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to Homepage Annuario 2003
p. 340
La città mitteleuropea.
Timiºoara e Trieste – un possibile
paragone
Afrodita Carmen Cionchin,
Università di Timiºoara,
Istituto
Romeno di Cultura e
Ricerca
Umanistica, Venezia
La presente
trattazione nacque da alcuni pensieri cristallizzati nel tempo, in stretto collegamento
tra loro. Il primo, a partire dalla terra nativa, tentava di avvicinare due
città dalla stessa iniziale, entrambe appartenenti allo spazio
mitteleuropeo: Timiºoara e Trieste. Più il pensiero andava avanti,
più le somiglianze si accumulavano latentemente, dietro le differenze,
sotto il segno di multi- e inter-: multietnico, multilingue,
multiculturale, multiconfessionale e poi, come incontro e, a volte, come
contrasto o perfino come scontro – interetnico, interlinguistico,
interculturale, interconfessionale. Tanti risvolti per esprimere la
parola-chiave – convivenza, per intendere, con le dovute precauzioni, un
possibile modello di civismo nelle società plurali, ossia un’autentica
terapia delle patologie dell’identità di gruppo. Ciò premesso,
c’era da farsi una domanda: quale sarebbe stata la ragione di tale
impostazione? La risposta riguarda la Storia con le sue due coordinate: il
tempo e lo spazio. Intendiamo qui sia la storia propriamente detta («storia
dell’umanità e come tale soggetta alle leggi dello spirito»[1],
entro le quali si svolgono i vari aspetti economici, morali, culturali), sia la
storia naturale (cioè i fattori geografici). In questa accezione, la
geografia, altrettanto importante per i topoi in questione, risulta una
forma della storia, più precisamente la forma concreta che lo spazio
assume nel momento in cui si colloca nella storia[2].
Nel caso di Timiºoara, città dell’ovest della
Romania, la più influente nella regione del Banato e capoluogo del
distretto di Timiº, la storia è costituita dalla successione di vicende
socio-politiche e dalla sovrapposizione di strati culturali e dei loro
significati. Una storia complessa e tormentata che si perde nel paleolitico,
per ritrovarsi come provincia romana della Dacia ripensis[3],
nel castro di Zurobara[4]
(Zambara[5]). A
testimoniare quest’antica origine sono i nomi geto-dacici dei principali fiumi
che circondano o percorrono il territorio del Banato: Danubio (Donaris),
Mureº (Maris), Timiº (Tibisis). Poi il feudalesimo porta, nella
prima metà del secolo X, al voivodato del Banato, con fortezze e una
numerosa popolazione autoctona romena che cercava di opporsi all’incursione dei
magiari, insediati nella pianura pannonica. Ma, nel secolo XI, il Banato fu
conquistato dallo stato feudale magiaro e poi organizzato in comitati.
Così, nel secolo XII, ne sono menzionati documentariamente tre: Timiº
(1177), Cenad (1197) e Caraº
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(1200).
Il comitato di Timiº aveva come centro militare e amministrativo la fortezza di
Timiºoara. Il nome di Timiºoara, come quello del comitato, conserva l’antica
denominazione del fiume Timiº, trasmessa dagli autoctoni che, nonostante le
varie dominazioni presenti nel territorio, hanno imposto negli atti di
cancelleria dei conquistatori l’appellativo “Tymes” oppure «comitatu Tymisiensi»,
mantenuto tale quale in tutti i documenti redatti in latino nella seconda
metà del secolo XIII (il primo risale al 1266, ai tempi di Stefano, re
d’Ungheria e duca di Transilvania) e nei primi decenni del XIV. La collocazione
su un terreno vallivo, solcato da più bracci irregolari dei fiumi Bega[6]
e Timiº, era dovuta ad una posizione strategica naturale poco favorevole.
Cosicché le cartine registravano la fortezza di Timiºoara come una piccola
superficie rettangolare, fiancheggiata su tre lati da bracci d’acqua, e sul
quarto da un canale artificiale; era, dunque, isolata, anche dal piccolo sito
rurale che si trovava nelle immediate vicinanze. Di conseguenza, la fortezza
svolse piuttosto un ruolo militare e amministrativo, in quanto abitata da soldati
e funzionari, mentre la zona rurale accanto, popolata da contadini, era
prevalentemente agraria.
A partire dal secolo XIV, la popolazione aumenta, nuovi
elementi vi si stabiliscono come artigiani e negozianti, conferendo alla
città un carattere sempre più commerciale, oltre a quello
militare e amministrativo dovuto allo statuto di capoluogo di comitato.
L’attivazione del mercato cittadino è confermata anche dal numero alto
di monete straniere, scoperte in questa zona: accanto alle monete magiare dell’epoca
di Andrea II o di Béla III, tutta una serie di monete di Colonia, Bavaria,
Boemia, Strasburgo, Trier, Metz, Aquileia ecc. Ciò dimostra che,
già all’epoca, esistevano forti legami commerciali tra Timiºoara e
l’Europa Centrale. Tra il 1315 e il 1323, la città, conosciuta anche
sotto il nome ungherese di Temesvar, diventa la residenza regale di Carlo
Roberto d’Angiò, che temeva la corte di Buda. Prima però, nel
periodo 1307-1315, il re vi fece costruire il “Castello”, all’infuori della fortezza,
in un quartiere che si chiamerà Palanca Mica. Vale a dire che, in
qualità di centro politico di resistenza contro l’anarchia nobiliare,
Timiºoara arriva facilmente ad ospitare la corte regale, come accadde anche
sotto Sigismondo di Lussemburgo.
Si deve sottolineare lo stesso che la storia incise sullo
sviluppo urbano di aree con una specificità ben definita, riflettente la
struttura delle comunità etniche, identificate in principio come
comunità confessionali. Nel 1342, Timiºoara ottenne la qualità di
«civitas», quale riconoscimento della sua strutturazione oramai più
complessa, nello spazio abitato da una popolazione cattolica, per lo più
ungherese. Il vecchio sito rurale diventò la «città» propriamente
detta, con una notevole densità di abitanti. Le cartine del tempo provarono
poi la comparsa di un nuovo quartiere, Palanca Mare, collocato eccentricamente
rispetto alla «città». I due quartieri col nome di Palanca erano abitati
da una popolazione romena
Una volta che Giovanni Hunyadi (Iancu de Hunedoara),
governatore del comitato di Timiº e voivoda di Transilvania (dal 1441), poi
reggente d’Ungheria (1446-1453), vi stabilì la sua residenza, l’urbe
divenne un punto strategico importante sul piano militare nella lotta
antiottomana. Egli combatté valorosamente contro i turchi; la più
clamorosa nell’ambito europeo fu la vittoria di Belgrado nel 1456, quando aveva
respinto l’attacco di Maometto II. Sempre in
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questo
periodo, al posto del vecchio Castello, distrutto da un terremoto, fu costruito
un nuovo Castello, più grande, secondo la tecnica del tempo e con
l’aiuto di architetti italiani. Sul piano demografico, il regno del Hunyadi,
seguito da quello di Pavel Chinezul, nominato governatore del comitato di Timiº
e del Banato di Severino nel 1478, vide, fino alla fine del secolo XV,
l’aumento della popolazione ortodossa (romena e serba), che si era rifugiata in
questa zona per fuggire all’invasione ottomana ed era stata poi colonizzata nei
quartieri Palanca Mare e Palanca Micã.
Il secolo XVI portò instabilità politica e
sociale in tutta la regione, un vero e proprio periodo di anarchia che
culminò nell’assedio della fortezza di Timiºoara da parte dell’esercito
rivoluzionario di Gheorghe Doja, durante quel movimento conosciuto nella storia
come la guerra dei contadini romeni del 1514 contro la tirannia della
nobiltà. Poi, la caduta di Belgrado in mano ottomana (1521) e la
sconfitta di Mohacs (29 agosto 1526) condussero al crollo del Regno d’Ungheria
e all’instaurazione della dominazione turca. Di conseguenza, il Banato e la Transilvania
formarono un principato autonomo sotto la sovranità turca. Timiºoara fu
ripetutamente assediata e, nel 1552, conquistata. La dominazione turca
durò 164 anni, fino al 1716, e portò notevoli cambiamenti
all’assetto della popolazione: la comunità mussulmana, sempre più
numerosa, venne privilegiata. I sudditi furono organizzati in comunità
confessionali, tra cui si distinsero quella cattolica di lingua ungherese e
quella ortodossa (romena e serba).
Al periodo ottomano risale la cosiddetta “città
dei Rascieni”, nel quartiere Palanca Mare. Di fatti la popolazione ortodossa
del Banato era chiamata col termine di “rascian”. Proveniente dal tedesco, la
voce indicava l’origine serba, ma poiché l’ordinamento della chiesa ortodossa
nella regione era sotto l’autorità serba, essa finisce per significare
“ortodosso”, compresa la popolazione romena. Nella stessa epoca ebbe inizio
un’altra comunità – quella ebrea, formata da due gruppi: ebrei spagnoli
ed ebrei tedeschi. Nel 1716, la conquista del Banato dalle truppe imperiali
austriache capeggiate da Eugenio di Savoia, dopo una serie di battaglie
soprattutto nelle regioni di confine, aprì una nuova epoca nella storia
della città, sotto il segno della prosperità. La provincia, sotto
il nome di “Banato Timiºan”, fu dichiarata dominio della corona e affidata ad
un’amministrazione militare (Landes Administration des Temeser Banats),
subordinata al Consiglio di guerra della Camera aulica. Il governatore, che era
anche comandante militare, aveva la sua residenza a Timiºoara. Il Banato
è rimasto sotto l’amministrazione militare fino al 29 settembre 1751,
quando essa fu sostituita dall’amministrazione camerale (civile-provinciale),
rappresentata da Administraþia cezaro-regeascã a Þãrii Banatului (Regia
Amministrazione del Paese di Banato), diretta da un presidente aiutato da sei
consiglieri. Questa è durata fino al 1778, quando il Banato fu
incorporato all’amministrazione dell’Ungheria.
È importante notare, come punto di incontro tra il
destino di Timiºoara e quello di Trieste, che dall’iniziativa del primo
presidente dell’autorità soprammenzionata, il conte Villana Perlas
Francesco, marchese di Rialpo, nacque la Compagnia di Commercio
Timiºoara–Trieste, che svolse la sua attività tra il 1759 e il 1775, con
lo scopo di commercializzare i prodotti del Banato: bovini, sego, miele, cera,
tabacco, grano e cereali in generale. Il 21 dicembre 1781, Timiºoara ottenne da
parte dell’imperatore Giuseppe II il diploma di municipio (città regale
libera), che fu poi rinnovato da Leopoldo II e, nel 1790, inserito nelle leggi
del paese. A sua volta, Francesco I confermerà, con l’atto n. 1687 del
1824, il diploma conferito da Giuseppe II.
Uno dei testimoni più autorevoli di quei tempi
è Francesco Griselini, nato a Venezia il 12 agosto 1717, riputato scienziato
che trascorse due anni e mezzo (settembre 1774-febbraio 1777) nel Banato, dove
accompagnava il barone Giuseppe de Brigido, nominato, nel maggio del
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1774,
presidente dell’Amministrazione del Banato. Il 24 agosto Griselini si
recò in questa regione, passando per Monfalcone, Trieste – qui lo
raggiunse il barone de Brigido – Lubiana, Varazdin, Kanjiza, Pécs, Osijek,
Petrovaradin, Novi Sad, Becej e Kikinda. La notte tra il 21 e il 22 settembre,
i due viaggiatori entrarono nella fortezza di Timiºoara. Apprezzato dal barone,
Griselini godette nel Banato di tutte le facilità per svolgere le sue
ricerche, subito concretizzate in vari studi, consacrati specialmente
all’antichità romana e ad alcuni aspetti di storia naturale, pubblicati
tra il 1776 e il 1779 nel “Giornale d’Italia” e nel “Nuovo Giornale d’Italia”.
Ma la più importante opera redatta durante il suo soggiorno a Timiºoara
fu una monografia del Banato, che fece stampare, in un primo volume, presso la
tipografia del milanese Gaetano Motta, nel 1780: Francesco Griselini, Lettere
odeporiche ove i suoi viaggi e le di lui osservazioni spettanti all’istoria
naturale, ai costumi di vari popoli e sopra più altri interessanti
oggetti si descrivono, giuntevi parecchie memorie dello stesso autore, che
riguardano le scienze e le arti utili, tomo I, Milano, 1780. Con i 400
fiorini ricevuti dall’imperatrice Maria Teresa, alla quale dedicò questo
primo volume, e con la promessa di un nuovo appoggio finanziario, Griselini
volle far pubblicare un secondo volume, che avrebbe dovuto comprendere anche
numerosi disegni, ma che, per motivi sconosciuti, non uscì più.
Però, quasi contemporaneamente alla pubblicazione del testo italiano
nella forma che abbiamo visto, fu stampata la traduzione tedesca, nella
variante integrale del manoscritto[7].
Essa costituì poi la base della traduzione romena e serba.
Come testimoniato anche dall’opera di Griselini, la
rinascita della città avvenuta in 60 anni, tra il 1716 e il 1776,
è dovuta all’«immortale» Carlo VI e alla sua “gloriosa” figlia, Maria
Teresa. Il progetto imperiale fu affidato al primo governatore del Banato
(1716-1733), il feldmaresciallo Claudius Florimund Mercy, il quale era dotato
di tutte le qualità necessarie per tale impresa. Per ciò che
riguarda Timiºoara, egli si impegnò a farla diventare una delle
più belle ed eleganti città della monarchia; per il Banato,
provvide all’aumento del numero dei villaggi e dei loro abitanti, favorendo
l’arrivo di coloni tedeschi, italiani e spagnoli. Così erano nuovi villaggi
Sînpetru, Zãdãrlac, Beºenova Nouã, Peciul Nou, Deta, Kudric, Piºchia e
Guttenbrunn (oggi Zãbrani), occupati da suebi e altri abitanti dell’Impero.
Mercydorf (Merþiºoara, oggi Carani) prese il nome dal suo fondatore e fu
popolato da italiani. A Aradul Nou, sul fiume Mureº, ed a Giarmata furono
portati molti tedeschi, ma separati dai romeni. A Becicherecul Mare, Mercy fece
venire spagnoli di Biscaya, che chiamarono la località Barcelona Nouã.
Però questo nome si perse, come gli stranieri che, a differenza dei
serbi del posto, non poterono sopportare l’aria contaminata delle paludi
accanto e morirono quasi tutti.
Un’altra figura ragguardevole di questo periodo è
proprio il soprammentovato barone Giuseppe de Brigido, presidente
dell’Amministrazione del Banato per due anni e sei mesi (tra la metà del
1774 e l’inizio del 1777), al quale succedette suo fratello, Pompeo de Brigido.
Il nuovo regime portò un notevolissimo cambiamento all’assetto della
popolazione, cambiamento determinato per primo dalla ritirata dei cittadini
mussulmani. Benché il dominio ottomano a Timiºoara fosse durato
centocinquant’anni, non è rimasta di questo periodo che un’iscrizione in
turco. Fino al 1730, la maggior parte della popolazione dei suburbi – Palanca
Mare e Palanca Mica – era “rasciana” (romena e serba). Nel museo di Timiºoara
si conserva il sigillo della comunità ortodossa: “Sigillum Gentis
Rascianorum Greci Ritus, Sigillum Cittis Temesvariensis
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G. R. Rascianorum, Sigillum Suburbii Temesvariensis
Rascianorum Greci ritus”[8].
Con il consolidamento del potere e la nuova organizzazione amministrativa del
territorio annesso all’Impero austriaco, sotto forma di provincia imperiale (Kronland),
cominciarono le colonizzazioni di popolazioni tedesche di confessione
cattolica, fatto che provocò trasformazioni urbanistiche importanti. La
città del periodo ottomano fu interamente smantellata, come pure le sue
impronte, cancellate dalla memoria collettiva. Il principe Eugenio di Savoia
decise di espellere “i Rascieni, gli Ebrei e gli altri infedeli”. Mentre i
“Rascieni” vennero però effettivamente espulsi all’infuori della
fortezza, gli ebrei furono tollerati e rimasero nel cosiddetto «quadrilatero»,
conosciuto all’inizio come «Judenhof». Entrambe le collettività ebree si
trovavano in questo perimetro, la spagnola da un lato della porta, la tedesca
dall’altro. Dopo il 1776, ebbero un solo caporabbino, divenuto anche giudice,
che esercitava l’autorità su tutti gli ebrei della regione del Banato.
Questa doppia comunità, la quale contava circa 370 persone nella seconda
metà del secolo XVIII, ottenne nel 1760 il diritto di costruire nella
città la sua prima sinagoga, sia per il rito sefardita, sia per
l’askenazita. Piano piano gli ebrei arrivarono ad essere segnalati anche nei
due principali suburbi, Iosefin e Fabric, dove abitavano in un piccolo
quadrilatero riconoscibile dalla presenza di un tempio israelita.
Oramai nel 1744, la struttura dei quartieri rispecchiava
la collocazione delle più importanti comunità confessionali. La
fortezza, il suburbio tedesco (ted. Meierhof, rom. Maierele germane,
poi, dal 1773, Iosefin, dopo il nome dell’imperatore Giuseppe II) e la
zona sud del suburbio Fabric (con questo nome a partire dal 1744) comprendevano
la maggior parte della popolazione cattolica (tedesca ed ungherese) e si trovavano
sotto l’autorità di un magistrato tedesco. Gran parte del suburbio
Fabric, invece, presente nelle cartine quale “suburbio illirico”, accanto al
“rasciano”/”Raatzen Dorf” (il quartiere romeno che più tardi sarà
chiamato Mehala), era sotto l’autorità di un magistrato rasciano.
Significativi per tale disposizione delle comunità confessionali,
identificate con singole comunità etniche, sono i luoghi di culto. Nella
prima metà del secolo XVIII, nella città esistevano quattro chiese
romano-cattoliche: la Chiesa di Santa Ecaterina, una delle più antiche,
risalente al secolo XV, trasformata ulteriormente dai turchi in moschea e
demolita nell’«epoca austriaca», durante i lavori di costruzione delle nuove
fortificazioni. Sempre al periodo anteriore alla conquista turca risale la
Chiesa di San Giorgio (Sfântul Gheorghe), divenuta, nel 1552, la
principale moschea della città e collocata nella piazzetta che ne
prenderà il nome. Una volta allontanati i turchi, dopo l’instaurazione
della monarchia absburgica, la chiesa fu rinnovata e cominciò ad
appartenere ai frati gesuiti i quali, però, costruirono qui una chiesa
nuova, a cui aggiunsero, nel 1726, anche un seminario di teologia, che
funzionò fino al 1778.
C’era poi la Chiesa di San Nepomuceno (Sfântul Nepomuk),
accanto ad un monastero francescano, eretti entrambi tra il 1733 e il 1736.
All’interno del monastero ha funzionato anche la prima scuola elementare di
Timiºoara. Dopo l’abolizione dell’ordine francescano in seguito alla
disposizione del 31 luglio 1788 data dall’imperatore Giuseppe II, l’ordine dei
frati piaristi[9],
trasferitosi da Sântana a Timiºoara, viene ad appropriarsi il monastero e la
chiesa ed inizia qui un
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ginnasio
greco non unito (“das Griechisch nichtunirte Seminarium”), mettendo
così le basi di un insegnamento confessionale di lunga tradizione a
Timiºoara: nel 1841 la scuola ottenne il rango di liceo (ginnasio superiore),
che funzionerà ininterrottamente fino all’instaurazione del regime
comunista. Il più rilevante edificio romano-cattolico della
città, destinato a riflettere l’importanza di tale culto, appartenente
all’etnia dominante, è, però, il Duomo, costruito tra il 1736 e
il 1754 e collocato nella Piazza dell’Unità, proprio in mezzo alla
fortezza. L’edificio, realizzato in stile barocco tardo provinciale è
sintomatico per questo genere architettonico e l’intera composizione plastica
della piazza è modellata secondo questo monumento referenziale per la
storia locale. Le chiese ortodosse, invece, servivano le comunità romena
e serba, organizzate in un episcopio comune, capeggiato da un vescovo serbo. Di
conseguenza, le messe vi erano celebrate alternativamente in serbo e romeno,
fino al 1864 quando, dopo forti pressioni, la comunità romena
riuscì a separarsi da quella serba, creandosi il proprio episcopio.
Anche se all’inizio gli ortodossi furono poco graditi all’interno della
città, la continuità della loro esistenza in questo spazio
è attestata da una chiesa considerevole, risalente alla metà del
secolo XVIII e conosciuta come cattedrale ortodossa. Accanto ad essa venne
eretta la sede dell’episcopio serbo. Col passare del tempo però, la
basilica diventò proprietà della comunità serba.
Due dei più antichi luoghi di culto ortodossi
ebbero lo stesso destino, anche se costruiti con contributi comuni. La chiesa
di San Giorgio, fondata nel 1746 e collocata nella piazza centrale del
quartiere Fabric, dimostra chiaramente che la maggior parte della popolazione
ivi residente era “rasciana”. Questa comunità romena vi fece innalzare
un nuovo edificio religioso, ultimato nel 1826 e dedicato a San Ilie. La
seconda chiesa ortodossa rimasta del patrimonio serbo era quella di San
Niccolò, eretta alla fine del XVIII secolo, nel suburbio Mehala; qui ne
sorgerà un’altra solo nel primo dopoguerra. A testimoniare però
l’esistenza di tale comunità di antica tradizione si aggiunse un’altra
basilica romena, sempre alla fine del secolo XVIII, ma in un quartiere diverso,
abbastanza popolato già nel 1718 – Maierele vechi (oppure Maierele
române e, dal 1896, Elisabetin, attualmente Bãlcescu).
Sopraggiunse poi la rivoluzione liberale ungherese del
1848, capeggiata da Lajos Kossuth. L’esercito del generale Bem Jozsef
assediò la città nel 1849, per 107 giorni, senza però
riuscire a conquistarla. All’assedio partecipò, in qualità di
maggiore, anche il grande poeta ungherese Petöfi Sandor, il quale animò
i moti del ‘48 con il Canto nazionale e morì combattendo contro i
russi. La sconfitta dei rivoluzionari ungheresi dalle truppe imperiali
austriache fu interpretata come una vittoria dello Stato contro il disordine
politico e sociale. Il 4 marzo 1849, Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria
(1848-1916) e re d’Ungheria (1867-1916), promulgò una nuova
Costituzione, dividendo l’impero austriaco in 16 “paesi della Corona”. Per
impedire l’unità dei romeni all’interno dell’impero, fu creata
un’unità amministrativa: “la Vojvodina serba e il Banato Timiºan”.
Nonostante il nome, il nuovo paese era amministrato da un generale austriaco e
aveva come lingua ufficiale il tedesco. L’intero territorio della Vojvodina
sarà diviso all’inizio in tre distretti amministrativi, secondo le tre
popolazioni, e poi in cinque distretti. Timiºoara era il capoluogo della nuova
unità amministrativa, fatto che porterà a un rapido sviluppo
della città. C’è da notare che la Vojvodina rimarrà
unità austriaca fino al 1860. Nello stesso anno, il 27 dicembre 1860,
Francesco Giuseppe decreta l’annessione del Banato all’Ungheria.
Per finire la rievocazione, aggiungiamo che, dopo la
dissoluzione dell’Impero absburgico nel 1918, Timiºoara venne, finalmente,
assegnata alla Romania il 28 luglio 1919. È
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così
che, a partire dal 1919, si parla del “periodo romeno”, il cui principale
monumento è la «Lupa capitolina», ricevuta in dono dalla città
eterna e inaugurata nel 1926 dalle autorità romene; montata su una
colonna alta cinque metri e raffigurante la lupa leggendaria che allattò
Romolo e Remo, i fondatori dell’antica Roma, essa è considerata un
simbolo della latinità. La sua collocazione nel cuore della città
dimostra chiaramente la necessità di esibire in maniera esemplare
quell’identità che avrebbe dovuto creare la sua vera e propria immagine.
Sarebbe ora utile fare una digressione riguardante la
storia da un punto di vista diverso. “Tutto quello che oggi chiamiamo memoria
non è affatto memoria, ma – già – storia”[10],
scriveva Pierre Nora, distinguendo tra la memoria immediata, conservata
nei gesti e costumi, e la memoria indiretta, trasformata col passare
degli anni in storia. In questo modo, la memoria di un posto viene costituita
dall’accumularsi nel tempo e dal sovrapporsi nello spazio delle vicende
diventate significative e rappresentative per una data comunità; e la
sua espressione più eloquente non è altro che il monumento
pubblico che appare, di conseguenza, come “luogo della memoria” (“lieu de
mémoire”), contemporaneamente materiale e simbolico. Ogni epoca ha i suoi
simboli e, per qualsiasi etnia o nazione, esiste una forma della memoria
collettiva raffigurata dai monumenti pubblici che portano i fatti storici nella
coscienza presente. In tale contesto, si potrebbe affermare che le principali
tappe nella storia cittadina furono segnate dalla costruzione di tre chiese,
legate ognuna alla comunità locale specifica. Così, la cattedrale
cattolica della Piazza dell’Unità è l’emblema della
comunità cattolica tedesca, la quale ha vissuto il momento di massima
fioritura nella seconda metà del secolo XVIII. La chiesa cattolica del
quartiere Fabric, invece, chiamata anche “Millenium” e fondata nel 1896, per
celebrare l’anniversario di mille anni dalla fondazione del Regno ungherese,
è il monumento rappresentativo dell’amministrazione ungherese
(1867-1918). Infine, al “periodo romeno” risale la Cattedrale ortodossa, eretta
nel 1940 nella piazza centrale. Con la sua presenza insolita (alta 83,7 m) e lo
stile eclettico con elementi bucovineni (cioè della regione storica
della Bucovina), essa esprime il forte desiderio di affermazione della
comunità romena.
Nel caso di Trieste, la storia ha avuto un percorso ancor
più sinuoso e, per chi la conosce, non sarebbe difficile capire,
rispetto a quanto sopra, quali possano essere gli approcci fra le due
città, poiché il loro passato riverbera un complesso di situazioni
risultante precisamente dal carattere multietnico che crea una specificità
esemplare per l’Europa Centrale. E dal momento che il riflesso più
fedele di tale etnicità plurale è rappresentato, come visto, dai
luoghi di culto, il nostro pensiero ha voluto soffermarsi sui simboli delle
confessioni religiose presenti nel centro adriatico, che venne abitato, in
particolare nel XVIII e nel XIX secolo, da varie popolazioni che portarono con
sé la propria cultura e la propria tradizione. Sul Colle di San Giusto, la
Cattedrale cattolica, dedicata al protomartire e patrono della città,
custodisce le origini del culto cristiano e la storia del passato romano e
medioevale di Trieste. L’aspetto attuale è dato dalla trasformazione,
attuata nel 1300, di due preesistenti basiliche parallele risalenti all’alto
medioevo. La possente torre campanaria (1337) racchiude un precedente campanile
romanico a sua volta costruito sulle strutture di un edificio romano, su cui
nel V secolo si è impostata una basilica cristiana. Aggiungiamo che la
parte a sinistra della nave centrale era la prima chiesa cattedrale, edificata
attorno al 1030. Poi, nel borgo teresiano, in felice posizione, sorge la
più vasta chiesa di
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confessione
cattolica, costruita in stile neoclassico, a partire dal 1828 sino al 1849:
Sant’Antonio Nuovo; essa si impone per la sua monumentalità alla fine
del Canal Grande, che oggi è interrato nella parte antistante il
portico, ma inizialmente si affacciava sull’acqua. Nei nuovi borghi, accanto al
tempio sovrammenzionato, si innalzano i luoghi di culto non cattolici, posti
nel cuore della città. Le comunità serbo-ortodossa e
greco-orientale esercitarono il loro culto a Trieste, dalla metà del
XVIII secolo circa, nella medesima chiesa, quella di San Spiridone, eretta nel
1753 sul Canal Grande, a poca distanza dalla futura Sant’Antonio Nuovo.
Interessante è il fatto che la prima costruzione risale al 1736, ma, a
seguito di dissidi, i greci si staccarono dai serbi nel 1786 e costruirono un
loro tempio sulle Rive, conosciuto come San Nicolò dei Greci. La
comunità illirica, invece, demolì nel 1861 la chiesa precedente
ed eresse un edificio di dimensioni più vaste, in stile neobizantino,
secondo la tradizione artistica orientale. Altrettanto notevole è la
storia della basilica di San Silvestro, che sorge sulle pendici del Colle di
San Giusto, non lontana dalle mura. La tradizione attribuisce lontane radici,
risalenti addirittura al cristianesimo primitivo, al medioevale edificio in
seguito riportato a forme romaniche. Nel XVIII secolo, con la soppressione dei
gesuiti, la chiesa venne messa in vendita al pubblico incanto; così nel
1785 fu acquistata da otto membri della comunità elvetica, che era
formata soprattutto da famiglie di commercianti, divenendo la sede di culto
della comunità evangelica di confessione elvetica, unita attualmente a
Trieste con la comunità valdese.
La comunità ebraica, sorta nella città
adriatica forse già nel XIV secolo e cresciuta di molto dopo la
proclamazione del portofranco, abitò nel ghetto fino al 1785, quando
esso venne abolito da Giuseppe II. Il suo tempio rappresentativo e nello stesso
tempo uno dei luoghi di culto ebraico più importanti e vasti d’Europa,
risale però agli albori del Novecento, essendo cominciato a edificare
nel 1908 e inaugurato il 27 giugno 1912. La comunità anglicana,
costituitasi a Trieste grazie all’imperatore Francesco I nel 1821, fece erigere
nella città vecchia un suo tempio per l’esercizio del culto.
Con queste riflessioni di “memoria storica” prese spunto,
in senso inverso, un ulteriore pensiero, quello di portare Trieste,
spiritualmente, un po’ a Timiºoara, un po’ in tutto lo spazio culturale romeno,
visto che meno conosciuta in paragone ad altre città italiane. Mentre il
pensiero era in statu nascendi, ci siamo trovati, forse non per caso, di
fronte alla seguente osservazione di Fulvio Tomizza, scritta né più né
meno che nel 1991: “Trieste risulta essere la città meno visitata dagli
italiani. Ovviamente è anche la meno conosciuta, al punto che non pochi
connazionali ignorano se, da quanto tempo e in quale misura essa faccia parte
della Penisola e dello Stato italiano”[11].
Per integrare la prospettiva bisognava,
a questo punto, ripercorrere la storia del topos adriatico. È
così che, all’inizio castelliere, la troviamo poi come colonia romana,
probabilmente una delle più antiche, col nome di Tergeste, Tergesteum o
Tergestum. Ricordiamo, rispetto al possibile paragone tra le due città,
che la storia di Timiºoara si perde anch’essa nel paleolitico, per ritrovarsi
come provincia romana della Dacia, nel castro di Zurobara. In ciò che
riguarda Trieste, l’aspetto di colonia si manterrà, rendendosi
più evidente, nel periodo successivo, l’età bizantina, quando a
Roma si sostituisce, nell’Istria, Venezia, rappresentante della nuova nazione
italiana. D’altro canto, come «numerus» militare bizantino, la città
adriatica sembrò per la prima volta assolvere una funzione che si
potrebbe chiamare di mediazione fra Occidente e Oriente. Il
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Medioevo
apre, nel secolo XIII, coll’assurgere a comune indipendente, una nuova epoca
della sua evoluzione. Nel caso di Timiºoara, la fortezza medioevale si afferma
nello stesso periodo. Nel Trecento, troviamo il comune triestino compiutamente
costituito, del tutto indipendente nel regime interno e tributario di Venezia e
Aquileia nei rapporti internazionali. Con l’osservazione, parallelamente, che,
sempre nel secolo XIV, Timiºoara ricevette la qualità di “civitas”,
quale riconoscimento della sua più complessa conformazione. Nell’ambito
dell’Impero absburgico, il Settecento segnò la storia moderna di
Trieste, con la proclamazione del “portofranco”, il 18 marzo 1719, mentre
Timiºoara venne a far parte della monarchia austriaca nel 1716, dopo la
conquista del Banato, compiuta dalle truppe capeggiate da Eugenio di Savoia. In
seguito all’istituzione del portofranco, sotto Carlo VI, la città
cambiò statuto ed assurse al principale sbocco al mare dell’Impero e ad
emporio cosmopolitico, ossia “a centro dove si sarebbe radunato tutto il
traffico dell’Adriatico, una specie di mercato permanente, dove, per la
quantità delle merci poste a disposizione e per la forte concorrenza,
tutti gli abitanti dell’interno avrebbero trovato da rifornirsi a buon mercato,
arricchendo d’altra parte un largo ceto di mercanti e mediatori”[12].
Un destino parallelo per Timiºoara, la quale
cominciò a diventare una delle più belle ed eleganti città
della monarchia austriaca sotto Carlo VI. Ed anche molto attiva sul piano
commerciale, in quanto vennero poste le basi per un’intensa esportazione di
cereali sul canale Bega[13],
in vaporetti che sarebbero andati fino a Vienna. Ciò ha fatto sì
che il grano del Banato fosse quotato alla borsa viennese, segno chiaro della
ricchezza del centro urbano. Non a caso una delle tre porte cittadine – Poarta
Arãdanã (oppure Poarta Vienei, Mehalei) – conserva la seguente
iscrizione, del 1732: “Carolus VI Caesar augustus Banatu elapsis sub iugo
Turcae CLXIV annis liberato atque religioni et sceptro Austriae gloriose
restituto ista quae erexit propugnacula posteritati relinquit Constantia et
fortitudine insignita”[14].
Un ulteriore incremento allo sviluppo commerciale viene dall’Imperatrice Maria
Teresa, figlia di Carlo VI, che, continuando la politica di sostegno della
città e del suo porto, fa della nuova Trieste una palestra per gli
architetti e gli urbanisti dell’Impero. Nuovi borghi si innestano intorno al
nucleo originario arroccato sul Colle di San Giusto. Mutano così, in
relazione a questo nuovo ruolo economico assunto dalla città, la natura
stessa e il volto secolare di Trieste. Come notò Alberto Spaini,
“Trieste non si sarebbe mai sognata di voler rappresentare un centro di cultura
internazionale ma, senza volerlo essere programmaticamente, lo era di fatto”[15].
L’arrivo di sempre più cittadini di nazioni diverse fa sì che
accanto al vecchio borgo sorge la città nuova. Il comune latino, che
aveva conservato il suo carattere originario attraverso secoli di stasi, si
scioglie così anche amministrativamente nella città più
grande, che ingloba accanto ai vecchi abitanti i nuovi insediamenti,
inserendosi nelle correnti più vivaci del tempo, nello stesso frangente
in cui perde la caratteristica originaria di autonoma individualità
politica. Praticamente, il nuovo volto storico ed etnico della città
viene a essere un fenomeno coincidente con il manifestarsi di un differente
legame con il territorio che la circonda e con tutta la monarchia absburgica. E
la conseguenza di tale fenomeno è che nasce, con l’arrivo di gente
straniera, accorsa a Trieste in cerca di lavoro e di
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fortuna,
la realtà e insieme il mito della città cosmopolita[16].
Le popolazioni immigrate dagli altri paesi, per conservare e usare la propria
lingua d’origine, le proprie tradizioni culturali e i propri credo religiosi si
riuniscono in comunità. Contemporaneamente sorgono numerose chiese
dedicate ai vari culti, che fanno di Trieste un esempio di felice convivenza
religiosa, aspetto valido anche nel caso di Timiºoara. Accanto, però, a
questa configurazione etnica più composita rispetto a quella che l’aveva
contraddistinta per secoli, la città adriatica è esposta, come
tutto l’impero – e in particolare il suo corpo centrale, i domini ereditari – a
una pressione che mira a rafforzare le posizioni tedesche. Con la dovuta
menzione che non si tratta di un’azione germanizzatrice e snazionalizzatrice,
ma di un tentativo di utilizzare le potenzialità unificatrici del germanesimo,
inteso non come fattore nazionale, ma come forza statale[17].
Per ciò che riguarda l’urbe romena, fino al 1730,
la maggior parte della popolazione era ortodossa (cosiddetta “rasciana”,
cioè romena e serba). La nuova organizzazione amministrativa invece, come
territorio annesso all’Impero austriaco, sotto forma di provincia imperiale (Kronland),
promosse le colonizzazioni con popolazione tedesca di confessione cattolica,
fatto che portò, come si è potuto notare, importanti
trasformazioni ed arricchimenti all’assetto urbanistico. Per passare di nuovo
alla storia triestina, diremmo che un breve iato nell’ascesa della città
è rappresentato dalle tre occupazioni napoleoniche (1797, 1805-1807,
1809-1813), ma la regione, rioccupata dall’impero austriaco, vide l’aggiunta
delle province ex venete e Trieste ne diviene la capitale morale. Il rapporto
con l’Austria multinazionale si sviluppa continuamente fino al 1918, quando la
dissoluzione dell’Impero absburgico, che ne segnò il distacco da un
mondo al quale aveva appartenuto per secoli, trasforma in maniera radicale e
irreversibile la posizione e il ruolo storico della città adriatica. Mutatis
mutandis, anche Timiºoara ha risentito il distacco dal mondo imperiale,
proprio lei, che fu chiamata all’epoca mica Vienã (“la piccola Vienna”),
i cui suburbi avevano nomi viennesi, non ufficialmente, ma per la gente del
posto, che diceva Domplatz invece di Piaþa Unirii (Piazza
Unità), oppure Küttl per ªtefan Furtunã.
Nello sviluppo storico che stiamo descrivendo, l’incrociarsi
di etnie e le appartenenze geopolitiche fluttuanti si sono mostrate come
una chance della diversità culturale ma, in uguale misura, anche quale
fonte di emergenze nazionalistiche. Di conseguenza, alla fine della prima
guerra mondiale, nell’ambito della polemica italo-jugoslava e del contrasto
italo-slavo nella regione Venezia Giulia, di cui centro è Trieste, la
città diventa un centro periferico, situato all’estremo confine
orientale d’Italia, si trasforma in una città di provincia italiana: “inizia
quella frattura, psicologica e reale nello stesso tempo, fra l’aspirazione di
grandezza, che è anche un richiamo a un passato scomparso e
irripetibile, e la realtà di un presente più prosaico e
più angusto”[18].
Quanto allo statuto di Timiºoara dopo la “redenzione” avvenuta nel 1919, non
mancarono le effervescenze nazionalistiche alle quali abbiamo accennato prima
con riferimento alla realtà triestina. A questo proposito riportiamo,
nella traduzione italiana, un frammento (redatto nel 1931) del Diario dello
scrittore romeno Liviu Rebreanu: “Timiºoara ha l’allure di città
europea. Quartieri di fabbriche, grandi industrie, costruite in un grande
stile, fa una buona impressione. Peccato che sia ancora tanto estranea! Piazza
monumentale, in mezzo alla quale la «Lupa» è un po’ spaesata.
Lì ci vorrebbe un monumento imponente che mostri il governare
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romeno.
Perché, se no, tutti quei palazzi sono stranieri, proprietà straniera.
Si dice, infatti, che nemmeno dieci case romene si trovino in tutta Timiºoara!
Poche. Ci arrendiamo sempre e siamo sempre in svantaggio, perfino morale. Il
Comune, estraniato. Gli interessi romeni non si possono difendere dalla
persistenza minoritaria. Credo sia stato un grande errore del governo l’eccesso
di libertà accordato alle minoranze. Si è trasformato in
libertinaggio, come del resto in tutto il paese”[19].
Tono perentorio che vitupera l’atmosfera dell’epoca.
L’ultima parte della presente trattazione viene ad
inquadrare l’immagine dei due topoi in discussione nella prospettiva
più estesa della città mitteleuropea, a partire dalla seguente affermazione di Jacques Rupnik: “La
città mitteleuropea come ponte o incrocio può essere oramai
incontrata solo nella letteratura”[20].
A questo proposito, lo scrittore
presenta l’esempio di due città: Gdansk-Danzica e Praga. Alla prima
viene oggi associata la “Solidarietà” (Solidarnosæ) e pochissimi
dei suoi attuali cittadini sanno che lì c’era un tempo il luogo
d’incontro di tedeschi, polacchi, caèubzi – una delle più antiche e
più strane minoranze mitteleuropee. Ciò viene descritto nei
romanzi di Günter Grass, soprattutto in Il tamburo di latta (1959). La
seconda – Praga – è anch’essa
luogo d’incontro di tre culture: ceca, tedesca ed ebrea, l’ultima agendo spesso
come ponte tra le altre due. È la città di Franz Kafka e
di Jaroslav Hašek: “Ancor oggi, ogni
notte, alle cinque, Franz Kafka ritorna a via Celetná (Zeltnergasse) a casa
sua, con bombetta, vestito di nero. Ancor oggi, ogni notte, Jaroslav
Hašek, in qualche taverna, proclama ai compagni di gozzoviglia che il
radicalismo è dannoso e che il sano progresso si può raggiungere
solo nell’obbedienza. Praga vive ancora
nel segno di questi due scrittori, che meglio di altri hanno espresso la sua
condanna senza rimedio, e perciò il suo malessere, il suo malumore, i
ripieghi della sua astuzia, la sua finzione, la sua ironia carceraria”[21].
La lingua materna del padre di Kafka era il ceco, ma lo scrittore stese
la sua opera in tedesco. E per complicare ancor di più le cose, i cechi
avevano spesso nomi tedeschi e viceversa. “Io sono hinternazionale – sosteneva Johannes Urzidil, lo
scrittore praghese di lingua tedesca – hinter, cioè dietro,
le nazioni, non sopra né sotto”[22],
alludendo alla sua Praga, “spazio insieme reale ed immaginario in cui, come
egli scrive ricordando la sua infanzia, il ragazzo poteva vagabondare per
vicoli e cortili senza badare a sé, giocando, la sua palla sfondava il vetro di
una finestra cèca, tedesca, ebrea o austro-nobiliare”[23].
Da tale riferimento alle città mitteleuropee non può, ovviamente,
mancare il Centro in assoluto, Vienna, di cui hanno scritto non solo gli
austriaci. Presentiamo in proposito una testimonianza firmata dal serbo Božidar
S. Nikolajeviè, che per un periodo fu anche addetto culturale nella capitale
austriaca. Si tratta di una pagina del suo diario rimasto incompiuto ed
intitolato Iz minulih dana: “Dopo due anni e mezzo passati a Monaco,
sono arrivato a Vienna proprio alla vigilia del nuovo anno 1931. [...]
Così bianca, interamente coperta dalla neve fresca, Vienna mi sembrava
tanto bella, accogliente ed intima come quella in cui avevo trascorso i primi
due semestri scolastici (1895-1896). Mi è rimasta piacevolmente nella
memoria, anche se nei quattro anni e
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351
mezzo in questa città ho avuto parecchi
problemi, stavo proprio per essere espulso dall’Austria per ragioni politiche.
Nonostante ciò, ho sempre cercato di capire questa strana attrazione che
Vienna esercitò su di me, anche dopo la caduta dell’Impero absburgico”[24].
A partire da queste premesse,
lo scrittore viene a decifrare i motivi del fascino viennese: “Che cos’è
Vienna? [...] La città sublime, colorata in tonalità serene,
costruita sul «bel Danubio blu». In realtà, il Danubio non è né
bello, né blu, però è un fiume cosmopolita: esso unisce i popoli,
come il valzer di Strauss unisce le coppie in ondulanti ed esaltati accordi.
Questa è Vienna: una cultura antica, di ognuno e di nessuno – né slava,
né latina, un po’ tedesca – un mélange in cui ognuno potrebbe ritrovarsi.
Capitale del mosaico variopinto, le cui pietrine dai tanti colori sono state
impiantate nei secoli dai popoli narcotizzati dall’hascisc e dal muschio delle
tradizioni absburgiche. [...] Il mosaico culturale imperiale si è
disperso, ma è rimasta la sua parte centrale, la più screziata e la
più bella. È rimasto il secolare testimone delle vicende
storiche, delle antiche e grandi tradizioni culturali-politiche – Vienna, dove
hanno suonato Mozart e Haydn e dove sono nate le sinfonie di Beethoven […] Gli
uomini sono fatti di carne e ossa, ma a Vienna la musica li addomestica. La
musica li riempie di dimenticanza e di perdono. Non è forse questa una
delle cause per le quali i peccati storici dell’Austria absburgica sono
facilmente e subito dimenticati? Vienna aveva, per così dire, la
proprietà di persuadere. Gli italiani la qualificavano nobile
e ospidale. Vienna suscitava anche l’entusiasmo dei francesi”[25].
Come si può notare benissimo, il pensiero di Božidar Nikolajeviè
focalizza il modello culturale viennese con la sua peculiarità, in
quanto “la spiritualità e la cultura di Vienna sono in gran parte
improntate alla componente slava e latina. Queste interferenze o – meglio dire
– l’internazionalismo culturale hanno fatto sì che Vienna avesse
un significato del tutto speciale tra i centri culturali dell’Europa. Essa ha
una marca peculiarissima. Il modello viennese segna un fenomeno distinto nella
poesia e nelle arti, e soprattutto nella musica (Schubert, Lanner, Marschner)”[26].
Accanto a Vienna, Praga e Danzica, potremmo aggiungere la
città di Czeslaw Milosz, con i suoi tre nomi – Wilno, Vilnius, Vilna –
capitale della Lituania. Eccola nella descrizione dello scrittore: “Ci sono molte città sul cui nome non
esista un accordo? I polacchi dicono Wilno, i lituani Vilnius, i tedeschi e i
bielorussi Vilna. Anche il fiume locale ha due nomi: Wilia, oppure uno
più sonoro, Neris, che evoca lo spirito di una qualche nereide”[27].
Gli abitanti della città parlavano o il polacco o lo yiddish; le altre
lingue – il lituano, il bielorusso e il russo – erano scarsamente diffuse. “Se
comunque si fosse presa per base la loro lingua madre, sarebbe bastato un
territorio uguale al cantone di Ginevra, non di più. Tiriamo una linea
verticale e tracciamo su di essa un cerchio: indicherà la città
di Vilna e il suo distretto; la linea verticale, sopra e sotto il cerchio,
raffigurerà il confine etnico tra lituani e bielorussi. Un’enclave,
dunque, come ce ne sono tante in Europa, testimonianza che il principio dello
Stato-nazione è buono dove, come in Francia, i bretoni e i provenzali si
considerano francesi, il che non risulta affatto dalla natura delle cose,
perché sarebbe potuto essere altrimenti”[28].
p. 352
Ci soffermiamo poi a Leopoli (in russo Llov, ted.
Lemberg, polacco Lwów), capitale della regione storica Galizia (politicamente
divisa tra Polonia e Ucraina), raffigurata da Joseph Roth, nato a Brody, sempre
in Galizia. Llov, una città nella quale si poteva sentir parlare il
polacco, il tedesco, il ruteno e lo yiddish.
Con l’osservazione che “contro questo plurilinguismo,
oggi, prende ingiustamente posizione la coscienza nazionale polacca,
legittimata dal corso storico degli ultimi anni. Le nazioni piccole e giovani
sono sensibili. Anche quelle più grandi lo sono talvolta. La monocromia
nazionale e linguistica può consolidare uno stato, la pluralità
però lo farà sempre. In questo senso, Llov rappresenta una
ricchezza dello stato polacco. Un elemento che dà colore all’Est Europa.
La città è tutta colori: rosso-bianco, giallo-azzurro, un po’
giallo-nero. E non so a chi potrebbe far male. Tale policromia non irrita, non
abbaglia e non esiste per la sua propria volontà, come il variopinto
delle città balcanico-orientali”[29].
Lo scrittore conclude: “Città
democratica, più semplice, più umanizzata – pare che questi tratti,
con la loro connotazione cosmopolita, si appartengano uno all’altro. La
tendenza dello sguardo a distanza corrisponde sempre al desiderio di una
normale obiettività. Non si può essere solenne se non si è
multilaterale. Il sacro stesso qui è popolare. [...] La forma severa qui
diventa più lassa, più a misura d’uomo. Le chiese, le grandi e
antiche chiese, escono dalla riservatezza della loro mansione e si aprono al
popolo”[30].
Dall’opera
autobiografica di Elias Canetti, veniamo a recuperare l’immagine della sua
terra nativa, Rustschuk: “Rustschuk, sul basso Danubio, dove sono venuto al
mondo, era per un bambino una città meravigliosa, e quando dico che si
trova in Bulgaria ne do un’immagine insufficiente, perché nella stessa
Rustschuk vivevano persone di origine diversissima, in un solo giorno si
potevano sentire sette o otto lingue. Oltre ai bulgari, che spesso venivano
dalla campagna, c’erano molti turchi, che abitavano in un quartiere tutto per
loro, che confinava col quartiere degli «spagnoli», dove stavamo noi. C’erano
greci, albanesi, armeni, zingari. Dalla riva opposta del fiume venivano i
rumeni, e la mia balia, di cui però non mi ricordo, era una rumena.
C’era anche qualche russo, ma erano casi isolati”[31].
Il quadro descrittivo viene in seguito arricchito da altri interessanti
particolari: “Rustschuk era un’antica città portuale sul Danubio e come
tale aveva avuto la sua importanza. A causa del porto aveva attirato persone da
ogni parte, e del fiume si faceva un gran parlare. Si raccontava degli anni eccezionali
in cui il Danubio era gelato; delle corse in slitta sul ghiaccio fino in
Romania; dei lupi famelici che inseguivano i cavalli che trainavano le slitte”[32].
Si aggiungono poi gli elementi di storia: “Laggiù il resto del mondo si
chiamava Europa e, quando qualcuno risaliva il Danubio fino a Vienna, si diceva
che andava in Europa. L’Europa cominciava là dove un tempo finiva
l’impero ottomano. La maggior parte degli «spagnoli» erano ancora cittadini
turchi. Sotto i turchi si erano sempre trovati bene, meglio che gli schiavi
cristiani dei Balcani. Ma poiché molti fra gli «spagnoli» erano agiati
commercianti,
p.
353
anche il nuovo regime bulgaro intratteneva con loro
buone relazioni, e Ferdinando, il re dal lungo regno, era considerato un amico
degli ebrei”[33].
Subito dopo aver sentito
nominare i romeni nei ricordi del Canetti, oltrepassando il Danubio, arriviamo
a Timiºoara dove, nello spirito del paragone fra la città del Banato e
Trieste, che abbiamo ideato, faremo una sosta letteraria più lunga. E la
iniziamo con uno scrittore la cui vita conobbe un percorso interessante. Si
tratta di Miloš Crnjanski (1893-1977), il più importante rappresentante
del modernismo serbo, nato a Csongrád, in Ungheria, poi, nel 1896, trasferitosi
con la famiglia a Timiºoara dove conseguì il diploma presso il Liceo
Piarista. A questo periodo risalgono i suoi primi scritti, un dramma ed un
romanzo, andati persi. Dopo aver compiuto gli studi liceali, egli lasciò
la città banatense e cominciò un lungo pellegrinaggio per tutti i
paesi d’Europa. Intervalli più lunghi trascorse a Vienna, dove
studiò filosofia, a Fiume, Zagabria, Belgrado, Berlino, Roma, Parigi,
Lisbona. Nel suo libro autobiografico uscito nel 1919 ed intitolato Lirika
Itake i komentari, troviamo un bel quadro di Timiºoara del primo Novecento,
del quale presentiamo, nella traduzione italiana, alcuni frammenti: “Ai miei
tempi (1892-1912), Timiºoara era un’urbe sontuosa, con viali larghi, con vasti
parchi, club di canottaggio, ma anche con periferie industriali. Aveva enormi
terreni d’istruzione e cimiteri. Era soprannominata «la piccola Vienna». Nel
cuore della città c’erano molti palazzi in stile barocco: la grande
cattedrale cattolica, nota per i concerti di Bach che vi erano organizzati, i
monasteri dei frati cattolici, tra le quali una, quella dei piaristi, fu la mia
scuola. Di fronte alla cattedrale cattolica si trovava la Chiesa serba, il
palazzo vescovile, tutto placcato in marmo”[34].
Più avanti, veniamo a sapere che i piaristi facevano stampare all’epoca
due riviste letterarie: una in ungherese, che si chiamava “Zászlónk” (“La
Nostra Bandiera”) e l’altra in latino, col nome di “Juventus”
(“Gioventù”)[35].
Per completare l’immagine lo scrittore rivela che “accanto a questa Timiºoara
della nobiltà ungherese e dei proletari, ce n’era un’altra alla quale,
in quei tempi, la mia famiglia apparteneva con tutto il cuore. Era la Timiºoara
serba, le poche rimanenze, la città vecchia, moribonda, religiosa fino
al fanatismo. Diaspora che somigliava a quella degli ebrei di Timiºoara. Ed era
identica alla città degli stranieri, come due fratelli siamesi, uniti
per le spalle. In questa Timiºoara, ogni casa serba doveva essere difesa, come
una barricata. E, a suo modo, tale lotta non risparmiava le implicazioni
sociali. In ogni caso, in quei tempi tutti gli abitanti di origine serba erano
devoti alla nostra causa, lottavano per il riconoscimento del nostro statuto
come nazione e per i diritti che ne conseguivano. Rinnegati si ritrovavano solo
tra i benestanti. Ubi bene, ibi patria! La mia Timiºoara fu una specie
di Alsazia a Lorena, tutta una follia”[36].
Nel profilare il volto della
città, proseguiamo con la scrittrice Cora Irineu (1888-1924),
collaboratrice della rivista “Ideea Europeanã”, uscita a Bucarest nel 1919.
Anche lei viaggiò molto ed arrivò nella regione del Banato, alla
quale dedicò le sue migliori pagine, comprese nel volume Scrisori
bãnãþene (Lettere del Banato): “Timiºoara, sosta di diletto e di
riposo, teatro dei drammi della Corona, splendente residenza regale, riparo
colpito da sanguinose urgie, scambiato per sede dell’immundizia orientale,
quando, per più di cent’anni, l’Islam chiamò dai minareti i suoi
fedeli che annegarono le pianure del Banato, quella Timiºoara di tutti i
ricordi la rincontri
p.
354
passando per le strade tranquille che portano dal
castello del Hunyadi, con le antiche case in pietra dintorno, verso le rovine,
verso le porte distrutte della fortezza. La casa che ospitò Eugenio di
Savoia, che liberò Timiºoara dagli ottomani, si può ancora
vedere”[37].
Uno sguardo più
obiettivo viene da parte dello storico Nicolae Iorga: “È una grande
città solenne, nata per volontà imperiale, secondo chiare norme
amministrative. La più artificiale, la più absburgica fra le
città che ho conosciuto finora, ma nello stesso tempo la più
equilibrata, la più sottomessa ai regolamenti edilizi”[38].
Si può intravedere qui un altro punto d’incontro con il destino di
Trieste: “La Trieste moderna, la città nuova, era nata – o almeno aveva
trovato le condizioni necessarie per la sua genesi e per il suo sviluppo –
prima nel 1717, quando l’imperatore Carlo VI aveva proclamato «sicura e libera
la navigazione del mare Adriatico» e poi, a pochi anni di distanza, nel 1719,
quando un diploma imperiale aveva proclamato Trieste, insieme con Fiume,
portofranco. [...] La volontà sovrana sta alla base della grandezza
futura di Trieste”[39].
La decisione di Carlo VI venne così a rappresentare per Trieste “il
punto saliente della sua evoluzione storica”[40].
Continuiamo la nostra
rievocazione con scrittori originari di Timiºoara, tra i quali si distingue
Cornel Ungureanu: “Vivo in una città che cinquecento anni fa era la
capitale di un regno; permettetemi di dire: la capitale di un impero. Le sue
leggende stanno ancora ai piedi dei vecchi abitanti, di quelli che, in pensione,
hanno tempo di contemplare i palazzi dove, centinaia d’anni fa, ferveva la
storia d’Europa. Raramente due città, quella di ieri e quella d’oggi,
coesistono come le due Timiºoara, oppure le numerose città chiamate
Timiºoara. La seconda in Romania per il numero di abitanti e la città
che ha il primato in Europa per tanti aspetti [...] Stavo parlando con uno dei
vecchi architetti della città – era da molto tempo in pensione – nella
sua casa al centro, mi aveva detto: quando ero bambino, intorno a questa casa
non c’era niente e, se il cielo era sereno, si poteva vedere lontano, fino in
Serbia”[41].
In seguito, la scrittura acquisisce un tono sempre più implicato,
più affettuoso: “Insieme ad Adriana Babeþi, ho finito da poco un libro
su Timiºoara, stiamo lavorando ad un altro, non è facile, ma la
città è magnifica; è la più bella città che
ho visto. Al mattino, il mio cammino verso la redazione è, come sempre,
un passare attonito tra palazzi, vie e parchi che mi sembra di vedere per la
prima volta; sempre attonito, attonito, felice che questa città esiste,
che posso ancora ed ancora passare per queste vie, per questi parchi, per tutti
questi luoghi; la giornata può cominciare, mi dico, tutto può
cominciare; felice di essere qui, in questa città che è da
lontano la più bella della Romania. Mi siano concessi questi piccoli
eccessi, ma se qualcuno tentasse, con domande alquanto imprudenti, alla mia
esistenza privata, gli direi: signore, questa città è stata la
capitale di un impero! E i vecchi «timiºoreni» sono stati, ai loro tempi, al
centro dell’Europa, luogo d’incontro per i destini del mondo cinquecento anni
fa”[42].
Un altro scrittore di
Timiºoara, Eugen Bunaru, confessa l’affezione per la sua città avvolta
da un’aura mitteleuropea di cultura e civiltà: “Se, per varie ragioni quotidiane,
si viene a
p.
355
peregrinare per le vie «arcaiche» della città
antica e se, all’improvviso, lo sguardo si abbandona allo spettacolo –
affascinante di per sé – che può offrire all’occhio (alquanto iniziato)
il vetusto e raffinato ricamo in pietra che decora, con una particolare
«grafia», frontoni e tetti di altri tempi, imperiali, in tal caso si può
rimanere sorpresi dall’insinuarsi del sentimento, se non della rivelazione che,
ecco, si vive, quasi ignorando questa verità, in uno spazio-tempo il cui
blasone nobiliare si rivela, si rivendica all’appartenenza stessa di questo topos
a quello che si potrebbe chiamare il suo spirito culturale o, piuttosto, la sua
aura di cultura e di civiltà. Uno spirito, un’aura, una tradizione di un
topos una volta appartenente ad un’area storica multietnica nota col
nome di Mitteleuropa. Tale impostazione ha fatto, certamente, sì che
Timiºoara diventasse una città cosmopolita, una città aperta alle
influenze e alle assimilazioni e che l’elemento romeno del posto guadagnasse,
in questo modo, una certa permeabilità al tono occidentale, al tono
europeo del divenire storico. Non è tanto meno vero che, a sua volta,
l’elemento allogeno di questo spazio abbia prestato da quello romeno sfumature
e accenti specifici. E proprio perciò, oltre la metafora sopra, quella
delle mura “parlanti”, mi sembra conseguenza naturale che si fosse perpetuato
uno spirito elevato di questa città diventata famosa per il momento
«Dicembre ’89», cioè per la sua vocazione – imprevvedibile per molti –
d’insurrezione, di libertà, di assumere un’apertura drammatica verso i
valori umani universali”[43].
Eugen Bunaru allude poi ad un aspetto che si costituisce in un altro punto
d’incontro tra il destino delle due città, Timiºoara e Trieste:
“Perciò credo che la variante «classica» di Timiºoara percepita come una
città «borghese», prevalentemente commerciale, tanto indifferente,
perfino ostile, allo spirito, all’arte e ai suoi ideali, quanto perseverente
nel coltivare pragmaticamente aspirazioni e tradizioni di prosperità
economica, credo, quindi, che una prospettiva del genere non è
più valida, è un pregiudizio che paga tributo ad una tendenza di
gerarchizzazione stabilita al «centro». Esiste, oggi, a Timiºoara (e per «oggi»
intendo tutto un arco di tempo, di decenni) un polso palpabile, un polso
sintomatico – con un ritmo più lento o più energico, da un
momento storico ad un altro – di quello che chiamiamo (certamente il sintagma
è ultrautilizzato, ma [...]) vita culturale, ambiente culturale. Che
cosa da legittimità alla rivendicazione di un tale statuto attribuito a
Timiºoara? Non mi propongo di inventariare o di analizzare gli argomenti. Fatto
è che, dalle personalità eloquenti, scrittori, artisti,
scienziati, fino alle istituzioni che hanno confermato nel tempo la loro
professionalità (Filarmonica, Opera, Teatro, Università, rivista
“Orizont” ecc.), tutto fa configurare e autenticare una fisionomia culturale
–di portata nazionale– propria a Timiºoara”[44].
Un breve accenno al rapporto tra Apollo e Mercurio nella città
adriatica: “Già i letterati ottocenteschi avevano intuito l’anima
borghese e commerciale della città, quella sua pretesa indifferenza alle
lettere, quella prevalenza di Mercurio su Apollo che è un leitmotiv
della polemica morale che anima la letteratura triestina. Essa è, e sa
di essere, la letteratura di una città borghese forse più d’ogni
altra, che vive l’essere borghese come un destino, come l’essere tout court”[45].
Da questa città borghese nasce un’arte figurativa della “desolazione
fantastica”[46], una pittura
immaginosa ed inquieta, la vocazione all’analisi; e “la città mercantile
e impoetica, della
p.
356
quale i viaggiatori ottocenteschi denunciavano
l’assenza di spiritualità, diviene la fonte della poesia”[47].
Lo scrittore Eugen Bunaru conclude mettendo in rilievo le caratteristiche
peculiari degli uomini di cultura della zona: “Come note distintive, che
accompagnano spesso la biografia e l’opera di non pochi uomini di cultura
rappresentativi della «zona», ricorderei una specie di «aristocrat-ismo» e
proprio di «donquijot-ismo» dell’espressione intelettuale-civica, che
contrasta, paradossalmente, con lo spirito pragmatico del quale è sempre
fatto «colpevole» il «timiºorean»; più concretamente, si tratta di un
riflesso di rifiuto del momento glorioso o, se volete, di un certo
allontanarsi, utopico, forse, o solo orgoglioso, dalla febbre delle gerarchie
stabilite e parafate al «centro». Tali attributi possono, certamente, essere
perdenti in una prospettiva immediata, ma essi sembrano definire uno spirito
«timiºorean», non solo nella sua accezione culturale, ma in una prospettiva
molto più generosa: quella storica”[48].
A testimoniare il pluralismo,
il multiculturalismo della città e della sua cultura sono gli scrittori
di lingua tedesca, ungherese e serba, rappresentanti delle principali
comunità etniche. L’esponente dello spirito tedesco è Adam
Müller-Guttenbrunn, dei cui scritti presentiamo il seguente brano nella
traduzione italiana: “Il quartiere «Fabric» ha sempre accolto un quadro
variopinto di gente. Potevi trovarci operai di tutte le nazioni dell’impero, in
nessun’altra parte si trovava un tale incrocio di razze e di lingue. Serbi e
valacchi, bulgari e slovacchi, zingari e perfino ungheresi vivevano tra i
borghesi tedeschi che dirigevano le fabbriche. Italiani, francesi ed olandesi
vi furono una volta chiamati per contribuire allo sviluppo industriale nella
zona”[49].
Un portavoce della
comunità ungherese è Majtényi Erik, nelle cui pagine troviamo bei
riferimenti al fiume che percorre la città – Bega: “Mi son innamorato di
questo fiume, Bega. So da quello che mi avevano raccontato che, nel momento in
cui lo vidi per la prima volta, chiesi tutto stupito: «Chi ha potuto versarci
tant’acqua?» – in una parlata sveva piena di musicalità. E così,
vi dico, fui colto dal fascino di questo fiume, cioè di questo canale,
come lo chiamano ufficialmente. Mi ha colpito la malia dei salici che si
chinano inarcandosi verso l’acqua ed i pescatori, che hanno la medesima
costanza degli stessi salici, stanno a volte ingobbiti ore per ore sulla riva,
per alcun pesciolino dorato”[50].
A proposito dell’importanza del fiume Bega (già Beghei) per la
città appunto soprannominata “la città sul Bega”, presentiamo –
in un piccolo intermezzo – la caratterizzazione plastica del critico d’arte
Coriolan Babeþi: “Vista nel suo rapporto con la natura e con la storia,
Timiºoara si fa prestare, nel suo divenire, qualcosa dal paesaggio della
Genesi. Per questo sito millenario, la città-fortezza si è
strappata, con la sua terra, dalle acque. Zona di paludi, ridotta naturale,
Timiºoara aveva deciso la sua esistenza nel rapporto con la natura attraverso
la «sistemazione» di questi due elementi: terra e acqua. Come tutte le grandi
località, anche Timiºoara è accompagnata dalla storia di un corso
d’acqua: Beghei. I suoi miti meandri attraversano, come una colonna vertebrale,
la città. Il nostro Beghei è oggi una meravigliosa arteria, con
una natura intelligentemente modellata”[51].
In nome
della comunità serba si esprime Slavomir Gvozdenovici, il quale, in uno
dei suoi libri, evoca la presenza di Miloš Crnjanski a Timiºoara: “Ho visto di
recente Crnjanski
p.
357
avvolto nel suo manto di pietra, passava,
accompagnato da un giovane discepolo, per la Piazza della Città. [...]
L’antiquariato, la chiesa, gli alberi con buone intenzioni, l’alto mistero
della biblioteca pubblica e quanto altro che c’era ci ha sgridato in serbo
nella rivista locale; ma non hanno forse sgridato anche Giura e Laza e tantri
altri figli prodigi? E la piazza aveva quattro angoli”[52].
Concludiamo l’incursione
letteraria nella città di Timiºoara con i cenni autobiografici di
Coleta de Sabata, discendente di italiani ivi insediati nel tardo Ottocento: “Nell’estate del 1950, un’adolescente disorientata
dai cambiamenti che avvenivano in tutto il paese, cambiamenti che del resto le
rovinarono tutti i progetti per il futuro, camminava lentamente per il Corso
più lungo della città più importante che aveva visto fino
a quel momento, la capitale del Banato, Timiºoara. A mezzogiorno, la gente,
modestamente vestita, impensierita e avvolta da una struggente sensazione
d’insicurezza, passava in fretta per il viale ampio, fiancheggiato da palazzi
costruiti nel tanto amato stile «Secession», importato all’inizio del secolo da
Vienna, limitato ad un’estremità dall’edificio ibrido del teatro e
all’altra dalla grandiosa cattedrale ortodossa appena ultimata, che riusciva ad
accordare elegantemente lo stile umile delle chiesette romene con la fiera
verticalità delle anime dei «bãnãþeni», noti per il loro orgoglio
ancestrale”[53]. Coleta
de Sabata, con la sua ascendenza italiana, ci fa da tramite nel passare allo
spazio italiano, quindi a Trieste. In ciò che segue, cercheremo di
ricuperare l’immagine della Trieste mitteleuropea nelle coordinate letterarie
che risultano dai testi in prosa degli scrittori rappresentativi del posto. La
coordinata più notevole riguarda il cosmopolitismo spiccato, al quale
vanno immediatamente associate la molteplicità, la varietà e la
ricchezza di una città «profondamente diversa dalle altre città
italiane”[54], come la
definiva Eugenio Montale, “la città più cosmopolita dell’Europa,
all’incrocio delle lingue romanze, germaniche e slave”[55].
Trieste si dimostra così “diversa per apertura intellettuale, tipica per
problemi suoi e soltanto suoi”[56].
Città
“astratta e premeditata”, come la Pietroburgo descritta da Dostoevskij, Trieste
“è stata e rimane ricca di contrasti, ma soprattutto ha cercato e cerca
la propria ragione d’essere in quei contrasti e nella loro insolubilità”[57].
Il porto adriatico rappresenta un topos inconfondibile per lo statuto
che gli viene conferito dalla sua particolare condizione storico-geografica,
alla quale abbiamo fatto riferimento, mettendo in risalto l’appartenenza a una
grande monarchia multinazionale e la collocazione nell’area di confine
linguistico italo-slavo-tedesco. Ed è proprio questa secolare posizione
sullo spartiacque etnico-linguistico ad accentuare, nella fase di espansione
della città – nel periodo cioè in cui essa è meta di
un’intensa corrente migratoria – il significato della presenza slovena e
tedesca. Sono due problemi che diventano, a diverso livello e con differente
durata, dei problemi vitali per la fisionomia etnica e per il futuro nazionale
e politico di Trieste[58].
La multinazionalità qui è, quindi, determinata dall’influsso
della geografia e
p. 358
della
storia, ma nello stesso tempo un fenomeno legato alla vocazione mercantile e
commerciale della città. A questo proposito, abbiamo già
evidenziato il fatto che, in seguito all’istituzione del portofranco, sotto
Carlo VI, Trieste assurse al principale sbocco al mare dell’Impero absburgico e
ad emporio cosmopolitico. Vi furono attirati i mercanti stranieri con
importanti privilegi che li sottraevano alle magistrature cittadine e agli
obblighi civili, come pure ai procedimenti giudiziari per debiti e delitti
comuni commessi altrove. Di conseguenza, l’arrivo di sempre più
cittadini di nazioni diverse, da ogni parte dell’area mediterranea e del
centro-est europei, fece nascere la realtà e insieme il mito della città
cosmopolita.
Siccome la letteratura offre vari registri d’espressione,
presentiamo di seguito il modo esaltato-parodico con il quale Carolus Cergoly
celebra la grande impresa imperiale e la nascita della Trieste moderna, della
città nuova che si affaccia con prorompente vitalità sulla scena
mercantile europea: “Carlo VI vedeva lungo e vedeva largo e proclamò
Trieste porto franco e lo proclamo a cavallo del suo lipizzano di nome Maestoso
e fu tutto un batter di mani illiriche, italiane, greche, turche, alemanne,
ebraiche, armene, francesi, inglesi, olandesi per non parlare delle mani fredde
del nord. Tutti avanti e sotto a lavorar col commercio, con l’industria, con
l’armamento navale, con le proviande di bordo, con i cantieri, coi fondachi in
odori di spezie e di coloniali e brigantini e golette e velieri in trionfo di
vele a sbarcare e imbarcare merci e merci per tutti i porti del mondo. Le
allegre bandiere in carneval di colori sventolano su Trieste ma la bandiera
più allegra è quella che sventola in allegria d’affari sul Porto
Franco di Trieste”[59].
In prospettiva storica, fu poi Maria Teresa, successa al padre nel 1740, a
continuarne l’opera con criteri innovatori. Prese una serie di misure
giuridiche, alcune delle quali si rivelarono di straordinaria efficacia: la
proclamazione della libertà di commercio, l’estensione delle
immunità doganali a tutta la città sobborghi compresi,
l’abolizione di quasi tutti i dazi, la protezione accordata agli immigrati
stranieri con la concessione della libertà di culto ai greci e agli
ebrei. Con le franchigie concesse a queste nazioni, l’imperatrice favorì
il formarsi di un nuovo ceto mercantile libero da vincoli tradizionali e
locali.
In merito alla sua «edificazione» triestina, Ferruccio
Fölkel si esprime in questi termini: “Impossibile rifiutare a Maria Teresa
l’appellativo di fondatrice di Trieste, pur se oggi tale definizione può
far sorridere. Vogliamo chiamarla rifondatrice? Chiamiamola come meglio ci
piace. I tempi erano maturi, l’Europa camminava con passo diverso, la rivoluzione
francese non era lontana. Grandi inoppugnabili verità. Ma Trieste non
sarebbe stata Trieste senza la nuova sovrana”[60].
Un ulteriore impulso allo sviluppo della città, con la sua opera
accentratrice, lo diede Giuseppe II, succeduto alla madre nel 1780. I seimila abitanti
che Trieste aveva ancora alla morte di Carlo VI, erano già diventati
diciassettemila alla morte di Maria Teresa e trentamila alla fine del secolo,
mentre il traffico portuale rappresentava ormai un quarto di tutto il commercio
austriaco. Sull’opera di Carlo VI, di Maria Teresa e di Giuseppe II, nonché sul
peso che essa ebbe nello sviluppo di Trieste si è a lungo discusso,
attribuendo in generale ai tre sovrani illuminati il potere taumaturgico di
aver creato dal nulla la fortuna di Trieste. Presentiamo in proposito le
considerazioni di Enzo Bettiza: “La Trieste moderna, la Trieste che comincia a
contare nella metà del Settecento per profilarsi in tutto il suo
splendore emporiale nell’Ottocento, nasce, come Pietroburgo, per decreto
imperiale. L’atto di volontà teresiano e giuseppineo, che trasforma un
p. 359
borgo
oppresso dalla bora e dal Carso in metropoli marinara, è simile alla
creativa follia visionaria di Pietro il Grande che farà sorgere dal
nulla, dalla palude, una delle più stupende città d’Europa. L’intera
successiva storia di Trieste correrà sul filo di quell’originario
artificio illuministico, ideato da un impero in cerca di un porto. Il battesimo
di Trieste non conosce che il rito della volontà. E il volontarismo, con
le sue tensioni e le sue contraddizioni, ne segnerà in profondità
la storia tumultuosa”[61].
Dopo l’intermezzo napoleonico del 1809-1813, Trieste
ritornò all’Austria e, ripristinato il portofranco, il traffico portuale
conobbe un nuovo slancio. Nel 1805, la popolazione era risalita a trentaseimila
abitanti, per toccare i cinquantamila nel 1835 e gli ottantamila nel 1846, dei
quali quarantaseimila si erano dichiarati italiani, venticinquemila sloveni,
ottomila tedeschi e mille greci. Praticamente il flusso migratorio nella
città adriatica si è dimostrato una delle costanti della storia
triestina sino allo scoppio della prima conflagrazione mondiale. Infatti, alla
vigilia della guerra la popolazione aveva superato i duecentotrentamila
abitanti, ponendo Trieste al terzo posto, dopo Vienna e Praga, tra le
città dell’Austria e al quarto di tutto l’impero, considerata anche
Budapest[62]. Si deve
però notare che il fenomeno dell’immigrazione presenta due forme
distinte, per quanto riguarda sia la provenienza e l’origine sociale dei nuovi
abitanti, sia la loro incidenza sulla fisionomia della città. Si tratta,
da una parte, della soprammenzionata immigrazione mercantile e, dall’altra
parte, dell’assorbimento nella città di una manodopera che ha origini
molto più vicine e modeste: all’inizio sono i cittadini più umili
che passano dal lavoro agricolo extra-murale all’impiego nelle prime
attività portuali e sono sostituiti nelle campagne da contadini sloveni.
In questo modo si vengono precisando i lineamenti del moderno rapporto
nazionale e sociale tra italiani e sloveni nell’area triestina, caratterizzato
dalla divisione tra mondo urbano e mondo rurale[63].
Ma poi le accresciute esigenze della città in espansione portano
all’inurbamento di lavoratori che vivono nel territorio circostante, i quali
sono in un primo tempo quasi soltanto sloveni e successivamente sloveni e
italiani. Tale processo si intensifica quando la fine della repubblica di
Venezia e il definitivo assestamento territoriale dopo la terza occupazione
napoleonica pongono Trieste a diretto contatto non solo con le aree slovene, ma
anche con un più esteso retroterra italiano. Cosicché tanto il ceto
dirigente quanto le classi umili sono soggetti a un processo di profonda
trasformazione e di rimescolamento etnico, sotto la pressione demografica dell’immigrazione.
Nell’ambito di tale fenomeno, si impone un aspetto importantissimo:
l’eterogeneità del flusso migratorio trova un denominatore comune nella
tradizione italiana della città. La cultura del vecchio comune offre
agli immigrati – che in molti casi, provenendo dall’area costiera mediterranea
e adriatica o dal vicino retroterra sloveno, conoscono già la lingua
italiana – lo strumento di comunicazione e di unione. L’incontro con un mondo
nuovo, eterogeneo e multiforme finisce con il dimostrarsi non un elemento di
rottura, ma un fattore di continuità rispetto alle radici culturali e
soprattutto linguistiche del vecchio comune latino e italiano, che vengono
sì integrate dai nuovi apporti culturali, ma che rimangono il tratto
fondamentale e distintivo del volto della città, e soprattutto l’unico e
costante patrimonio comune a tutte le sue componenti[64].
p. 360
La “rivoluzione” etnica e demografica che
accompagnò l’ascesa dei traffici triestini si trasforma quindi in un
elemento, come notava Angelo Vivante, di conservazione e di irradiazione
dell’italianità, intesa sino alla metà dell’Ottocento nella sua
dimensione linguistica e culturale, e successivamente anche in quella
nazionale: “Trieste sarebbe rimasta la cittadina di tremila abitanti, sperduti
nella campagna slava soverchiante, privi di ogni energia assimilatrice sopra di
quella e di irradiazione sugli altri ceti urbani minori, se il flusso
rigeneratore dei traffici non le avesse permesso di assorbire e di
italianificare via via le decine di migliaia di stranieri accorrenti da ogni
parte e specialmente le masse rurali divenute automaticamente il nerbo
dell’italianità attuale tergestina e giuliana”[65].
Nel trattare la suggestiva problematica dell’integrazione
e dell’assorbimento non si deve però perdere di vista l’altra
realtà, altrettanto affascinante, della tenace e stimolante
sopravvivenza delle culture originarie, particolarmente – a prescindere dal
più complesso e, come diffusione del fenomeno, più tardo problema
sloveno – nel caso di comunità caratterizzate da un’identità che
è nello stesso tempo culturale e religiosa. Come notava Alberto Spaini
nel suo Autoritratto triestino, “questa gente che veniva da tutte le
parti del mondo non portava a Trieste solo l’aspetto avventuroso dei loro
costumi, l’arte di commerciante, l’aspra volontà di arricchire.
Portavano colle loro canzoni, la loro anima, la loro cultura, ed infine anche
la volontà di conservarle. Le varie comunità straniere di Trieste
hanno avuto (ed hanno tuttora) una grande attività. Il primo scopo di unirsi
fu quello di poter esercitare il loro culto religioso”[66].
È un fenomeno questo che riguarda la comunità greca-orientale,
fondata nel 1752 accanto a quella serbo-ortodossa, che all’inizio esercitarono
il loro culto nella medesima chiesa. Ma a seguito di insanabili contrasti, i
greci decisero, nel 1786, di staccarsi e di erigere un loro proprio tempio. La
comunità serba rimase più chiusa e isolata rispetto al corpo
della città, quasi arroccata nella sua tradizione, ma più ancora
quella greca, profondamente inserita invece nel tessuto cittadino con le sue
molteplici attività, però anche orgogliosa custode del suo
patrimonio culturale e religioso. Si tratta poi della comunità armena
creata nel 1775 e di quella evangelica (elvetica) costituita nel 1835 in un
altro ambiente ed in un altro momento nello sviluppo della città. La
comunità tedesco-protestante, seguendo la storia di tutto l’elemento
germanico nella città adriatica, vede invece la sua individualità
disperdersi e dissolversi in misura molto più marcata nell’ambiente
circostante. In generale, il ricco apporto di tutti questi filoni culturali
alla realtà triestina sembra essersi risolto più nello sviluppo
di culture parallele, che affiancano e integrano quella prevalente, che non in
un’organica sintesi mediatrice. Il problema fondamentale per la fisionomia
etnica e per il futuro nazionale e politico della città è legato
alla presenza slovena. A Trieste, come nel resto del litorale adriatico, in
Stiria, in Carinzia e nella stessa Carniola, gli sloveni hanno rappresentato
per secoli una nazione contadina, priva di una propria classe dirigente. Nel
corso dell’Ottocento cresce e si estende, anche ad aree slovene più
lontane, l’attrazione che l’emporio esercita. Cosicché una notevole popolazione
slovena accorre verso la città e la sua immediata periferia e, fatto
particolare all’interno della monarchia absburgica, si amalgama all’inizio al
resto della popolazione cittadina, cioè si italianizza. Come notarono
Angelo Ara e Claudio Magris, si assiste, prima ancora che a una assimilazione,
che avrebbe richiesto una più sviluppata e matura coscienza nazionale
nella maggioranza italiana, a una fusione tra la popolazione originaria e i
nuovi venuti, che si integrano
p. 361
–
nella quasi totalità dei casi – nel tessuto italiano della città[67].
Di conseguenza, l’elemento di origine slovena perde in questo suo primo impatto
con la città la propria identità. L’obiettivo della promozione
sociale e dell’accettazione da parte dell’ambiente circostante rendono questa
perdita d’identità non tanto un gravoso tributo da pagare, quanto
un’eredità scomoda, dalla quale ci si vuole liberare al più
presto. Il processo di amalgamazione del gruppo sloveno nel tessuto cittadino
prosegue anche dopo il 1848, che segna però l’affermazione delle prime forze
cittadine slovene, per attenuarsi successivamente sino a cessare negli ultimi
anni del secolo XIX. In questo periodo la nazione slovena è ormai
caratterizzata da una propria classe dirigente, pienamente articolata sotto il
profilo sociale. D’altra parte, l’immigrazione stessa è tale da non
poter essere assorbita, tanto più che – a differenza delle altre nazioni
che si sono dirette verso Trieste – gli sloveni non recidono il cordone
ombelicale che li lega al territorio di origine, ma ne sono direttamente a
contatto e proprio inseriti in uno hinterland prevalentemente slavo. Cosicché,
alla fine del XIX secolo, è ormai ben chiaro il carattere, e insieme il
destino e il dramma, della Trieste contemporanea, città reclamata da due
popoli.
Una situazione particolare presenta l’immigrazione
tedesca, estremamente composita, sia sotto il profilo dell’origine
geografico-territoriale, in quanto proviene dalla Germania e dalle diverse
province dell’impero austriaco, sia sotto il profilo della fede religiosa –
protestante, cattolica ed ebraica. C’è però da notare che questo
elemento, che rappresenta la cultura “franca”, la cultura statale per
eccellenza dell’Austria multinazionale, non riesce a imporsi e ad avere solide
radici nell’ambiente triestino. Infatti, la grandissima maggioranza dei
tedeschi inseriti stabilmente, in successive fasi, nella società
triestina, si integra – in genere nell’arco di solo due generazioni –
nell’ambiente circostante, arricchendolo di nuovi stimoli culturali, ma
perdendo, se non sempre e non subito la cultura d’origine, di sicuro
l’identità nazionale tedesca. “Questo fenomeno è tanto più
suggestivo, in quanto esso con il tempo acquista spesso i contorni di una
scelta di valori e di vita, di un’adesione a una civiltà ritenuta
più consona allo spirito dei tempi”[68].
Altrettanto notevole è il fatto che la presenza tedesca a Trieste non
riguarda solo questo insediamento umano in città, alquanto marginale, ma
anche la diffusione della lingua franca della monarchia absburgica, conosciuta
negli ambienti mercantili, finanziari e professionali, e, accanto ad essa, la
cultura stessa. Si può, quindi, concludere che proprio la
sensibilità per la cultura tedesca – diffusa in ambienti italiani,
sloveni e tedeschi italianizzati – sia l’aspetto della presenza tedesca
destinato a incidere maggiormente nella realtà cittadina, mentre gli
aspetti più legati alla cornice statale absburgica avranno un rilievo
più limitato e saranno destinati a dissolversi dopo il crollo
dell’Austria. Un posto del tutto particolare nella città che si espande,
che si arricchisce di gente diversa e varie attività e insieme conosce
nuovi problemi, occupa l’elemento ebraico, un elemento integratore ed
unificatore. Si tratta di ciò che Claudio Magris chiamava “il ruolo
sovranazionale della cultura ebraica”, aggiungendo, in un’altra parte: “Fra i
molti altri volti di Trieste spicca quello ebraico. Decisivi nello sviluppo
culturale, economico e politico della città, gli ebrei si erano
identificati con essa e con la sua scelta italiana pur recandole, e dandole,
l’impronta della cultura, della civiltà mitteleuropea, impensabile senza
la componente ebraica. Trieste – che finisce in questo senso nel ’38, con le
leggi razziali – è uno dei grandi luoghi dell’ebraismo”[69].
p. 362
Giorgio Voghera parlava dell’“ebraismo umanitario”,
esplicitando: “Sentivamo [noi, ebrei, n. n.] che pur c’era qualche cosa di
universale, di comune a tutte le vere culture ed a tutte le vere
civiltà, e che solo questo aveva importanza; che le particolarità
dei singoli popoli non erano, no, da combattere, anzi, erano da apprezzare per
il contributo che potevano dare alla civiltà comune: ma avevano comunque
un’importanza secondaria e non dovevano essere messe in prima linea”[70].
Sempre sull’importanza dell’elemento ebraico a Trieste si potrebbe rilevare la
seguente considerazione: “La cultura triestina veramente diversa è, in
genere, non soltanto ma soprattutto ebraica, perché l’ebreo riassume in sé sia
la dispersione della totalità sociale e la crisi dell’identità,
sia la concentrazione dell’individualità su se stessa, l’irriducibile
resistenza del transfuga e del naufrago”[71].
Nell’allargare l’area di osservazione all’intero spazio
dell’Europa Centrale, si deve notare che la presenza e il funzionamento
dell’elemento ebraico come “liant” dello spirito mitteleuropeo, come polo
agglutinante, fattore che genera e mantiene l’atteggiamento cosmopolitico, sono
rilevati da quasi tutti gli specialisti del campo. Citiamo per primo Milan
Kundera: “Infatti, nessun’altra parte
del mondo è stata segnata così profondamente dall’influenza del
genio ebraico. Stranieri dappertutto e dappertutto a casa, trovandosi sopra le
dispute nazionali, gli ebrei del secolo XX furono il principale elemento
cosmopolitico integratore dell’Europa Centrale, il suo «liant» intellettuale,
una versione concentrata del suo spirito, i creatori della sua unità
spirituale. È questo il motivo per cui amo l’eredità ebraica e mi attacco a essa con tanta passione e
nostalgia come se fosse la mia propria eredità. Ce n’è poi
un’altra cosa che realizza il popolo ebreo tanto caro a me: sembra abbia
concentrato e riflesso nel suo destino, sembra abbia trovato la sua immagine
simbolica il destino stesso dell’Europa Centrale”[72]. A sua volta, Jacques Le Rider
sottolinea, sempre con riguardo agli ebrei, l’idea di
“sovranazionalità”, che abbiamo incontrato prima in Claudio Magris: “In
mezzo a quel campo di battaglia delle nazionalità, gli ebrei, Volk
considerato privo di storia nazionale, si trovavano nella posizione migliore
per concepire l’idea, in verità un tantino surreale, della
sovranazionalità”[73].
Alla complessa condizione storico-geografica della loro città, che
abbiamo cercato di configurare finora, si sono rapportati invariabilmente gli
scrittori triestini. In questo senso, sono suggestive le parole di profondo
carattere autobiografico di Claudio Magris, con le quali afferma che, per
spiegare i propri sentimenti, è importante il fatto di essere nato e
vissuto, sino ai diciott’anni, a Trieste –una città italiana che porta
l’impronta della lunga appartenenza all’impero absburgico, della presenza di
diverse componenti nazionali e culturali, da quella slovena a quella greca,
nonché della forte influenza della cultura ebraica. Trieste è stata allo
stesso tempo un crogiuolo ed un arcipelago, uno spazio in cui le culture
si sono incontrate e si sono separate, come su qualsiasi frontiera, che
può essere un ponte, ma anche una barriera[74].
Abbiamo sottolineato nel contesto sopra la metafora del
“crogiuolo” utilizzata dallo scrittore con riferimento a Trieste, in quanto
essa si è rivelata, come si potrà vedere in seguito,
p. 363
emblematica
per la città. Trieste si affaccia in piena forza artistica al Novecento
grazie al contributo del tutto ragguardevole di tre grandi scrittori – Italo
Svevo, Umberto Saba e Scipio Slataper – che hanno nella loro formazione quella
componente triestina di cultura e apertura europea che li distingue,
nell’ambito della letteratura italiana, dall’opera dei loro contemporanei. Essi
vengono a configurare la natura letteraria del celebre mito di Trieste, in cui
convergono e si sublimano elementi tanto diversi appartenenti, culturalmente,
ad uno spazio plurale fertile.
Ettore Schmitz, diventato lo scrittore Italo Svevo, vide
spiritualmente la sua città attraverso il proprio pseudonimo, esplicitandolo
ampiamente: “Per capire la ragione di uno pseudonimo che vuole unire la stirpe
italiana a quella tedesca, si deve pensare al ruolo che Trieste compie, da
quasi due secoli, alla Porta orientale dell’Italia: ruolo di crogiuolo,
che assimila gli elementi eterogenei che il commercio e la dominazione
straniera hanno attirato nell’antica città latina. [...] Situato
all’incrocio di più popoli, l’ambiente triestino era impregnato delle
culture più diverse”[75].
Sottolineiamo, nel testo di Svevo, la metafora del «crogiuolo» che definisce in
maniera suggestivo-sintetica il cosmopolitismo triestino.
Umberto Saba evoca la città sotto il segno della
stessa immagine simbolica: “Trieste è sempre stata un crogiuolo
di razze. La città fu popolata da genti diverse: Italiani nativi della
città, Slavi nativi del territorio, Tedeschi, Ebrei, Greci, Levantini,
Turchi col fez rosso in testa e non so quante altre. Nacque, come città
moderna, dall’istituzione del portofranco, sugli scorci del secolo XVIII. Favorito
da questa e da altre contingenze, il suo sviluppo fu, agli inizi, così
rapido che si può paragonarlo a quello di cui sofferse, circa negli
stessi anni, Nuova York. Poi – non avendo dietro di sé l’immensa America –
rallento e si arrestò”[76].
L’autore evidenzia in seguito un aspetto che abbiamo già preso in
considerazione: “Su questo trafficante amalgama di persone così
etnicamente diverse (vi sono, oggi ancora, triestini che hanno nel sangue dieci
o dodici sangui diversi) la lingua e la cultura italiana fecero da cemento;
s’imposero per un processo affatto spontaneo. Nessuno poteva, né può
oggi, vivere e commerciare a Trieste senza conoscere l’italiano”[77].
Dopo aver messo in risalto questo aspetto caratteristico alla realtà
triestina, conclude: “Ma lingua e cultura a parte, Trieste fu sempre, per
ragioni di “storia naturale” dalle quali le città come gli individui non
possono evadere, una città cosmopolita. Era questo il suo pericolo, ma
anche il suo fascino”[78].
Scipio Slataper, a sua volta, considera che “il compito storico
di Trieste è di essere crogiolo e propagatore di civiltà,
di tre civiltà”[79].
In sostanza, la sua funzione deve corrispondere alla posizione assegnatale
dalla geografia e alla vocazione affidatale dalla storia; la sua missione
è quella di una mediazione e di una conciliazione culturale tra i popoli
latini, germanici e slavi[80].
Allo stesso tempo Trieste è per lo scrittore “posto di transizione,
geografica, storica, di cultura, di commercio – cioè di lotta. Ogni cosa
è duplice o triplice a Trieste, cominciando dalla flora e
p. 364
finendo
con l’etnicità”[81],
mentre in un’immagine di più grande intensità esclama: “Trieste
[...] Ma dove la vita è uno strazio così terribile di forze
opposte e aneliti fiaccantisi e crudeli lotte e abbandoni? […] Questa è
Trieste. Composta di tragedia. Qualche cosa che ottiene col sacrificio della
vita limpida una sua originalità d’affanno”[82].
Il mio Carso evoca l’immagine del porto adriatico in tutta la sua
varietà, descritta nei più minuti particolari: “Io vado per le
strade di Trieste e sono contento che essa sia ricca, rido dei carri
frastornanti che passano, dei tesi sacchi di caffè, delle cassette quasi
elastiche dove fra trina e veli di carta stanno stivati i popputi aranci, dei
sacchi di riso sfilanti dalla punzonatura doganale, una sottile rotaia di
bianca neve, dei barilotti semisfasciati d’ambrato calofonio, delle balle
sgravitanti di lana greggia, delle botti morchiose d’olio, di tutte le belle,
le buone merci che passano per mano nostra dall’Oriente, dall’America e
dall’Italia verso i tedeschi e i boemi. [...] La storia di Trieste è nei
suoi porti”[83], quattro in
tutto.
Giulio Caprin, in Reviviscenze, si dimostra
decisamente convinto del fatto che Trieste intorno al 1885 “era una
città inconfrontabile: la sua, e basta», una città «che il
destino vuole, purtroppo, irregolare”[84].
L’avverbio purtroppo implica la drammaticità del destino storico
sinuoso di Trieste, che andremo a esaminare nei capitoli seguenti della
presente trattazione. Alberto Spaini, in Autoritratto triestino, mette
in risalto il carattere composito di Trieste – “città mistilingue”, ma
in un modo del tutto particolare. “Popoli vi arrivavano da tutti i punti della
rosa dei venti, e in breve volgere di tempo diventavano tutti italiani, fieri e
feroci italiani. Ecco i triestini, i volontari caduti nella prima guerra
mondiale; metà hanno nomi slavi, tedeschi, greci, persino inglesi ed
armeni. Ma erano tutti italiani e parlavano italiano”[85].
Giorgio Voghera, nel volume con una spiccato tocco
autobiografico intitolato Anni di Trieste, capitolo Trieste: un
bilancio di più di mezzo secolo, evidenzia il fatto che “fra le
città italiane che abbiano un numero di abitanti di poco inferiore o
pari o superiore al suo, Trieste, come è noto, rappresenta un unicum
per almeno quattro aspetti: è l’unica che negli ultimi sessant’anni
abbia avuto un aumento di popolazione modestissimo (se il comune è
passato dai circa 245.000 abitanti del 1914 ai circa 290.000 di oggi,
ciò è dovuto in parte all’aggregazione di alcuni centri rurali);
è l’unica che non appartenga allo Stato italiano da almeno cent’anni;
è l’unica che abbia una minoranza alloglotta di un certo peso; è
l’unica che abbia dovuto impegnarsi a cercare nuove fonti di lavoro e di
guadagno non in aggiunta, ma in sostituzione di quelle tradizionali più
importanti”[86]. A partire
da tale premessa, l’autore afferma che “non può quindi fare meraviglia
se i triestini cercano di rendersi conto dei motivi di questa unicità;
se dimostrano più dei torinesi o dei palermitani la tendenza a fare di
continuo un bilancio di questi ultimi decenni della loro storia, a cercare
cause e rimedi (questi ultimi troppo spesso soltanto teorici) della loro non
lieta situazione”[87].
Carolus Cergoly evoca la Trieste absburgica quale
“città veramente e genuinamente sovranazionale con forti influssi di
civiltà mitteleuropea”, dove “italiani, tedeschi, slavi, greci, turchi,
ebrei, inglesi, francesi e americani lavorano per l’interesse personale e per
quello
p. 365
dell’Impero”[88].
Con il suo volto variopinto, essa piace a tutti, perché “era e deve essere una
città ponte una città d’incontri delle tre grandi culture:
italiana, slava e tedesca”[89].
Nella stessa cornice, Ferruccio Fölkel dipinge il quadro della “capitale
finanziaria dell’impero absburgico, uno dei centri più ricchi d’Europa,
una delle città più disinvolte d’Europa, un intrico di razze, un
punto di incontro e di scontro”[90].
Pier Antonio Quarantotti Gambini mostra che Trieste “è fatta
così, come un essere vivo; i suoi umori e i suoi slanci, le sue
avversioni e i suoi affetti la fanno tramutare da un istante all’altro, le
fanno mutar volto come una creatura”; cosìcché la città si rivela
“esuberante e gaia in superficie, ma grave, aspra, agitata nel fondo”[91].
Enzo Bettiza descrive “un grande emporio in balia del denaro, delle razze,
dell’inquietudine. [...] Trieste era una città storicamente eccitante e
insopportabile: da un lato, in fatti, stuzzicava lo studioso presentandosi
sempre così nuova, così vergine all’indagine, ma dall’altro lo
deprimeva, inducendolo proprio con la sua stessa e sconcertante novità
alla confusione dei giudizi”[92].
Per quanto riguarda la fisionomia degli abitanti, lo
scrittore ritiene che a Trieste “il miscuglio di stirpi troppo diverse aveva
prodotto una fisionomia neutra e sfuggente: una specie di limbo, al di qua
dell’espressione somatica vera e propria, dal quale, a volta a volta, in
un’alternativa simultanea, velocissima, balenavano lampi misti d’astuzia e di
timore, d’intelligenza e di fatuità, di sensualità e di
freddezza”[93]. Fulvio
Tomizza considera che Trieste, “in quanto città di frontiera, è
una città in progress, in sviluppo, in formazione. È stata
fatta dai triestini, ma molto anche dalla gente venuta da fuori, da armatori,
da industriali, da mercanti, da uomini d’affari. Erano ebrei, boemi, greci,
levantini in genere, perfino turchi. Italiani, poi, dal Regno d’Italia. Ma
anche l’umile gente dell’immediata periferia”[94].
In prospettiva storica, secondo l’autore, “tale sua molteplicità
sincronica, che avrebbe avuto ragione almeno di mitigarsi durante l’impero
sovrannazionale austroungarico, del quale la città adriatica costituiva
l’emporio marittimo privilegiato che l’aveva formata, si è
necessariamente esasperata nelle fasi storiche successive in cui si è
sempre mirato a una sua univocità impossibile a meno di non rivelarsi
riduttiva”[95]. Lo
scrittore insiste sulla varietà della città, la quale “rafforza
il sentimento della frontiera” in un mondo “in fondo precario, provvisorio,
all’incrocio tra nord e sud, est ed ovest”; ma, nello spirito dell’ambivalenza
che caratterizza la triestinità, “questo significa anche ricchezza,
ricchezza di umori: porta odori, profumi di altre parti. Il profumo delle
resine e delle bacche del Carso si mescola con quello del mare, la campagna con
la città”[96]. Per questi
motivi, “vivendo a Trieste, uno scrittore ha spesso l’impressione di trovarsi
in un osservatorio ideale dal quale guarda al mondo e, insieme, alla vita”[97].
Guardando al futuro del porto adriatico, lo scrittore affermava, nel saggio del
1991 intitolato Trieste, città di contrasti, che “la città
italiana più lontana dall’Italia
p. 366
ha
oggi tutte le prerogative per riprendere il ruolo a cui la designano la storia
e più ancora la sua posizione geografica. In essa sopravvive gran parte
delle strutture del vecchio emporio che le aveva assicurato un assetto
urbanistico relativamente moderno, di gustoso stampo ottocentesco, al di fuori
del ristretto centro storico romano e medievale che rinserra il castello di San
Giusto. La città offre inoltre una rilevante rete di istituiti di credito
e assicurativi i quali si sono rinnovati e anche potenziati, una dotazione di
centri culturali addirittura sproporzionata ai suoi duecentocinquantamila
abitanti, luoghi di culto per gli aderenti alle fedi religiose più
diffuse nel continente”[98].
Concludiamo il quadro della città centroeuropea
sottolineando il fatto che il suo volto letterario, in cui convergono e si
sublimano tutte le componenti che costituiscono un tessuto storico così
complesso e variegato, rappresenta il riflesso di un fenomeno ben definito per
opera dei poeti, romanzieri e saggisti che hanno dato al loro discorso
artistico una dimensione di ampio respiro, inserendolo in un’area culturalmente
“promiscua, fertile, meticcia, unica in Europa per la sua ricca trama
pluripsicologica”, l’area di quella categoria sovranazionale, quella “strana
massoneria dello spirito”[99],
che è la cultura mitteleuropea.
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[1] Fabio Cusin,
Appunti alla storia di Trieste (con saggio introduttivo di Giulio Cervani), Udine: Del Bianco, 1983: 60.
[2] Cfr. Letteratura italiana. Storia e geografia,
vol. III, L’età contemporanea, Torino: Einaudi, 1989: 6.
[3] Il Banato Timiºan era quella parte dell’antica Dacia
chiamata dopo la conquista romana riparia oppure ripensis, dato
che le rive dei due grandi fiumi – il Tibisco (rom. Tisa) a ovest ed il
Danubio (rom. Dunãre) a sud – costituivano i suoi confini.
[4] Località presente nella mappa del geografo
Claudius Ptolemaios di Alessandria (cca 150 d. C.).
[5] Nella Tabula Peutingeriana, la località
Zambara si trova un po’ più a nord rispetto all’attuale Timiºoara.
[6] L’attuale fiume Bega (o Beghei), che attraversa la
città, era chiamato, fino alla metà del XVIII secolo, Timiºel o
Timiºul Mic (Piccolo Timiº). Evlia Celebi, il viaggiatore turco che descrive
Timiºoara tra gli anni 1660-1664, afferma che la città si trova sul
fiume Timiºoara, fatto che permette di presupporre che il nome della
città sia stato identico a quello del fiume che lo attraversa (che, a
sua volta, è un diminutivo del fiume più grande, Timiº).
[7] Franz Griselini,
Versuch einer politischen und natürlichen Geschichte des temeswarer Bnats in
Briefen an Standespersonen und Gelehrte, I-II, Vienna, 1780.
[8] Citato nel volume del dottor Nicolae Ilieºiu, Timiºoara. Monografie
istoricã, Timiºoara: G. Matheiu, 1943: 76.
[9] I piaristi sono un ordine delle sette nate dopo la
Riforma, fondato in Spagna da Calasans, nel XVI secolo. La loro presenza a Timiºoara
risale al 1750 circa. Sono esclusivamente educatori e hanno formato un grande
numero di universitari.
[10] Pierre Nora,
“La mémoire de papier”, in Idem, Les
Trésors de la Mnémosyne. Recueil de textes sur la théorie de la mémoire de
Platon à Derrida, Dresda: der Kunst, 1998: 125.
[11] Fulvio Tomizza,
Alle spalle di Trieste (Scritti 1969-1994), Milano: Bompiani, 1995: 35.
[12] Cusin, op.
cit.: 193.
[13] La canalizzazione del fiume Bega, cominciata nel 1728,
ebbe un ruolo importante nello sviluppo della città.
[14] Iscrizione citata nel volume di Ilieºiu, op. cit.: 47.
[15] Alberto Spaini,
Autoritratto triestino, Milano: Giordano, 1963: 33.
[16] Angelo Ara,
Claudio Magris, Trieste.
Un’identità di frontiera, Torino: Einaudi, 1987: 21.
[17] Ibidem: 22.
[18] Ibidem: 114.
[19] Liviu Rebreanu,
Jurnal (testo scelto da Puia Florica Rebreanu,
addenda, note e commenti a cura di Niculai Gheran),
Bucarest: Minerva, 1984: 135.
[20] Jacques Rupnik,
“Europa Centralã sau Mitteleuropa?”, Europa Centralã. Nevroze, dileme,
utopii (coordinato da Adriana Babeþi
e Cornel Ungureanu), Iaºi:
Polirom, 1997: 45.
[21] Angelo Maria Ripellino,
Praga magica, Torino: Einaudi, 1991: 5.
[22] Johannes Urzidil,
Trittico praghese (traduzione e note di Elisabetta Dell’Anna
Ciancia), Milano: Adelphi, 1993: 17.
[23] Magris,
“Fortune e sfortune di un trittico. Una storia quasi praghese”, Urzidil, op. cit.: 224.
[24] Božidar S. Nikolajeviè, “Viaþa e vis”, Europa Centralã,
cit.: 73.
[25] Ibidem: 75.
[26] Ibidem: 76.
[27] Czeslaw Milosz,
“La città della giovinezza”, Idem,
La mia Europa (traduzione italiana a cura di F. Bovoli), Milano: Adelphi, 1985: 72.
[28] Ibidem: 73.
[29] Joseph Roth, “Llov”, Idem, Vermittlungen. Texte und Kontexte Österreichischer
Literatur, Vienna: Residenz, 1990 (testo ripreso, nella traduzione romena,
nel volume Europa Centralã, cit.: 120).
[30] Ibidem: 121.
[31] Elias Canetti,
La lingua salvata. Storia di una giovinezza (traduzione italiana
a cura di Amina Pandolfi e Renata
Colorni), Milano: Adelphi, 2001:
14.
[32] Ibidem: 15.
[33] Ibidem.
[34] Miloš Crnjanski, Lirika Itake i komentari,
Novi Sad: Svetovi, 1993 (testo ripreso frammentariamente, nella traduzione
romena, nel volume Europa Centralã,
cit.: 159).
[35] Ibidem: 160.
[36] Ibidem: 162.
[37] Testo presente nel volume Europa Centralã, cit.: 184.
[38] Nicolae Iorga,
“Timiºoara”, Idem, Paginin
alese din însemnãrile de cãlãtorie prin Ardeal ºi Banat, Bucarest: Minerva,
1977: 34.
[39] Ara, Magris, op. cit.: 19.
[40] Cusin, op.
cit.: 179.
[41] Ungureanu,
“Timpul îndreaptã erorile” (intervista realizzata da Vasile Sãlãjan), Tribuna 15 (settembre
1977).
[42] Ibidem.
[43] Eugen Bunaru,
“Aura unui oraº”, AA. VV., Timiºoara între paradigmã
ºi parabolã, Timiºoara: Excelsior, 2000: 134.
[44] Ibidem.
[45] Ara, Magris, op. cit.: 71.
[46] G. Montenero,
“Nella città del realismo borghese il fiore della desolazione
fantastica”, Idem, Quassù
Trieste (a cura di L. Mazzi),
Bologna, 1968: 145.
[47] Ara, Magris, op. cit.: 74.
[48] Bunaru, op.
cit.: 134.
[49] Adam Müller-Guttenbrunn, Der kleine
Schwab, Bucarest: Kriterion, 1973: 45.
[50] Majtényi Erik, Hajóharang a hold utcában,
Bucarest: Kriterion, 1976: 28.
[51] Apud Vasile Bogdan,
“Pãmânt ºi apã, destinul oraºului”, Idem,
Miracolul Timiºoara, Reºiþa: Timpul, 2000: 32.
[52] Slavomir Gvozdenovici,
“Crnjanski u Temisvaru”, Idem, Manual
despre casa vraciului, Bucarest: Kriterion, 1980: 35.
[53] Coleta de Sabata,
“Timiºoara între universitãþi”, Timiºoara între paradigmã ºi parabolã,
cit.: 56.
[54] Eugenio Montale,
Lettere (con gli scritti di Montale su Svevo), Bari: De Donato, 1966:
133.
[55] Guy Scarpetta,
Eloge du cosmopolitisme, Parigi: Grasset & Fasquelle, 1981: 98.
[56] Montale, op.
cit.: 134.
[57] Ara, Magris, op. cit.: 4.
[58] Ibidem: 28.
[59] Carolus Cergoly,
“Il pianeta Trieste”, Idem,
Ferruccio Fölkel, Trieste
provincia imperiale–splendore e tramonto del porto degli Asburgo, Milano: Bompiani, 1983: 282.
[60] Fölkel,
“Giallo e nero era il mio impero”, Trieste provincia imperiale, cit.:
30.
[61] Enzo Bettiza,
Mito e realtà di Trieste, Milano: All’Insegna del Pesce d’Oro,
1966: 23.
[62] Cfr. Glauco Arneri,
Breve storia della città di Trieste, Trieste: LINT, 1998: 42, 51.
[63] C. Schiffrer,
Le origini dell’irredentismo (1813-1860) (a cura di E. Apih), Udine, 1978: 44-46.
[64] Ara, Magris, op. cit.: 26.
[65] A. Vivante,
Irredentismo adriatico, Firenze, 1954: 248.
[66] Spaini, op.
cit.: 31.
[67] Ara, Magris, op. cit.: 29.
[68] Ibidem: 33.
[69] Magris, Dall’altra
parte. Considerazioni di frontiera, Idem,
Utopia e disincanto (Saggi 1974-1998),
Milano: Garzanti, 2001: 55.
[70] Giorgio Voghera,
Anni di Trieste, Gorizia: Goriziana, 1989: 214, 216.
[71] Ara, Magris, op. cit.: 135.
[72] Milan Kundera,
“Tragedia Europei Centrale”, Europa Centralã, cit.: 230.
[73] Jacques Le Rider,
Mitteleuropa. Storia di un
mito (traduzione italiana di Maria Cristina Marinelli), Bologna: Il Mulino, 1995: 80.
[74] Magris,
“Postfazione”, Idem, Danubius
(traduzione romena, note e capitolo post-ultimo a cura di Adrian Niculescu), Bucarest: Univers, 1994:
424.
[75] Italo Svevo,
“Pagine di diario e sparse”, Idem,
Opera omnia (a cura di B. Maier),
vol. III, Milano: Dall’Oglio, 1964: 76.
[76] Umberto Saba,
Inferno e paradiso di Trieste, Idem,
Prose (a cura di Linuccia Saba,
prefazione di G. Piovene, nota
critica di A. Marcovecchio),
Milano: Mondadori, 1964: 818.
[77] Ibidem: 819.
[78] Ibidem.
[79] Scipio Slataper,
Scritti politici (a cura di G. Stuparich),
Milano: Mondadori, 1954: 119.
[80] Cfr. Ara, Magris, op. cit.: 62.
[81] Slataper, L’avvenire
nazionale e politico di Trieste, Idem,
Scritti politici, cit.: 134.
[82] Idem., Lettere
triestine–La vita dello spirito, Idem,
Scritti politici, cit.: 45.
[83] Idem., Il
mio Carso, Milano: Mondadori, 1996: 42.
[84] Giulio Caprin,
Reviviscenze, Bologna: Cappelli, 1957: 42, 55.
[85] Spaini, op.
cit.: 25.
[86] Voghera, op.
cit.: 13.
[87] Ibidem.
[88] Cergoly, op.
cit.: 283.
[89] Ibidem: 285.
[90] Fölkel,
op. cit.: 30.
[91] Pier Antonio Quarantotti
Gambini, “Il cuore di Trieste”, Idem,
Primavera a Trieste e altri scritti, Trieste: Italo Svevo/Dedolibri,
1985: 345, 348.
[92] Bettiza, Il
fantasma di Trieste, Milano: Mondadori, 1985: 41.
[93] Ibidem: 132.
[94] Tomizza, Destino
di frontiera. Dialogo con Riccardo Ferrante, Genova: Marietti, 1992:
131.
[95] Idem, Alle
spalle di Trieste, cit.: 36.
[96] Idem, Destino
di frontiera, cit.: 23.
[97] Ibidem: 34.
[98] Idem, Alle
spalle di Trieste, cit.: 37.
[99] Bettiza, Mito
e realtà di Trieste, cit.: 43.