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«Frontiera» e «letteratura di frontiera» a Trieste

 

 

Afrodita  Carmen  Cionchin,

Università degli Studi di Padova/

Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia

 

Per affrontare la problematica riguardante un concetto intimamente legato a Trieste –quello di «frontiera», assieme alla «cultura e letteratura di frontiera»– si dovrebbe fare un’incursione nella storia. In un’altra relazione[1], analizzando il particolare inserimento della città adriatica nella dinamica fluttuante del rapporto fra centro e provincia nello spazio mitteleuropeo, abbiamo accennato al fatto che, alla fine della prima guerra mondiale, Trieste diventa un centro periferico, situato all’estremo confine orientale d’Italia, in altre parole, una vera e propria «città di frontiera».

L’esito infausto del secondo conflitto mondiale strappò poi, per nove anni, la città all’Italia, confinandola, tra il trattato di pace del 1947 e il cosiddetto memorandum d’intesa del 1954, in un TLT (Territorio Libero di Trieste) controllato dall’ONU che non fu mai realmente costituito e che rappresentò la continuazione dell’occupazione militare alleata cominciata nel 1945. La zona A del TLT, dove si trovava Trieste, rimase per tutti quegli anni amministrata da un governo militare alleato, eccetto i quaranta giorni dell’occupazione militare jugoslava, dal 1 maggio al 12 giugno 1945, che intendeva essere un’annessione di fatto e che è persistita dolorosamente nella memoria collettiva di gran parte della città, impedendo per molto tempo ogni dialogo politico con le popolazioni slave di qua e di là del confine. In questa situazione, Trieste, ancora incerta sul proprio futuro, “sente farsi più angusta, più angosciosa e più opprimente la propria posizione di città priva di certezze e sospesa nel vuoto, di città di confine, in anni nei quali, come forse mai nel passato, confine è sinonimo non certo di dialogo e di mediazione, ma di chiusura e di separazione, di frontiera tra paesi, tra ideologie e, sia pure per poco, tra blocchi contrapposti di potenze[2].

Il concetto di frontiera, con riferimento a Trieste e Gorizia, fu elaborato all’inizio del Novecento da intellettuali come Piero Gobetti, Gaetano Salvemini, Scipio Slataper, per poi essere continuamente messo in discussione, nei suoi vari aspetti, dagli scrittori e uomini di cultura appartenenti non solo a questo spazio, tra i quali si distinguono Giuseppe Ungaretti, Elias Canetti, Milan Kundera, Ervino Pocar, fino a

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Claudio Magris, Fulvio Tomizza, Angelo Ara, Joseph Zoderer, Alois Rebula, Franz Tumler, Camillo Medeot, Celso Macor.

Cominciamo con la definizione di Fulvio Tomizza, la cui vita si costituisce in un vero e proprio «destino di frontiera», onde la qualifica che gli venne attribuita – «scrittore di frontiera». Nella sua visione, “frontiera reale, frontiera «per antonomasia», è quel territorio sempre conteso, e in definitiva sempre estraneo ai contendenti, che alla sommità dell’Adriatico si insinua tra Italia, Austria e Jugoslavia, nel quale si radicano il mio destino di uomo e la mia ricerca di narratore”[3]. Nel saggio del 1987 intitolato Frontiera reale, l’autore completa: “È un angolo di terra estremamente variegato e tuttavia inscindibile, che di fatto oggi non appartiene nemmeno ai nativi del luogo, in buona parte costretti a vivere lontano (a doversi ricavare nuovi spazi di frontiera) e in minore porzione rimasti sul suolo dei padri per registrare il suo progressivo stravolgimento e la graduale riduzione della loro stessa identità”[4].

Sul piano storico-politico e geografico, la frontiera triestina rappresenta e soprattutto rappresentava essenzialmente la frontiera con l’Est, con quell’«altra» Europa e tutto ciò che deriva da tale statuto: “Quella che vedevo concretamente davanti a me, quando andavo a giocare sul Carso con i miei amici –scrive Claudio Magris nel saggio del 1993 intitolato Dall’altra parte. Considerazioni di frontiera– era la Cortina di Ferro, la frontiera che tagliava in due, allora, il mondo intero e che correva a pochissimi chilometri da casa mia. Aldilà di essa cominciava quel mondo immenso, sconosciuto e minaccioso che era l’impero di Stalin, un mondo difficilmente accessibile, almeno sino all’inizio degli anni Cinquanta”[5].

C’è, però, da notare che quelle terre al di là del confine, che appartenevano all’«altra» Europa, erano state italiane sino a pochi anni prima, sino alla fine della prima guerra mondiale, quando erano state occupate e annesse dalla Jugoslavia. “Le avevo viste e conosciute nella mia infanzia –aggiunge lo scrittore– facevano e fanno parte costitutiva del mondo triestino, della mia realtà”[6]. L’analisi continua mettendo in risalto il fatto che “al di là del confine c’erano, dunque, contemporaneamente, il noto e l’ignoto; c’era un ignoto che bisognava riscoprire, far ridiventare noto”, in quanto l’aggettivo «altra», nell’espressione l’«altra» Europa, “deriva certo in primo luogo dall’appartenenza all’universo staliniano, ma marcava pure un’ignoranza da parte occidentale. […] Questa diffusa ignoranza era ed è spesso tinta di disprezzo, intenzionale o inconsapevole”[7]. Viene data anche la spiegazione, poco riconfortante, ma reale, di tale atteggiamento: “Ciò che sta a est appare spesso oscuro, inquietante, promiscuo, poco dignitoso; c’è una tendenza a identificare l’est col negativo. Il principe di Metternich diceva che a Vienna, oltre il Rennweg, la grande arteria che attraversa la capitale austriaca, cominciavano i

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Balcani, termine col quale egli intendeva qualcosa di confuso e indistinto, di peggiorativo; oggi, a Ulm, molti chilometri a ovest di Vienna, si dice che a Neu-Ulm, oltre il Danubio che attraversa la città, incominciano i Balcani, termine che anche in questo caso non è un complimento”[8].

        Per il suo statuto, Trieste era chiamata all’epoca «piccola Berlino»; la Cortina di Ferro era vicinissima e, almeno sino alla metà degli anni Cinquanta, divideva la città dal suo retroterra e dunque da se stessa. “Si aveva talora la sensazione non soltanto di vivere su una frontiera, ma di essere una frontiera”[9]. Il paragone con Berlino si faceva ancor di più nel caso di Gorizia, città letteralmente divisa in due.

        Sul piano psicologico e spirituale, la frontiera ha un significato ambivalente che accomuna il positivo ed il negativo in un complesso non privo di forti tensioni: “La frontiera è duplice, ambigua –rileva Claudio Magris– talora è un ponte per incontrare l’altro, talora una barriera per respingerlo. Spesso è l’ossessione di situare qualcuno o qualcosa dall’altra parte”[10]. Lo scrittore aggiunge poi, approfondendo l’argomento: “Ci sono città che si trovano sul confine e altre che hanno i confini dentro di sé e sono costituite da essi. Sono città cui le vicende politiche tolgono parte della loro realtà, come il retroterra, il forte legame con il resto del territorio nazionale; la storia le slabbra come una ferita e fa di esse un teatro del mondo, vale a dire un teatro dell’assurdo. È in queste città che si esperimenta in modo particolarmente intenso la duplicità della frontiera, i suoi aspetti positivi e negativi; i confini aperti e chiusi, rigidi e flessibili, anacronistici e travolti, protettivi e distruttivi”[11].

Un’idea simile si ritrova anche nello studio Trieste. Un’identità di frontiera, dove viene sottolineato il fatto che “la frontiera è una striscia che divide e collega, un taglio aspro come una ferita che stenta a rimarginarsi, una zona di nessuno, un territorio misto, i cui abitanti sentono spesso di non appartenere veramente ad alcuna patria ben definita o almeno di non appartenerle con quella ovvia certezza con la quale ci si identifica, di solito, col proprio paese. Il figlio di una terra di confine sente talora incerta la propria nazionalità oppure la vive con una passione che i suoi connazionali stentano a capire, sicché egli, deluso nel suo amore che non gli sembra mai abbastanza corrisposto, finisce per considerarsi il vero e legittimo rappresentante della sua nazione, più di coloro per i quali essa è un dato pacificamente acquisito”[12].

Il giudizio va avanti sotto il segno di altri due verbi antitetici messi insieme –separare e unire– dopo la coppia precedente, dividere e collegare: “Ma la frontiera, la quale separa e spesso rende nemiche le genti che si mescolano e si scontrano sulla sua linea invisibile, anche unisce quelle stesse genti, che si riconoscono talora affini e vicine proprio in quel loro comune destino –che le grandi madrepatrie non riescono a capire– in

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quel loro sentimento segreto d’inappartenenza, in quell’incertezza e in quell’indefinibilità della loro identità”[13].

Fulvio Tomizza condivide le stesse posizioni teoriche, sostenendo che, da una parte, la frontiera può essere motivo di arricchimento: si può disporre di due o più educazioni, culture, lingue, esperienze, a volte anche religioni. Quindi si dovrebbe essere in una condizione di privilegio, sul displuvio di due o tre mondi. In realtà questa situazione si risolve spesso in una perdita di identità. Invece di avvicinare i popoli e i governi, di funzionare da cerniera fra razze diverse, queste situazioni di frontiera a volte sono causa di conflitti e, sul piano privato, di uno scontento, di un’estraniazione continui. C’è dunque un diritto e un rovescio della medaglia. Di fronte a questa realtà della frontiera, lo scrittore esprime la sua professione di credenza: “Io ho cercato di pormi come conciliatore, dopo lacerazioni terribili. Misto, tirato da più parti come sono, non potevo fare altro”[14].

In un altro contesto, Tomizza viene a confessare i complicati processi interiori che implicano lo statuto di «uomo di frontiera», statuto descritto benissimo dal destino di colui che, nato e cresciuto a Materada d’Umago, in Istria, si trasferì a Trieste al definitivo passaggio del suo paese sotto l’amministrazione jugoslava. Le sue parole rivelano la concezione che gli ha marcato in maniera inconfondibile l’opera letteraria: “In sostanza, per il padre e contro il padre, forzando comunque la sua ultima aspirazione, che era soprattutto brama di morte, io non avrei fatto altro che cercare di sciogliere quel «contrasto irriducibile», rendere attuabile «l’impossibile riconciliazione». Prima di tutto dentro me stesso, per non dover più scegliere tra le diverse e magari opposte componenti di sangue, di cultura, di mentalità, ma tentando piuttosto di accordarle, riconoscendole proprie di un uomo di frontiera, sentendole stimolanti anziché gravose. Ciò mi avrebbe spontaneamente portato, anche con gli scritti, ad allargare la mia frontiera, sconfinando in altre etnie, in altre fedi, in altre regioni dei vari Paesi che vi si affacciano, con la sensazione di trovarmi sempre nella mia parrocchia. Alla quale sono tornato, per trascorrervi almeno due stagioni di piena luce, lasciarmi condurre e accarezzare dal suo paesaggio che ne ha viste tante e probabilmente ne vedrà di altre e tuttavia continuerà, impassibile, a riproporre la sua eterna mutabilità, la sua mutabile eternità”[15].

Il lettore può scoprire, accanto allo scrittore, i significati profondi delle opzioni di chi si trova alla frontiera tra due mondi e due culture. Si tratta fondamentalmente del carattere morale e riparatore di tali scelte, soprattutto sul piano individuale, mentre su quello dei rapporti interumani, il primato spetta al rispetto reciproco: “Nel panorama di un mondo forzatamente o disinvoltamente incline al possibilismo e al trasformismo, la mia scelta aveva ed ha soprattutto carattere morale e riparatore, sul piano in primo luogo individuale. Se intendo almeno in parte attingere all’eternità della natura, la quale può benissimo permettersi di essere per la gioia di noi tutti anche mutevole, ebbene devo

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saldare la mia necessaria molteplicità col cemento della coerenza, costi pure essa solitudine, silenzio, rinuncia, dimenticanza. Soltanto così da luogo di congeniti attriti, la frontiera può rovesciarsi in oasi di pace, in una piega di territorio non omologato, dove accanto alle reliquie di antichi idiomi persistano la lealtà e il rispetto dell’altro”[16].

Il problema più acuto sotto l’aspetto psicologico è quello dell’identità, sia individuale, sia collettiva. In merito alla prima, Claudio Magris notava: “Sin da bambino capivo, sia pur vagamente, che, per crescere, per formare la mia identità in un mondo non completamente scisso, avrei dovuto varcare quella frontiera –e non solo fisicamente, grazie al visto su un passaporto, bensì soprattutto interiormente, riscoprendo quel mondo che era al di là del confine e integrandolo nella mia realtà”[17]. Nell’allargare la prospettiva, lo scrittore considera che, essenzialmente, “ogni confine ha a che fare con l’insicurezza e col bisogno di una sicurezza. La frontiera è una necessità, perché senza di essa ovvero senza distinzione non c’è identità, non c’è forma, non c’è individualità e non c’è nemmeno una reale esistenza, perché essa viene risucchiata nell’informe e nell’indistinto. La frontiera costituisce una realtà, dà contorni e lineamenti, costruisce l’individualità, personale e collettiva, esistenziale e culturale”[18].

Anche per quanto riguarda l’identità collettiva, la condizione di frontiera produce spesso un sentimento d’incertezza, d’inappartenenza ed estraneità; un contraddittorio sentimento di vivere al centro e insieme alla periferia della vita. La città, che sino al 1954 era un Territorio Libero amministrato dagli americani e dagli inglesi, faceva e non faceva parte dell’Italia; era più facile che altrove dubitare di avere un futuro, non si sapeva bene chi e che cosa si era e ciò induceva a continue messinscene della propria identità. La coscienza collettiva si sentiva soffocata da ogni parte da confini, ma si circondava a sua volta febbrilmente di nuove frontiere, per sfuggire a ogni precisa appartenenza e per costruirsi un’identità grazie a questa alterità esasperata.

In questa prospettiva, il concetto di «frontiera» è connesso ad un altro, quello di «Heimat» (paese, luogo, terra natale, patria), a proposito del quale Joseph Zoderer affermava che, per quanto strano e assurdo ci possa sembrare, l’uomo sembra voler essere prima certo di sé e appena dopo accertarsi del mondo che lo circonda. Sprofondato in una vita catastrofica o forse nonostante questa, l’individuo cerca –proprio come le minoranze culturali o etniche– un’identità e un riconoscimento della sua peculiarità, come uno che, nella casa che va a fuoco, cerca disperatamente il suo certificato di nascita. “Io credo che questa identità sia un’esigenza fondamentale dell’uomo, proprio come l’aria, l’acqua e il pane. La dignità di sé, la capacità di proteggere e custodire la propria identità, la necessità di riaccettarsene in continuazione”[19].

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Lo scrittore aggiunge: “Siccome la Heimat per me è il luogo assoluto dell’ovvio, essa è per me anche il luogo assoluto dell’interrogativo, della sfida, della provocazione della vita: una parete liscia, un muro perfetto che mi sfida a trovarci delle fessure”[20].

        Ciò avviene proprio in quelle zone dove i confini vengono spostati, spariscono e improvvisamente ricompaiono. In tal modo, città e individui si trovano spesso ad essere degli “ex” e quest’esperienza dello spaesamento, della perdita del mondo, non riguarda solo la geografia politica ma la vita in generale. È questo il caso del sopra citato Zoderer, il quale confessa di essere nato in un curioso punto di cesura della Mitteleuropa, a sud delle Alpi, in un intrico di monti e valli, tra ghiacciai e vacche, palme e meli, nel Südtirolo dei contrasti, in una piccola regione che per settecento anni ha fatto parte della monarchia asburgica e dopo la prima guerra mondiale è passata –merce di scambio politico– dall’abbraccio del fascismo a quello del nazionalsocialismo. “Oggi tutti noi abitanti di questa terra –tedeschi, italiani e ladini– stiamo portando in noi le conseguenze della storia, ed ogni giorno passa in un processo imprevedibile di apprendimento della tolleranza e del rispetto”[21]. L’autore continua la storia della sua vita, declinando la propria identità: “Io sono uno di quel quarto di milione di cittadini italiani di lingua tedesca, uno scrittore con passaporto italiano che scrive in tedesco e vive in Südtirolo. Quando avevo quattro anni, pochi mesi dopo l’opzione per la Germania o l’Italia nel 1940, i miei genitori mi portarono via da casa mia, assieme ai miei fratelli, per trasferirsi in Stiria, a Graz. Da quel momento vissi in un paese straniero come se fosse la mia patria, e non vedevo alcuna differenza, neppure il fatto che per strada, in cortile e a scuola parlavo il dialetto di Graz come tutti quelli della mia età –la loro lingua era la mia– ma, chiusa la porta di casa mia, le parole improvvisamente mi si cambiavano in bocca, in un baleno mi si trasformavano nella testa in altre parole, o comunque era la mia bocca a pronunciarle in modo del tutto diverso, in sudtirolese. Tra le pareti di casa mia, parlavo senza accorgermene con un’altra lingua, parlavo come un bambino di Merano, non come uno di Graz. Quando poi mi stabilii definitivamente nella mia terra natale, ero un uomo sulla trentina”[22].

        Un altro doloroso spostamento di confini riguarda il cosiddetto «Kosakenland» che i tedeschi, durante la seconda guerra mondiale, avevano promesso ai loro alleati cosacchi e che, per qualche mese, era stato situato in Carnia, l’aspra e povera parte del Friuli, sino alla catastrofe finale. Questo episodio è evocato da Claudio Magris, il quale nota che in quelle terre i cosacchi non avevano soltanto trasferito le loro tende, ma anche le loro radici; avevano trapiantato il loro passato e la loro steppa in quella regione, della cui esistenza, sino a poco prima, non avevano nemmeno sentito parlare. Convinti di combattere per la libertà, si erano posti al servizio della più feroce tirannia. In nome di una patria, di cui andavano alla ricerca, e nel desiderio di trovare un punto fermo, un

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proprio stabile e tranquillo confine, essi depredavano un’altra gente della sua patria, dei suoi confini[23]. Con questa storia cosacca, lo scrittore mette in risalto come il confine che “corre tra la verità e la menzogna sia spesso incerto, anche se il nostro compito è quello di cercare incessantemente di stabilirlo. La messinscena della verità si capovolge spesso nel suo opposto, la verità viene mascherata e si trasforma in menzogna; anche in questo caso è un confine che viene inavvertitamente oltrepassato o confuso. La frontiera tra menzogna e verità, di per sé divise da una chiara linea di separazione, come il sì e il no delle parole del Vangelo, viene spesso cancellata e spostata dalla storia e dall’ideologia”[24].

        Nella zona che stiamo studiando, il più drammatico spostamento di confini è quello che ha portato ad un massiccio esodo italiano nel momento in cui, alla fine della seconda guerra mondiale, escono dalla storia d’Italia territori segnati per secoli dalla civiltà veneziana, in cui la coscienza nazionale italiana si era innestata su una tradizione culturale italiana più antica e radicata di quella di Trieste, e che avevano poi trovato, soprattutto a partire dal 1866, in Trieste il loro naturale centro di gravitazione politico-culturale. Il distacco di queste terre dall’Italia non è infatti soltanto politico-territoriale, ma anche etnico-culturale.

In sostanza, la Jugoslavia di Tito, dopo essersi liberata con la sua straordinaria guerra di resistenza, non si era soltanto ripresa terre slave, ma si era annessa, con l’Istria e Fiume, anche terre italiane. Negli anni precedenti c’era stata l’oppressione fascista degli slavi, e la sottovalutazione dei loro diritti anche da parte di molti italiani non esplicitamente fascisti ma nazionalisti. La riscossa jugoslava, all’insegna del totalitarismo, fu violenta e indifferenziata. In quegli anni segnati dalla paura, dall’intimidazione e dal delitto, circa trecentomila italiani lasciarono, in momenti diversi, le loro terre e le loro case, per errare nel mondo e vivere, anche per molti anni, in campi profughi. Praticamente, quasi tutta la popolazione italiana decise di abbandonare la terra natale, con una decisione che può anche essere stata influenzata da una psicosi e da una suggestione collettiva e da consigli impartiti dall’alto e che è stata indubbiamente stimolata dalla consapevolezza che il tradizionale ruolo di nazione egemone, di nazione storica, svolto dagli italiani nell’Istria era ormai giunto al suo termine. Ma questa compatta decisione è stata soprattutto un’affermazione di italianità e un gesto di protesta, e insieme una conseguenza della contemporanea pressione di due fenomeni coincidenti, e reputati dai più, appunto per questa coincidenza, intollerabili: il nazionalismo jugoslavo, esasperato dal vicino ricordo del fascismo, e il comunismo di guerra. Aspetto quest’ultimo, come notarono Angelo Ara e Claudio Magris, che spinge alla fuga, e in molti casi proprio verso Trieste, anche tanti sloveni e croati[25].

Per tornare all’esodo italiano dall’Istria, si deve notare che questa gente, che aveva perso tutto, veniva spesso incompresa e ignorata nel suo dramma e perciò spesso

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si rinchiudeva a sua volta in altre frontiere che si rizzavano nei cuori, le frontiere dell’amarezza e del risentimento che isolavano questi esuli non soltanto dalla loro terra perduta, ma anche, spesso, da quella in cui venivano a inserirsi e che li ignorava e li faceva sentire parzialmente stranieri[26].

Dolorosamente, altre, ancora più complesse frontiere venivano a crearsi intorno a quegli esuli che, pur soffrendo il dramma dell’esilio e dell’incomprensione da parte dell’Italia ufficiale e pur opponendosi alla violenza nazionalista slava che li cacciava, si rifiutavano di unirsi ai sentimenti nazionalisti italiani e quindi ad ogni indiscriminato rifiuto degli slavi e continuavano a vedere nel dialogo fra italiani e slavi la loro identità più autentica. Essi continuavano a considerare il loro mondo istriano e adriatico, un mondo misto e composito, non solo italiano e non solo slavo bensì italiano e slavo, venendo così odiati sia dai nazionalisti slavi sia da quelli italiani e venendo quindi a trovarsi in una specie di terra spirituale di nessuno, circondata da altre frontiere. Il riflesso letterario di tale storia sofferta è rappresentato da quella che venne chiamata la «letteratura dell’esilio», alla quale faremo riferimento nella seconda parte della presente trattazione.

Dopo l’esodo dall’Istria, questo confine orientale d’Italia del quale stiamo trattando è stato il teatro di un’altra migrazione, quantitativamente tanto più modesta, ma molto più ignorata e tragica, evocata da Claudio Magris in Un altro mare e in Microcosmi: la vicenda dei duemila operai italiani di Monfalcone, convinti militanti comunisti che avevano conosciuto le prigioni fasciste e i Lager tedeschi e che, mentre avviene l’esodo istriano, lasciano tutto per trasferirsi in Jugoslavia e contribuire alla costruzione del comunismo. Quando Tito rompe con Stalin, vengono perseguitati come stalinisti e deportati in due Gulag – a Goli Otok e a Sveti Grgur, dove subiscono violenze d’ogni genere e resistono in nome di Stalin, che ai loro occhi rappresenta l’Ideale e la Causa. Più tardi ancora, tornati in Italia, vengono vessati in quanto comunisti e osteggiati, quali scomodi testimoni del passato stalinista, dal Partito Comunista Italiano: si ritrovano, ancora una volta, dall’altra parte, secondo l’espressione di Claudio Magris, dalla parte sbagliata nel momento sbagliato, circondati dalle frontiere più dure e feroci. E rimasero così “fuori posto nella Storia e nella politica, a combattere –con incancellabile dignità e coraggio– per una causa che, se avesse vinto, avrebbe visto nascere nel mondo tanti più gulag, creati per stritolare uomini liberi come loro”[27].

Lo scrittore aggiunge in Microcosmi che “strappare all’oblio questa sanguinosa nota a piè di pagina della storia universale significa salvare l’eredità morale di quella forza e di quello spirito di sacrificio che hanno permesso ai «monfalconesi» –come venivano chiamati– e ai loro compagni di sventura di resistere all’annichilimento della persona, sia pure per fede in un nome che era peggiore di quello che li perseguitava. Quell’eredità morale va raccolta anche da chi non ha condiviso la loro bandiera; guai se, quando cade la fede nel «Dio che è fallito», sparisce con essa la qualità umana –la

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dedizione a un valore sovrapersonale, la fedeltà, il coraggio– che quella fede aveva contribuito a forgiare”[28].

Dopo aver esaminato i vari connotati del concetto di «frontiera», in ciò che segue faremo riferimento ad un concetto connesso, quello di «cultura di frontiera». A questo proposito l’idea basilare riguarda il fatto che il confine, la sua peculiarità, incide profondamente nella formazione e nella mentalità delle popolazioni che ci vivono accanto, fino al punto di creare, talvolta anche inconsapevolmente, una particolare «cultura di confine».

Questa peculiarità è stata d’ispirazione a scrittori, poeti e studiosi, che si sono formati nel ricco humus culturale che l’incrociarsi, il sovrapporsi e talvolta lo scontrarsi di culture aveva modellato nel corso dei secoli. Infatti, dai luoghi di frontiera –non solo nazionale o linguistica, ma anche etnica, sociale, religiosa, culturale– è spesso nata una notevole ed incisiva letteratura, espressione di quella crisi e di quella ricerca dell’identità che segnano oggi il destino di ognuno e non certo soltanto di chi nasce e vive nelle terre di confine.

A proposito del carattere e della cultura degli uomini che vivevano in questa zona di confine, Piero Gobetti si esprimeva così durante una conferenza che tenne a Gorizia nel 1922: “Le terre di confine sono il campo più irrequieto e incontrastato della lotta di idee e dell’elaborazione della civiltà. A tutti voi senza distinzione di partiti, si presenta un grande compito di studio e di creazione”[29] e aggiungeva, con toccante attualità, che la coesistenza di più culture in questa terra era quasi un ammonimento riguardo l’esigenza di una superiore dignità umana.

Sul piano artistico, la condizione di frontiera –che si confonde spesso con l’ossessione di situare qualcuno o qualcosa dall’altra parte– viene conciliata nella letteratura, la quale diventa così un mezzo per risolvere, in maniera esemplare, i problemi che ne derivano. “La letteratura, fra le altre cose, è pure un viaggio alla ricerca di sfatare questo mito dell’altra parte, per comprendere che ognuno si trova ora di qua ora di là – che ognuno, come in un mistero medievale, è l’Altro”[30]. In un certo modo, secondo Guy Scarpetta, il mito originario piano piano ha cessato di essere una mancanza, un “richiamo”, ed è diventato uno spazio “archeologico” percorso ininterrottamente. Come se la frontiera dovesse essere passata migliaia di volte per costatare che, in realtà, non esiste frontiera[31], spiritualmente senz’altro.

In una più complessa prospettiva, si può notare che la letteratura è di per se stessa una frontiera ed una spedizione alla ricerca di nuove frontiere, un loro spostamento e una loro definizione. Ogni espressione letteraria, ogni forma è una soglia, una zona sul limitare di innumerevoli elementi, tensioni e movimenti diversi, uno spostamento dei confini semantici e delle strutture sintattiche, un continuo smontaggio e

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rimontaggio del mondo, delle sue cornici e delle sue immagini, come in un teatro di posa in cui incessantemente si riassestino le scene e le prospettive della realtà[32]. In tale contesto, ogni scrittore, “lo sappia e lo voglia o no, è un uomo di frontiera, si muove lungo di essa; disfa, nega e propone valori e significati, articola e disarticola il senso del mondo con un movimento senza sosta che è un continuo slittamento di frontiere”[33].

 Con l’osservazione che, spesso, lo scrittore di confine si trova fra Scilla e Cariddi, tra la retorica di un identità compatta e quella di un’identità sfuggente. Tutti conoscono e disprezzano i primi, gli scrittori che si fanno «torvi custodi della frontiera» – dell’italianità, della slovenità, della tedeschità. Ma anche gli altri, che gli combattono da posizioni tanto più nobili, sono spesso vittime di un’altra retorica di confine, quella di voler negare a ogni costo ogni confine, di mettersi sempre dall’altra parte, di sentirsi – ad esempio –a Trieste italiano fra gli sloveni e sloveno fra gli italiani– oppure –in Tirolo– tedesco con i carabinieri e italiano con gli Schützen. Da qui deriva un’altra menzione riguardante il fatto che questa posizione si potrebbe dimostrare politicamente meritevole in un clima di aspri conflitti etnici, ma allo stesso tempo rischia di diventare una formula stereotipa, un comodo «alibi letterario», e di indulgere, a sua volta, a quel pathos del confine che si vuole negare, a quell’ossessivo interrogativo sull’identità che si esprime nel dichiarato compiacimento di non riconoscersi in alcuna identità precisa.

L’analisi che abbiamo cercato di realizzare finora sostiene l’idea che la specificità della frontiera e della cultura di frontiera deriva soprattutto dal suo carattere ambivalente e contraddittorio, che viene ad arricchire di particolari connotati il volto letterario del mito di Trieste. Infatti, se Trieste è una frontiera, quest’ultima diviene, nelle opere letterarie, un modo di vivere e di sentire, una struttura psicologica e poetica, come si potrà vedere in seguito.

 

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Apriamo la seconda parte della presente relazione sotto il segno della cosiddetta «identità in rottura», promossa da Sorin Alexandrescu nel volume omonimo. Essa è associata a quella che venne chiamata «identità in movimento» e, ovviamente, alla «identità multipla», di solito «doppia identità», sulla quale lo scrittore afferma: “La doppia identità è un effetto dell’emigrazione e dell’immigrazione. Se si va in un altro paese come straniero, ci si deve adattare e l’adattamento implica la rinuncia a certi riflessi per ottenerne altri. È quindi un fenomeno abbastanza strano, che assomiglia ad una sorta di morte e, allo stesso tempo, ad una sorta di rinascita. È molto difficile vivere con l’identità vecchia in un altro paese perché si è minacciati dalla stigmatizzazione, è troppo facile che ci sia riconosciuti come un «caso» distinto”[34].

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Ci sarebbe inoltre da notare che le identità non sono equivalenti: si passa da una all’altra. Sono complementari e successive, perché si hanno in momenti diversi dell’evoluzione di una persona e, quindi, ad un’altra età. Ma la prospettiva è ancor più complessa, cosicché la doppia identità si rivela quale “compromesso diurno con gli incubi notturni”, quale “incapacità di scegliere tra il ricordo e l’ansia del presente”[35]. È, perciò, una fonte di conflitto interiore. Allo stesso tempo essa implica anche un conflitto esteriore. Da una parte, l’emigrante non ha passato, nel senso che non ha il passato dei locali. Non ha fatto la scuola con loro, né il servizio militare. L’alloctono non ha la mitologia personale dell’autoctono e mai la potrà capire o immergersi in quell’impasto di ricordi e valutazioni e pregiudizi comuni che rappresentano la cultura locale. La potrà imparare e leggere dal difuori, la potrà anche amare, ma sarà un atto libresco, un amore con la testa. L’alloctono e l’autoctono non hanno la stessa cultura e mai la potranno avere, e no perché non vogliono o perché si disprezzano reciprocamente –anche se ci sono, abbastanza frequentemente, casi del genere. “La cultura, più della lingua parlata, era quel confine sottile che passava tra me e l’Altro”[36] – afferma Sorin Alexandrescu a proposito della sua esperienza personale.

Dall’altra parte, l’emigrante non ha futuro. Egli non può fare dei progetti a lunga scadenza, ha semplicemente il sentimento che oggi è, ancora, tollerato e potrà cominciare il domani soltanto con nuovi adattamenti destinati a consolidare la tolleranza. È vittima di ciò che sarebbe il trapianto culturale (transplantation culturelle), attraverso il quale un individuo «si tuffa» in un’altra società, in un ambiente e in una cultura diversi da quelli propri, essendo un «migrante culturale» (migrant culturel).

La doppia identità è, di conseguenza, individuale e soprattutto culturale. In questa prospettiva l’emigrante, come ogni minoritario, è, in confronto ai maggioritari, malato di diffidenza. Ma la sua malattia rappresenta la super-interpretazione, la super-analisi degli altri, tipica, secondo Eco, ai casi di sotto-codificazione, alle situazioni in cui solo delle regole vaghe sembrano legare espressioni e contenuti. L’emigrante vive il paese d’adozione come un mondo cronicamente sotto- oppure non codificato. Egli non conosce i suoi codici per il semplice motivo che non è il loro prodotto. Ed è proprio la mancanza dell’evidenza dei codici che porta alla super-interpretazione: l’emigrante sospetta profondità o complessità inattese, oppure a lui nascoste di proposito. E la fine della super-interpretazione è, oppure potrebbe essere, la fine della lotta tra le due identità: non sospettare più l’altro significa non sospettare più sé stesso.

La doppia identità appare non solo come fonte di conflitto, interiore ed esteriore, ma anche di paradossale libertà. L’emigrante è stimato se si conforma alle norme locali, ma è guardato in maniera ironica se cerca di identificarsi totalmente con esse. L’iperurbanismo è stridente, e non soltanto nel linguaggio. L’autoctono apprezza il «fascino» di uno straniero se esso è un più, non un meno, in rapporto alle norme locali: un tono, una sfumatura – la marca supplementare. “Qualsiasi azione è un modo per

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profilare la mia doppia identità, di sottolineare il primo o il secondo lato della stessa – aggiunge Alexandrescu. Ogni atteggiamento è una scelta non solo per un certo tipo dell’altro, ma anche per un certo tipo dell’io[37].

Il problematismo inerente all’esilio trova il suo riflesso più fedele nella letteratura. Con riferimento alla letteratura mitteleuropea, si è proprio affermato che la sua sorte è legata all’esilio – inteso ad literam, come emigrazione. Non a caso i maggiori scrittori polacchi, da Adam Mickiewicz e Juljusz Slowacki fino a Czeslaw Milosz, Leszek Kolakowski e Witold Gombrowicz, nonché gli scrittori cecoslovacchi Milan Kundera e Josef Škvorecky, i russi Vladimir Nabokov, Ivan Bunin e Aleksandr Solženicyn, insieme a scrittori romeni quali Mircea Eliade e Emil Cioran, hanno tutti creato in esilio. La sorte di questa letteratura è, allo stesso tempo, “esilio” in un altro significato: esilio dal circuito ufficiale. In Polonia, Zbigniew Herbert, in Cecoslovacchia, Václav Havel e Bohumil Hrabal, in Ungheria, György Konrád e Miklós Haraszti, in Jugoslavia, Danilo Kiš, in Russia, Joseph Brodsky e Viktor Irotchev e, in Lituania, Tomas Venclova – tutti hanno creato al di fuori delle strutture ufficiali della vita letteraria.

Per quanto riguarda lo spazio oggetto della presente ricerca si può notare che, alla metà del Novecento, Trieste divenne il centro di un movimento letterario con tratti peculiari ben definiti, che si identifica con la «letteratura dell’esilio», sulla quale dà testimonianza Giorgio Voghera, tra i primi, nello studio intitolato Letteratura a Trieste: “La «letteratura dell’esilio» è l’opera di scrittori istriani, liburnici, dalmati, trapiantatisi a Trieste in parte già in tempi ormai lontani, in parte in questo dopoguerra, dopo che i loro paesi d’origine erano stati assegnati alla sovranità o all’amministrazione jugoslava”[38]. Allo stesso proposito, Voghera afferma in un’altra parte: “Trieste è diventata alla fine l’autentico centro letterario di un’Istria che non esiste più”[39].

La tematica di questa letteratura concerne l’«esilio» con tutta la problematica che esso comporta. A tale concetto fa ampio riferimento Enzo Bettiza, nel libro intitolato appunto Esilio (1996), in cui racconta la propria vita, la vita della sua famiglia appartenente al patriziato spalatino e la storia della città dalmata, lungo quattro percorsi fra loro intrecciati. Uno di questi, insistito seppure intermittente, è legato al tema dell’esilio che dà il titolo al libro. La sindrome da esilio, quel particolare malessere d’estraniazione e d’illusorietà esistenziale che perseguita l’esule ovunque egli si trovi, non è un argomento letterario inedito. Lo hanno già affrontato e trattato con lucidità, talora con amara brutalità, alcuni scrittori nati come Kundera all’est, o quasi all’est, e successivamente trapiantati all’ovest. “Io però, fino ad ora, non avevo mai sfiorato l’argomento, neppure di sfuggita – confessa l’autore. Avevo sempre finto, con gli altri e più ancora con me stesso, che la cosa in fondo potesse non riguardarmi e toccarmi personalmente. M’illudevo, volevo illudermi, di non portare quel fardello sulle spalle. In

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sostanza, rimuovevo un disagio che però, appena mi sono abbandonato alla rievocazione autobiografica, è quasi subito emerso con straordinaria energia dal sottosuolo del mio inconscio conculcato. Allora ho capito che non sarei mai riuscito a spiegarmi interamente a me stesso se non avessi tentato, una buona volta, di spiegare più a fondo i misteriosi disturbi psichici che quella sindrome fa allignare nelle sue vittime”[40].

Bettiza affronta tale argomento delicato definendosi per primo: “Io sono infatti un esule nel più completo senso della parola: un esule organico più che anagrafico, uno che si sentiva già in esilio a casa propria, molto prima di affrontare la via dell’esodo effettivo nella scia delle grandi migrazioni che, verso la fine della seconda guerra europea, dovevano stravolgere la carta etnica e geografica dell’Est europeo. Fin dai tempi in cui ero stato costretto a spostarmi di continuo fra il confino scolastico di Zara e l’ambiente nettamente più slavo e più familiare di Spalato, mi sono trascinato addosso il disagio di un ragazzo bilingue, sdoppiato, spesso quasi estraneo a se stesso. Un ragazzo che non sapeva mai bene a chi e a che cosa appartenere; sempre in bilico perplesso e interrogativo fra genitori, nonni, zii, cugini, amici, amiche, nutrici, servi di diversa nazionalità; sempre precario in una terra nella quale, soprattutto dopo il crollo dell’Austria, i risentimenti e i contrasti nazionali erano diventati l’acido pane quotidiano di cui si nutrivano i suoi irrequieti abitanti”[41].

Sempre nell’introdurre la sua storia, l’autore confessa: “Per usare un’efficace immagine di Gide, che al suo Journal aveva confidato certi sentimenti quasi analoghi ai miei, anch’io fin da ragazzo avevo avuto l’impressione di vivere come sospeso sul bracciolo di una sedia provvisoria, sempre sul punto di alzarmi e andarmene altrove nella speranza di trovarvi la sedia giusta su cui fermarmi”[42]. Dopo tale preambolo, si arriva all’idea di esilio: “Tutto questo si rafforzò quando per me, non ancora diciottenne, arrivò il momento chirurgico del taglio ombelicale: l’esodo vero e proprio, lo strappo definitivo dalle vecchie mura di Spalato. Allora cominciò il lento processo di necrosi dei ricordi legati a Spalato e alla Dalmazia. Fatto è che l’esilio e la manutenzione dei ricordi non vanno molto d’accordo. In genere, rievocano meglio se stessi e la propria vita coloro che rimangono radicati nel luogo dove sono nati. Invece l’esilio prolungato nello spazio e nel tempo, l’esilio senza ritorno, aggravato dal vagabondaggio dispersivo in altri mondi, possiede una rara quanto perforante facoltà distruttiva: lentamente carbonizza tutto ciò che siamo stati altrove, recide i vincoli di sangue, spegne i ricordi, fa impercettibilmente tabula rasa del passato”[43].

Nella condizione dell’esule, Bettiza avverte un aspetto interessante riguardante la cosiddetta «doppia identità» – quella del passato corrispondente alla terra natale e quella del presente, legata alla terra d’arrivo: “L’esilio è come un suicidio indolore e quasi notarile dell’improbabile persona che l’esule era stato una volta e che non è più.

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Agisce alla stregua di un notaio all’apparenza distratto, sommesso, ma implacabile, che morbidamente costringe l’io a stipulare con se stesso un atto di rinuncia consensuale a quei marcanti beni ereditari che sono la memoria e l’identità”[44]. L’esule si sente in bilico, stato che incide sulla sua identità individuale e sociale: “Così, le memorie legate a una mia esistenza anteriore, morta in Dalmazia, si sono via via attenuate col passare degli anni, sgretolandosi e sfuggendo quasi completamente alla presa della coscienza. L’oblio provocato dall’anestesia distruttiva dell’esilio si sposa solitamente a un senso d’irrealtà. I molti dubbi dell’esule sulla realtà e la consistenza del proprio passato, sulla certezza del proprio essere dissolto nel lampo e nel lacerto di una breve vita precedente, possono farsi a tratti anche angosciosi e sgradevoli”[45].

Sotto il segno di un’accentuata «insicurezza mnemonica», si può persino arrivare a credere di non aver passato, cioè una biografia certa: “L’insicurezza mnemonica, il sospetto di non aver mai vissuto una prima vita reale, di averla soltanto attraversata di scorcio con l’immaginazione, fanno intimamente parte di questa singolare angoscia dell’oblio. Così la duplice congiura contro i ricordi, tramata sia dall’esule in potenza che già ero stato in patria, sia dall’esule di fatto che sono poi diventato abbandonando la patria (qui vorrei usare la più pertinente parola tedesca Heimat), ha sortito alla fine sulla mia mente il devastante effetto di un’amnesia pressoché totale”[46]. Ciò premesso, lo scrittore comincia ad analizzare lo sviluppo del «curioso disturbo» provocato dall’esilio: “Agli incubi sognati, provocati da quel mio formale ma angosciante vuoto accademico, s’aggiungeva nella veglia un altro incubo più sottile e, per certi aspetti, assai più allarmante. Dal giorno in cui lasciai la Dalmazia, e misi piede in Italia, esso a seguitato a non darmi tregua, vanificando e dissolvendo in una sorta di alienante cortocircuito percettivo il mio contatto con la realtà. Quel curioso disturbo, molto snervante e difficile da descrivere, mi ha poi inseguito fino a Vienna e addirittura fino a Mosca”[47].

Sono minuziosamente descritti i segni delle perturbazioni della sicurezza ontologica: “Ecco: avevo l’oscura, inquietante, pressoché continua sensazione che il mio io non fosse il mio vero io, il mio essere non il mio essere autentico, e che tutto ciò che vedevo e toccavo fosse soltanto una mimesi del nulla. Apparenza vuota. Miraggio e beffa. Aldilà truccato con gli orpelli dell’aldiquà. L’unico paragone possibile, che mi viene alla mente, è quello del fastidio persecutorio che affligge colui che sente un ronzio perenne nella testa e s’abitua poco per volta, suo malgrado, a convivere con esso. Il mio insistente ronzio, che concerneva la psiche piuttosto che la testa, aveva la strana capacità mortuaria di derealizzare e prosciugare ogni cosa intorno a me. La sua precipua qualità negativa era quella di alterare sottilmente la realtà, fino a svuotarla e a nullificarla irreparabilmente. Mi pervadeva allora un duplice senso d’irrealtà, interiore ed esteriore.

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Mi colpivano la forma gratuita, l’inconsistenza materiale degli oggetti che s’ammucchiavano ignoti e assurdi, davanti a me, come tanti messaggeri del niente. Avevo l’impressione di non riuscire a mettermi in sintonia con l’essenza del mondo, semplicemente perché quell’essenza, ormai scarica e inerte, era diventata simile a una batteria consumata. La natura che guardavo, le persone che incontravo, le voci e le parole che ascoltavo, mi parevano tutte falsificate o addirittura necrotizzate da un virus misterioso e silente. Luci e suono fatui di un firmamento spento”[48].

La perturbazione della sicurezza ontologica è per Bettiza “un’alterazione psichica speciale”, che si ripercuote sulla percezione della realtà e soprattutto sul rapporto identità-alterità: “Il disturbo, diciamo pure quel sommerso disturbo patologico, che aveva in sé anche qualcosa di metafisico, mi creava purtroppo delle difficoltà nei rapporti col prossimo. Taluno, a volte, accorgendosi di quella mia occulta atonia, ne restava molto sconcertato e urtato. La riteneva offensiva in quanto, sbagliando diagnosi, la scambiava per supponente arroganza. Io comunque facevo del mio meglio per non apparire arrogante e lontano. Sottoponendomi a un grande sforzo, cercavo, educatamente, di mascherare la mia assenza e indifferenza ai discorsi di coloro che mi parlavano. Cercavo insomma, in tutti i modi, fingendo attenzione, rispondendo a caso alle domande, di nascondere agli altri la verità sullo stato di morbosa e permanente distrazione in cui versavo. Distrazione, ho detto, non prostrazione, o depressione. Quel mio sottile morbo d’anima, più spesso invisibile che visibile, non aveva infatti nulla in comune con gli attacchi depressivi di un’ordinaria ciclotimia. Si trattava, piuttosto, di un’alterazione psichica speciale, di genere quasi filosofico, che si ripercuoteva poi in maniera distruttiva sulle funzioni dell’apparecchio sensoriale. In termini ancora più precisi e più tecnici: i miei sensi avevano perduto la facoltà di percepire e d’intendersi con la realtà immanente e sensibile, e la realtà immanente e sensibile, a sua volta, mi aveva girato le spalle ed era andata via per conto proprio. Mi aveva lasciato nel vuoto. E questo vuoto, che avvertiva dentro e fuori, in certi momenti insopportabili mi procurava un malessere fisico, una nausea da vertigine. Il tempo e lo spazio sembravano allora confondersi e smarrirsi altrove, come se tutto ad un tratto, non sapendo che farsene di me, si fossero allontanati da quella mia assente e inconsistente presenza nel mondo; come se di colpo non mi trovassi più nell’ora e nel luogo in cui credevo di trovarmi; come se i miei orologi e le mie bussole d’orientamento fossero svaniti chissà dove ed io, frastornato, alienato da me stesso, continuassi a sopravvivere «all’estero» in maniera affatto provvisoria e casuale”[49].

Pare che la «doppia identità» sia la scusa con la quale si fa possibile la sopravvivenza, la “droga” con la quale si tenta di dimenticare la perdita dell’identità: “Era, però, al tempo stesso, la mia, una forma di sopravvivenza non soltanto passiva. Ripudiato dalla realtà, separato da essa, io non mi davo per vinto: tentavo di riacciuffarla per la coda, di bloccarla sulla strada della fuga, ma, facendo così, peggioravo ancor più la

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situazione: invece di fermare la fuggitiva, di restituirla a me, finivo per inferocirla con la mia immaginazione autolesionistica. Insomma, io stesso, con le mie stesse mani, la rendevo estranea a me, ambigua, invisibile, aggressiva. Mi condannavo, da solo, a sopravvivere in un contromondo falso, senza forza di gravità, dove al massimo potevo fingere una vita surrogatoria che non vivevo e non sentivo, innaturalmente aggiunta come una protesi al moncone della mia vera vita vissuta in una precedente esistenza: quella troncata, all’età di diciotto anni, in Dalmazia”[50].

Il senso della perdita dell’identità è però il più difficile da rimuovere, il più inquietante ed angosciante: “C’erano indubbiamente, in tutto quell’intarsio di riverberi viziosi, prodotti nella mia mente dalla realtà precaria che la circondava e la disturbava, l’inquietudine e l’angoscia della perdita d’identità. La perdita, voglio dire, della mia ancestrale identità la quale, sbandata e priva di bussola nella deriva dell’esilio, ha sempre faticato a tenere il passo coi ritmi e le apparenze soprattutto dell’universo occidentale. Universo spesso più ostico, per me, di quello russo, dove ho trascorso diversi anni e dove, come spiegherò, lo strano disagio sensoriale che ho appena descritto si è spontaneamente attenuato e placato”[51].

La crisi è quella che, alla fine, fa intravedere i limiti inconciliabili della doppia identità: “Ma c’era altresì, sotto quella paura per lo smarrimento dell’identità, qualcosa di ancora più conturbante. L’avvertivo in certi attimi di crisi intensa. Si faceva allora più che mai acuminata la frattura dentro la mia doppia personalità, vacillante sotto i colpi dell’esilio, e io provavo la più sconcertante delle sensazioni che un vivente possa provare: avevo la sensazione, oltreché di sopravvivermi, di accingermi a spegnere la mia seconda vita artificiale e riesumare la mia prima vita reale dalla morte, avvenuta, in tempi lontani, sul trabaccolo di fortuna che mi portò via per sempre da Spalato. In quegli straniti attimi di sdoppiamento, di confusione interiore, non avrei saputo dire quale, dei due, fosse più vivo e quale più morto: l’essere pulsante che aveva scoperto il mondo in Dalmazia, oppure l’essere posticcio che si trascinava nell’inerte mondo dell’esilio? Si riapriva così sotto i miei occhi, in tutta la sua profondità, l’abisso mai completamente rimosso che ha spezzato la mia persona e la mia esistenza in due tronconi inconciliabili: la vita perduta e scomparsa da una parte, un’altra vita cercata e mai trovata dall’altra”[52].

Da quanto sopra risulta indubbiamente che l’esilio, lo sradicamento, costituisce una delle principali situazioni patogeniche della crisi. Esso riguarda le perturbazioni delle referenze dell’identità, fatto che rende particolarmente difficile l’autoanalisi, come confessa lo stesso Bettiza: “Non avevo mai osato, finora, impegnarmi in un’analisi altrettanto minuziosa dell’enigmatica alterazione psichica che doveva conferire, a un lungo periodo della mia diaspora, il connotato surreale di un incubo leggero ma onnipresente. Perché non ho tentato di affrontare prima l’argomento?”[53]. La risposta

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dello scrittore a tale domanda implica l’idea di «scavo interiore», attraverso il quale viene esaminato il delicato fenomeno dell’esilio: “Per una ragione insieme semplice e oscura. Non so perché, una voce interiore mi ha sempre suggerito di evitare lo scavo nel delicato fenomeno dell’esilio. Così ho scansato il tema fors’anche perché so quanto sia difficile trasferirlo dalla pelle alla carta in tutte le sue implicazioni e perturbazioni psicologiche, familiari, culturali, linguistiche e perfino religiose. La sindrome o le varie sindromi dell’esilio, sovente ineffabili, per l’appunto indescrivibili, vanno ben oltre il primo traumatico impatto che lo sradicamento definitivo, letale come un naufragio, infligge al naufrago inghiottito dai flutti di un oceano ignoto”[54].

L’autore inizia a presentare puntigliosamente tutta la sintomatologia di quello che per lui è il trauma dell’esilio: “L’eco delle sindromi, insomma, si prolunga vibrante al di là delle prime e dure sottrazioni che l’esodo impone all’esule: la rinuncia alla terra e all’identità, la dimenticanza della lingua natale, le privazioni materiali, il deperimento dei legami coniugali, la perdita del contatto fisico con la tomba dei propri defunti (ho potuto di persona constatare come l’allontanamento dai sepolcri, l’oblio dei morti di famiglia, acceleri nell’esilio il declino dei vincoli di parentela). Raramente si dà il caso di un recupero integrale dell’equilibrio perduto già nelle prime ore dello sradicamento. Anche quando l’esule riesce a rifarsi col tempo una vita, una famiglia, una prole, una patria, una nuova identità linguistica e culturale, egli non sfugge, non può mai sfuggire completamento al marchio del trauma iniziale. Può abituarsi a convivere con esso, può attutirlo, fingere di dimenticarlo, ma non potrà mai cancellarne del tutto il segno. Resterà sempre la cicatrice al posto della ferita. Per esempio, quegli incessanti cortocircuiti nei rapporti col mondo esterno, che fin dal principio avevano ottenebrato e slogato la mia coscienza, hanno continuato a molestarmi anche negli anni in cui avevo ormai conquistato una professione, un pane sicuro, una relativa notorietà giornalistica e letteraria”[55].

In ciò che segue si potrebbe notare un’eccellente illustrazione della tecnica dello scavo interiore, la quale rappresenta uno dei caratteri fondamentali della letteratura triestina del Novecento, accanto alla poesia onesta e all’esame di coscienza: “Breve: l’inquietante seppure controllata anomalia schizoide, che ho cercato, scrivendo le ultime pagine, di spiegare per la prima volta almeno a me stesso, non è stata altro che la fedele traduzione in parole e concetti di un tipico trauma da esilio. Mi sono sforzato di portare alla luce, dall’interno della mia esperienza, qualcosa che non sono mai riuscito ad esplicare neanche ai più intimi, poiché non trovavo i toni e i vocaboli adeguati per farlo. Come rappresentare d’altronde, con frasi normali e intelligibili, un fenomeno che per se stesso non è normale né intelligibile? Con quali aggettivi e sostantivi penetrare una cosa che per sua natura sfugge alla penetrazione del linguaggio? Inventare quale lessico per dare una forma discorsiva a quello scontro muto con la realtà, quel rifiuto ostinato della realtà, quell’estraniazione dall’ingrata realtà d’esilio che fanno di ogni esule, almeno per

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qualche tempo, uno spettro vagante in una landa deserta, dopo la morte già accaduta nell’attimo dello strappo e del congedo senza ritorno? Eppure era proprio lì, in quel deserto dopo la morte, l’origine del morbo che mi ha spinto a erodere, fino in fondo, gli ormeggi sensoriali che mi tenevano debolmente legato a porti, a città, a situazioni estranee e inospitali: era lì la causa vera della mia lunga e quasi inguaribile nevrosi”[56].

Dopo aver evidenziato i sintomi della sua “nevrosi”, Bettiza presenta anche un possibile rimedio, quello che ha funzionato nel suo caso: “Ad un certo punto sono guarito dal male a Mosca. Proprio così: guarito parzialmente, o fors’anche un poco più che parzialmente. Ricordo benissimo tutto. Il clima pungente ed eccitante sotto zero, le giornate interminabili e crepitanti nella mole di novità che Chrušèëv, nostro informatore speciale da Cremlino, ci rovesciava addosso dal mattino alla sera, le asperità e le rivalità sul lavoro e le nottate in allegra compagnia. Ci furono pomeriggi e sere in cui inviai al giornale tre o perfino quattro corrispondenze di seguito, tutte contenenti qualche ghiotta primizia sul “disgelo”. La lista delle rotture col passato non finiva di allungarsi. […] In quell’atmosfera d’emergenza storica, ancora imbalsamata dal freddo ma surriscaldata da notizie eccezionali, cominciai ad avvertire con stupore e con sollievo i primi cedimenti, le prime incrinature nel blocco ormai stagionato e congelato della mia nevrosi. Fu nel 1963, alla vigilia della primavera, che il blocco prese a sciogliersi a poco a poco, sotto i timidi raggi del riluttante sole moscovita. Sperimentavo anch’io, con una certa giocosa vitalità, il mio primo disgelo dopo l’esodo. Mi sentivo lentamente rinascere dall’involucro indurito della nevrosi che si squamava e colava, per così dire, in scaglie di ghiaccio liquescenti dal corpo e dallo spirito rinvigoriti. Perfino la mia antica propensione alle malattie organiche sembrava del tutto scomparsa in quell’inattesa epifania della salute. Erano anni che non mi sentivo così bene, così al sicuro nel mio protoplasma non più insidiato da virus misteriosi e da cellule impazzite.

La guarigione, chiamiamola con questo nome, avvenne nel terzo anno della mia permanenza giornalistica in Russia. Io ne avevo trentasei. La Dalmazia l’avevo lasciata nella tarda primavera del 1945, un paio di mesi prima della fine della guerra e del mio diciottesimo compleanno. Il momento della guarigione era sopraggiunto a Mosca diciotto anni dopo l’esodo da Spalato. Questo vuol dire che, per uscire in parte dal mio male oscuro, ho dovuto consumare nevroticamente in esilio, dalla primavera del ‘45 alla primavera del ‘63, la stessa esatta porzione di vita trascorsa in Dalmazia prima dell’esilio. Ho dovuto impiegare cioè un’altra vita, una seconda vita di diciotto anni, per neutralizzare alfine le morbose conseguenze del distacco dalla prima. Gli ultimi due anni che ancora passai a Mosca, dal ‘63 al 10 ottobre del 1964 (Chrušèëv cadde il 15), furono dal punto di vista clinico i più luminosi e sereni che io abbia mai vissuto”[57].

Alla domanda «quale fu la vera medicina, il toccasana terapeutico, che proprio nella lontana Russia, così poco ospitale per tanti aspetti, doveva ridare energia al mio fisico vulnerabile e quiete alla mia psiche vulnerata?», l’autore offre una complessa

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risposta che parte dall’idea che la “doppia identità” è essenzialmente culturale, quindi implica, nella sua ricostruzione, quelle affinità che riguardano la cultura interiorizzata, cioè il complesso acquisito di principi culturali (credenze, norme e valori), di rappresentazioni collettive, di modelli e codici referenziali: “Questa seconda Russia millenaria, la Russia profonda, era stata per me la vera clinica curativa. Avevo visto e sentito in essa un corroborante “quisisana” perché, fin dal primo giorno, mi era apparsa come un immenso succedaneo, una gigantesca dilatazione orientale della Dalmazia. Quella piacevole sensazione di tornare quasi a casa dall’esilio, aveva, insomma, poco a che fare con la Russia sovietica e comunista; aveva invece molto a che vedere con la Russia slava. La mia antica dimestichezza con le lettere dell’alfabeto cirillico, con le solenni liturgie dei riti ortodossi, con le tre dita riunite nel segno della croce, m’induceva assai naturalmente a ritrovare nelle cattedrali di Mosca, nei rapimenti dei fedeli, nei libri dei classici, perfino nei volti della gente, molte tracce e altre cose lontane che mi erano state familiari nell’infanzia e nella pubertà”[58].

La cultura interiorizzata si basa sulla lingua, la quale permette di identificare le altre premesse culturali: “Mi stupiva poi sempre il miracolo della consanguineità linguistica. Fra le diverse lingue slave, quella che conoscevo e parlavo io, la serbocroata, era una delle più vicine alla lingua russa nella somiglianza e spesso identità dei vocaboli, nell’ingranaggio delle declinazioni, nel suono di certi accenti e fonemi. Il russo giungeva alle mie orecchie come un serbocroato dolce, più indolente, più strascicato, un po’ invertebrato. Le due lingue erano soprattutto simili negli etimi, cioè nelle radici comuni. Tutto questo m’impediva di sentirmi a Mosca un completo njemec, parola russa che proviene da «muto» e che significò «tedesco» e poi «straniero» per estensione. Nemoj, muto, nella mia prima lingua madre diventava nijem, e njemec, tedesco, si trasformava impercettibilmente in njemac. Avevo, così, l’incoraggiante impressione di conoscere quell’idioma da sempre, di conoscerlo per sangue più che per studio: l’infinità delle parentele lessicali, delle folgoranti similitudini, me lo faceva a momenti comprendere in una maniera che coglieva di sorpresa me stesso. Non mi era estranea neppure l’architettura sintattica; la capivo con l’istinto, la seguivo con naturale intuito musicale, la usavo anche per iscritto con una certa scioltezza; mi esprimevo insomma con crescente e stupefacente facilità. Provavo un senso di meravigliata commozione ogni volta che, annaspando nel dubbio intorno a una parola, l’interlocutore russo me la tirava fuori, d’un tratto, dal fondo etimologico dei primi balbettii con mia madre e con la balia serba”[59].

In questo ambito, la conclusione dell’autore è immediata: “Fatto è che, più passavano gli anni, sempre meno mi sentivo forestiero in quella grande terra slava. Meno sradicato di altri sradicati. E anche, con l’avvicendarsi delle gelate e dei disgeli, di meno in meno nevrotico rispetto ad altri colleghi sempre più nevrotici.

Avevo ritrovato a Mosca una parte di me perduta nell’esilio. Era lì che poco per volta m’ero riconciliato col mondo e con me stesso. Lì, i miei monconi psichici, separati

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dalla cesura dell’esodo, s’erano ricomposti gradualmente, giorno dopo giorno, riconquistando una loro passabile unità interiore. Mosca, la Russia, erano diventate quindi, per me, qualcosa di più importante d’un laboratorio di lavoro e di carriera; di più profondo di un’avventura eccitante e perigliosa; di molto più duraturo d’un soggiorno in un ostico altrove, dopo il quale, come altri occidentali in trasferta, sarei ritornato alla vita di sempre. Io non avevo, alle mie spalle, una vita di sempre, ma due vite da sempre inconciliabili. Avevo il vuoto dell’esilio. Mosca, ben aldilà degli obblighi giornalistici e degli eventi che mi avevano professionalmente legato ad essa, è stata soprattutto il luogo di una mia intima riscoperta dell’anima e della memoria, l’ideale casa di cura spirituale che per anni avevo cercato invano in altre terre d’esilio. È stata, nell’insieme, la clinica che avevo desiderato, la lingua che avevo smarrito, l’università che non avevo frequentato, la laurea che non avevo conseguito. Dopo la Russia, per fortuna, io non sarei tornato alla “vita di sempre”. Sarei tornato semplicemente alla vita e alla salute”[60].

Un’altra testimonianza –umana e artistica– in questa direzione di ricerca viene da Fulvio Tomizza, notevole rappresentante della «letteratura dell’esilio», nato in Istria, poi diventato triestino di adozione, cosicché “la mia terra non è più solo l’Istria: lo è diventata anche Trieste”[61]. Lo scrittore affermava inoltre: “Non mi sono mai identificato bene né con l’Italia né con la Jugoslavia. Io ho sangue slavo, mentre la mia educazione è tutta italiana”[62]. In questo contesto si spiega la sua scelta sul piano dell’identità individuale ed artistica: “C’è stata una scelta, che però era una scelta d’obbligo. Io sono e resto italiano di lingua, nato in un’Istria mistilingue sul piano dialettale. Ancora oggi i miei compaesani di là, quando devo fare un certo discorso (per esempio al tribunale), si esprimono in italiano, perché la loro conoscenza dello slavo resta dialettale. Hanno fatto le scuole italiane e una maggiore ricchezza lessicale la possiedono con l’italiano. Ora le cose stanno cambiando; i ragazzi imparano il croato e a Capodistria lo sloveno.

Se ho scelto di diventare scrittore non potevo che scegliere di diventare scrittore italiano, non potendomi, però, confondere né con scrittori di altre regioni italiane, né con persone dell’Istria costiera. Questi ultimi erano totalmente italiani.

Io mi sono formato nel rapporto dialettico tra le due etnie, tra la mia gente (il cattolicesimo, magari superstizioso) e la nuova amministrazione (la nuova ideologia, il marxismo)”[63]. Le ragioni di tale scelta sono ancor più profonde, come continua a evidenziare l’autore: “Ma c’è qualcosa di ancor più forte del richiamo della lingua. Dopo il Memorandum del ‘54, la maggioranza decise di andare verso l’ignoto, verso un mondo ritenuto civile, di ordine, di tradizione, mentre il regime jugoslavo di allora aveva una forte impronta stalinista ed aveva portato il caos e il terrore, e una specie di snaturamento. Io, vedendo ciò, li ho seguiti: seguire la mia gente a costo di lasciare la

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terra poiché era questa gente che se la portava dentro, anche mirando a un riscatto morale”[64].

Approfondendo l’argomento, lo scrittore confessa che “di fronte alle scene di gente indecisa che prendeva le suppellettili (non voleva staccarsi nemmeno da un mobilio magari squallido pur di portarsi via qualcosa di familiare) e che lasciava i morti, lasciava le case, lasciava i campi che da sempre aveva lavorato, io avevo annotato degli episodi che mi avevano particolarmente colpito e mi avevano anche straziato. Per cui, passato anche io a Trieste nell’ottobre del ‘55, mi misi a tavolino”[65]. In un’altra parte si può ritrovare una simile descrizione: “Fui partecipe di un avvenimento che non definirei neanche tragico, quanto estremamente toccante, il quale denudava un’umanità come colpita a tradimento. Questa gente era costretta a scegliere, ma non poteva né rimanere nella terra di sempre tanto cambiata dalle vicissitudini storiche –violenze, imposizioni, proibizioni– né vivere fuori dalla comunità, dalle tradizioni, dalle feste, dall’ingrato eppur familiare lavoro, essendo come vincolata al ciclo stagionale delle semine e dei raccolti. La situazione economica era inoltre difficile: la Jugoslavia si stava appena risollevando da una guerra disastrosa.

Era gente che non si sarebbe neanche potuta esprimere fuori dal proprio ambiente. Tuttavia quasi il settanta per cento di questa popolazione preferì oltrepassare il confine, andare a Trieste, in Italia. Passando di là sapevano e non sapevano di finire nei campi di raccolta per profughi, di vivere dei sussidi che passava l’amministrazione civica governata dagli anglo-americani, di venire strumentalizzati, di contare unicamente come persone che avevano detto no al comunismo, portando il contributo dei loro voti al partito di maggioranza.

Furono una primavera e un’estate di grande strazio. La gente doveva cambiare completamente vita, attaccata alla terra com’era. Lasciavano tutto e c’era la psicosi della fuga, anche per avere dei diritti, e chi prima arrivava meglio stava, le famiglie si alleavano.

Alla fine di ottobre del ‘55 sono venuto via anch’io”[66].

In tale contesto, non è un caso che Tomizza ha ambientato il suo primo romanzo, Materada (1960), in questo lacerante scenario storico. È, quindi, un romanzo dell’esodo e della frontiera, un’intensa saga che acquisisce alla coscienza letteraria italiana il mondo dell’Istria croata e insieme rappresenta epicamente il dramma dell’Istria italiana[67]. Allo stesso tempo, Materada è il libro di uno scrittore che non si identifica appieno né in un mondo né nell’altro e trova in quest’inappartenenza, come sottolineano anche i romanzi successivi della sua epica istriana, la sua identità. Idea sostenuta da Tomizza stesso, quando ammetteva che “prima parlo a nome di un piccolo

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popolo, dopo faccio un’indagine interiore e scopre queste stimmate, tormenti di un uomo che cerca la sua identità”[68].

        Lo scrittore presenta con accenti drammatici uno stato di «crisi», soprattutto di identità, attraverso una «poesia dolorosa della terra»[69], come fu chiamata dalla critica: «“La promessa c’è. La è duro lasciare la terra sulla quale ti sono venuti i capelli bianchi, e la tua casa, e la tua gente. Tu lasceresti la tua campagna, Franz, di cui conosci ogni solco, ogni erba, ogni zolla?”

Dallo stomaco mi venne su una vampata calda.

“Io non lascio niente” dissi. “E penso che come me faranno anche gli altri”»[70].

Sono parole che potrebbero rievocare l’interrogazione di Goethe: “Tutte le transizioni sono crisi; ma la crisi non è una malattia?” E sempre in riguardo alle transizioni, Umberto Saba faceva il seguente commento: “Il dolore, lo spasimo, l’incertezza, l’angoscia (si è perfino creata una filosofia dell’angoscia), la relatività di ogni cosa, sono propri a tutte le epoche di transizione dal vecchio al nuovo”[71]. Come viene ad illustrare il brano citato, nel mondo evocato dall’autore l’elemento chiave dell’identità lo rappresenta la terra (che, secondo la classifica di Alex Mucchielli[72], fa parte delle referenze materiali, suddivisione possessioni): «–E la cosa più importante”– Che cosa? – La terra»[73]. Questo elemento acquista però il valore di simbolo di tutte le

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altre referenze dell’identità (fisiche, storiche, piscosociali, psicoculturali) che caratterizzano un gruppo, una comunità.

A questo proposito presentiamo altri brani suggestivi. Il primo è commovente per la forza della comparazione: «“Certo che a voi altri, con tutta la terra e le bestie che avete, non conviene partire. Lo sai, Franz mio, che pur trovando l’America mai più potresti farti di nuovo venti o trenta ettari di questa terra che è la migliore di tutta Materada?”

Capitava proprio a proposito; ma non mi restò che battergli la spalla e dirgli sorridendo: “Lo sai di no”»[74].

Il seguente brano assomiglia ad un’imprecazione: “E lì, davanti la porta aperta su tutta la campagna sottostante, sotto il rovere che rendeva ancora più scuro il cielo e più nera la notte, stando lì da solo, maledissi quella terra per sempre. […] Lo lasciai cianciare e me ne tornai all’aperto, sotto il rovere, nel buio della notte fredda. E di lì di nuovo maledissi quella terra per sempre. Ricordavo campo per campo, siepe per siepe, pianta per pianta, solco per solco; e li maledivo, li maledivo. Che non dessero più frutto, non più semenza, cadesse ogni anno la grandine e si seccassero, si seccassero, come la mano di un morto”[75].

Le perturbazioni della sicurezza ontologica, le quali vengono a delineare la crisi d’identità, sono collegate allo stesso elemento centrale che è la terra:

«“Tu cosa pensi?”

“Io non lascerei la terra. Non possiamo lasciarla, Franceso. È nostra ed è una buona terra. Per il mondo dove ne troverai di eguale?”

“D’accordo, è nostra, ma non l’avremo. Forse aspettando altri dieci anni le cose si metterebbero in chiaro. Ma che cosa sarà di noi, dei nostri figli tra dieci anni? E poi, cosa sarà qui tra dieci anni?”

“Allora tu saresti per partire?”

“Non resta altro. Io, oggi come oggi, partirei lo stesso”

Balzo sui gomiti e mi domandò: “Anche se ti dessero la terra?”

E io risposi calmo: “Anche se mi dessero la terra

Lui masticava un’erba e scuoteva la testa, guardando in alto.

“Io no” disse. “In quel caso rimarrei. Me ne frego di tutti quelli che partono e di tutti quelli che restano, quando ho la mia terra

Allora me lo sentii nelle mani. Potevo dirgli quello che mi stava tanto a cuore di dire. “Berto, ascoltami bene. Io non sono tipo da far prediche, ma voglio dirti quello che penso. La terra non è tutto, Berto. Se fosse tutto, noi avremmo fatto veramente di tutto per riaverla. Invece a un certo punto ci siamo fermati. Io ci ho rinunciato quella sera che da noi vennero Vanja e gli altri. Abbiamo da pensare ai nostri figli, noi due; e loro che istruzione hanno da avere rimanendo o entrando in qualche skupèina o che so io? Ha

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ragione barba Nin: noi non siamo per questo regime. Forse ci vuole altro fegato. Oppure ci si fa un poco alla volta, ma io questo non voglio; io di questo ho paura […]”

Berto si era fatto pensoso, e io ero contento di avergli parlato.

Dal mare veniva su un po’ di tramontana e portava con sé il profumo della terra appena arata: profumo di terra rossa, che non se ne trova un altro eguale»[76].

I segni della crisi, individuale e collettiva, diventano sempre più accentuati, fino a raggiungere il punto estremo, il culmine:

«Arrivai fino a loro e ci guardammo. “Allora è andata?” chiese Berto.

“È andata”.

Ci fu silenzio, un buon silenzio. Poi mia moglie scoppiò a piangere e appoggiò il viso sulla spalla della cognata. Mio zio chiuse gli scuri, e lei si voltò verso l’alto e in viso non era più lei. Non so se malediva verso lui o verso Dio. In una rabbia, in una lite, in un pianto, si raggiunge un punto che è il culmine, e si fa, per così dire, un salto al di là dello stato normale, dove non esistono più né padre né madre, né marito né figli, ma solo odore di sale e mal di testa e lagrime ingrandite e luccicanti come stelle. Così accadeva ora a mia moglie. Gridava con tutta la sua voce e sventolava i pugni, rossa nel viso, mentre Maria cercava di trattenerla. “Vigliacco, farabutto! È tutta colpa vostra se a noi ora ci tocca andare come disgraziati per il mondo. Ladro, ladro! Ci avete preso il nostro! Ai vostri nipoti, al vostro stesso sangue. Con che coscienza potete guardare ora gli uomini in faccia? Ma è finita anche per voi, sapete?! Mangiatevi la terra, ora, e che poi possiate marcire sotto due pietre! Mangiatevela, mangiatevela, che aspettate? e che poi vi possa venir fuori per gli occhi e per le orecchie, per poi scoppiare come un verme! Ladro, mai una parola bella, solo ordini e ordini e imbrogli e brutte maniere, da quando sono venuta su questo monte maledetto!”

E alle sue parole anche mia cognata si era riscaldata e l’aveva lasciata libera e adesso gridava anche lei. E subito dopo anche Berto e mio figlio. E tutti e quattro gridavano e piangevano, e Berto bestemmiava Iddio e la Madonna»[77].

Il finale del romanzo ricrea, simbolicamente, la stessa immagine sconvolgente della terra avita, depositaria della storia di una comunità che sta per dissolversi: «Guardavo le tombe, e con tutta quell’erba parevano cumuli di terra sollevatisi sotto la schiena di grosse talpe. E pensavo ai nostri morti dalle orecchie e le nari piene di basilico; pensavo a tanta altra gente che era nata e cresciuta e poi finita là con un rosario e un libro nero tra le mani, e di cui ora non restava che ossa e ossa, le une sulle altre, e libri e rosari sparsi tra la terra. Mezzo ettaro di quella terra senza pietre era bastata per tutti; poteva bastare anche per noi e i nostri figli.

“Addio ai nostri morti” disse forte una donna»[78].

I vari aspetti attinenti agli uomini da soli e agli uomini come gruppi, aspetti presi in discussione nella presente trattazione quali pezzi costitutivi della “grande verità

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della poesia dell’esilio e della scissione”[79], vengono a rafforzare l’idea che il cammino dall’identità alla «doppia identità» passa per forza attraverso la perdita di sé, tra radicamento e lontananza, appartenenza ed estraneità, sicurezza e incertezza, che da “a casa” a “da quella parte” c’è tutta una serie di “qui”, come tanti incroci interiori ed esteriori.

 

 

 

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[1] Afrodita Carmen Cionchin, Rapporto «centro» versus «provincia» nello spazio mitteleuropeo. Il «caso Trieste», in “Quaderni della Casa Romena di Venezia”, no. 2, 2002, pp. 266-297.

[2] Angelo Ara e Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Einaudi, Torino 1987, p. 154.

[3] Fulvio Tomizza, Alle spalle di Trieste (Scritti, 1969-1994), Bompiani, Milano 1995, p. 142.

[4] Ibidem, p. 195.

[5] C. Magris, Dall’altra parte. Considerazioni di frontiera, in Idem, Utopia e disincanto, Garzanti, Milano 2001, p. 52.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem, p. 53.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem, p. 52.

[11] Ibidem, p. 54.

[12] A. Ara e C. Magris, op. cit., p. 192.

[13] Ibidem, p. 193.

[14] F. Tomizza, Destino di frontiera. Dialogo con Riccardo Ferrante, Marietti, Genova 1992, p. 48.

[15] Idem, Alle spalle di Trieste cit., p. 143.

[16] Ibidem, p. 133.

[17] C. Magris, Dall’altra parte cit., p. 53.

[18] Ibidem, p. 58.

[19] Joseph Zoderer, A proposito di Heimat, in AA. VV., Cultura di confine, Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei, Atti del XXIX Convegno, Grafica Goriziana, Gorizia 1996, p. 169.

[20] Ibidem.

[21] Ibidem.

[22] Ibidem, p. 170.

[23] C. Magris, Dall’altra parte cit., p. 56.

[24] Ibidem.

[25] A. Ara e C. Magris, op. cit., p. 153.

[26] C. Magris, Dall’altra parte cit., p. 57.

[27] Idem, Microcosmi, Garzanti, Milano 1997, p. 183.

[28] Ibidem.

[29] Cultura di confine cit., p. 10.

[30] C. Magris, Dall’altra parte cit., p. 60.

[31] Guy Scarpetta, Eloge du cosmopolitisme, Grasset & Fasquelle, Parigi 1981, p. 19.

[32] C. Magris, Dall’altra parte cit., p. 62.

[33] Ibidem.

[34] Sorin Alexandrescu, Identitate în rupturã [Identità in rottura], traduzione romena di Mirela Adãscãliþei, Sorin Alexandrescu e ªerban Anghelescu, Editura Univers, Bucarest 2000, p. 279.

[35] Ibidem, p. 266.

[36] Ibidem, p. 264.

[37] Ibidem, p. 269.

[38] Giorgio Voghera, Gli anni della psicanalisi, Editrice Goriziana, Gorizia 1980, p. 121.

[39] Si tratta del supplemento “Cultura” della pubblicazione “Corriere del Ticino”, dell’8 ottobre 1969.

[40] Enzo Bettiza, Esilio, Mondadori, Milano 2001, p. 398.

[41] Ibidem, p. 14.

[42] Ibidem, p. 15.

[43] Ibidem.

[44] Ibidem.

[45] Ibidem, p. 16.

[46] Ibidem.

[47] Ibidem, p. 340.

[48] Ibidem.

[49] Ibidem, p. 341.

[50] Ibidem, p. 342.

[51] Ibidem.

[52] Ibidem, p. 343.

[53] Ibidem.

[54] Ibidem.

[55] Ibidem.

[56] Ibidem, p. 344.

[57] Ibidem, pp. 345-346.

[58] Ibidem, p. 347.

[59] Ibidem.

[60] Ibidem, p. 349.

[61] F. Tomizza, Destino di frontiera cit., p. 23.

[62] Ibidem, p. 37.

[63] Ibidem, p. 61.

[64] Ibidem.

[65] Ibidem, p. 39.

[66] Ibidem, pp. 59-60.

[67] A. Ara e C. Magris, op. cit., p. 193.

[68] F. Tomizza, Destino di frontiera cit., p. 37.

[69] Lorenzo Mondo, in F. Tomizza, Materada, Bompiani, Milano 2000, p. 183.

[70] Ibidem, p. 34.

[71] Umberto Saba, Prose, a cura di Linuccia Saba, prefazione di G. Piovene, nota critica di A. Marcovecchio, Mondadori, Milano 1964, p. 849.

[72] Presentiamo in seguito gli elementi costitutivi di ogni categoria di referenze dell’identità, come risultano dallo studio di Alex Mucchielli, L’identité, Presse Universitaire de France, Parigi 1986. Le referenze materiali e fisiche comprendono le possessioni (nome, territorio, persone, oggetti, abitazione, abbigliamento), le potenzialità (potere economico, finanziario, intellettuale), l’organizzazione materiale (assestamento dei territori, degli habitat, delle comunicazioni), le apparenze fisiche (tratti morfologici, segni distintivi, l’importanza e la ripartizione dei gruppi).

Le referenze storiche includono le origini (atti di fondazione, nascita, nome, filiazione, parentela, alleanze, miti della genesi, eroi fondatori), gli avvenimenti marcanti (tappe importanti dell’evoluzione, trasformazioni, influenze, acculturazione, educazione, traumatismi culturali o psicologici, modelli del passato), le tracce della storia (tradizioni, costumi, complessi provenienti dall’acculturazione o dall’educazione, leggi o norme con origini nel passato).

Le referenze psicosociali riguardano le coordinate sociali (nome, statuto, età, sesso, professione, incarichi e ruoli sociali, attività, affiliazione), gli attributi del valore sociale (competenza, qualità-diffetti, diverse valutazioni) e, alla stessa stregua, le potenzialità (capacità, motivazione, strategia, adattamento, stile di condotta).

L’ultima categoria è rappresentata dalle referenze psicoculturali, delle quali fanno parte: il sistema culturale (premesse culturali, religione, codici culturali, ideologia, sistema di valori culturali, varie espressioni culturali – prodotti artistici), la mentalità (la visione del mondo, gli oggetti nodali, gli atteggiamenti-chiave, le norme di gruppo, le abitudini collettive), il sistema cognitivo (tratti psicologici propri, atteggiamenti, sistema di valori).

[73] F. Tomizza, Materada cit., p. 82.

[74] Ibidem, p. 42.

[75] Ibidem, pp. 95-96.

[76] Ibidem, pp. 135-136.

[77] Ibidem, pp. 145-146.

[78] Ibidem, p. 173.

[79] A. Ara e C. Magris, op. cit., p. 193.