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Istituto Romeno’s Publications
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Quaderni 2004
p. 401
«Frontiera» e «letteratura di frontiera» a Trieste
Afrodita
Carmen Cionchin,
Università degli Studi
di Padova/
Istituto Romeno di Cultura e
Ricerca Umanistica di Venezia
Per affrontare la problematica riguardante un concetto
intimamente legato a Trieste –quello di «frontiera», assieme alla «cultura
e letteratura di frontiera»– si dovrebbe fare un’incursione nella storia. In
un’altra relazione[1], analizzando
il particolare inserimento della città adriatica nella dinamica
fluttuante del rapporto fra centro e provincia nello spazio mitteleuropeo,
abbiamo accennato al fatto che, alla fine della prima guerra mondiale, Trieste
diventa un centro periferico, situato all’estremo confine orientale d’Italia,
in altre parole, una vera e propria «città di frontiera».
L’esito infausto del secondo conflitto mondiale
strappò poi, per nove anni, la città all’Italia, confinandola,
tra il trattato di pace del 1947 e il cosiddetto memorandum d’intesa del 1954,
in un TLT (Territorio Libero di Trieste) controllato dall’ONU che non fu mai
realmente costituito e che rappresentò la continuazione dell’occupazione
militare alleata cominciata nel 1945. La zona A del TLT, dove si trovava
Trieste, rimase per tutti quegli anni amministrata da un governo militare
alleato, eccetto i quaranta giorni dell’occupazione militare jugoslava, dal 1
maggio al 12 giugno 1945, che intendeva essere un’annessione di fatto e che
è persistita dolorosamente nella memoria collettiva di gran parte della
città, impedendo per molto tempo ogni dialogo politico con le
popolazioni slave di qua e di là del confine. In questa situazione,
Trieste, ancora incerta sul proprio futuro, “sente farsi più angusta,
più angosciosa e più opprimente la propria posizione di
città priva di certezze e sospesa nel vuoto, di città di confine,
in anni nei quali, come forse mai nel passato, confine è sinonimo non
certo di dialogo e di mediazione, ma di chiusura e di separazione, di frontiera
tra paesi, tra ideologie e, sia pure per poco, tra blocchi contrapposti di
potenze”[2].
Il concetto di frontiera, con riferimento a Trieste e
Gorizia, fu elaborato all’inizio del Novecento da intellettuali come Piero
Gobetti, Gaetano Salvemini, Scipio Slataper, per poi essere continuamente messo
in discussione, nei suoi vari aspetti, dagli scrittori e uomini di cultura
appartenenti non solo a questo spazio, tra i quali si distinguono Giuseppe
Ungaretti, Elias Canetti, Milan Kundera, Ervino Pocar, fino a
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Claudio
Magris, Fulvio Tomizza, Angelo Ara, Joseph Zoderer, Alois Rebula, Franz Tumler,
Camillo Medeot, Celso Macor.
Cominciamo con la definizione di Fulvio Tomizza, la cui
vita si costituisce in un vero e proprio «destino di frontiera», onde la
qualifica che gli venne attribuita – «scrittore di frontiera». Nella sua
visione, “frontiera reale, frontiera «per antonomasia», è quel
territorio sempre conteso, e in definitiva sempre estraneo ai contendenti, che
alla sommità dell’Adriatico si insinua tra Italia, Austria e Jugoslavia,
nel quale si radicano il mio destino di uomo e la mia ricerca di narratore”[3].
Nel saggio del 1987 intitolato Frontiera reale, l’autore completa:
“È un angolo di terra estremamente variegato e tuttavia inscindibile,
che di fatto oggi non appartiene nemmeno ai nativi del luogo, in buona parte
costretti a vivere lontano (a doversi ricavare nuovi spazi di frontiera) e in
minore porzione rimasti sul suolo dei padri per registrare il suo progressivo
stravolgimento e la graduale riduzione della loro stessa identità”[4].
Sul piano storico-politico e geografico, la frontiera
triestina rappresenta e soprattutto rappresentava essenzialmente la frontiera
con l’Est, con quell’«altra» Europa e tutto ciò che deriva da tale
statuto: “Quella che vedevo concretamente davanti a me, quando andavo a giocare
sul Carso con i miei amici –scrive Claudio Magris nel saggio del 1993
intitolato Dall’altra parte. Considerazioni di frontiera– era la Cortina
di Ferro, la frontiera che tagliava in due, allora, il mondo intero e che
correva a pochissimi chilometri da casa mia. Aldilà di essa cominciava
quel mondo immenso, sconosciuto e minaccioso che era l’impero di Stalin, un
mondo difficilmente accessibile, almeno sino all’inizio degli anni Cinquanta”[5].
C’è, però, da notare che quelle terre al di
là del confine, che appartenevano all’«altra» Europa, erano state
italiane sino a pochi anni prima, sino alla fine della prima guerra mondiale,
quando erano state occupate e annesse dalla Jugoslavia. “Le avevo viste e
conosciute nella mia infanzia –aggiunge lo scrittore– facevano e fanno parte
costitutiva del mondo triestino, della mia realtà”[6].
L’analisi continua mettendo in risalto il fatto che “al di là del
confine c’erano, dunque, contemporaneamente, il noto e l’ignoto; c’era un
ignoto che bisognava riscoprire, far ridiventare noto”, in quanto l’aggettivo
«altra», nell’espressione l’«altra» Europa, “deriva certo in primo luogo
dall’appartenenza all’universo staliniano, ma marcava pure un’ignoranza da
parte occidentale. […] Questa diffusa ignoranza era ed è spesso tinta di
disprezzo, intenzionale o inconsapevole”[7].
Viene data anche la spiegazione, poco riconfortante, ma reale, di tale
atteggiamento: “Ciò che sta a est appare spesso oscuro, inquietante,
promiscuo, poco dignitoso; c’è una tendenza a identificare l’est col
negativo. Il principe di Metternich diceva che a Vienna, oltre il Rennweg,
la grande arteria che attraversa la capitale austriaca, cominciavano i
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Balcani,
termine col quale egli intendeva qualcosa di confuso e indistinto, di
peggiorativo; oggi, a Ulm, molti chilometri a ovest di Vienna, si dice che a
Neu-Ulm, oltre il Danubio che attraversa la città, incominciano i
Balcani, termine che anche in questo caso non è un complimento”[8].
Per il suo statuto, Trieste era chiamata
all’epoca «piccola Berlino»; la Cortina di Ferro era vicinissima e, almeno sino
alla metà degli anni Cinquanta, divideva la città dal suo
retroterra e dunque da se stessa. “Si aveva talora la sensazione non soltanto
di vivere su una frontiera, ma di essere una frontiera”[9].
Il paragone con Berlino si faceva ancor di più nel caso di Gorizia,
città letteralmente divisa in due.
Sul piano psicologico e spirituale, la
frontiera ha un significato ambivalente che accomuna il positivo ed il negativo
in un complesso non privo di forti tensioni: “La frontiera è duplice,
ambigua –rileva Claudio Magris– talora è un ponte per incontrare
l’altro, talora una barriera per respingerlo. Spesso è l’ossessione di
situare qualcuno o qualcosa dall’altra parte”[10].
Lo scrittore aggiunge poi, approfondendo l’argomento: “Ci sono città che
si trovano sul confine e altre che hanno i confini dentro di sé e sono
costituite da essi. Sono città cui le vicende politiche tolgono parte
della loro realtà, come il retroterra, il forte legame con il resto del
territorio nazionale; la storia le slabbra come una ferita e fa di esse un
teatro del mondo, vale a dire un teatro dell’assurdo. È in queste
città che si esperimenta in modo particolarmente intenso la
duplicità della frontiera, i suoi aspetti positivi e negativi; i confini
aperti e chiusi, rigidi e flessibili, anacronistici e travolti, protettivi e
distruttivi”[11].
Un’idea simile si ritrova anche nello studio Trieste.
Un’identità di frontiera, dove viene sottolineato il fatto che “la
frontiera è una striscia che divide e collega, un taglio
aspro come una ferita che stenta a rimarginarsi, una zona di nessuno, un
territorio misto, i cui abitanti sentono spesso di non appartenere veramente ad
alcuna patria ben definita o almeno di non appartenerle con quella ovvia
certezza con la quale ci si identifica, di solito, col proprio paese. Il figlio
di una terra di confine sente talora incerta la propria nazionalità
oppure la vive con una passione che i suoi connazionali stentano a capire,
sicché egli, deluso nel suo amore che non gli sembra mai abbastanza
corrisposto, finisce per considerarsi il vero e legittimo rappresentante della
sua nazione, più di coloro per i quali essa è un dato pacificamente
acquisito”[12].
Il giudizio va avanti sotto il segno di altri due verbi
antitetici messi insieme –separare e unire– dopo la coppia
precedente, dividere e collegare: “Ma la frontiera, la quale separa
e spesso rende nemiche le genti che si mescolano e si scontrano sulla sua linea
invisibile, anche unisce quelle stesse genti, che si riconoscono talora
affini e vicine proprio in quel loro comune destino –che le grandi madrepatrie
non riescono a capire– in
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quel
loro sentimento segreto d’inappartenenza, in quell’incertezza e in
quell’indefinibilità della loro identità”[13].
Fulvio Tomizza condivide le stesse posizioni teoriche,
sostenendo che, da una parte, la frontiera può essere motivo di
arricchimento: si può disporre di due o più educazioni, culture, lingue,
esperienze, a volte anche religioni. Quindi si dovrebbe essere in una
condizione di privilegio, sul displuvio di due o tre mondi. In realtà
questa situazione si risolve spesso in una perdita di identità. Invece
di avvicinare i popoli e i governi, di funzionare da cerniera fra razze
diverse, queste situazioni di frontiera a volte sono causa di conflitti e, sul
piano privato, di uno scontento, di un’estraniazione continui. C’è
dunque un diritto e un rovescio della medaglia. Di fronte a questa
realtà della frontiera, lo scrittore esprime la sua professione di
credenza: “Io ho cercato di pormi come conciliatore, dopo lacerazioni
terribili. Misto, tirato da più parti come sono, non potevo fare altro”[14].
In un altro contesto, Tomizza viene a confessare i complicati
processi interiori che implicano lo statuto di «uomo di frontiera», statuto
descritto benissimo dal destino di colui che, nato e cresciuto a Materada
d’Umago, in Istria, si trasferì a Trieste al definitivo passaggio del
suo paese sotto l’amministrazione jugoslava. Le sue parole rivelano la
concezione che gli ha marcato in maniera inconfondibile l’opera letteraria: “In
sostanza, per il padre e contro il padre, forzando comunque la sua ultima
aspirazione, che era soprattutto brama di morte, io non avrei fatto altro che
cercare di sciogliere quel «contrasto irriducibile», rendere attuabile
«l’impossibile riconciliazione». Prima di tutto dentro me stesso, per non dover
più scegliere tra le diverse e magari opposte componenti di sangue, di
cultura, di mentalità, ma tentando piuttosto di accordarle,
riconoscendole proprie di un uomo di frontiera, sentendole stimolanti anziché
gravose. Ciò mi avrebbe spontaneamente portato, anche con gli scritti,
ad allargare la mia frontiera, sconfinando in altre etnie, in altre
fedi, in altre regioni dei vari Paesi che vi si affacciano, con la sensazione
di trovarmi sempre nella mia parrocchia. Alla quale sono tornato, per
trascorrervi almeno due stagioni di piena luce, lasciarmi condurre e
accarezzare dal suo paesaggio che ne ha viste tante e probabilmente ne
vedrà di altre e tuttavia continuerà, impassibile, a riproporre
la sua eterna mutabilità, la sua mutabile eternità”[15].
Il lettore può scoprire, accanto allo scrittore, i
significati profondi delle opzioni di chi si trova alla frontiera tra due mondi
e due culture. Si tratta fondamentalmente del carattere morale e riparatore di
tali scelte, soprattutto sul piano individuale, mentre su quello dei rapporti
interumani, il primato spetta al rispetto reciproco: “Nel panorama di un mondo
forzatamente o disinvoltamente incline al possibilismo e al trasformismo, la
mia scelta aveva ed ha soprattutto carattere morale e riparatore, sul piano in
primo luogo individuale. Se intendo almeno in parte attingere
all’eternità della natura, la quale può benissimo permettersi di
essere per la gioia di noi tutti anche mutevole, ebbene devo
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saldare
la mia necessaria molteplicità col cemento della coerenza, costi pure
essa solitudine, silenzio, rinuncia, dimenticanza. Soltanto così da luogo
di congeniti attriti, la frontiera può rovesciarsi in oasi di
pace, in una piega di territorio non omologato, dove accanto alle reliquie di
antichi idiomi persistano la lealtà e il rispetto dell’altro”[16].
Il problema più acuto sotto l’aspetto psicologico
è quello dell’identità, sia individuale, sia collettiva. In
merito alla prima, Claudio Magris notava: “Sin da bambino capivo, sia pur
vagamente, che, per crescere, per formare la mia identità in un mondo
non completamente scisso, avrei dovuto varcare quella frontiera –e non solo
fisicamente, grazie al visto su un passaporto, bensì soprattutto
interiormente, riscoprendo quel mondo che era al di là del confine e
integrandolo nella mia realtà”[17].
Nell’allargare la prospettiva, lo scrittore considera che, essenzialmente,
“ogni confine ha a che fare con l’insicurezza e col bisogno di una sicurezza.
La frontiera è una necessità, perché senza di essa ovvero senza
distinzione non c’è identità, non c’è forma, non
c’è individualità e non c’è nemmeno una reale esistenza,
perché essa viene risucchiata nell’informe e nell’indistinto. La frontiera
costituisce una realtà, dà contorni e lineamenti, costruisce
l’individualità, personale e collettiva, esistenziale e culturale”[18].
Anche per quanto riguarda l’identità collettiva,
la condizione di frontiera produce spesso un sentimento d’incertezza,
d’inappartenenza ed estraneità; un contraddittorio sentimento di vivere
al centro e insieme alla periferia della vita. La città, che sino al
1954 era un Territorio Libero amministrato dagli americani e dagli inglesi,
faceva e non faceva parte dell’Italia; era più facile che altrove
dubitare di avere un futuro, non si sapeva bene chi e che cosa si era e
ciò induceva a continue messinscene della propria identità. La coscienza
collettiva si sentiva soffocata da ogni parte da confini, ma si circondava a
sua volta febbrilmente di nuove frontiere, per sfuggire a ogni precisa
appartenenza e per costruirsi un’identità grazie a questa
alterità esasperata.
In questa prospettiva, il concetto di «frontiera»
è connesso ad un altro, quello di «Heimat» (paese, luogo, terra
natale, patria), a proposito del quale Joseph Zoderer affermava che, per quanto
strano e assurdo ci possa sembrare, l’uomo sembra voler essere prima certo di
sé e appena dopo accertarsi del mondo che lo circonda. Sprofondato in una vita
catastrofica o forse nonostante questa, l’individuo cerca –proprio come le
minoranze culturali o etniche– un’identità e un riconoscimento della sua
peculiarità, come uno che, nella casa che va a fuoco, cerca
disperatamente il suo certificato di nascita. “Io credo che questa
identità sia un’esigenza fondamentale dell’uomo, proprio come l’aria,
l’acqua e il pane. La dignità di sé, la capacità di proteggere e
custodire la propria identità, la necessità di riaccettarsene in
continuazione”[19].
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Lo scrittore aggiunge: “Siccome la Heimat per me
è il luogo assoluto dell’ovvio, essa è per me anche il luogo
assoluto dell’interrogativo, della sfida, della provocazione della vita: una
parete liscia, un muro perfetto che mi sfida a trovarci delle fessure”[20].
Ciò avviene proprio in quelle
zone dove i confini vengono spostati, spariscono e improvvisamente ricompaiono.
In tal modo, città e individui si trovano spesso ad essere degli “ex” e
quest’esperienza dello spaesamento, della perdita del mondo, non riguarda solo
la geografia politica ma la vita in generale. È questo il caso del sopra
citato Zoderer, il quale confessa di essere nato in un curioso punto di cesura
della Mitteleuropa, a sud delle Alpi, in un intrico di monti e valli, tra
ghiacciai e vacche, palme e meli, nel Südtirolo dei contrasti, in una piccola
regione che per settecento anni ha fatto parte della monarchia asburgica e dopo
la prima guerra mondiale è passata –merce di scambio politico– dall’abbraccio
del fascismo a quello del nazionalsocialismo. “Oggi tutti noi abitanti di
questa terra –tedeschi, italiani e ladini– stiamo portando in noi le
conseguenze della storia, ed ogni giorno passa in un processo imprevedibile di
apprendimento della tolleranza e del rispetto”[21].
L’autore continua la storia della sua vita, declinando la propria
identità: “Io sono uno di quel quarto di milione di cittadini italiani
di lingua tedesca, uno scrittore con passaporto italiano che scrive in tedesco
e vive in Südtirolo. Quando avevo quattro anni, pochi mesi dopo l’opzione per
la Germania o l’Italia nel 1940, i miei genitori mi portarono via da casa mia,
assieme ai miei fratelli, per trasferirsi in Stiria, a Graz. Da quel momento
vissi in un paese straniero come se fosse la mia patria, e non vedevo alcuna
differenza, neppure il fatto che per strada, in cortile e a scuola parlavo il
dialetto di Graz come tutti quelli della mia età –la loro lingua era la
mia– ma, chiusa la porta di casa mia, le parole improvvisamente mi si cambiavano
in bocca, in un baleno mi si trasformavano nella testa in altre parole, o
comunque era la mia bocca a pronunciarle in modo del tutto diverso, in
sudtirolese. Tra le pareti di casa mia, parlavo senza accorgermene con un’altra
lingua, parlavo come un bambino di Merano, non come uno di Graz. Quando poi mi
stabilii definitivamente nella mia terra natale, ero un uomo sulla trentina”[22].
Un altro doloroso spostamento di confini
riguarda il cosiddetto «Kosakenland» che i tedeschi, durante la seconda guerra
mondiale, avevano promesso ai loro alleati cosacchi e che, per qualche mese,
era stato situato in Carnia, l’aspra e povera parte del Friuli, sino alla
catastrofe finale. Questo episodio è evocato da Claudio Magris, il quale
nota che in quelle terre i cosacchi non avevano soltanto trasferito le loro
tende, ma anche le loro radici; avevano trapiantato il loro passato e la loro
steppa in quella regione, della cui esistenza, sino a poco prima, non avevano
nemmeno sentito parlare. Convinti di combattere per la libertà, si erano
posti al servizio della più feroce tirannia. In nome di una patria, di
cui andavano alla ricerca, e nel desiderio di trovare un punto fermo, un
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proprio
stabile e tranquillo confine, essi depredavano un’altra gente della sua patria,
dei suoi confini[23]. Con questa
storia cosacca, lo scrittore mette in risalto come il confine che “corre tra la
verità e la menzogna sia spesso incerto, anche se il nostro compito
è quello di cercare incessantemente di stabilirlo. La messinscena della
verità si capovolge spesso nel suo opposto, la verità viene
mascherata e si trasforma in menzogna; anche in questo caso è un confine
che viene inavvertitamente oltrepassato o confuso. La frontiera tra menzogna e
verità, di per sé divise da una chiara linea di separazione, come il
sì e il no delle parole del Vangelo, viene spesso cancellata e spostata
dalla storia e dall’ideologia”[24].
Nella zona che stiamo studiando, il
più drammatico spostamento di confini è quello che ha portato ad
un massiccio esodo italiano nel momento in cui, alla fine della seconda guerra
mondiale, escono dalla storia d’Italia territori segnati per secoli dalla
civiltà veneziana, in cui la coscienza nazionale italiana si era
innestata su una tradizione culturale italiana più antica e radicata di
quella di Trieste, e che avevano poi trovato, soprattutto a partire dal 1866,
in Trieste il loro naturale centro di gravitazione politico-culturale. Il
distacco di queste terre dall’Italia non è infatti soltanto
politico-territoriale, ma anche etnico-culturale.
In sostanza, la Jugoslavia di Tito, dopo essersi liberata
con la sua straordinaria guerra di resistenza, non si era soltanto ripresa
terre slave, ma si era annessa, con l’Istria e Fiume, anche terre italiane.
Negli anni precedenti c’era stata l’oppressione fascista degli slavi, e la
sottovalutazione dei loro diritti anche da parte di molti italiani non
esplicitamente fascisti ma nazionalisti. La riscossa jugoslava, all’insegna del
totalitarismo, fu violenta e indifferenziata. In quegli anni segnati dalla
paura, dall’intimidazione e dal delitto, circa trecentomila italiani
lasciarono, in momenti diversi, le loro terre e le loro case, per errare nel
mondo e vivere, anche per molti anni, in campi profughi. Praticamente, quasi
tutta la popolazione italiana decise di abbandonare la terra natale, con una
decisione che può anche essere stata influenzata da una psicosi e da una
suggestione collettiva e da consigli impartiti dall’alto e che è stata
indubbiamente stimolata dalla consapevolezza che il tradizionale ruolo di
nazione egemone, di nazione storica, svolto dagli italiani nell’Istria era
ormai giunto al suo termine. Ma questa compatta decisione è stata
soprattutto un’affermazione di italianità e un gesto di protesta, e
insieme una conseguenza della contemporanea pressione di due fenomeni
coincidenti, e reputati dai più, appunto per questa coincidenza,
intollerabili: il nazionalismo jugoslavo, esasperato dal vicino ricordo del
fascismo, e il comunismo di guerra. Aspetto quest’ultimo, come notarono Angelo
Ara e Claudio Magris, che spinge alla fuga, e in molti casi proprio verso
Trieste, anche tanti sloveni e croati[25].
Per tornare all’esodo italiano dall’Istria, si deve
notare che questa gente, che aveva perso tutto, veniva spesso incompresa e
ignorata nel suo dramma e perciò spesso
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si
rinchiudeva a sua volta in altre frontiere che si rizzavano nei cuori, le
frontiere dell’amarezza e del risentimento che isolavano questi esuli non
soltanto dalla loro terra perduta, ma anche, spesso, da quella in cui venivano
a inserirsi e che li ignorava e li faceva sentire parzialmente stranieri[26].
Dolorosamente, altre, ancora più complesse
frontiere venivano a crearsi intorno a quegli esuli che, pur soffrendo il
dramma dell’esilio e dell’incomprensione da parte dell’Italia ufficiale e pur
opponendosi alla violenza nazionalista slava che li cacciava, si rifiutavano di
unirsi ai sentimenti nazionalisti italiani e quindi ad ogni indiscriminato
rifiuto degli slavi e continuavano a vedere nel dialogo fra italiani e slavi la
loro identità più autentica. Essi continuavano a considerare il
loro mondo istriano e adriatico, un mondo misto e composito, non solo italiano
e non solo slavo bensì italiano e slavo, venendo così odiati sia
dai nazionalisti slavi sia da quelli italiani e venendo quindi a trovarsi in
una specie di terra spirituale di nessuno, circondata da altre frontiere. Il
riflesso letterario di tale storia sofferta è rappresentato da quella
che venne chiamata la «letteratura dell’esilio», alla quale faremo riferimento
nella seconda parte della presente trattazione.
Dopo l’esodo dall’Istria, questo confine orientale
d’Italia del quale stiamo trattando è stato il teatro di un’altra
migrazione, quantitativamente tanto più modesta, ma molto più
ignorata e tragica, evocata da Claudio Magris in Un altro mare e in Microcosmi:
la vicenda dei duemila operai italiani di Monfalcone, convinti militanti
comunisti che avevano conosciuto le prigioni fasciste e i Lager tedeschi e che,
mentre avviene l’esodo istriano, lasciano tutto per trasferirsi in Jugoslavia e
contribuire alla costruzione del comunismo. Quando Tito rompe con Stalin,
vengono perseguitati come stalinisti e deportati in due Gulag – a Goli Otok e a
Sveti Grgur, dove subiscono violenze d’ogni genere e resistono in nome di Stalin,
che ai loro occhi rappresenta l’Ideale e la Causa. Più tardi ancora,
tornati in Italia, vengono vessati in quanto comunisti e osteggiati, quali
scomodi testimoni del passato stalinista, dal Partito Comunista Italiano: si
ritrovano, ancora una volta, dall’altra parte, secondo l’espressione di Claudio
Magris, dalla parte sbagliata nel momento sbagliato, circondati dalle frontiere
più dure e feroci. E rimasero così “fuori posto nella Storia e
nella politica, a combattere –con incancellabile dignità e coraggio– per
una causa che, se avesse vinto, avrebbe visto nascere nel mondo tanti
più gulag, creati per stritolare uomini liberi come loro”[27].
Lo scrittore aggiunge in Microcosmi che “strappare
all’oblio questa sanguinosa nota a piè di pagina della storia universale
significa salvare l’eredità morale di quella forza e di quello spirito
di sacrificio che hanno permesso ai «monfalconesi» –come venivano chiamati– e
ai loro compagni di sventura di resistere all’annichilimento della persona, sia
pure per fede in un nome che era peggiore di quello che li perseguitava.
Quell’eredità morale va raccolta anche da chi non ha condiviso la loro
bandiera; guai se, quando cade la fede nel «Dio che è fallito», sparisce
con essa la qualità umana –la
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dedizione
a un valore sovrapersonale, la fedeltà, il coraggio– che quella fede
aveva contribuito a forgiare”[28].
Dopo aver esaminato i vari connotati del concetto di
«frontiera», in ciò che segue faremo riferimento ad un concetto
connesso, quello di «cultura di frontiera». A questo proposito l’idea basilare
riguarda il fatto che il confine, la sua peculiarità, incide
profondamente nella formazione e nella mentalità delle popolazioni che
ci vivono accanto, fino al punto di creare, talvolta anche inconsapevolmente, una
particolare «cultura di confine».
Questa peculiarità è stata d’ispirazione a
scrittori, poeti e studiosi, che si sono formati nel ricco humus culturale che
l’incrociarsi, il sovrapporsi e talvolta lo scontrarsi di culture aveva
modellato nel corso dei secoli. Infatti, dai luoghi di frontiera –non solo
nazionale o linguistica, ma anche etnica, sociale, religiosa, culturale–
è spesso nata una notevole ed incisiva letteratura, espressione di
quella crisi e di quella ricerca dell’identità che segnano oggi il
destino di ognuno e non certo soltanto di chi nasce e vive nelle terre di
confine.
A proposito del carattere e della cultura degli uomini
che vivevano in questa zona di confine, Piero Gobetti si esprimeva così
durante una conferenza che tenne a Gorizia nel 1922: “Le terre di confine sono
il campo più irrequieto e incontrastato della lotta di idee e
dell’elaborazione della civiltà. A tutti voi senza distinzione di
partiti, si presenta un grande compito di studio e di creazione”[29]
e aggiungeva, con toccante attualità, che la coesistenza di più
culture in questa terra era quasi un ammonimento riguardo l’esigenza di una
superiore dignità umana.
Sul piano artistico, la condizione di frontiera –che si
confonde spesso con l’ossessione di situare qualcuno o qualcosa dall’altra parte–
viene conciliata nella letteratura, la quale diventa così un mezzo per
risolvere, in maniera esemplare, i problemi che ne derivano. “La letteratura,
fra le altre cose, è pure un viaggio alla ricerca di sfatare questo mito
dell’altra parte, per comprendere che ognuno si trova ora di qua ora di
là – che ognuno, come in un mistero medievale, è l’Altro”[30].
In un certo modo, secondo Guy Scarpetta, il mito originario piano piano ha
cessato di essere una mancanza, un “richiamo”, ed è diventato uno spazio
“archeologico” percorso ininterrottamente. Come se la frontiera dovesse essere
passata migliaia di volte per costatare che, in realtà, non esiste
frontiera[31],
spiritualmente senz’altro.
In una più complessa prospettiva, si può
notare che la letteratura è di per se stessa una frontiera ed una
spedizione alla ricerca di nuove frontiere, un loro spostamento e una loro
definizione. Ogni espressione letteraria, ogni forma è una soglia, una
zona sul limitare di innumerevoli elementi, tensioni e movimenti diversi, uno
spostamento dei confini semantici e delle strutture sintattiche, un continuo
smontaggio e
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rimontaggio
del mondo, delle sue cornici e delle sue immagini, come in un teatro di posa in
cui incessantemente si riassestino le scene e le prospettive della
realtà[32]. In tale
contesto, ogni scrittore, “lo sappia e lo voglia o no, è un uomo di
frontiera, si muove lungo di essa; disfa, nega e propone valori e significati,
articola e disarticola il senso del mondo con un movimento senza sosta che
è un continuo slittamento di frontiere”[33].
Con
l’osservazione che, spesso, lo scrittore di confine si trova fra Scilla e
Cariddi, tra la retorica di un identità compatta e quella di
un’identità sfuggente. Tutti conoscono e disprezzano i primi, gli
scrittori che si fanno «torvi custodi della frontiera» –
dell’italianità, della slovenità, della tedeschità. Ma
anche gli altri, che gli combattono da posizioni tanto più nobili, sono
spesso vittime di un’altra retorica di confine, quella di voler negare a ogni
costo ogni confine, di mettersi sempre dall’altra parte, di sentirsi – ad
esempio –a Trieste italiano fra gli sloveni e sloveno fra gli italiani– oppure
–in Tirolo– tedesco con i carabinieri e italiano con gli Schützen. Da
qui deriva un’altra menzione riguardante il fatto che questa posizione si
potrebbe dimostrare politicamente meritevole in un clima di aspri conflitti
etnici, ma allo stesso tempo rischia di diventare una formula stereotipa, un
comodo «alibi letterario», e di indulgere, a sua volta, a quel pathos del confine
che si vuole negare, a quell’ossessivo interrogativo sull’identità che
si esprime nel dichiarato compiacimento di non riconoscersi in alcuna
identità precisa.
L’analisi che abbiamo cercato di realizzare finora
sostiene l’idea che la specificità della frontiera e della cultura di
frontiera deriva soprattutto dal suo carattere ambivalente e contraddittorio,
che viene ad arricchire di particolari connotati il volto letterario del mito
di Trieste. Infatti, se Trieste è una frontiera, quest’ultima diviene,
nelle opere letterarie, un modo di vivere e di sentire, una struttura
psicologica e poetica, come si potrà vedere in seguito.
**
***
Apriamo la seconda parte della presente relazione sotto il segno della
cosiddetta «identità in rottura», promossa da Sorin Alexandrescu nel
volume omonimo. Essa è associata a quella che venne chiamata
«identità in movimento» e, ovviamente, alla «identità multipla»,
di solito «doppia identità», sulla quale lo scrittore afferma: “La
doppia identità è un effetto dell’emigrazione e
dell’immigrazione. Se si va in un altro paese come straniero, ci si deve
adattare e l’adattamento implica la rinuncia a certi riflessi per
ottenerne altri. È quindi un fenomeno abbastanza strano, che assomiglia
ad una sorta di morte e, allo stesso tempo, ad una sorta di rinascita. È
molto difficile vivere con l’identità vecchia in un altro paese perché
si è minacciati dalla stigmatizzazione, è troppo facile che ci
sia riconosciuti come un «caso» distinto”[34].
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Ci sarebbe inoltre da notare che le identità non
sono equivalenti: si passa da una all’altra. Sono complementari e successive,
perché si hanno in momenti diversi dell’evoluzione di una persona e, quindi, ad
un’altra età. Ma la prospettiva è ancor più complessa,
cosicché la doppia identità si rivela quale “compromesso diurno con gli
incubi notturni”, quale “incapacità di scegliere tra il ricordo e
l’ansia del presente”[35].
È, perciò, una fonte di conflitto interiore. Allo stesso tempo
essa implica anche un conflitto esteriore. Da una parte, l’emigrante non ha
passato, nel senso che non ha il passato dei locali. Non ha fatto la scuola con
loro, né il servizio militare. L’alloctono non ha la mitologia personale
dell’autoctono e mai la potrà capire o immergersi in quell’impasto di
ricordi e valutazioni e pregiudizi comuni che rappresentano la cultura locale.
La potrà imparare e leggere dal difuori, la potrà anche amare, ma
sarà un atto libresco, un amore con la testa. L’alloctono e l’autoctono
non hanno la stessa cultura e mai la potranno avere, e no perché non vogliono o
perché si disprezzano reciprocamente –anche se ci sono, abbastanza
frequentemente, casi del genere. “La cultura, più della lingua parlata,
era quel confine sottile che passava tra me e l’Altro”[36]
– afferma Sorin Alexandrescu a proposito della sua esperienza personale.
Dall’altra parte, l’emigrante non ha futuro. Egli non
può fare dei progetti a lunga scadenza, ha semplicemente il sentimento
che oggi è, ancora, tollerato e potrà cominciare il domani
soltanto con nuovi adattamenti destinati a consolidare la tolleranza. È
vittima di ciò che sarebbe il trapianto culturale (transplantation
culturelle), attraverso il quale un individuo «si tuffa» in un’altra
società, in un ambiente e in una cultura diversi da quelli propri,
essendo un «migrante culturale» (migrant culturel).
La doppia identità è, di conseguenza,
individuale e soprattutto culturale. In questa prospettiva l’emigrante, come
ogni minoritario, è, in confronto ai maggioritari, malato di diffidenza.
Ma la sua malattia rappresenta la super-interpretazione, la super-analisi degli
altri, tipica, secondo Eco, ai casi di sotto-codificazione, alle situazioni in
cui solo delle regole vaghe sembrano legare espressioni e contenuti.
L’emigrante vive il paese d’adozione come un mondo cronicamente sotto- oppure
non codificato. Egli non conosce i suoi codici per il semplice motivo che non
è il loro prodotto. Ed è proprio la mancanza dell’evidenza dei
codici che porta alla super-interpretazione: l’emigrante sospetta profondità
o complessità inattese, oppure a lui nascoste di proposito. E la fine
della super-interpretazione è, oppure potrebbe essere, la fine della
lotta tra le due identità: non sospettare più l’altro significa
non sospettare più sé stesso.
La doppia identità appare non solo come fonte di
conflitto, interiore ed esteriore, ma anche di paradossale libertà.
L’emigrante è stimato se si conforma alle norme locali, ma è
guardato in maniera ironica se cerca di identificarsi totalmente con esse.
L’iperurbanismo è stridente, e non soltanto nel linguaggio. L’autoctono
apprezza il «fascino» di uno straniero se esso è un più, non un
meno, in rapporto alle norme locali: un tono, una sfumatura – la marca
supplementare. “Qualsiasi azione è un modo per
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profilare
la mia doppia identità, di sottolineare il primo o il secondo lato della
stessa – aggiunge Alexandrescu. Ogni atteggiamento è una scelta non solo
per un certo tipo dell’altro, ma anche per un certo tipo dell’io”[37].
Il problematismo inerente all’esilio trova il suo
riflesso più fedele nella letteratura. Con riferimento alla letteratura
mitteleuropea, si è proprio affermato che la sua sorte è legata
all’esilio – inteso ad literam, come emigrazione. Non a caso i maggiori
scrittori polacchi, da Adam Mickiewicz e Juljusz Slowacki fino a Czeslaw
Milosz, Leszek Kolakowski e Witold Gombrowicz, nonché gli scrittori
cecoslovacchi Milan Kundera e Josef Škvorecky, i russi Vladimir Nabokov, Ivan
Bunin e Aleksandr Solženicyn, insieme a scrittori romeni quali Mircea Eliade e
Emil Cioran, hanno tutti creato in esilio. La sorte di questa letteratura
è, allo stesso tempo, “esilio” in un altro significato: esilio dal
circuito ufficiale. In Polonia, Zbigniew Herbert, in Cecoslovacchia, Václav
Havel e Bohumil Hrabal, in Ungheria, György Konrád e Miklós Haraszti, in
Jugoslavia, Danilo Kiš, in Russia, Joseph Brodsky e Viktor Irotchev e, in
Lituania, Tomas Venclova – tutti hanno creato al di fuori delle strutture
ufficiali della vita letteraria.
Per quanto riguarda lo spazio oggetto della presente
ricerca si può notare che, alla metà del Novecento, Trieste
divenne il centro di un movimento letterario con tratti peculiari ben definiti,
che si identifica con la «letteratura dell’esilio», sulla quale dà
testimonianza Giorgio Voghera, tra i primi, nello studio intitolato Letteratura
a Trieste: “La «letteratura dell’esilio» è l’opera di scrittori
istriani, liburnici, dalmati, trapiantatisi a Trieste in parte già in
tempi ormai lontani, in parte in questo dopoguerra, dopo che i loro paesi
d’origine erano stati assegnati alla sovranità o all’amministrazione
jugoslava”[38]. Allo
stesso proposito, Voghera afferma in un’altra parte: “Trieste è
diventata alla fine l’autentico centro letterario di un’Istria che non esiste
più”[39].
La tematica di questa letteratura concerne l’«esilio» con
tutta la problematica che esso comporta. A tale concetto fa ampio riferimento
Enzo Bettiza, nel libro intitolato appunto Esilio (1996), in cui
racconta la propria vita, la vita della sua famiglia appartenente al patriziato
spalatino e la storia della città dalmata, lungo quattro percorsi fra
loro intrecciati. Uno di questi, insistito seppure intermittente, è
legato al tema dell’esilio che dà il titolo al libro. La sindrome da
esilio, quel particolare malessere d’estraniazione e d’illusorietà
esistenziale che perseguita l’esule ovunque egli si trovi, non è un
argomento letterario inedito. Lo hanno già affrontato e trattato con
lucidità, talora con amara brutalità, alcuni scrittori nati come
Kundera all’est, o quasi all’est, e successivamente trapiantati all’ovest. “Io
però, fino ad ora, non avevo mai sfiorato l’argomento, neppure di
sfuggita – confessa l’autore. Avevo sempre finto, con gli altri e più
ancora con me stesso, che la cosa in fondo potesse non riguardarmi e toccarmi
personalmente. M’illudevo, volevo illudermi, di non portare quel fardello sulle
spalle. In
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sostanza,
rimuovevo un disagio che però, appena mi sono abbandonato alla
rievocazione autobiografica, è quasi subito emerso con straordinaria
energia dal sottosuolo del mio inconscio conculcato. Allora ho capito che non
sarei mai riuscito a spiegarmi interamente a me stesso se non avessi tentato,
una buona volta, di spiegare più a fondo i misteriosi disturbi psichici
che quella sindrome fa allignare nelle sue vittime”[40].
Bettiza affronta tale argomento delicato definendosi per
primo: “Io sono infatti un esule nel più completo senso della parola: un
esule organico più che anagrafico, uno che si sentiva già in
esilio a casa propria, molto prima di affrontare la via dell’esodo effettivo
nella scia delle grandi migrazioni che, verso la fine della seconda guerra
europea, dovevano stravolgere la carta etnica e geografica dell’Est europeo.
Fin dai tempi in cui ero stato costretto a spostarmi di continuo fra il confino
scolastico di Zara e l’ambiente nettamente più slavo e più
familiare di Spalato, mi sono trascinato addosso il disagio di un ragazzo
bilingue, sdoppiato, spesso quasi estraneo a se stesso. Un ragazzo che non
sapeva mai bene a chi e a che cosa appartenere; sempre in bilico perplesso e interrogativo
fra genitori, nonni, zii, cugini, amici, amiche, nutrici, servi di diversa
nazionalità; sempre precario in una terra nella quale, soprattutto dopo
il crollo dell’Austria, i risentimenti e i contrasti nazionali erano diventati
l’acido pane quotidiano di cui si nutrivano i suoi irrequieti abitanti”[41].
Sempre nell’introdurre la sua storia, l’autore confessa:
“Per usare un’efficace immagine di Gide, che al suo Journal aveva
confidato certi sentimenti quasi analoghi ai miei, anch’io fin da ragazzo avevo
avuto l’impressione di vivere come sospeso sul bracciolo di una sedia
provvisoria, sempre sul punto di alzarmi e andarmene altrove nella speranza di
trovarvi la sedia giusta su cui fermarmi”[42].
Dopo tale preambolo, si arriva all’idea di esilio: “Tutto questo si
rafforzò quando per me, non ancora diciottenne, arrivò il momento
chirurgico del taglio ombelicale: l’esodo vero e proprio, lo strappo definitivo
dalle vecchie mura di Spalato. Allora cominciò il lento processo di
necrosi dei ricordi legati a Spalato e alla Dalmazia. Fatto è che
l’esilio e la manutenzione dei ricordi non vanno molto d’accordo. In genere,
rievocano meglio se stessi e la propria vita coloro che rimangono radicati nel
luogo dove sono nati. Invece l’esilio prolungato nello spazio e nel tempo,
l’esilio senza ritorno, aggravato dal vagabondaggio dispersivo in altri mondi,
possiede una rara quanto perforante facoltà distruttiva: lentamente
carbonizza tutto ciò che siamo stati altrove, recide i vincoli di
sangue, spegne i ricordi, fa impercettibilmente tabula rasa del passato”[43].
Nella condizione dell’esule, Bettiza avverte un aspetto
interessante riguardante la cosiddetta «doppia identità» – quella del
passato corrispondente alla terra natale e quella del presente, legata alla
terra d’arrivo: “L’esilio è come un suicidio indolore e quasi notarile
dell’improbabile persona che l’esule era stato una volta e che non è
più.
p. 414
Agisce
alla stregua di un notaio all’apparenza distratto, sommesso, ma implacabile,
che morbidamente costringe l’io a stipulare con se stesso un atto di rinuncia
consensuale a quei marcanti beni ereditari che sono la memoria e
l’identità”[44].
L’esule si sente in bilico, stato che incide sulla sua identità
individuale e sociale: “Così, le memorie legate a una mia esistenza anteriore,
morta in Dalmazia, si sono via via attenuate col passare degli anni,
sgretolandosi e sfuggendo quasi completamente alla presa della coscienza.
L’oblio provocato dall’anestesia distruttiva dell’esilio si sposa solitamente a
un senso d’irrealtà. I molti dubbi dell’esule sulla realtà e la
consistenza del proprio passato, sulla certezza del proprio essere dissolto nel
lampo e nel lacerto di una breve vita precedente, possono farsi a tratti anche
angosciosi e sgradevoli”[45].
Sotto il segno di un’accentuata «insicurezza mnemonica»,
si può persino arrivare a credere di non aver passato, cioè una
biografia certa: “L’insicurezza mnemonica, il sospetto di non aver mai vissuto
una prima vita reale, di averla soltanto attraversata di scorcio con
l’immaginazione, fanno intimamente parte di questa singolare angoscia
dell’oblio. Così la duplice congiura contro i ricordi, tramata sia
dall’esule in potenza che già ero stato in patria, sia dall’esule di
fatto che sono poi diventato abbandonando la patria (qui vorrei usare la
più pertinente parola tedesca Heimat), ha sortito alla fine sulla
mia mente il devastante effetto di un’amnesia pressoché totale”[46].
Ciò premesso, lo scrittore comincia ad analizzare lo sviluppo del
«curioso disturbo» provocato dall’esilio: “Agli incubi sognati, provocati da
quel mio formale ma angosciante vuoto accademico, s’aggiungeva nella veglia un
altro incubo più sottile e, per certi aspetti, assai più
allarmante. Dal giorno in cui lasciai la Dalmazia, e misi piede in Italia, esso
a seguitato a non darmi tregua, vanificando e dissolvendo in una sorta di
alienante cortocircuito percettivo il mio contatto con la realtà. Quel
curioso disturbo, molto snervante e difficile da descrivere, mi ha poi
inseguito fino a Vienna e addirittura fino a Mosca”[47].
Sono minuziosamente descritti i segni delle perturbazioni
della sicurezza ontologica: “Ecco: avevo l’oscura, inquietante, pressoché
continua sensazione che il mio io non fosse il mio vero io, il mio essere non
il mio essere autentico, e che tutto ciò che vedevo e toccavo fosse
soltanto una mimesi del nulla. Apparenza vuota. Miraggio e beffa. Aldilà
truccato con gli orpelli dell’aldiquà. L’unico paragone possibile, che
mi viene alla mente, è quello del fastidio persecutorio che affligge
colui che sente un ronzio perenne nella testa e s’abitua poco per volta, suo
malgrado, a convivere con esso. Il mio insistente ronzio, che concerneva la
psiche piuttosto che la testa, aveva la strana capacità mortuaria
di derealizzare e prosciugare ogni cosa intorno a me. La sua precipua
qualità negativa era quella di alterare sottilmente la realtà,
fino a svuotarla e a nullificarla irreparabilmente. Mi pervadeva allora un
duplice senso d’irrealtà, interiore ed esteriore.
p. 415
Mi colpivano
la forma gratuita, l’inconsistenza materiale degli oggetti che s’ammucchiavano
ignoti e assurdi, davanti a me, come tanti messaggeri del niente. Avevo
l’impressione di non riuscire a mettermi in sintonia con l’essenza del mondo,
semplicemente perché quell’essenza, ormai scarica e inerte, era diventata
simile a una batteria consumata. La natura che guardavo, le persone che
incontravo, le voci e le parole che ascoltavo, mi parevano tutte falsificate o
addirittura necrotizzate da un virus misterioso e silente. Luci e suono fatui
di un firmamento spento”[48].
La perturbazione della sicurezza ontologica è per
Bettiza “un’alterazione psichica speciale”, che si ripercuote sulla percezione
della realtà e soprattutto sul rapporto identità-alterità:
“Il disturbo, diciamo pure quel sommerso disturbo patologico, che aveva in sé
anche qualcosa di metafisico, mi creava purtroppo delle difficoltà nei
rapporti col prossimo. Taluno, a volte, accorgendosi di quella mia occulta
atonia, ne restava molto sconcertato e urtato. La riteneva offensiva in quanto,
sbagliando diagnosi, la scambiava per supponente arroganza. Io comunque facevo
del mio meglio per non apparire arrogante e lontano. Sottoponendomi a un grande
sforzo, cercavo, educatamente, di mascherare la mia assenza e indifferenza ai
discorsi di coloro che mi parlavano. Cercavo insomma, in tutti i modi, fingendo
attenzione, rispondendo a caso alle domande, di nascondere agli altri la
verità sullo stato di morbosa e permanente distrazione in cui versavo.
Distrazione, ho detto, non prostrazione, o depressione. Quel mio sottile morbo
d’anima, più spesso invisibile che visibile, non aveva infatti nulla in
comune con gli attacchi depressivi di un’ordinaria ciclotimia. Si trattava,
piuttosto, di un’alterazione psichica speciale, di genere quasi filosofico, che
si ripercuoteva poi in maniera distruttiva sulle funzioni dell’apparecchio
sensoriale. In termini ancora più precisi e più tecnici: i miei
sensi avevano perduto la facoltà di percepire e d’intendersi con la realtà
immanente e sensibile, e la realtà immanente e sensibile, a sua volta,
mi aveva girato le spalle ed era andata via per conto proprio. Mi aveva
lasciato nel vuoto. E questo vuoto, che avvertiva dentro e fuori, in certi
momenti insopportabili mi procurava un malessere fisico, una nausea da
vertigine. Il tempo e lo spazio sembravano allora confondersi e smarrirsi
altrove, come se tutto ad un tratto, non sapendo che farsene di me, si fossero
allontanati da quella mia assente e inconsistente presenza nel mondo; come se
di colpo non mi trovassi più nell’ora e nel luogo in cui credevo di
trovarmi; come se i miei orologi e le mie bussole d’orientamento fossero
svaniti chissà dove ed io, frastornato, alienato da me stesso,
continuassi a sopravvivere «all’estero» in maniera affatto provvisoria e
casuale”[49].
Pare che la «doppia identità» sia la scusa con la
quale si fa possibile la sopravvivenza, la “droga” con la quale si tenta di
dimenticare la perdita dell’identità: “Era, però, al tempo
stesso, la mia, una forma di sopravvivenza non soltanto passiva. Ripudiato
dalla realtà, separato da essa, io non mi davo per vinto: tentavo di
riacciuffarla per la coda, di bloccarla sulla strada della fuga, ma, facendo
così, peggioravo ancor più la
p. 416
situazione:
invece di fermare la fuggitiva, di restituirla a me, finivo per inferocirla con
la mia immaginazione autolesionistica. Insomma, io stesso, con le mie stesse
mani, la rendevo estranea a me, ambigua, invisibile, aggressiva. Mi condannavo,
da solo, a sopravvivere in un contromondo falso, senza forza di gravità,
dove al massimo potevo fingere una vita surrogatoria che non vivevo e non
sentivo, innaturalmente aggiunta come una protesi al moncone della mia vera
vita vissuta in una precedente esistenza: quella troncata, all’età di
diciotto anni, in Dalmazia”[50].
Il senso della perdita dell’identità è
però il più difficile da rimuovere, il più inquietante ed
angosciante: “C’erano indubbiamente, in tutto quell’intarsio di riverberi
viziosi, prodotti nella mia mente dalla realtà precaria che la
circondava e la disturbava, l’inquietudine e l’angoscia della perdita
d’identità. La perdita, voglio dire, della mia ancestrale
identità la quale, sbandata e priva di bussola nella deriva dell’esilio,
ha sempre faticato a tenere il passo coi ritmi e le apparenze soprattutto
dell’universo occidentale. Universo spesso più ostico, per me, di
quello russo, dove ho trascorso diversi anni e dove, come spiegherò, lo
strano disagio sensoriale che ho appena descritto si è spontaneamente
attenuato e placato”[51].
La crisi è quella che, alla fine, fa intravedere i
limiti inconciliabili della doppia identità: “Ma c’era altresì,
sotto quella paura per lo smarrimento dell’identità, qualcosa di ancora
più conturbante. L’avvertivo in certi attimi di crisi intensa. Si faceva
allora più che mai acuminata la frattura dentro la mia doppia
personalità, vacillante sotto i colpi dell’esilio, e io provavo la
più sconcertante delle sensazioni che un vivente possa provare: avevo la
sensazione, oltreché di sopravvivermi, di accingermi a spegnere la mia seconda
vita artificiale e riesumare la mia prima vita reale dalla morte, avvenuta, in
tempi lontani, sul trabaccolo di fortuna che mi portò via per sempre da
Spalato. In quegli straniti attimi di sdoppiamento, di confusione interiore,
non avrei saputo dire quale, dei due, fosse più vivo e quale più
morto: l’essere pulsante che aveva scoperto il mondo in Dalmazia, oppure
l’essere posticcio che si trascinava nell’inerte mondo dell’esilio? Si riapriva
così sotto i miei occhi, in tutta la sua profondità, l’abisso mai
completamente rimosso che ha spezzato la mia persona e la mia esistenza in due
tronconi inconciliabili: la vita perduta e scomparsa da una parte, un’altra
vita cercata e mai trovata dall’altra”[52].
Da quanto sopra risulta indubbiamente che l’esilio, lo
sradicamento, costituisce una delle principali situazioni patogeniche della
crisi. Esso riguarda le perturbazioni delle referenze dell’identità,
fatto che rende particolarmente difficile l’autoanalisi, come confessa lo stesso
Bettiza: “Non avevo mai osato, finora, impegnarmi in un’analisi altrettanto
minuziosa dell’enigmatica alterazione psichica che doveva conferire, a un lungo
periodo della mia diaspora, il connotato surreale di un incubo leggero ma
onnipresente. Perché non ho tentato di affrontare prima l’argomento?”[53].
La risposta
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dello
scrittore a tale domanda implica l’idea di «scavo interiore», attraverso il
quale viene esaminato il delicato fenomeno dell’esilio: “Per una ragione
insieme semplice e oscura. Non so perché, una voce interiore mi ha sempre
suggerito di evitare lo scavo nel delicato fenomeno dell’esilio. Così ho
scansato il tema fors’anche perché so quanto sia difficile trasferirlo dalla
pelle alla carta in tutte le sue implicazioni e perturbazioni psicologiche,
familiari, culturali, linguistiche e perfino religiose. La sindrome o le varie
sindromi dell’esilio, sovente ineffabili, per l’appunto indescrivibili, vanno
ben oltre il primo traumatico impatto che lo sradicamento definitivo, letale
come un naufragio, infligge al naufrago inghiottito dai flutti di un oceano
ignoto”[54].
L’autore inizia a presentare puntigliosamente tutta la
sintomatologia di quello che per lui è il trauma dell’esilio: “L’eco
delle sindromi, insomma, si prolunga vibrante al di là delle prime e
dure sottrazioni che l’esodo impone all’esule: la rinuncia alla terra e
all’identità, la dimenticanza della lingua natale, le privazioni
materiali, il deperimento dei legami coniugali, la perdita del contatto fisico
con la tomba dei propri defunti (ho potuto di persona constatare come
l’allontanamento dai sepolcri, l’oblio dei morti di famiglia, acceleri
nell’esilio il declino dei vincoli di parentela). Raramente si dà il
caso di un recupero integrale dell’equilibrio perduto già nelle prime
ore dello sradicamento. Anche quando l’esule riesce a rifarsi col tempo una
vita, una famiglia, una prole, una patria, una nuova identità
linguistica e culturale, egli non sfugge, non può mai sfuggire
completamento al marchio del trauma iniziale. Può abituarsi a convivere
con esso, può attutirlo, fingere di dimenticarlo, ma non potrà
mai cancellarne del tutto il segno. Resterà sempre la cicatrice al posto
della ferita. Per esempio, quegli incessanti cortocircuiti nei rapporti col
mondo esterno, che fin dal principio avevano ottenebrato e slogato la mia
coscienza, hanno continuato a molestarmi anche negli anni in cui avevo ormai
conquistato una professione, un pane sicuro, una relativa notorietà
giornalistica e letteraria”[55].
In ciò che segue si potrebbe notare un’eccellente
illustrazione della tecnica dello scavo interiore, la quale rappresenta
uno dei caratteri fondamentali della letteratura triestina del Novecento,
accanto alla poesia onesta e all’esame di coscienza:
“Breve: l’inquietante seppure controllata anomalia schizoide, che ho cercato,
scrivendo le ultime pagine, di spiegare per la prima volta almeno a me stesso,
non è stata altro che la fedele traduzione in parole e concetti di un
tipico trauma da esilio. Mi sono sforzato di portare alla luce, dall’interno
della mia esperienza, qualcosa che non sono mai riuscito ad esplicare neanche
ai più intimi, poiché non trovavo i toni e i vocaboli adeguati per
farlo. Come rappresentare d’altronde, con frasi normali e intelligibili, un
fenomeno che per se stesso non è normale né intelligibile? Con quali
aggettivi e sostantivi penetrare una cosa che per sua natura sfugge alla
penetrazione del linguaggio? Inventare quale lessico per dare una forma
discorsiva a quello scontro muto con la realtà, quel rifiuto ostinato
della realtà, quell’estraniazione dall’ingrata realtà d’esilio
che fanno di ogni esule, almeno per
p. 418
qualche
tempo, uno spettro vagante in una landa deserta, dopo la morte già
accaduta nell’attimo dello strappo e del congedo senza ritorno? Eppure era proprio
lì, in quel deserto dopo la morte, l’origine del morbo che mi ha spinto
a erodere, fino in fondo, gli ormeggi sensoriali che mi tenevano debolmente
legato a porti, a città, a situazioni estranee e inospitali: era
lì la causa vera della mia lunga e quasi inguaribile nevrosi”[56].
Dopo aver evidenziato i sintomi della sua “nevrosi”,
Bettiza presenta anche un possibile rimedio, quello che ha funzionato nel suo
caso: “Ad un certo punto sono guarito dal male a Mosca. Proprio così:
guarito parzialmente, o fors’anche un poco più che parzialmente. Ricordo
benissimo tutto. Il clima pungente ed eccitante sotto zero, le giornate
interminabili e crepitanti nella mole di novità che Chrušèëv, nostro
informatore speciale da Cremlino, ci rovesciava addosso dal mattino alla sera,
le asperità e le rivalità sul lavoro e le nottate in allegra
compagnia. Ci furono pomeriggi e sere in cui inviai al giornale tre o perfino
quattro corrispondenze di seguito, tutte contenenti qualche ghiotta primizia
sul “disgelo”. La lista delle rotture col passato non finiva di allungarsi. […]
In quell’atmosfera d’emergenza storica, ancora imbalsamata dal freddo ma
surriscaldata da notizie eccezionali, cominciai ad avvertire con stupore e con
sollievo i primi cedimenti, le prime incrinature nel blocco ormai stagionato e
congelato della mia nevrosi. Fu nel 1963, alla vigilia della primavera, che il
blocco prese a sciogliersi a poco a poco, sotto i timidi raggi del riluttante
sole moscovita. Sperimentavo anch’io, con una certa giocosa vitalità, il
mio primo disgelo dopo l’esodo. Mi sentivo lentamente rinascere dall’involucro
indurito della nevrosi che si squamava e colava, per così dire, in
scaglie di ghiaccio liquescenti dal corpo e dallo spirito rinvigoriti. Perfino
la mia antica propensione alle malattie organiche sembrava del tutto scomparsa
in quell’inattesa epifania della salute. Erano anni che non mi sentivo
così bene, così al sicuro nel mio protoplasma non più
insidiato da virus misteriosi e da cellule impazzite.
La guarigione, chiamiamola con questo nome, avvenne nel
terzo anno della mia permanenza giornalistica in Russia. Io ne avevo trentasei.
La Dalmazia l’avevo lasciata nella tarda primavera del 1945, un paio di mesi
prima della fine della guerra e del mio diciottesimo compleanno. Il momento
della guarigione era sopraggiunto a Mosca diciotto anni dopo l’esodo da
Spalato. Questo vuol dire che, per uscire in parte dal mio male oscuro, ho
dovuto consumare nevroticamente in esilio, dalla primavera del ‘45 alla
primavera del ‘63, la stessa esatta porzione di vita trascorsa in Dalmazia
prima dell’esilio. Ho dovuto impiegare cioè un’altra vita, una seconda
vita di diciotto anni, per neutralizzare alfine le morbose conseguenze del
distacco dalla prima. Gli ultimi due anni che ancora passai a Mosca, dal ‘63 al
10 ottobre del 1964 (Chrušèëv cadde il 15), furono dal punto di vista clinico i
più luminosi e sereni che io abbia mai vissuto”[57].
Alla domanda «quale fu la vera medicina, il toccasana
terapeutico, che proprio nella lontana Russia, così poco ospitale per
tanti aspetti, doveva ridare energia al mio fisico vulnerabile e quiete alla
mia psiche vulnerata?», l’autore offre una complessa
p. 419
risposta
che parte dall’idea che la “doppia identità” è essenzialmente
culturale, quindi implica, nella sua ricostruzione, quelle affinità che
riguardano la cultura interiorizzata, cioè il complesso acquisito di
principi culturali (credenze, norme e valori), di rappresentazioni collettive,
di modelli e codici referenziali: “Questa seconda Russia millenaria, la Russia
profonda, era stata per me la vera clinica curativa. Avevo visto e sentito in
essa un corroborante “quisisana” perché, fin dal primo giorno, mi era apparsa
come un immenso succedaneo, una gigantesca dilatazione orientale della
Dalmazia. Quella piacevole sensazione di tornare quasi a casa dall’esilio,
aveva, insomma, poco a che fare con la Russia sovietica e comunista; aveva
invece molto a che vedere con la Russia slava. La mia antica dimestichezza con
le lettere dell’alfabeto cirillico, con le solenni liturgie dei riti ortodossi,
con le tre dita riunite nel segno della croce, m’induceva assai naturalmente a
ritrovare nelle cattedrali di Mosca, nei rapimenti dei fedeli, nei libri dei
classici, perfino nei volti della gente, molte tracce e altre cose lontane che
mi erano state familiari nell’infanzia e nella pubertà”[58].
La cultura interiorizzata si basa sulla lingua, la quale
permette di identificare le altre premesse culturali: “Mi stupiva poi sempre il
miracolo della consanguineità linguistica. Fra le diverse lingue slave,
quella che conoscevo e parlavo io, la serbocroata, era una delle più
vicine alla lingua russa nella somiglianza e spesso identità dei
vocaboli, nell’ingranaggio delle declinazioni, nel suono di certi accenti e
fonemi. Il russo giungeva alle mie orecchie come un serbocroato dolce,
più indolente, più strascicato, un po’ invertebrato. Le due
lingue erano soprattutto simili negli etimi, cioè nelle radici comuni.
Tutto questo m’impediva di sentirmi a Mosca un completo njemec, parola
russa che proviene da «muto» e che significò «tedesco» e poi «straniero»
per estensione. Nemoj, muto, nella mia prima lingua madre diventava nijem,
e njemec, tedesco, si trasformava impercettibilmente in njemac. Avevo,
così, l’incoraggiante impressione di conoscere quell’idioma da sempre,
di conoscerlo per sangue più che per studio: l’infinità delle
parentele lessicali, delle folgoranti similitudini, me lo faceva a momenti
comprendere in una maniera che coglieva di sorpresa me stesso. Non mi era
estranea neppure l’architettura sintattica; la capivo con l’istinto, la seguivo
con naturale intuito musicale, la usavo anche per iscritto con una certa
scioltezza; mi esprimevo insomma con crescente e stupefacente facilità.
Provavo un senso di meravigliata commozione ogni volta che, annaspando nel
dubbio intorno a una parola, l’interlocutore russo me la tirava fuori, d’un
tratto, dal fondo etimologico dei primi balbettii con mia madre e con la balia
serba”[59].
In questo ambito, la conclusione dell’autore è
immediata: “Fatto è che, più passavano gli anni, sempre meno mi
sentivo forestiero in quella grande terra slava. Meno sradicato di altri
sradicati. E anche, con l’avvicendarsi delle gelate e dei disgeli, di meno in
meno nevrotico rispetto ad altri colleghi sempre più nevrotici.
Avevo ritrovato a Mosca una parte di me perduta
nell’esilio. Era lì che poco per volta m’ero riconciliato col mondo e
con me stesso. Lì, i miei monconi psichici, separati
p. 420
dalla
cesura dell’esodo, s’erano ricomposti gradualmente, giorno dopo giorno, riconquistando
una loro passabile unità interiore. Mosca, la Russia, erano diventate
quindi, per me, qualcosa di più importante d’un laboratorio di lavoro e
di carriera; di più profondo di un’avventura eccitante e perigliosa; di
molto più duraturo d’un soggiorno in un ostico altrove, dopo il quale,
come altri occidentali in trasferta, sarei ritornato alla vita di sempre. Io
non avevo, alle mie spalle, una vita di sempre, ma due vite da sempre
inconciliabili. Avevo il vuoto dell’esilio. Mosca, ben aldilà degli obblighi
giornalistici e degli eventi che mi avevano professionalmente legato ad essa,
è stata soprattutto il luogo di una mia intima riscoperta dell’anima e
della memoria, l’ideale casa di cura spirituale che per anni avevo cercato
invano in altre terre d’esilio. È stata, nell’insieme, la clinica che
avevo desiderato, la lingua che avevo smarrito, l’università che non
avevo frequentato, la laurea che non avevo conseguito. Dopo la Russia, per
fortuna, io non sarei tornato alla “vita di sempre”. Sarei tornato
semplicemente alla vita e alla salute”[60].
Un’altra testimonianza –umana e artistica– in questa
direzione di ricerca viene da Fulvio Tomizza, notevole rappresentante della
«letteratura dell’esilio», nato in Istria, poi diventato triestino di adozione,
cosicché “la mia terra non è più solo l’Istria: lo è
diventata anche Trieste”[61].
Lo scrittore affermava inoltre: “Non mi sono mai identificato bene né con
l’Italia né con la Jugoslavia. Io ho sangue slavo, mentre la mia educazione
è tutta italiana”[62].
In questo contesto si spiega la sua scelta sul piano dell’identità
individuale ed artistica: “C’è stata una scelta, che però era una
scelta d’obbligo. Io sono e resto italiano di lingua, nato in un’Istria
mistilingue sul piano dialettale. Ancora oggi i miei compaesani di là,
quando devo fare un certo discorso (per esempio al tribunale), si esprimono in
italiano, perché la loro conoscenza dello slavo resta dialettale. Hanno fatto
le scuole italiane e una maggiore ricchezza lessicale la possiedono con
l’italiano. Ora le cose stanno cambiando; i ragazzi imparano il croato e a
Capodistria lo sloveno.
Se ho scelto di diventare scrittore non potevo che
scegliere di diventare scrittore italiano, non potendomi, però,
confondere né con scrittori di altre regioni italiane, né con persone
dell’Istria costiera. Questi ultimi erano totalmente italiani.
Io mi sono formato nel rapporto dialettico tra le due
etnie, tra la mia gente (il cattolicesimo, magari superstizioso) e la nuova
amministrazione (la nuova ideologia, il marxismo)”[63].
Le ragioni di tale scelta sono ancor più profonde, come continua a
evidenziare l’autore: “Ma c’è qualcosa di ancor più forte del
richiamo della lingua. Dopo il Memorandum del ‘54, la maggioranza decise di
andare verso l’ignoto, verso un mondo ritenuto civile, di ordine, di
tradizione, mentre il regime jugoslavo di allora aveva una forte impronta
stalinista ed aveva portato il caos e il terrore, e una specie di snaturamento.
Io, vedendo ciò, li ho seguiti: seguire la mia gente a costo di lasciare
la
p. 421
terra
poiché era questa gente che se la portava dentro, anche mirando a un riscatto
morale”[64].
Approfondendo l’argomento, lo scrittore confessa che “di
fronte alle scene di gente indecisa che prendeva le suppellettili (non voleva
staccarsi nemmeno da un mobilio magari squallido pur di portarsi via qualcosa
di familiare) e che lasciava i morti, lasciava le case, lasciava i campi che da
sempre aveva lavorato, io avevo annotato degli episodi che mi avevano
particolarmente colpito e mi avevano anche straziato. Per cui, passato anche io
a Trieste nell’ottobre del ‘55, mi misi a tavolino”[65].
In un’altra parte si può ritrovare una simile descrizione: “Fui
partecipe di un avvenimento che non definirei neanche tragico, quanto
estremamente toccante, il quale denudava un’umanità come colpita a
tradimento. Questa gente era costretta a scegliere, ma non poteva né rimanere
nella terra di sempre tanto cambiata dalle vicissitudini storiche –violenze,
imposizioni, proibizioni– né vivere fuori dalla comunità, dalle
tradizioni, dalle feste, dall’ingrato eppur familiare lavoro, essendo come
vincolata al ciclo stagionale delle semine e dei raccolti. La situazione
economica era inoltre difficile: la Jugoslavia si stava appena risollevando da
una guerra disastrosa.
Era gente che non si sarebbe neanche potuta esprimere
fuori dal proprio ambiente. Tuttavia quasi il settanta per cento di questa
popolazione preferì oltrepassare il confine, andare a Trieste, in
Italia. Passando di là sapevano e non sapevano di finire nei campi di
raccolta per profughi, di vivere dei sussidi che passava l’amministrazione
civica governata dagli anglo-americani, di venire strumentalizzati, di contare
unicamente come persone che avevano detto no al comunismo, portando il
contributo dei loro voti al partito di maggioranza.
Furono una primavera e un’estate di grande strazio. La
gente doveva cambiare completamente vita, attaccata alla terra com’era.
Lasciavano tutto e c’era la psicosi della fuga, anche per avere dei diritti, e
chi prima arrivava meglio stava, le famiglie si alleavano.
Alla fine di ottobre del ‘55 sono venuto via anch’io”[66].
In tale contesto, non è un caso che Tomizza ha
ambientato il suo primo romanzo, Materada (1960), in questo lacerante
scenario storico. È, quindi, un romanzo dell’esodo e della frontiera,
un’intensa saga che acquisisce alla coscienza letteraria italiana il mondo
dell’Istria croata e insieme rappresenta epicamente il dramma dell’Istria
italiana[67]. Allo
stesso tempo, Materada è il libro di uno scrittore che non si
identifica appieno né in un mondo né nell’altro e trova in
quest’inappartenenza, come sottolineano anche i romanzi successivi della sua
epica istriana, la sua identità. Idea sostenuta da Tomizza stesso,
quando ammetteva che “prima parlo a nome di un piccolo
p. 422
popolo,
dopo faccio un’indagine interiore e scopre queste stimmate, tormenti di un uomo
che cerca la sua identità”[68].
Lo scrittore presenta con accenti
drammatici uno stato di «crisi», soprattutto di identità, attraverso una
«poesia dolorosa della terra»[69],
come fu chiamata dalla critica: «“La promessa c’è. La è duro
lasciare la terra sulla quale ti sono venuti i capelli bianchi, e la tua
casa, e la tua gente. Tu lasceresti la tua campagna, Franz, di cui conosci ogni
solco, ogni erba, ogni zolla?”
Dallo stomaco mi venne su una vampata calda.
“Io non lascio niente” dissi. “E penso che come me
faranno anche gli altri”»[70].
Sono parole che potrebbero rievocare l’interrogazione di
Goethe: “Tutte le transizioni sono crisi; ma la crisi non è una
malattia?” E sempre in riguardo alle transizioni, Umberto Saba faceva il
seguente commento: “Il dolore, lo spasimo, l’incertezza, l’angoscia (si
è perfino creata una filosofia dell’angoscia), la relatività di
ogni cosa, sono propri a tutte le epoche di transizione dal vecchio al nuovo”[71].
Come viene ad illustrare il brano citato, nel mondo evocato dall’autore
l’elemento chiave dell’identità lo rappresenta la terra (che,
secondo la classifica di Alex Mucchielli[72],
fa parte delle referenze materiali, suddivisione possessioni): «–E la cosa
più importante”– Che cosa? – La terra»[73].
Questo elemento acquista però il valore di simbolo di tutte le
p. 423
altre
referenze dell’identità (fisiche, storiche, piscosociali,
psicoculturali) che caratterizzano un gruppo, una comunità.
A questo proposito presentiamo altri brani suggestivi. Il
primo è commovente per la forza della comparazione: «“Certo che a voi
altri, con tutta la terra e le bestie che avete, non conviene partire.
Lo sai, Franz mio, che pur trovando l’America mai più potresti farti di
nuovo venti o trenta ettari di questa terra che è la migliore di
tutta Materada?”
Capitava proprio a proposito; ma non mi restò che
battergli la spalla e dirgli sorridendo: “Lo sai di no”»[74].
Il seguente brano assomiglia ad un’imprecazione: “E
lì, davanti la porta aperta su tutta la campagna sottostante, sotto il
rovere che rendeva ancora più scuro il cielo e più nera la notte,
stando lì da solo, maledissi quella terra per sempre. […] Lo
lasciai cianciare e me ne tornai all’aperto, sotto il rovere, nel buio della
notte fredda. E di lì di nuovo maledissi quella terra per sempre.
Ricordavo campo per campo, siepe per siepe, pianta per pianta, solco per solco;
e li maledivo, li maledivo. Che non dessero più frutto, non più
semenza, cadesse ogni anno la grandine e si seccassero, si seccassero, come la
mano di un morto”[75].
Le perturbazioni della sicurezza ontologica, le quali
vengono a delineare la crisi d’identità, sono collegate allo stesso
elemento centrale che è la terra:
«“Tu cosa pensi?”
“Io non lascerei la terra. Non possiamo lasciarla,
Franceso. È nostra ed è una buona terra. Per il mondo dove
ne troverai di eguale?”
“D’accordo, è nostra, ma non l’avremo. Forse
aspettando altri dieci anni le cose si metterebbero in chiaro. Ma che cosa
sarà di noi, dei nostri figli tra dieci anni? E poi, cosa sarà
qui tra dieci anni?”
“Allora tu saresti per partire?”
“Non resta altro. Io, oggi come oggi, partirei lo stesso”
Balzo sui gomiti e mi domandò: “Anche se ti
dessero la terra?”
E io risposi calmo: “Anche se mi dessero la terra”
Lui
masticava un’erba e scuoteva la testa, guardando in alto.
“Io no” disse. “In quel caso rimarrei. Me ne frego di
tutti quelli che partono e di tutti quelli che restano, quando ho la mia terra”
Allora me lo sentii nelle mani. Potevo dirgli quello che mi
stava tanto a cuore di dire. “Berto, ascoltami bene. Io non sono tipo da far
prediche, ma voglio dirti quello che penso. La terra non è tutto,
Berto. Se fosse tutto, noi avremmo fatto veramente di tutto per riaverla.
Invece a un certo punto ci siamo fermati. Io ci ho rinunciato quella sera che
da noi vennero Vanja e gli altri. Abbiamo da pensare ai nostri figli, noi due;
e loro che istruzione hanno da avere rimanendo o entrando in qualche skupèina o
che so io? Ha
p. 424
ragione
barba Nin: noi non siamo per questo regime. Forse ci vuole altro fegato. Oppure
ci si fa un poco alla volta, ma io questo non voglio; io di questo ho paura
[…]”
Berto si era fatto pensoso, e io ero contento di avergli
parlato.
Dal mare veniva su un po’ di tramontana e portava con sé
il profumo della terra appena arata: profumo di terra rossa, che
non se ne trova un altro eguale»[76].
I segni della crisi, individuale e collettiva, diventano
sempre più accentuati, fino a raggiungere il punto estremo, il culmine:
«Arrivai fino a loro e ci guardammo. “Allora è
andata?” chiese Berto.
“È andata”.
Ci fu silenzio, un buon silenzio. Poi mia moglie
scoppiò a piangere e appoggiò il viso sulla spalla della cognata.
Mio zio chiuse gli scuri, e lei si voltò verso l’alto e in viso non era
più lei. Non so se malediva verso lui o verso Dio. In una rabbia, in una
lite, in un pianto, si raggiunge un punto che è il culmine, e si fa, per
così dire, un salto al di là dello stato normale, dove non
esistono più né padre né madre, né marito né figli, ma solo odore di
sale e mal di testa e lagrime ingrandite e luccicanti come stelle. Così
accadeva ora a mia moglie. Gridava con tutta la sua voce e sventolava i pugni,
rossa nel viso, mentre Maria cercava di trattenerla. “Vigliacco, farabutto!
È tutta colpa vostra se a noi ora ci tocca andare come disgraziati per
il mondo. Ladro, ladro! Ci avete preso il nostro! Ai vostri nipoti, al vostro
stesso sangue. Con che coscienza potete guardare ora gli uomini in faccia? Ma
è finita anche per voi, sapete?! Mangiatevi la terra, ora, e che
poi possiate marcire sotto due pietre! Mangiatevela, mangiatevela, che
aspettate? e che poi vi possa venir fuori per gli occhi e per le orecchie, per
poi scoppiare come un verme! Ladro, mai una parola bella, solo ordini e ordini
e imbrogli e brutte maniere, da quando sono venuta su questo monte maledetto!”
E alle sue parole anche mia cognata si era riscaldata e
l’aveva lasciata libera e adesso gridava anche lei. E subito dopo anche Berto e
mio figlio. E tutti e quattro gridavano e piangevano, e Berto bestemmiava Iddio
e la Madonna»[77].
Il finale del romanzo ricrea, simbolicamente, la stessa
immagine sconvolgente della terra avita, depositaria della storia di una
comunità che sta per dissolversi: «Guardavo le tombe, e con tutta
quell’erba parevano cumuli di terra sollevatisi sotto la schiena di
grosse talpe. E pensavo ai nostri morti dalle orecchie e le nari piene di
basilico; pensavo a tanta altra gente che era nata e cresciuta e poi finita
là con un rosario e un libro nero tra le mani, e di cui ora non restava
che ossa e ossa, le une sulle altre, e libri e rosari sparsi tra la terra.
Mezzo ettaro di quella terra senza pietre era bastata per tutti; poteva
bastare anche per noi e i nostri figli.
“Addio ai nostri morti” disse forte una donna»[78].
I vari aspetti attinenti agli uomini da soli e agli
uomini come gruppi, aspetti presi in discussione nella presente trattazione
quali pezzi costitutivi della “grande verità
p. 425
della
poesia dell’esilio e della scissione”[79],
vengono a rafforzare l’idea che il cammino dall’identità alla «doppia
identità» passa per forza attraverso la perdita di sé, tra radicamento e
lontananza, appartenenza ed estraneità, sicurezza e incertezza, che da
“a casa” a “da quella parte” c’è tutta una serie di “qui”, come tanti
incroci interiori ed esteriori.
Other articles published in
our periodicals by Afrodita-Carmen Cionchin:
La città
mitteleuropea. Timiºoara e Trieste – un possibile paragone
Letteratura
triestina come letteratura della crisi d’identità
Rapporto «centro» versus
«provincia» nello spazio mitteleuropeo. Il «caso Trieste»
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[1] Afrodita Carmen Cionchin, Rapporto «centro» versus «provincia» nello spazio mitteleuropeo. Il
«caso Trieste», in “Quaderni della Casa Romena di Venezia”, no. 2, 2002,
pp. 266-297.
[2] Angelo Ara e Claudio Magris, Trieste.
Un’identità di frontiera,
Einaudi, Torino 1987, p. 154.
[3] Fulvio Tomizza, Alle spalle di Trieste (Scritti,
1969-1994), Bompiani, Milano 1995, p. 142.
[4] Ibidem, p. 195.
[5] C. Magris, Dall’altra parte. Considerazioni di
frontiera, in Idem, Utopia e disincanto, Garzanti, Milano 2001, p.
52.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem,
p. 53.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem, p. 52.
[11] Ibidem, p. 54.
[12] A. Ara e C. Magris, op. cit., p. 192.
[13] Ibidem, p. 193.
[14] F. Tomizza, Destino di frontiera. Dialogo con
Riccardo Ferrante, Marietti, Genova 1992, p. 48.
[15] Idem, Alle spalle di Trieste cit., p. 143.
[16] Ibidem, p. 133.
[17] C. Magris, Dall’altra parte cit., p. 53.
[18] Ibidem, p. 58.
[19] Joseph Zoderer, A proposito di Heimat, in AA. VV., Cultura di
confine, Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei, Atti del XXIX
Convegno, Grafica Goriziana, Gorizia 1996, p. 169.
[20] Ibidem.
[21] Ibidem.
[22] Ibidem, p. 170.
[23] C. Magris, Dall’altra parte cit., p. 56.
[24] Ibidem.
[25] A. Ara e C. Magris, op. cit., p. 153.
[26] C. Magris, Dall’altra parte cit., p. 57.
[27] Idem, Microcosmi, Garzanti, Milano 1997, p. 183.
[28] Ibidem.
[29] Cultura di confine cit., p. 10.
[30] C. Magris, Dall’altra parte cit., p. 60.
[31] Guy Scarpetta, Eloge du cosmopolitisme, Grasset
& Fasquelle, Parigi 1981, p. 19.
[32] C. Magris, Dall’altra parte cit., p. 62.
[33] Ibidem.
[34] Sorin Alexandrescu, Identitate în rupturã [Identità
in rottura], traduzione romena di Mirela Adãscãliþei, Sorin Alexandrescu e
ªerban Anghelescu, Editura Univers, Bucarest 2000, p. 279.
[35] Ibidem, p. 266.
[36] Ibidem, p. 264.
[37] Ibidem, p. 269.
[38] Giorgio Voghera, Gli anni della psicanalisi,
Editrice Goriziana, Gorizia 1980, p. 121.
[39] Si tratta del supplemento “Cultura” della pubblicazione
“Corriere del Ticino”, dell’8 ottobre 1969.
[40] Enzo Bettiza, Esilio, Mondadori, Milano 2001, p.
398.
[41] Ibidem, p. 14.
[42] Ibidem, p. 15.
[43] Ibidem.
[44] Ibidem.
[45] Ibidem, p. 16.
[46] Ibidem.
[47] Ibidem, p. 340.
[48] Ibidem.
[49] Ibidem, p. 341.
[50] Ibidem, p. 342.
[51] Ibidem.
[52] Ibidem, p. 343.
[53] Ibidem.
[54] Ibidem.
[55] Ibidem.
[56] Ibidem, p. 344.
[57] Ibidem, pp. 345-346.
[58] Ibidem, p. 347.
[59] Ibidem.
[60] Ibidem, p. 349.
[61] F. Tomizza, Destino di frontiera cit., p. 23.
[62] Ibidem, p. 37.
[63] Ibidem, p. 61.
[64] Ibidem.
[65] Ibidem, p. 39.
[66] Ibidem, pp. 59-60.
[67] A. Ara e C. Magris, op. cit., p. 193.
[68] F. Tomizza, Destino di frontiera cit., p. 37.
[69] Lorenzo Mondo, in F. Tomizza, Materada, Bompiani,
Milano 2000, p. 183.
[70] Ibidem, p. 34.
[71] Umberto Saba, Prose, a cura di Linuccia Saba,
prefazione di G. Piovene, nota critica di A. Marcovecchio, Mondadori, Milano
1964, p. 849.
[72] Presentiamo in seguito gli elementi costitutivi di ogni categoria di
referenze dell’identità, come risultano dallo studio di Alex Mucchielli,
L’identité, Presse
Universitaire de France, Parigi 1986. Le referenze materiali e fisiche
comprendono le possessioni (nome, territorio, persone, oggetti,
abitazione, abbigliamento), le potenzialità (potere economico,
finanziario, intellettuale), l’organizzazione materiale (assestamento
dei territori, degli habitat, delle comunicazioni), le apparenze fisiche
(tratti morfologici, segni distintivi, l’importanza e la ripartizione dei
gruppi).
Le referenze
storiche includono le origini (atti di fondazione, nascita, nome, filiazione,
parentela, alleanze, miti della genesi, eroi fondatori), gli avvenimenti
marcanti (tappe importanti dell’evoluzione, trasformazioni, influenze,
acculturazione, educazione, traumatismi culturali o psicologici, modelli del
passato), le tracce della storia (tradizioni, costumi, complessi
provenienti dall’acculturazione o dall’educazione, leggi o norme con origini
nel passato).
Le referenze psicosociali riguardano le coordinate
sociali (nome, statuto, età, sesso, professione, incarichi e ruoli sociali,
attività, affiliazione), gli attributi del valore sociale
(competenza, qualità-diffetti, diverse valutazioni) e, alla stessa
stregua, le potenzialità (capacità, motivazione,
strategia, adattamento, stile di condotta).
L’ultima
categoria è rappresentata dalle referenze psicoculturali, delle
quali fanno parte: il sistema culturale (premesse culturali, religione,
codici culturali, ideologia, sistema di valori culturali, varie espressioni
culturali – prodotti artistici), la mentalità (la visione del mondo,
gli oggetti nodali, gli atteggiamenti-chiave, le norme di gruppo, le abitudini
collettive), il sistema cognitivo (tratti psicologici propri,
atteggiamenti, sistema di valori).
[73] F. Tomizza, Materada cit., p. 82.
[74] Ibidem, p. 42.
[75] Ibidem, pp. 95-96.
[76] Ibidem, pp. 135-136.
[77] Ibidem, pp. 145-146.
[78] Ibidem, p. 173.
[79] A. Ara e C. Magris, op. cit., p. 193.