera d’arte […] si tratta di una deformazione resa necessaria dall’ingresso nelle specifiche dimensioni figurative, perché là si compie la rigenerazione della natura”[3] e, asserisce ancora Klee: “non a tutti è dato giungervi”, dando come esempio gli impressionisti che dimoravano tra le radici, “nel sottobosco delle quotidiane apparenze”[4].

Questa deformazione, o negazione della realtà è, secondo Theodor Lipps, un’affermazione estetica. I mezzi oggettivi di negazione (la negazione del particolare nell’intero) devono essere intesi come mezzi di unificazione dell’opera d’arte. Cominciando dalle procedure tecniche delle quali fa uso l’arte possiamo riscontrare la funzione di negazione in genere (sostituire una materia con un’altra “analoga”), che assieme ai mezzi oggettivi di negazione in particolare, compongono il quadro dell’astrazione in duplice senso: in senso di “de-realizzazzione” e in senso di “de-materializzazzione”. L’artista compie dunque un atto razionale, l’organo centrale è per esso il cervello, il “cuore della creazione” (Klee) che determina tutte le sue funzioni.

Il rapporto tra le parti implicate nel processo di comunicazione e significazione avverte problemi a partire da un grado primario di comunicazione; anche se la trirepartizione del triangolo semiotico è un fatto unanimamente accettato, quello su cui non vi si concorda sono le denominazioni dei poli: quello che alcuni definiscono come /significato/ viene sostituito da ciò che altri chiamano /oggetto/, oppure /senso/ per quelli che altri identificano come /significante/.

Comunque vengano denominati i poli del triangolo semiotico, una cosa va chiarita: il significante (o segno) non può rappresentare mai la totalità dell’oggetto, ma lo rappresenta solo unilateralmente, tramite un processo di continua sintesi astrattiva. Chomsky sostiene che l’oggetto deriva da uno “sguardo” la cui posizione e la direzione sono indicati dal “punto di vista”, i fatti sono uniti da una organizzazione coesa e logica, e l’insieme deriva dal principio di evidenza. È chiaro dunque che l’uomo è condizionato sin dall’inizio, dall’atto di percezione, da restrizioni fisiche; il punto di vista condiziona il modo di rappresentazione, il modello perde le sue scale di iconicità a causa della limitazione del campo percettivo. “I problemi del dialogo con il mondo circostante cominciano a livello della percezione”, dice Mihai Mãnescu[5] e ci dimostra questa constatazione con lo schema estremamente preciso, proposto dal Groupe μ[6]. Mãnescu distinguerà in base a questo schema e alle accezioni degli psicologi del campo (che identificano quattro tipi di percezione visuale

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legata ad interessi estetici: obbiettiva, fisiologica-soggettiva, associativa e caratterizzante) cinque “ambiti”: l’ambito oggettivo, l’ambito reale, l’ambito deformato, l’ambito imposto, ma anche l’ambito della creazione plastica[7]. Il punto di vista è caratterizzante sia per l’emittente, che per il destinatario. Per il primo, in quanto istanza di produzione, esso suppone una certa organizzazione del sapere. A seconda delle due istanze in questione, l’osservatore e l’informatore, siano loro embraiati o debraiati, uniti e moltiplicati, i punti di vista possono essere qualificati come: esclusivi, inclusivi, reclusivi o integratori.

I cubisti prendendo atto della limitazione specifica del punto di vista, ovvero dell’incapacità di rappresentare l’oggetto nella sua complessità reale, dissolveranno il mondo in molteplici sfaccettature tramite il metodo della scomposizione dell’oggetto e della prospettiva inversa; cercando così di introdurre nello spazio bi-dimensionale del quadro il parametro bergsoniano spazio–tempo, ovvero la tridimensionalità, che non può essere percepita frontalmente, da un unico punto di vista, né tramite una percezione sincronica, ma implica una percezione diacronica. Si può dire che “appiattiscono” il tridimensionale, volendo ottenere maggior iconicità. Però, paradossalmente, rendono ancor più estraneo l’oggetto alla percezione socializzata e ipercodificata, abituata alla fissità di quelle forme mentali dei denotatum. L’iconicità, come sfruttamento discorsivo della figuralità (Greimas–Courtés), è fondata su un codice comune, di conseguenza, deve essere considerata secondo un doppio punto di vista, quello delle due istanze coinvolte nel processo di comunicazione estetica. È assai strano che proprio l’oggetto più astratto e convenzionale, l’elemento che nega la tridimensionalità, essendo in assoluto bidimensionale, la parola (o un gruppo di lettere), che non ha quasi mai intenzione comunicativa (si tratta quasi sempre di configurazioni linguistiche aleatorie) e colei che, tramite la sua vera fisicità (l’integrazione fisica nel collage), ci rinvia all’universo reale. Più che di una tecnica o di un procedimento, si tratta di assumere il punto di vista come una forma alla quale viene conferito il valore della discorsivizzazione, nella misura in cui la polarizzazione delle strutture suppone un investimento a livello assiologico. Si può parlare di un débrayage che si attua a livello cognitivo, perché nel processo comunicativo sviluppato dall’arte cubista, l’osservatore e l’enunciatore non condividono lo stesso punto di vista. L’arte contemporanea può fornirci innumerevoli esempi in questo senso, la scelta dell’arte cubista nella fase analitica e sintetica, essendo determinata (per rimanere in tema) in base ad un punto di vista personale.

Se si pone fra parentesi la corrispondenza bi-univoca tra referente e significante artistico, si osserverà che la conoscenza non si riduce alla rappresentazione di un “soggetto” e di un “oggetto”, anche se le regole sono molto rigorose. Paragonando queste due entità, Peirce afferma che il segno sarebbe “something wich stands to somebody for something in some respect or capacity” (qualcosa che sta per qualcos’altro sotto certi aspetti o capacità)[8]. Qualunque cosa può essere accettata come icona di un oggetto, se capace di venir interpretata da un’istanza di ricezione come segno o rappresentazione di costui.

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L’impressione referenziale, ineluttabilmente subordinata al funzionamento attinente ad un universo semiotico inequivocabile, fonda su un contratto fiduciario istituito tra gli enunciati. Dal punto di vista enunciazionale, si parlerà di “modi d’integrazione” dell’osservatore capaci, in base ai criteri di veridizione stipulate dal contratto, di far variare la sua modalità d’adesione. Dunque si deve intendere il perché di quella causa causae, ovvero il perché dell’elaborazione di tali norme nelle articolazioni della pratica e dell’arte, per far sì che l’icona sia il segno che ha la capacità di rendere gli oggetti significativi, anche se non esistenti in realtà.

Un segno iconico che rispetti il referente della percezione deve mantenere la “linearità del significante” sostiene Saussure[9]. “Non si comunica per segni isolati o per singole parole, ma per insiemi strutturati di segni, mediante masse organizzate”[10]; le configurazioni iconico-plastiche sono dunque, un insieme di figure isotope costituenti una forma tematico-narrativa, nella quale sono importanti sia il rapporto tra le parti, che il rapporto sintagmatico fra le parti e il tutto.

Proseguendo per descrizione di tale norma, anche il diagramma può venir considerato come un’icona, perché rappresenta un rapporto tra le parti di un oggetto reale. Si stabiliscono così quelle che Abraham Moles considera scale di iconicità, ove lo spazio sintagmatico si impone per primo all’osservazione dell’immagine icono-plastica, costituita per successione topologica degli elementi che la compongono simultaneamente, nello stesso tempo e nello stesso spazio. Quest’ordine sintagmatico proposto dal “testo visivo” è assai importante, essendo definito da Hjelmslev processo. Hjelmslev sostituisce così l’opposizione saussuriana tra langue e parole con quella tra sistema e processo[11].

Secondo Agostino (De Doctrina Christiana), il segno sarebbe “res, praeter, speciem quam ingerit sensibus, aliud aliquid ex se faciens in congitationem venire”; dunque più che un artificio intensionale, il segno (significante) è un artificio estensionale, più che la configurazione grafica, il modello strutturale delle unità componenti. “I segni formano una catena e anche gli elementi di ogni segno formano una catena”[12]. La natura degli aliquid è il modo di stare per, aldilà di questa funzione, tutte le altre identità scompaiono, nonché la natura di ciò a cui si rinvia si frangerebbe in una molteplicità irricomponibile di artifici. L’atto di significazione sarebbe l’artificio indefinibile che gli esseri umani, nell’impossibilità di possedere l’intero mondo (reale/possibile), porrebbero in opera per supplire la mancanza dei segni.

Quelli che hanno insistito sul problema complesso della fusione della natura e della cultura, dentro istituzioni interpretate come segni simbolici o strutture, che diventano garanzie della comunicazione, hanno voluto rilevare l’importanza dell’analisi linguistica

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per i sistemi strutturalisti. Richard Wollheim (Art and its Objects) sostiene l’interesse degli studiosi per le conclusioni di Saussure secondo le quali: “il sistema o quadro linguistico è anteriore all’atto individuale, del parlare e del messaggio, di conseguenza determina le priorità logiche” e “qualunque atto comunicativo va inteso come operando in base a una doppia articolazione del codice e del messaggio”. Anche per W. Morris le icone non sono determinate da un atto individuale, ma comportano determinazioni culturali, collettive, sono dunque delle “forme mentali”. Le forme mentali non implicano più i dettagli che particolarizzavano l’oggetto della percezione. È come se la percezione venisse attuata non in prossimità dell’oggetto, ma in sua lontananza. Il lontano appoggia su una contiguità di piani e di scenari che si avviano dal soggetto verso il punto di fuga in una prospettiva che lega il Sein (l’essere inteso come l’apparire) all’altro Dasein (l’esserci inteso come l’essere). Facendo parte della nostra percezione, comporta un ordine per poter essere letto, compreso, una linearità del significante (Saussure). La lontananza dal Sein, dal soggetto della percezione congettura un rintracciamento più fiduciario della nota cosa in sé kantiana, ovvero il Dasein. Nella memoria infatti rimangono soltanto i tratti essenziali di una configurazione, la sua forma totale; in quanto totalità, il concetto fa riferimento ad un sistema di relazioni, di dipendenze spaziali, tra cui Hjelmslev determina: le dipendenze di parti con altri parti (relazioni sintagmatiche) e le dipendenze fra queste parti ed il sistema (relazioni paradigmatiche).

Nell’arte la lontananza può essere interpretata anche come parametro temporale, ciò che Barthes chiama punctum, ovvero il remoto, quella sospensione delle teorie fenomenologiche, che si attua tra l’Ignoto e l’Oblio, termini che ammettono sinonimi comuni come anonimato/oscurità caratterizzanti lo spazio percorso da memoire volontaire e memoire involontaire. “Per il «soggetto del remoto» ogni punto, piano, dello spazio e del tempo è isolato in una spettrale sospensione di superficie, di epidermide, di pellicola interstiziale: di frammenti di una prospettiva irricomponibile”[13], come il punctum di Roland Barthes – punto 0 nella semiotica.

Per parlare di un’immagine parziale in modo che ne risulti una rappresentazione plasticamente chiara, ci sono dati soltanto dei mezzi temporalmente discreti, dice Klee: “[…] ciò dipende dalle deficienze della natura temporale del linguaggio. Ci mancano i mezzi per parlare sinteticamente della contemporaneità pluridimensionale […]. Ad ogni dimensione trascorsa che temporalmente scada, dobbiamo dire: sì, ora tu sei passato, ma chissà che nella nuova dimensione, prima o poi, non ci si imbatta – forse per nostra fortuna – in un punto critico, che ristabilisca la tua presenza”[14].

Nel processo creativo vi sono di conseguenza questi due concetti: di lontananza (percezione attuata a distanza dal referente), tramite la quale ci si sofferma sui dati essenziali dell’oggetto, e di remoto (percezione simultanea spazio-temporale), perché nel processo elaborativo dell’opera d’arte gli elementi configurativi susseguenti si sovrappongono, mantenendo un legame di grado zero con la realtà, e possono sorgere improvvisamente

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dalla massa degli ulteriori segni. Il distacco dalla realtà non avviene mai in questo modo, non vi è l’imminenza del Nulla o di una possibile vacuità dell’arte come si è polemizzato riguardo ad alcune trasgressioni estreme operate dagli artisti contemporanei.

La lontananza come percezione che determina una configurazione epurata, essenzializzata, si può identificarla nella Gestalttheorie che afferma che un minimo di elementi configurativi rendono possibile un massimo di informazione/significazione, tramite un rapporto sintagmatico di dipendenze in duplice senso così come dimostra Hjelmslev. Si tratta dunque di un rapporto in praesentia (rapporto tra gli elementi percepibile), a differenza del remoto che attua un rapporto in absentia (assenza degli elementi con i quali quelli presenti entrano in rapporto associativo). Nella struttura del quadro composizionale, Rudolf Arnheim ci avverte dell’ ”esistenza” invisibile di assi come la verticale e l’orizzontale principali, le diagonali e soprattutto del centro composizionale che pur non essendo fisicamente presenti, sono percepibili, azionando come vere forze di attrazione per gli elementi che compongono un quadro[15]. Essi hanno la capacità di determinare posizioni forti (Arnheim parla di un “power of the center”)[16], ipercodificate, che possono essere facilmente “lette”, e posizioni deboli, ipocodificate, che l’occhio non è capace di intendere. Roland Barthes sostiene che il segno ha valore non per le sue origini o per sé stesso, ma per quello che lo circonda, sia questo visibile o invisibile. Il rapporto significante della presenza e dell’assenza può essere invertito, cosicché l’assenza denoti ancor maggiormente la presenza dell’oggetto assente, e la presenza sia un ostacolo per la presenza “vera” (assenza tramite presenza); è l’eterna unità dicotomica hegeliana dell’universo sensibile, delle apparenze, e di quello spirituale.

Il remoto, come dimensione dello “stabile” nell’opera artistica, implica un susseguirsi di tappe, di interazioni secondo il principio dell’entropia. Questo concetto della termodinamica è entrato ufficialmente a far parte della terminologia specifica della teoria dell’informazione.

L’entropia è il secondo principio della termodinamica, enunciato da Clausius, secondo il quale, “mentre una data quantità di lavoro può trasformarsi in calore (come dice il primo principio) ogni qual volta si trasforma del calore in lavoro ci troviamo di fronte a tali limiti per cui il processo non avviene in modo completo e totale come nel caso del primo principio. Per ottenere lo scambio di una quantità di calore in lavoro, una macchina deve avere scambi di calore dalla sorgente, ma non trasforma tutto perché ne cede parte al refrigerante. Il calore si trasforma quindi in lavoro Q1 più il calore Q-Q1 che viene ceduto al refrigerante. Data quindi una trasformazione di lavoro in calore (primo principio), quando si trasforma nuovamente questo calore in lavoro non si ottiene più la quantità di lavoro da cui si ero partita. Si è avuto una degradazione o come si vuol dire,

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un “consumo” di energia che non sarà più recuperato”. L’energia si “consuma”. Alcuni processi naturali non sono dunque completamente reversibili: “questi processi hanno una direzione unica: con ognuno di essi il mondo fa un passo in avanti, le cui tracce non possono essere cancellate in nessun modo”[17].

Nelle configurazioni artistiche, come nella natura, vi esistono delle preferenze per certi stati verso cui evolvono i processi irreversibili. Questi stati corrispondono a degli archetipi (che fanno intendibili i segni); su di essi Thom fonda una teoria degli universali per ridurre il distacco tra il mondo linguistico e quello reale[18]. Sono dunque dei processi fondamentali che possono essere geometrizzati secondo un centro organizzatore e un dispiegamento universale. Risultano così otto singolarità, per ciascuna delle quali si possono dare altrettante rappresentazioni o suddivisioni distinte. Le otto singolarità hanno un’interpretazione spaziale (sostantivi) o un’interpretazione temporale (verbi) sia nel senso distruttivo, che nel senso costruttivo[19]. Anche Thom dunque rileva la presenza del parametro spaziale (il sostantivo) e di quello temporale (il verbo), ovvero il principio statico della configurazione gestaltista ed il principio dinamico della configurazione fenomenologica (se la si può definire così in modo paradossale). Per estrapolazione del concetto scientifico dell’entropia si giunge alla linguistica e all’arte.

I segni plastici di Klee possono essere descritti più da verbi secondo Carmine Benincasa, cioè nel loro continuo processo evolutivo, che da sostantivi o aggettivi. I sostantivi, come le configurazioni stabili plastiche, sono le entità sintattiche più consistenti semanticamente, cioè gli ultimi stadi dell’evolversi della forma, che perdendo energia raggiungono la stabilità. La seconda categoria in ordine decrescente di densità sé rappresentata dai verbi, ovvero i segni dinamici, che nella plastica trovano corrispondenti nella linea: “La linea geometrica è un’entità invisibile, la traccia del punto in movimento; nasce dal movimento, più precisamente dalla distruzione del punto. Rappresenta dunque il salto dallo statico al dinamico, la massima antitesi dell’elemento pittorico originario, il punto. Nella linea, l’attività spaziale implica due momenti: quello dell’attività e quello del movimento dell’arte”[20].

All’interno delle forme attività e passività vi interferiscono, dando loro libertà interna. Thedor Lipps considera il concetto di libertà il più importante per l’estetica dello spazio: “Così come avviene per me, anche la forma spaziale è libera quando essa si esprime senza impedimenti [ungehemmt]. […] La libertà di un individuo viene empatizzata nella forma-individuo che io chiamo «me stesso» […]. Io sono solo questo io ideale, questo io contemplante. Come tale mi sento nella forma libero, ed esplico la mia vitalità in essa

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liberamente. La bellezza delle forme consiste in questo mio «ideale» libero godere a fondo la vita [Sichausleben] in esse. Quando nella contemplazione o nella forma mi sento invece interiormente vincolato, sottoposto a costrizione, la forma è brutta. [...] Qui si completa il senso dell’Einfühlung nella forma geometrica”[21].

Kandinsky è colui che sostituisce il concetto di movimento con quello di tensione direzionata, perché il primo da luogo ad equivoci terminologici, mentre il secondo rappresenta la forma viva insita nell’elemento, che esprime solo una parte del movimento creatore, la “direzione”. Gli elementi della pittura sono i risultati reali del movimento, e precisamente della forma, della direzione e della tensione. La tensione e la direzione sono i punti distintivi tra il punto e la linea: il punto ha soltanto una tensione, mentre la linea ha in più la direzione spaziale[22]. Si potrebbe dire che l’intera arte parte da un punto e tramite il movimento e l’estensione spaziale crea forme e configurazioni. Ma la stabilità ed il movimento, come il sostantivo ed il verbo, formano insieme il nucleo della struttura sintattica (per esempio Soggetto–Verbo–Oggetto) il criterio semantico essendo colui che intensifica la loro relazione sintattica[23].

Le configurazioni artistiche verso cui evolvono le sequenze irreversibili nel processo creativo sono le cosiddette “posizioni forti”, ovvero quelle basate sulla centralità della forma, sulla simmetria, ecc., in cui il calore passa da uno stato di temperatura più alta a uno stato di temperatura più bassa perché lo stato di uguale distribuzione della temperatura è più probabile di uno stato di distribuzione ineguale. Arnheim asserisce il fatto che queste configurazioni forti sono quelle che possono essere intese dall’osservatore, mentre le configurazioni transitorie, a causa dell’equiprobabilità che avvertono, del loro squilibrio, rendono difficile la loro comprensione.

La retorica artistica si instaura nella generale tendenza al disordine che in natura esiste, quando si propone l’instabilità apparente come ordine artistico (si veda a questo proposito l’arte gestualista, l’action painting, la pittura materica, ecc. che promuovono il movimento interno, lo stato transitorio come ordine dell’opera). Questa organizzazione, che rappresenta apparentemente una diramazione dalla curva generale dell’entropia, è di fatto l’attuarsi di un ordine nuovo, di un ordine dei rapporti di causa-effetto propriamente artistico.

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“L’esistenza di rapporti di causa ed effetto nei sistemi organizzati a entropia decrescente stabilisce l’esistenza del “ricordo”: fisicamente parlando un ricordo è una registrazione”, “è un arrangiamento l’ordine del quale rimane preservato: è un ordine congelato, per così dire”[24]. Esso ci aiuta a stabilire le catene causali, a ricostruire un fatto.

A questo modo si spiega il fatto che le due teorie apparentemente polari, dei gestalttisti e di Rudolf Arnheim sono accomunate attraverso il fenomeno dell’entropia, ed il ricordo (quello che noi abbiamo chiamato “remoto”), a cui abbiamo attribuito un movimento interno diventa “ordine congelato” (ovvero la forma “autosufficiente” della teoria configurazionista). La seconda legge della termodinamica permette l’istaurazione dell’esistenza sul ricordo del passato, constatava Reichenbach, che altro non è che un archivio di informazioni; da tale considerazione sorge la possibilità di uno stretto rapporto tra entropia ed informazione. L’entropia verrà definita da Norbert Wiener (Introduzione alla cibernetica), come misura negativa del significato di un messaggio. Il messaggio nella comunicazione odierna per essere inteso, per non essere alterato dal “rumore”, necessita una sovrabbondanza di probabilità, in modo che comunque l’essenziale sia mantenuto. Questa sovrabbondanza di tali probabilità è la ridondanza. Ma nell’arte la ridondanza genera l’impossibilità di comprensione del messaggio. In modo paradossale “di più” significa “di meno” e “di meno” significa “di più”. Quando denominiamo o rappresentiamo qualcosa non prendiamo in considerazione i tratti individualizzanti, ma ci riferiamo ad una classe di elementi, alle caratteristiche che vi rimangono dopo lo scarto dell’informazione ridondante. In questa forma generale, sintetica, la forma artistica è ancora capace di rimandare al referente (sapendo che forma naturale è essenzialmente ridondante)?

L’oggetto semiotico di una semantica non è in primo luogo però il referente, ma piuttosto il contenuto, il contesto inteso come unità culturale (o raggruppamento di unità culturali interconesse). Piaget sostiene che i processi semiotici sono tali soltanto in quanto reversibili come tutti i processi intellettuali: si può passare dal segno al suo referente, quando si è capaci di compiere anche la strada inversa; quando, per esempio, non soltanto tracciando una linea ferma, impetuosa, avvertiamo l’esistenza della tensione, ma anche quando esistendovi tensione c’è anche questo tipo di linea che la esprime. Osservando delle “linee” tracciate, anche essendo loro in una dimensione astratta assoluta, ci possiamo accorgere del bagaglio informativo intrinseco, tramite la percezione del fattore “durata” (le linee dunque “parlano” da sole degli stati interni dell’artista che le ha determinate). Attraverso i segni plastici si evidenzia la durata dei gesti creatori: durata corta (Picasso, Kandinsky), ripetitiva (Pollock), esistenziale (Giacometti), istantanea (Fontana), che non può essere modificata senza modificarvi il significato, il messaggio che è in sintonia con lo stato d’animo dell’artista nel momento della creazione.

Se il segno non può essere un sostituto totale di qualcosa (soltanto in casi particolari come il “duplice” al quale accenna Morris, dunque quando il segno è lui stesso un denotatum […] ma qui inferiamo connotazioni d’ordine diverso, sociali, culturali […]), allora dobbiamo accettare l’asserzione peirciana del segno che può essere spiegato soltanto

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mediante un altro segno. È ancora possibile a questo punto accettare la proposta che “nomina sunt numina”, verificata in certi contesti culturali? I primi a fare una distinzione saranno gli stoici, definendo il semainon (il segno come entità fisica), il semainomenon (quello che viene detto tramite il segno e non rappresenta un entità fisica) e il pragma (l’oggetto al quale fa riferimento il segno e che è nuovamente un’entità fisica). Pur non essendo resa esplicita, la nozione di referente mostra che emettendo segni cerchiamo più o meno di indicare cose. Se il segno non può essere un sostituto totale di qualcosa, allora dobbiamo accettare l’asserzione peirciana del segno che può essere spiegato soltanto mediante un altro segno.

Morris dice che il ritratto di una persona è iconico sotto qualche rispetto, ma non completamente, dal momento in cui la tela non ha la grana della pelle, né la tridimensionalità della persona, né la sua mobilità, dunque non può essere lui stesso un denotatum. Questa negazione della vita è l’affermazione stessa dell’arte. D’altronde più l’opera d’arte diventa appropriata al denotatum, dunque ipercodificata, e più è forte la sensazione di allontanamento dall’oggetto in sé. Si tratta del fenomeno di straniamento, di mutamento dall’ambito proprio, familiare, che lo rendeva riconoscibile, in ambiti impropri. Perché più che nell’immagine singola, abbiamo detto anteriormente, il significato, il senso che attribuiamo ad un determinato elemento a livello concettuale, sta nel contesto situazionale. George Segall avverte drammaticamente questo straniamento tramite la negazione cromatica dei suoi ”esseri” che sembrano “popolare” veramente il nostro mondo, (del quale riproduce anche gli ambienti più consueti); avvertendo tale diniego ci rendiamo conto che stiamo sbagliando se gli identifichiamo con i loro referenti reali; gli iperrealisti porteranno all’estremo l’appropriamento tra referente e significante, proponendo delle vere statue-sosia di uomini reali, imitati negli ultimi dettagli fisionomici, corporali o vestimentari; neanche la scelta dell’uomo contemporaneo non è casuale, (perché un personaggio remoto verrebbe facilmente compreso come fantoccio, cosa che non avviene nel caso dell’uomo della realtà immediata, approssimato per contemporaneità esistenziale), ma viene a sottolineare più terribilmente l’ipostasi di straniamento, in duplice senso: dal contesto esteriore, ma ancor di più, da sé stessi (se pur realizzato attraverso ironia). L’immagine fortemente codificata, diventa ridondante come l’oggetto referenzialistico. Rimane però poco interessante in se stessa, se non in relazione al contesto (presente in Segall, ora scomparso), e spaesata perché divisa sia dal contesto esistenziale vero e proprio, sia dal contesto dell’arte che viene espresso, secondo la teoria dell’Einfühlung, negando la ridondanza configurativa della realtà. La rappresentazione artistica rimane così “sospesa” tra due Realtà, non appartenendo più a nessuna delle due, in uno spazio A-spaziale e A-temporale, nel Nulla.

Dire che il significante corrisponda ad un oggetto reale denota ingenuità, perché esistono significanti che fanno riferimento ad entità inesistenti (ci ricordiamo l’esempio dell’unicorno di Eco), e da qui vi risulta la necessità di un’estensione del grado “zero”, (Goodman, 1949) o di una teoria dei mondi possibili di (Lewis, 1969). Se dunque accettiamo l’idea che l’esistenza reale dell’oggetto o referente non determina l’iconicità, Hazlitt aveva

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pienamente ragione quando in pieno romanticismo osservava che “le rane reali esistenti nei giardini immaginari sono molto reali”[25] dunque, possiamo intenderle come icone.

La rappresentazione artistica mediante la critica del principio di somiglianza viene realizzata secondo due prospettive principali nell’arte moderna: la prima è la prospettiva astratta, che non si interessa più alla rappresentazione tout court, interessandosi più alla struttura “autonoma” dell’opera considerata nella sua concretezza fisica e nelle sua specificità linguistica, la seconda è la prospettiva surrealista, che propone un nuovo “realismo” massimizzato attraverso una critica attuata all’interno della rappresentazione stessa. Il bisogno di empatia e quello di astrazione sono i due poli della sensibilità artistica dell’uomo, termini antitetici che, in principio, si escludono l’uno con l’altro. In realtà però la storia dell’arte non è che un ininterrotto conflitto tra queste due tendenze[26].

Nella ricerca artistica in prima istanza c’è il rapporto visione–pensiero–interpretazione. Vedere equivale a comprendere, ad apprendere e si può meglio apprendere se l’occhio, la meninge e la mano interagiscono (percezione–concezione–processo). È importante considerare l’atto di vedere come una riflessione prolungata, anche perché l’arte moderna con le sue molteplici sfaccettature non si presta più a venir interpretata come un contenuto specifico perché mostra la volontà di intervenire sulle barriere convenzionali della comunicazione. Nella relazione tra representatem e oggetto la categoria dell’iconismo non serve più a nulla, ma piuttosto confonde le idee perché non definisce solo fenomeni semiotici; a questo modo avvertiva Eco il drammatico caso dell’iconismo, la morte delle nozione classica di segno[27]. Anche la morte dell’arte è avvertibile nel suo distacco dalla rappresentazione iconica classica tramite un processo di autonomizzazione, di progressiva presa di coscienza. Fulvio Papi osserva che la “morte dell’arte” in Hegel significa “che l’arte non è più la rappresentazione sensibile di un’altra sostanza spirituale, […] ma deve misurarsi ora con la propria possibilità di verità, e in questa prova, ovviamente può anche fallire e diventare, come Hegel stesso aveva visto, il luogo del futile, dell’arbitrario, del gioco”[28]. È importante dunque ridare spazio al “vedere” inteso come atto di cognizione, di riconoscere la sua portata interpretativa. Nell’arte non c’è più soltanto “il sapere” oggettivo, ma anche la relazione soggettiva, non si tratta più di segni, ma di generare quel che Eco definisce modi di produrre funzioni segniche.

Mentre Saussure considerava il rinvio simbolico un’entità psichica (unione tra significante e significato), nell’accezione rené-thomista ha una realtà oggettiva, opposta alle interpretazioni echiane, che ribatte affermando “di ciò che non si può matematizzare si deve tacere”. L’oggettività segnica si trova (in principio) esclusivamente nella condizione del significante e così, il rinvio che collega questo significante con il significato sarebbe

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in grado di acquisire una certa materialità. Ma allora, come spiegare il fatto che il rinvio simbolico non conosce nessuna costrizione meccanica o fisica? La spiegazione va ricercata nel fatto che il rinvio dimostra una stabilità strutturale intrinseca, in altre parole, i due lati del rinvio simbolico, del vettore sono entità oggettive, anzi è il significato che assicura la strutturazione oggettiva (geometrica) del segno e quindi del rinvio. Questa conclusione si verifica nel principio René–Thomista della procreazione segnica[29]. Il significato è il referente, l’oggetto designato, dunque è un’entità extra-linguistica e quindi apocrifa secondo Thom, per Eco invece il significato è un’unità culturale, semiotica, mentre il referente è un’entità extra-semiotica. Sottolineiamo anche che per Thom quasi tutto è puro, oggettivo[30].

Il tipo astratto, il modello è sostenuto dalla teoria degli psicologici della forma, secondo i quali le forme non esistono in sé, ma tramite la possibilità di essere percepite. Tramite il segno, l’uomo si disgiunge dalla percezione bruta, dall’esperienza, e astrae. Il processo di astrazione deve essere inteso come una legalità di natura generale che si manifesta come intuizione pura, come evidenza immediata. Le forme astratte sono “libere” (freigeschaffene), perché esteticamente significative indipendentemente dal loro trovarsi in cose di natura. Il loro valore positivo o negativo risiede in sé stesse.

La differenza tra l’uomo comune e l’artista è che il primo vede attraverso dei modelli stabiliti in base a dei codici socio-culturali, mentre il secondo ha la capacità di trasgredirli, e di crearne dei nuovi. Senza astrazione non esiste concetto, né segno. Il nuovo non ha mai tratti ben circoscritti, è sconosciuto: per questa ragione è costitutiva nell’uomo una dimensione irazzionabile, che si avverte come non ancora cosciente, chiaribile unicamente in una prospettiva auspicata e che si decifra nella tensione e nel approfondimento di esso (Sehnsucht).

Qualunque rappresentazione può essere accettata come icona di un oggetto se viene creata in base ad esso e viene adoperata come segno o come sua rappresentazione; l’icona è il segno che possiede le proprietà capaci di restituire all’oggetto significato; il segno plastico incide sull’iconico, lo fa “crescere”, rende possibile la sua identificazione, dandogli significato, mentre l’iconico, una volta individuato, permette di attribuire un contenuto agli elementi di morfologia plastica. Si tratta dunque di una gradualità del segno che, partendo dal referente, diventa comunicante (segno iconico) e poi significante (segno plastico). Il segno deve essere inteso nella sua struttura duale, comunicativa e

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significativa, e per questo è neccesaria la conoscenza del contesto in cui avviene il processo di percezione–significazione, affinché vi sia un vero “passaggio” delle informazioni. Per attuarsi, questo processo richiede uno scenario e un codice comune tra l’emittente ed il ricevente, dunque non può essere un punto di vista particolare, ma un’astrazione. Hermann Günter Grassman emancipa la geometria dalle limitazioni istituite dalla restrizione allo spazio reale[31] ed è interessante osservare che questo”ampliamento” non procede inizialmente da un progetto di costituzione di una geometria astratta e generale, ma da uno sviluppo e dall’approfondimento dei problemi posti dalla geometria reale. La stessa cosa vale per il processo graduale che va dal referente verso il segno plastico. Non si tratta di separarsi dal punto di partenza , ma di “ampliarlo”, che per l’arte, (dove la decodifica avviene per via visiva), significa “farlo crescere” dal punto di vista visuale e dell’espressività.

Simili dilatazioni che prendono spunto nel mondo concreto, non sono dei puri espedienti, ma estensioni capaci di portare avanti una definizione dello spazio più globale, che parte dal caso specifico dello spazio evidente. Così anche per l’arte, come per la geometria, vi sarà la possibilità di inserire componenti irreali (come nella geometria proiettiva), o le considerazioni di dualità della stessa geometria proiettiva (sviluppate all’interno della geometria “reale”) che nell’arte costituiscono necessarie coppie–opposizioni di esistenza.

La separazione del segno plastico da quello iconico essendo una pratica assai difficile, l’analisi plastica prende in considerazione i gruppi di opposizioni strutturali delle forme, dei colori, delle texture, ad esempio: concave–convesso, chiaro–scuro, rosso–verde (complementari), levigato–ruvido, semplice–composto, ecc. Anche la langue è composta da unità linguistiche che devono essere delimitate per opposizione. Le unità hanno valore (qualisegni) perché si oppongono le une alle altre, all’interno dello stesso sistema “Ogni idioma compone le sue parole sulla base di un sistema di elementi sonori ciascuno dei quali forma un’unità nettamente delimitata, il cui numero è perfettamente determinato. Ora ciò che li caratterizza non è, come si potrebbe credere, la loro qualità propria e positiva, ma semplicemente il fatto che essi non si confondono tra di loro. I fonemi sono anzitutto delle entità oppositive, relative, e negative”[32]. Ciascun componente delle coppie opposizionali in sé non ha valore, non può essere evidenziato, ma giustapposto al suo contrario, in un paragone immediato è reso rilevante alla percezione.

“A differenza del linguaggio, dove, per esempio, la semplice pronuncia della parola «luminoso», chiama simultaneamente la nozione opposta, «scuro», nella plastica qualunque condizione come ad esempio: luminoso, ruvido, trasparente, non può essere apprezzata in sé, ma soltanto in rapporto ad un’altra superficie scura, levigata, opaca, accostatale. Un grigio è categoricamente scuro in confronto al bianco, ma evidentemente più chiaro in confronto al nero. Nella pittura si sa benissimo che lo stesso colore può acquistare qualità diverse di saturazione, luminosità, purità, in diversi contesti e in diversi rapporti”. Da questo

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punto di vista è facilmente accettabile l’ipotesi che il segno plastico rappresenta l’unione tra un’espressione ed un contenuto, come sostiene Mihai Mãnescu[33].

L’asse sintagmatico è quello dei contrasti per certi linguisti, che lo distinguono a questo modo dall’asse paradigmatico. Hjelmslev lo definisce relazione di contrasto e nota che questa relazione è selettiva e non compromette il tipo individuale. Il termine di contrasto ha un’accezione più limitata nella sfera della semiotica plastica; di natura sintagmatica come il contrasto linguistico, il contrasto plastico viene determinato dalla contrapposizione su una medesima superficie di due termini opposti di una stessa categoria, o di unità più ampie disposte nella stessa maniera, distinguendosi a questo modo dal contrasto linguistico. Hegel avverte nella questione del “contenutismo” formale un forte disagio di fronte a queste “forme” che non possono pienamente affermarsi, la sua ricerca confermandosi soprattutto per gli esempi che le arti visive offrono[34].

Lo spazio reale, razionale e discontinuo è, secondo Grassmann, piuttosto quello delle figure dello spazio, delle entità variegate, eterogenee. Dato primario, ricettacolo di quest’ultime. Anche se la metafisica aveva sottoposto ad interrogazioni tale riguardo, il matematico non affrontava nessuna difficoltà nell’individuarlo. Lo spazio, estensione indeterminata a tre dimensioni costituiva una realtà neutra inerte e non esigeva nessuna investigazione. Kant, nonostante filosofo, ebbe l’obbligo di consacrare questa visione nel momento in cui realizzò lo spazio come categoria della ragione. Per di più, non mediante le analisi generali e a priori si è compiuta l’evoluzione delle idee, ma per mezzo dell’approfondimento della considerazione su problemi di “figure”, quindi nel quadro della geometria classica. Grassmann, nel suo Ausdehnunglehre del 1844, poneva la questione con generalità elevata, decretando una teoria dell’estensione in base a considerazioni sulle molteplicità pluridimensionali, indipendentemente dalla loro rappresentazione sensibile[35]. L’elemento di questa sorta di varietà istituisce l’analogo del punto dello spazio reale. È reiterata così l’idea che l’iconico e il plastico sono estensioni del grado zero, che determinano reciprocamente, e che la crescita di quest’ultimo, asserisce Grassmann, è resa possibile irrazionalizzando la realtà e diventando a questo modo significativo ”in sé stesso”. In tal modo il surrealismo, che pur non abbandona l’idioma iconico, dispone la crisi dell’iconografia classica, in vista di una nuova rappresentazione, adottando mezzi linguistici nuovi come il prelevamento di oggetti e dei loro frammenti, servendosi di espedienti rappresentativi, quali il “trompe l’oeil” o le prospettive illusionistiche. Questo nuovo “realismo” si immedesima alla tendenza di eliminare dal quadro l’elemento artistico estetico e a rendere “corporeo” il contenuto dell’opera d’arte per mezzo della semplice restituzione dell’oggetto materiale. La semplificazione ai minimi termini dell’elemento artistico rida

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all’oggetto un’esistenza reale ed autosufficiente (oggetto in sé stesso, secondo Grassmann), ed è proprio l’elemento artistico reso al minimo che diventa l’elemento “astratto” più importante. Così, “un semplice mozzicone di sigaro”, decontestualizzato, esibito al di fuori del suo contesto comune, affiora con un vigore irruente, con una nuova energia “oggettuale”, che non sta più per un’altra cosa, ma rappresenta solo sé stessa. Nella forma artistica attuale si uniscono da una parte l’assoluta concretezza e dall’altra l’assoluta astrazione morfologica. Sussistono così, secondo Bloch, due dialettiche distinte: la prima dialettica è statica e chiusa, reclusa (da Platone a Hegel), di quella che Bloch definisce malia dell’anamnesi; la seconda dialettica, è dinamica e aperta al nuovo, mantenendo costantemente la possibilità che il reale non sia ancora razionale.

Il secondo tipo di dialettica è caratteristico dell’arte surrealista che mette in crisi i sistemi basati su codici inoperosi attraverso una critica dall’interno della rappresentazione stessa. Nella contemplazione estetica emerge l’io ideale dell’osservatore che in questo immediato atto vissuto si abbandona al sentimento di sé stesso trasposto nell’oggetto estetico. L’oggetto dell’immedesimazione esprime a sua volta qualcosa: attraverso il termine “liegen” (trovarsi, esserci), Lipps arriva infatti a sostenere che anche nell’oggetto “si trova” qualcosa di per sé, ovvero “un oggetto sensibile diverso da me «esprime» qualcosa di interiore o di emotivo. In questo senso, per esempio, un gesto può esprimere per me sofferenza”[36].

Il vero e proprio “compimento” della sensazione, della percezione, dell’immaginazione, è dato dalla legge del sentimento di piacere o dispiacere, l’appercezione: “Questo notare, comprendere, osservare, questo intimo cogliere coniugato allo specifico realizzarsi di un processo o di un’esperienza nella vita psichica si chiama appercezione […] Il piacere si manifesta nella misura in cui un processo psichico trova nell’animo condizioni favorevoli per la sua appercezione, o nella misura in cui concorda con le condizioni per l’appercezione dettate dall’animo”[37]. Riprendendo il postulato della teoria prospettica quattrocentesca e albertiana, Breton considera il quadro come una scena racchiusa entro una finestra, ponendo la questione di “savoir sur quoi elle donne”. Avviene a questo modo uno stravolgimento dei dati tradizionali e della prospettiva umanistica, ovvero lo strumento d’una certificazione del mondo che sta fuori di ciò che è visibile, sulla base del presupposto d’una identità e di una centralità scontate dall’uomo che compie tale certificazione e rappresentazione.

Nella proiezione surrealista la centralità umanistica viene disfatta in frammenti, aventi ciascuno un sistema proprio e una convenzione simbolica che ha come proprio referente essenziale una realtà interiore, frammentaria, contraddittoria. A questa direzione plastica convergono altre ricerche con referenti esterni differenti che preleveranno la finestra come ideazione simbolica, mediante tutta una serie di paradossi visivi che sottolineano l’interferenza tra ciò che è rappresentato e l’ambiguità complessa del rapporto tra ciò che

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è interno e ciò che è esterno. Anche se con la visione surrealista l’aria di intendimento del referente nel campo artistico va ampliando, in base ad un insegnamento anteriore, siamo sempre intenti a vedere come un risultato del precetto quello che Peirce definiva col termine “likeness” (assomiglianza), in quello che è di fatto un risultato differente; nel disegno schematico di un oggetto, la linea nera continua su una superficie bidimensionale, è altrettanto l’unica caratteristica che l’oggetto non possiede. La spazialità della linea non è propriamente la spazialità dello spazio, ma separa lo spazio esteriore da quello interiore in realtà quest’ultimo, essendo un volume integrato nell’ambiente che lo circonda (abbiamo visto che l’arte ha accettato questa nuova idea di spazio interiore). La linea del disegno è la semplificazione selettiva di un processo più complessivo, è una convenzione percettiva o concettuale, che ha motivato il segno. “La similarità è prodotta e deve essere imparata”, affermava Gibson (1966) a questo proposito. Dunque una linea continua che realizza il delineamento di un oggetto in un piano bidimensionale è l’istituire di un rapporto di similitudine tramite corrispondenti trasformazioni, punto per punto, tra il modello visuale astratto della mano e l’immagine del disegno, è quindi una convenzione accettata culturalmente. Nella relazione tra soggetto e oggetto, tra arte e mondo, ciò che conta in prima istanza è la struttura della relazione e questa struttura è portatrice di regole proprie, di proprie convenzioni. La natura particolare delle opere si manifesta nel fatto che ognuna di esse tematizza in modo diverso dei processi di percezione. Percezione, quindi, non come mezzo, ma come atto/processo visivo, a sua volta assunto come oggetto in sé. Dato che la percezione tuttavia indirizza ad un oggetto si pone l’interrogazione se si tratta di processi di visualizzazione o di un problema di mimesis. Una risposta a questa domanda non può essere data partendo unicamente dall’oggetto ma implica la messa in evidenza dell’intenzionalità dell’artista. La similarità è una nozione scientifica, manifestatasi nella geometria di due oggetti, uguali in tutto, ma non dal punto di vista dimensionale, dunque basata su parametri spaziali.

Nell’arte figurativa vi sono altre manifestazioni della similarità, che non si basano su parametri spaziali (il grafismo), ma su certi rapporti topologici e di ordine strutturale che sono scelti mediante una decisione culturale in rapporti spaziali. La veicolazione di questa informazione è l’isomorfia, ovvero la similarità. L’isomorfia, come il significato, va intesa dunque nella configurazione spaziale, topologica, ecc. L’isomorfia topologica (come la similarità geometrica) è la trasformazione che noi eseguiamo per far corrispondere ad un punto reale dell’espressione un punto dello spazio virtuale del contenuto.

Questa similitudine dell’immagine punto per punto deve essere intesa nelle arti visive non come il susseguirsi narrativo della linguistica, ma come dei punti centrali, dei nodi composizionali, punti di convergenza della percezione (ampiamente analizzati da Rudolf Arnheim)[38]. Non si tratta di vere forme geometriche centriche, ma di centri di interesse, di nuclei che accumulando la massima forza connotativa determinano la capacità orientativa e decodificativa della percezione a seconda di una certa gerarchia spaziale. Gli altri elementi che compongono lo sfondo del quadro, costituendo il campo percettivo,

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richiamano questi centri, riprendendoli come degli echi ed evidenziandoli. Essi si assomigliano agli elementi articolatori di un testo linguistico aiutando lo strutturarsi delle proposizioni che seguono una normale connessione nel susseguirsi del nome, del verbo e delle marche adatte. Nella linguistica esiste una tale gerarchia che Thom propone seguendo la densità semantica; si ottengono così due categorie basilari: il sostantivo, ovvero l’entità più consistente semantica, ed il verbo, ovvero la seconda categoria in ordine decrescente di densità semantica. Il sostantivo e il verbo formano un nucleo (Soggetto–Verbo–Oggetto). La densità o la complessità semantica è proporzionale al grado di stabilità dell’entità contese.

Collegando tale criterio ad un altro si potrà costituire uno schema bidimensionale, l’asse verticale Oy corrispondendo alla complessità semantica, mentre l’asse orizzontale Ox alla graduazione che va dalla cosa in sé al locatore: sull’asse Ox verranno rappresentati gli aspetti che il linguista Kenneth L. Pike chiama emico ed etico[39]. Si ha la possibilità di definire a questo modo un isomorfismo tra l’extralinguistico ed il linguistico proprio. L’arte è una dilatazione del significato, è un oltrepassare del linguaggio dell’immediatezza convenzionale, iconica, alludendo attraverso l’analogia alle realtà concrete.

Aspirando ad approssimare i valori estrinseci del mondo al loro valore assoluto grazie alla riproduzione artistica (a cioè che Riegl chiama la loro chiusa individualità materiale), si offrivano all’uomo due circostanze. La prima constava nel riguadagnare il distacco da questa chiusa individualità materiale scartando sia la rappresentazione spaziale sia qualunque ingerenza soggettiva, e la seconda, nello svincolare l’oggetto dalla sua relatività rendendolo eterno tramite l’accostamento alle forme astratte. L’alternativa prima consiste quindi nel “rappresentare le cose esterne nella loro chiara individualità materiale, evitando e sopprimendo, di fronte all’apparenza sensibile delle manifestazioni della natura, tutto quanto potrebbe offuscare e sminuire l’impressione immediatamente convincente dell’individualità materiale” (Riegl). La riproduzione globale del modello naturale tridimensionale non poteva saziare l’intento artistico. Una riproduzione di questa sorta sarebbe stata impenetrabile per la percezione. Era esclusa anche la rappresentazione impressionistica, generatrice di apparenze, incapace di soddisfare l’avviamento verso la “cosa in sé”. E poi non è proprio la percezione ottica a fornirci le informazioni meno attendibili sull’individualità materiale e sulla chiusa entità di un oggetto? Si dava così

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preferenza ad una figurazione che non riproducesse l’oggetto né nella sua corporeità tridimensionale dipendente dallo spazio, né nella sua apparenza percepibile ai sensi.

“Nella natura non troviamo soltanto connessioni causali tra questo o quel gruppo di cose, ma vi scopriamo anche legalità generali dell’accadere nello spazio. Queste, però, in quanto leggi generalissime, non hanno forme di cose concretamente date, loro specifiche portatrici, ma sono legate a forme astratte”.[40]. Questo fa sì che tali forme “astratte” appaiano piene di vita. La struttura–concetto dell’arte astratta, paragonabile al concetto di glottocentrismo linguistico, appartiene più alla centralità strutturale rinascimentale, che alla direttrice del nuovo realismo. Nel contesto di una semiotica impregnata di linguistica strutturale era insita la seduzione di avvicinare le manifestazioni comunicative non verbali alle teorie semiotiche logocentriste come quelle della semiotica greimasiana. Circoscrivendo la natura dei langages planaires, Greimas deve affrontare il problema dell’iconismo, il quale riscontra il concetto di somiglianza, perché costretto ad adattarsi al proprio glottocentrismo. L’illusione referenziale è l’esito di un’organizzazione testuale specifica che da l’effetto del reale, sostiene Barthes.

L’immagine iconica intrattiene una relazione simbolica tra aspetto (Erscheinung) e quello che compare in esso (darin erscheint). Vediamo più di quanto vediamo. Non distinguiamo solo lo spazio esteriore della forma, ma anche quello interiore. Nel processo artistico il precetto contiene il concetto. Secondo A. Moles e R. Claude si possono distinguere cinque tappe nel processo creativo: l’informazione e la documentazione, l’incubazione, l’illuminazione, la verificazione e la formulazione. Ma la creazione ha un carattere “dinamico” e continuo, perciò queste tappe sono relative. Per alcuni artisti di genio, un’intuizione rimarchevole può costituire il punto di partenza dell’intero processo creativo. Per altri l’illuminazione avviene in seguito ad un’intensa preparazione, per altri ancora l’inspirazione dipende addirittura da un’osservazione “accidentale”, imprevedibile. Però è chiaro che all’inizio vi è sempre (lo testimoniano le ricerche a partire dal 1950 di Wallace e sino ad oggi) uno stadio in cui l’allestimento dell’opera comprende: la percezione o l’osservazione e la documentazione, il “raccogliere” dei dati (direi piuttosto lo “scegliere”, perché l’artista attua una scelta) e l’analisi di un materiale fattico per poi formulare un’ipotesi e concepire delle idee-prototipo.

Alcuni specialisti del campo stabiliscono tre tappe della creazione, tra cui l’ideazione, la progettazione, e la fase dell’obbiettivazione; quest’ultimo termine ci riporta al punto di partenza? Ma si tratta veramente lo stesso punto di partenza? La domanda è retorica, la risposta è, ovviamente, no! L’immagine iconica-plastica, ovvero la forma mentale si materializza in base al gioco libero dell’immaginazione e dell’intuizione euristica, perché soltanto ora, guardando quest’ultima immagine, possiamo dire che il semplice primo atto di guardare la realtà diventa “vederla”, cioè intenderla nella sua struttura intima. Abbiamo osservato prima che allontanandoci dalla realtà prossima riusciamo ad approssimarla veramente. Delle due realtà non vi è rimane che il senso: ovvero le assi fondamentali costituenti lo scheletro interno della configurazione spaziale, che possiamo

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rilevare attraverso una decodifica basata sul criterio dello schema vettoriale. Non la materia è pertanto il rimanente, ma l’intuizione di essa nella spazialità configurativa.

L’inventica, come psicologia della creatività, ha elaborato idee nuove su basi interdisciplinari di interpretazione (matematiche, fisiche, biologiche), se pensiamo soltanto alle teorie a cui abbiamo in precedenza accennato, ovvero quelle di Grassman e di Thom; in prima fase si trattava di una frammentazione dell’oggetto e del suo utilizzo in nuove forme; in seconda fase si ottenevano aspetti o idee originali tramite combinazioni, permutazioni e arrangiamenti spaziali.

Lo spazio può essere inteso, dunque, anche metonimicamente, come frammento, che preserva le caratteristiche dell’intero e le dilata, sia a livello configurativo che a livello analitico; a questo proposito dice Stephen Palmer “Le parti comportano lo stesso statuto dell’intero”. Il frammento, che all’inizio era parte dipendente dell’insieme, acquista autonomia dal punto di vista spazialistico-configurativo. Nella rappresentazione plastica, secondo Lipps, si presenta sempre un “frammento”, che pur essendo una negazione dello spazio infinito reale, è allo stesso tempo l’affermazione plenaria dello spazio dell’arte. Klee si accorge dell’impossibilità di una rappresentazione “globale” della realtà nell’arte e constata che: “Per ridare l’uomo “cosi com’è”, per renderne la figura, mi sarebbe occorso un tale intricato guazzabuglio di linee, che non si sarebbe più potuto parlare di pura rappresentazione elementare e avremmo avuto un’irriconoscibile confusione. A parte questo, non è mia intenzione di ridare l’uomo così com’è, ma solo come potrebbe essere. E così posso riuscire a combinare la mia visione del mondo (Weltanschaug) col puro esercizio dell’arte. Come si dice, quell’ esempio di «infantilismo», io mi occupo di certe «operazioni parziali»: e cosi, tra l’altro, disegno”[41].

Nel suo susseguirsi di domande e pensieri a circolarità ermeneutica, Heidegger afferma (sarà giusta la parola per Heidegger che quasi mai afferma, ma piuttosto si interroga) che la crescita dell’oggetto tramite la sua rappresentazione iconica e plastica è dovuta proprio a criteri di mutamento spaziale, contestuale. Perché nel mondo reale la condizione della “res” si manifesta proprio perché il contesto familiare lo rende invisibile. La condizione di reità determina le sue connotazioni funzionali e lo sottrae alla visualità. Tramutato nell’ambiente dell’arte, esso afferma questa visualità che è specifica all’oggetto artistico. Mentre il numero delle forme conformi allo scopo è limitato, la ricchezza delle forme artistiche è infinito.

La referenzialità, ovvero il sentimento della realtà, che abbiamo esaminato nelle sue diverse articolazioni dei codici visivi sta più che nell’oggetto in sé, nel suo situarsi (spazio esterno), nel suo delimitarsi (separazione spazio esterno-spazio interno) o nel suo configurarsi/strutturarsi secondo lo schema vettoriale del segno iconico (spazio interno), essendo di fatto un rapporto tra l’interno e l’esterno, tra Natura e Cultura, tra l’essere e l’apparire di un’entità visibile concreta ed il suo analogo astratto.

 

 

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[1] Patrizia Magli, Semiotica – Teoria, metodo, analisi, Marsilio Editori, Venezia 2004, p. 47.

[2] Paul Klee, Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli, Milano 1959 (conferenza occasionata da una mostra di pittura a Kunstverein, Jena, 26 gennaio 1924), pp. 81-82.

[3] Ibidem, p. 83.

[4] Ibidem, p. 95.

[5] Mihai Mãnescu, Percepþia, labirint spre forma plasticã, Corsi di Master presso l’Università degli Studi di Belle Arti di Bucarest, Anno accademico 2002/2003, p. 36.

[6] Groupe μ (Francis Edeline, Jean Marie Klinkeberg, Philipe Minguet): Traité du signe. Pour une rhétorique de l’image, Editions du Seuil, Parigi 1992.

[7] M. Mãnescu, op. cit., p. 37.

[8] Charles S. Peirce, Collected Papers, 1897, in Idem, Semiotica, Einaudi, Torino 1980, pp.132-133.

[9] Ferdinand de Saussure, Cours de linguistique générale, Edition Payot, Parigi 1922, p. 88 (traduzione italiana: Idem, Corso di linguistica generale, Laterza, Roma–Bari 1986).

[10] F. de Saussure, op. cit., p. 155.

[11] P. Magli, op. cit., p. 51.

[12] Louis Hjelmslev, Prolegomena to a Theory of Language, Wisconsin University Press, Madison 1943, p. 37 (traduzione italiana: Idem, I fondamenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino 1968).

[13] Pietro Bellasi, Lontano, Remoto, Frammento, in Mimmo Paladino En Do Re, Tema Celeste Edizioni, s. l. 1990, pp. 84-86.

[14] P. Klee, op. cit, pp. 81-82.

[15] Si veda Rudolf Arnheim, Art And Visual Perception: A Psychology of the Creative Eye, The University of California Press, Berkeley–Los Angeles 1967 (traduzione italiana: Idem, Arte e percezione visiva: una psicologia dell’occhio creativo, Edizioni dell’Università degli Studi della California, Berkeley 1974).

[16] Si veda Rudolf Arnheim, The power of the center – a study of composition in the visual arts, The University of California Press, Berkeley 1982.

[17] Si veda Max Planck, La conoscenza del mondo fisico, Einaudi, Torino 1954.

[18]C’est assez naturel car, toujours dans l’univers des archétypes, si l’on va vers quelque objet, c’est pour le détruire ou le capturer. Si l’on est dans un objet, c’est pour s’en servir comme d’une cuirasse ou d’un abri” (René Thom, Stabilité structurelle et morphogenèse, Inter Editions, Parigi 1972, p. 336).

[19] Ibidem, pp. 332-333.

[20] Wassily Kandinsky, Punto linea superficie. Contributo all’analisi degli elementi pittorici, Adelphi, Milano 1968, p. 57.

[21] In Ästhetik Lipps dedica ampi capitoli al problema dello spazio nell’arte e alla sua raffigurazione e percezione. Ästhetik, Psychologie des Schönen und der Kunst, uscita in due volumi, di cui il primo, Grundlegung der Ästhetik, nel 1903, e il secondo, Die ästhetische Betrachtung und die bildende Kunst, nel 1906.

[22] W. Kandinsky, op. cit, pp. 57-58.

[23] “Ainsi, le verbe est nécessaire à la stabilité du substantif: les mécanismes géométriques qui assurent la stabilité du verbe sont donc implicitement contenus dans ceux qui assurent stabilité du substantif. Par suite, la densité sémantique du verbe est – en principe – inférieure à celle du substantif. Le verbe, en principe, décrit un «procès», une activité éminemment transiente d’un sujet, dont l’image mentale exige, pour être stabilisée un effort permanent de l’esprit” (R. Thom, Modèles mathématiques de la morphogenèse, Parigi 1974, pp. 247-248).

[24] Si veda Hans Reichenbach, The Direction of Time, University of California Press, Berkeley 1956.

[25] William Hazlitt, Lectures on English Poets, apud M. H. Abrahams, English Romanticism: The Spirit of the Age, in Romanticism and Consciousness, a cura di Harold Bloom, W.W. Nation, New York 1970, p. 90).

[26] Wilhelm Worringer, Astrazione e empatia, Torino 1975, pp. 46-65.

[27] Umbert Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975, pp. 73-75.

[28] Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Per un’estetica propositiva, in “Agorà”, IV, 2000, p. 486.

[29] “Je crois qu’il serait bon de poser en principe que tout signifiant est engendré par son signifié: les ikones [sic!] […] proviennent par une copie directe du modèle originel. Les indices ‘postérieurs’ sont issus du signifié par causalité directe, comme la fumée est produite par le feu. Et s’il y a des indices “antérieurs’’, comme le couvert pour le repas, c’est que l’indice a été produit dans un processus finalistique dont le but ultime était le signifié” (R. Thom, L’espace et les signes, in “Semiotica”, 29, nos. 3/4, 1980, p. 196).

[30] “Un ikone est un signe dont le vecteur est purement spatial, instantané, qui ne pointe ni vers le passé, ni vers l’avenir; un indice est un signe dont le vecteur pointe vers le passé (par réversion de la causalité génératrice); un symbole est un signe dont le vecteur pointe vers le futur (par réversion de la finalité génératrice). Peirce disait que l’essence du symbole est l’être au futur (esse in futuro)” (Ibidem, pp. 193-194).

[31] Prima metà del XIX secolo, Hermann Günter Grassman nella Teoria dell’estensione delle forme, Ausdehnunglehre 1844.

[32] F. de Saussure, op. cit., p.144.

[33] Su questo argomento ci sia concesso di rinviare a M. Mãnescu, Semn, semnificare, semn plastic, Corso universitario di Master presso l’Università degli Studi di Belle Arti di Bucarest, Anno accademico 2002/2003.

[34]Si veda Silvia Vizzardelli, L’esitazione del senso. La musica nel pensiero di Hegel, Bulzoni, Roma 2000.

[35] Klein sottolinea il contributo di Grassmann a questo proposito, cfr. Programma di Erlangen, p. 45 e p. 52

[36] T. Lipps, Ästhetik. Psychologie des Schönen und der Kunst, parte I: Grundlegung der Ästhetik (traduzione italiana: Idem, Estetica. Psicologia del bello e dell’arte, 1a parte: Fondamenti di estetica, Amburgo–Lipsia 1903, p. 1).

[37] Ibidem, 2a parte, p. 11.

[38] R. Arnheim, The power of the center cit., passim.

[39] L’emico è l’aspetto della cosa in sé, mentre l’etico è l’aspetto della cosa così come la intende il parlante. L’idea che sta alla base dell’ asse Ox è: un concetto […] è una specie di organismo che ha la sua propria regolazione. Il significato di un concetto, dunque è qualcosa di autonomo, di temporalmente invariabile e di non localizzato. Partendo da O si susseguono: il nome (sostantivo), il verbo, poi gli aggettivi con i colori, i possessivi, i numerali, i deittici. Anche sull’asse Oy si ha una differenziazione ulteriore: scendendo verso O, vi sono i nomi propri, il concetto “uomo’’, gli altri animati, i concetti astratti, e poi gli inanimati. La complessità semantica degli aggettivi scende da una coordinata che equivale a quella del concetto “uomo’’ fino al valore zero (per esempio, i possessivi). La complessità di numerali sale proporzionalmente con il loro significato numerico (così, numero zero ha una densità semantica nulla) (R. Thom, Parabole e catastrofi, Il Saggiatore, Milano 1980, p. 13).

[40] T. Lipps, op. cit., p. 225.

[41] P. Klee, op. cit., p. 96.