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La pace tesa:

i rapporti veneto-ottomani del 1484

 

Ovidiu  Cristea,

Istituto di Storia “Nicolae Iorga”,

Bucarest

 

“Et fazo fidel, bona et sincera pace per terra et per mar, dentro el Strecto et fuora del Strecto cun terre, castelli, ixole et luogi che lievano la insegna de San Marco et quelle che leveranno per l’avegnir et cun tutti i luogi che sonno a la obedientia et protection loro et con le cose che hanno al presente et sonno per haver in futurum [il corsivo è nostro] […] Item che li homeni et merchadanti loro possino vegnir per terra et per mar in ogni luogo della mia Signoria et siano securi et senza molestia con tutte loro merchadantie, galie et nave; et simel debino far lhoro verso li nostri. Item che’l Duca de Nixia et sui fratelli, zenthilhomeni et subditi, cun nave loro et altri navilij siano in la pace et non siano obligadi ad alcun servitio a la mia Signoria, ma debbino esser tratadi per Venitiani come sempre sun stati”[1]. Questi capitoli, tratti dalla pace siglata il 25 gennaio 1479 tra il sultano Maometto II il Conquistatore e la Serenissima, indicano le questioni rimaste in sospeso tra le due potenze alla fine del Quattrocento. Infatti, negli ultimi decenni del XV secolo l’accordo riguardante la pace sul mare e sulla terra fu varie volte infranto, i mercanti subirono varie estorsioni e i territori veneziani del Levante – il duca di Nasso compreso – si erano trovati sempre sotto la minaccia degli Ottomani. Benché il trattato fosse rinnovato il 12 gennaio 1482, quando il nuovo sultano, Bâyezîd I, garantiva che “tutti li Venitiani et homeni lhoro et quanti passano per Venitiani, possino venir si per terra come per mar cun galie, cun nave et cun altrij navilij a Costantinopoli, Galata, Trapesunda et a Capha, e a tutti li altri luogi et città de la Signoria mia, dentro et fuora del Streto. Seguri et reguardati da ogni molestia, danno et angaria”[2], la pace sembrò piuttosto una tregua perché ciascuna parte dimostrava una forte diffidenza nei confronti dell’altra. L’autorizzazione concessa ai mercanti veneziani per condurre i loro traffici nell’Impero Ottomano e soprattutto nei centri commerciali di primaria importanza, come Costantinopoli, Trebisonda o Caffa, venne poi rinnovata nel 1484, quando il sultano preparava la campagna contro Moldavia[3], ma rimase una concessione senza conseguenze immediate, tanto che gli Ottomani continuarono ad essere padroni indiscutibili dell’Egeo e del Mar Nero. Il numero di vascelli che ottenevano il permesso di navigare fuori e dentro gli Stretti, nonché il tipo e la quantità di merce che poteva essere venduta o comprata dai sudditi della Serenissima erano sempre indicati attraverso gli ordini che venivano da Costantinopoli, per volontà

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dell’amministrazione centrale che faceva capo al sultano[4]. Infatti, i mercanti della Repubblica di S. Marco non usufruirono di questi privilegi concessi loro dagli Ottomani poiché i rapporti politici tra i due stati divennero progressivamente molto tesi verso la fine del Quattrocento.

I primi contrasti apparvero in brevee tempo dopo la firma della pace raggiunta nel 1479, proprio qualche mese dopo l’avvenuto accordo, quando i Turchi cercarono di conquistare Zante rinunciandone solo in cambio di un tributo di 500 ducati annui[5]. Nel 1480, a quanto scrive Marin Sanudo il Giovane, un inviato della Porta “dimandò alla Signoria porto a Corphu, venendo con la sua armada la qual andava in Puia a tuor Otranto; dimandò etiam refreschamenti per li soi, danari et da li lochi nostri dove la capitasse. Et li fo risposto per Pregadi che non era di conzonzer le armade insieme, perhò non se li poteva dar il porto di Corfù, dove sta il forzo la nostra armata e che vituarie non li bisognava, ma achadendoli, si observeria li capituli de la pace”[6]. Lo scritto di Sanudo dimostra che le due parti interpretarono diversamente l’accordo di pace firmato nel 1479. Gli Ottomani, intenti a chiedere il rispetto del cardine della loro politica estera, cioè “amico degli amici e nemico degli nemici” della Porta, reclamavano il sostegno militare della Serenissima, ma quest’ultima non riteneva affatto doveroso l’impiego delle truppe venete nelle campagne militari volute dal sultano. Negli anni che seguirono non furono registrati cambiamenti importanti nei rapporti tra le due potenze, in modo che possiamo parlare piuttosto di una “guerra fredda” che di una pace rigorosamente osservata. In tal senso, una prova convincente sono i dispacci inviati nel 1484 al Doge e al Senato veneziano dal bailo di Costantinopoli, Pietro Bembo, e da Giovanni Dario, segretario del bailaggio[7]. Questi documenti dimostrano innanzitutto la paura risentita dai veneziani nei confronti dell’imponente forza marittima degli Ottomani. Quasi tutti i dispacci di Pietro Bembo fanno minuti riferimenti alla marina ottomana: al numero di galee, alle preparativi della flotta ottomana o al possibile bersaglio dell’attacco che vi si prospettava. Questa continua preoccupazione per le mosse della flotta del sultano fu una delle conseguenze più importanti della guerra veneto-ottomana del 1463-1479. Fino alla caduta di Negroponte, i veneziani furono saldamente convinti della loro superiorità sul mare; anche nei primi anni del conflitto contro gli Ottomani si era rafforzata questa convinzione nel seno del ceto politico della Serenissima[8]. Stando a quanto dice Domenico Malipiero, a Venezia “se credeva che’l [il sultano] no la mandasse <l’armada fuora> per no poder; e la causa è sta che la Signoria era più potente su el

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mar”[9]. Questa illusione svanì del tutto nel 1470; l’esercito ottomano conquistò allora Negroponte, occupando uno dei territori veneti del Stato da mar, e provocando un colpo durissimo alla Serenissima e alla talassocrazia veneziana. “Il mar parea un bosco a sentirlo a dir, par cosa incredibile, ma a vederlo è cosa stupenda”, scriveva Geronimo Longo al suo fratello[10], e la stessa convinzione si trova in una lettera che Niccolò da Canal, “capitano general da mar”, inviò al pontefice Paolo II[11]. Dal 1470 in poi, ogni volta che la flotta ottomana avviava notevoli preparativi, sia in tempo di guerra, che di pace, i veneziani si preoccupavano per la sicurezza dei loro territori del Levante, quindi sorvegliavano attentamente ogni mossa delle navi della Porta. Dopo l’episodio accaduto nel 1480, occasione in cui le galee della Serenissima tennero d’occhio la squadra navale di Ahmed Gedik pascià, colui che conquistò Otranto[12], il bailo Pietro Bembo e il segretario Giovanni Dario si precipitarono ad inviare, nell’aprile del 1484, le più minute notizie riguardanti i preparativi della flotta ottomana. Allora correvano molte voci sulla meta dell’esercito del sultano, supponendosi che “il Gran Signore” movesse le navi contro la Moldavia di Stefano il Grande (1457-1504)[13]. Il Bembo però la pensava diversamente. Dal punto di vista del bailo, per l’agognata conquista di Licostomo e Moncastro, gli ultimi centri commerciali del Basso Danubio e del Mar Nero rimasti al di fuori del confine dell’Impero Ottomano, non occorreva un esercito così grande; la mancanza di vascelli di tonnellaggio ridotto, capaci di penetrare sul corso inferiore del Danubio, era un forte argomento a sostegno dell’ipotesi del bailo in carica[14]. La stessa opinione si verifica anche un mese più tardi. Bembo scriveva al doge che il gran numero di navi, di soldati e di bombarde impiegate dalla Porta dimostravano chiaramente che le intenzioni del sultano erano diverse da quelle tanto discusse: “parendo i luogi di quello [cioè del principe moldavo] non meritar tanti preparamenti né cussi grosse bombarde”[15]. All’avviso del bailo veneziano, nessuno poteva essere sicuro di trovarsi al riparo della furia di un prossimo attacco

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ottomano[16], in quanto il sultano poteva cambiare idea in qualsiasi momento; l’offensiva poteva essere diretta verso Rodi, Chio, Puglia[17] e anche verso i territori veneziani della Grecia. Per quest’ultima ragione, Bembo considerava che la Serenissima doveva fortificare in tutta fretta i suoi possedimenti delle isole: “ho dato notitia al zeneral, a Modon, a Coron, a Napolj <di Románia>, a Corfù et al rezimento de Crede, e per quella via al rezimento de Cypri e consolo de Damasco, in quellj principij che qualche dubbio se faceva de i qual luogi non è da farne dubbio algun per questo anno”[18]. Bembo considerava che l’intesa veneto-ottomana fosse messa sotto il segno dell’incertezza dalle imprevedibili mosse del sultano, il quale mostrava forte interesse per la conquista delle ultime città di Romania, trovate ancora nelle mani dei veneziani, per rivolgere poi “li pensieri soi verso el Colfu et sot’ombra de la pace de la Serenità Vostra mitterà allo loco de Ragusi per mar et per terra, e quanto l’importa la Serenità Vostra l’intende”[19]

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Nuove informazioni sulle mosse dellaa flotta ottomana furono inviate da Costantinopoli a Venezia anche dopo l’inizio della campagna indirizzata, nell’estate del 1484, contro la Moldavia. In seguito alla conquista di Licostomo e Moncastro, una lettera di Bembo menzionava, in data 30 agosto 1484, che Bâyezîd II aveva disposto la costruzione di 100 galee, il che significava presumibilmente la preparazione di un’offensiva verso il Mediterraneo, poiché considerava che “più luogo non è rimasto in mar mazor”[20]; tale convinzione veniva ribadita, il 27

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settembre 1484, in un altro dispaccio dello stesso diplomatico[21]. Le ragioni di questa particolare attenzione, che fu rivolta verso le mosse della flotta ottomana, sono palesi. Venezia si sentiva molto vulnerabile di fronte ad un assalto avvenuto dal mare. Grazie alla superiorità numerica della sua marina di guerra il sultano poteva avviare l’assedio delle postazioni veneziane nelle isole del Levante, scongiurando ogni tentativo di soccorso inviato dalla Dominante.

Alla continua preoccupazione per evitare l’impiego della potenza militare ottomana contro i domini della Repubblica di S. Marco si aggiungeva altrettanta attenzione per mantenere viva la benevolenza del gran visir e degli altri alti dignitari della Porta nei confronti dello Stato veneto. Nei vent’anni di pace che dividono i due conflitti ottomano-veneziani, avvenuti nella seconda metà del XV secolo e all’inizio del secolo successivo (1463-1479 e 1499-1503), furono registrati tanti incidenti che provano il rapporto sbilanciato di forze tra le due potenze. Le proteste veneziane contro le abituali estorsioni delle autorità ottomane restarono spesso senza alcuna risposta. Rispetto all’epoca del Bisanzio, quando la Serenissima era in grado di imporre, per via diplomatica o militare, il rispetto del suo interesse, dopo il 1453, e particolarmente dopo la pace del 1479, i veneziani dovettero ammettere la supremazia assoluta dei nuovi signori di Costantinopoli. Gli Ottomani, invece, forti della loro potenza militare, reagirono duramente alle violazioni, vere o no, del trattato bilaterale di pace. Le rappresaglie avviate nei territori veneziani della Grecia o contro le navi battenti bandiera marciana, le intimidazioni rivolte al bailo o la minaccia di dar via ad una guerra punitiva dimostrano che gli Ottomani erano consapevoli della difficile situazione in cui si trovava Venezia, inferiore come potenziale militare rispetto alla Porta e, inoltre, impegnata fortemente, fino al 1484, nella guerra che travolgeva la Penisola Italiana[22]. Giovanni Dario dimostrava maggior pragmatismo politico, affermando: “a questo modo eramo in pezor condicion in tempo de paxe che non erimo in tempo de guerra per che allora se reguardavamo et si se deffendevamo, ma al presente confisi alla paxe erimo descoverti […]”[23]. Fino all’incidente diplomatico avvenuto nel 1492 – quando, in seguito all’intercettazione di alcune lettere segrete veneziane, il sultano annullò temporaneamente il diritto della Serenissima di mantenere un rappresentante permanente a Costantinopoli – vari malintesi avevano lasciato intendere al bailo Bembo e al segretario Dario che gli Ottomani stessero cercando un pretesto per riaprire le ostilità contro la Serenissima. Il rapporto di Dario, spedito alla volta della laguna il 30 settembre 1484, riferisce che, benché il gran visir Mesih pascià[24] l’avesse accolto bene, esso si dichiarò sin dal principio dell’udienza “corozado et tutto disposto alla guerra ma subito che me haveva visto era indolzido et retornado alla paxe”[25]. Lo stesso Dario aggiungeva che i sudditi del sultano “ogni zorno danizano li nostri luogi et li nostri navillij et li subassi et officiali soi di luogi

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vicini alle terre nostre son fati uxelladori de captivar le homeni”[26]. Malgrado queste provocazioni, quelli che si lamentavano di più erano gli Ottomani. Varie volte, sia Dario che il bailo Pietro Bembo, ricevettero dalle autorità della Porta varie denunzie riguardanti la violazione della pace veneto-ottomana. I visir segnalarono al segretario veneziano 56 abusi subiti dai sudditi ottomani da parte dei sudditi veneziani di Morea[27]. Esse parevano questioni poco rilevanti che però –com’era successo nel 1463, quando la guerra scoppiò ufficialmente per rifiuto di Venezia di riconsegnare alla Porta uno schiavo fuggito nel territorio veneto con una grande somma di denaro[28] – potevano far scatenare il conflitto. Ricordiamo, fra questi incidenti minori, anche quello provocato dal fatto che 30 sudditi ottomani, salvati, in seguito ad un naufragio, da una nave battente bandiera veneziana, furono poi venduti schiavi a Modon, ad una nave catalana. Questo incidente provocò l’ira del sultano che rivolse delle pesanti minacce ai rappresentanti diplomatici della Serenissima “con parole mordenti e minatorie”[29]. Però, stando a quanto menziona il Bembo, tale storia era “molto nuda […] non sappiando per nome el patron né altra chiarezza”, l’unica prova delle disgrazie dei suddetti prigionieri fu quanto raccontavano alcuni sudditi ottomani. Il bailo rifiutò degnamente la denunzia che gli fu assai indecorosamente presentata, considerandola “una menzogna, parendome che non se dovesse trovato alguno nostro navilio che havesse havuto ardire affar simel inconveniente in tempo de pace […] ma credia che essi Turchi fossero sta inganati da qualche navilio forestiero, digandolj esser nostro”[30]. Benché fosse convinto che le accuse erano infondate, il bailo richiese l’avvio di un inchiesta indetta a chiarire quanto avvenuto. In una lettera inviata a Modon, Bembo invitava i rappresentanti veneziani delegati sul posto di portare avanti l’inchiesta con “prudentia e desterita […] toiando a quello <Turco> la via che non intendano che la nave sia sta nostra, né qual fosse el patron de quella”[31]. Il suggerimento del bailo di concludere l’affare con massima discrezione fu probabilmente osservato, in quanto non si trovano richiami nei successivi dispacci da lui spediti al doge e al Senato.

Molto più seria si rivel&ograave; la contesa per l’isola di Nasso. Il sultano pretendeva, nel nome di alcuni dei suoi sudditi, la restituzione di un debito di 3.000 ducati da parte del duca Giovanni III Crispo. La Porta riteneva che, nel caso in cui il duca si fosse dichiarato suddito della Serenissima, il bailo dovesse pagare il debito; se il duca si proclamava indipendente, gli Ottomani detenevano i mezzi militari adatti per farlo restituire il debito. Per ottenere il risultato voluto dal sultano, il gran

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visir ricorse persino all’intimidazione di Pietro Bembo, tramite un messo inviato a cavallo al palazzo del bailaggio, atteggiamento volutamente minaccioso nei confronti del rappresentante diplomatico e consolare veneto[32]. I veneziani rifiutarono il pagamento della somma richiesta dalla Porta, avvalendosi del trattato di pace appena concluso, accordo che non specificava alcun debito da saldare dal duca di Nasso, vassallo della Repubblica di S. Marco, nei confronti della Porta[33]. Per argomentare la domanda rivolta al bailo, il gran visir Mesih pascià presentò una lettera di Giovanni III Crispo, il quale avrebbe ammesso in tale missiva l’esistenza del debito che ammontava a 3.000 ducati, per cui dava l’incarico a Pietro Bembo di eseguire il pagamento. Il segretario Dario notò, però, che la traduzione del documento non era conforme all’originale latino[34]. La vicenda ebbe, finalmente, felice esito, nel febbraio del 1485[35], in quanto gli Ottomani accettarono le obiezioni del diplomatico veneto e rinunciarono alla loro richiesta finanziaria, ma tale epilogo si deve piuttosto agli ottimi rapporti di Giovanni Dario con alcuni visir[36] che agli argomenti presentati dal bailo della Serenissima.

Incisero fortemente sull’evoluzione dei rapporti veneto-ottomani quattrocenteschi anche le variazioni della politica italiana della Repubblica di S. Marco. La pace firmata nel 1484 provocò il disappunto del sultano e dei suoi alti dignitari. Interpretando in chiave restrittiva la clausola iscritta negli accordati veneto-ottomani del 1479 e 1481, che recitava “de esser amici de amici et inimici de inimici”[37], gli Ottomani rimproverarono alla Serenissima due cose di particolare importanza: innanzitutto il fatto che Venezia non aveva chiesto l’aiuto del sultano[38] durante il conflitto che la vide impegnata in Italia, e poi il fatto che, tramite la firma del trattato che sanciva il raggiungimento della pace nella Penisola Italiana, la Repubblica metteva fine allo stato di belligeranza nei rapporti con il re di Napoli, nei confronti del quale la Porta si riteneva ancora in guerra[39]. La diffidenza dell’Impero Ottomano di fronte all’operato veneziano in Italia non era del

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tutto infondata; sin dal XIV secolo l’idea della pace stipulata fra le potenze cristiane era connessa all’elaborazione di un progetto di crociata antiottomana. Tale convincimento sussisteva a Costantinopoli anche nel 1484, ragione per cui Giovanni Dario insisteva che il doge garantisse al sultano “che la paxe in Italia è paxe simplice et in quella non esser fatto né farasse cosa che sia contraria ala bona paxe la qual ha cum questo Illustrissimo Signor”[40].

Gli affari commerciali che impiegavano i veneziani sui mercati ottomani furono tante volte all’origine dei rapporti tesi tra la Serenissima e la Porta. I mercanti veneti riscontravano a Costantinopoli non solo l’imprevedibilità del mercato ma dovevano frequentemente far fronte all’arbitrario dell’amministrazione ottomana, spesso frutto della mentalità assai diversa da quella occidentale. Su questo argomento Giovanni Dario notava che i musulmani avevano delle abitudini che a lui sembravano inconcepibili, cioè che loro compravano varie merci non per ottenere profitto, ma per provvedere alle occorrenze stagionali; per esempio “alla primavera […] non è saxon de pani in queste parte per che ogniuno va vestido dinstade de bochassin, et li mazorenti de zembelloti. Et chi li desse pano per mittade del precio non lo comprano per che sono zente che vivono a zornada et non acottano la cossa se non quando che li bixogna ma de far municion o preparacion alguna avanti tempo non sono consueti de farlo”[41].

Un altro problema di primaria importanza per l’economia veneta fu quello dell’importazione di granaglie dal Levante. Il quantitativo di granaglie esportato a Venezia veniva deciso dagli Ottomani, quali autorizzavano i mercanti veneti ad importare tale merce anche dai territori vassalli al sultano. Sin dal XIV secolo i Turchi seppero mantenere il controllo del commercio con granaglie; Bâyezîd I, conquistando gli emirati anatoliani Menteshe e Aydın, vietò temporaneamente ai mercanti veneziani l’importazione di grano da queste aree. La politica commerciale restrittiva fu avviata nell’Impero Ottomano nell’epoca del sultano Süleymân il Magnifico, ma un dispaccio del bailo Pietro Bembo fa riferimento ai simili episodi avvenuti nel 1484; in quell’anno il sultano Bâyezîd II impedì l’importazione di granaglie dall’Impero da parte dei mercanti veneziani. Il 1 febbraio 1485 (1484 more veneto) Bembo riferiva che “i grani per tutto el so paexe molto alzati de presio per la dura invernata ha fatto quest’anno, non havendo lassato, né li tempi debiti semenar, né anche in la quantità havrebbe fatto”[42]. Per questa ragione il sultano era disposto ad autorizzare l’esportazione di granaglie verso la Dominante solo ad un alto prezzo e in cambio ad alcune somme aggiuntive di denaro. In questo caso i due rappresentanti di Venezia a Costantinopoli avevano pareri discordanti. Il Bailo Pietro Bembo riteneva inaccettabili le richieste sempre più in aumento degli Ottomani, solleciti di estorcere spesso denaro oltre a quello che era pattuito inizialmente, e per ciò egli stesso premeva per una preparazione adeguata

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della Serenissima nel caso in cui dovesse contrastare le forze ottomane durante una nuova guerra. Il segretario Giovanni Dario, invece, condivideva un parere opposto, essendo del tutto contrario a quelli “che per sdegno voriano de le cosse che poria in dur scandalo”, suggerendo quindi una via pacifica per risolvere le contese: “cum dolzeza se venza questa ferocità barbara per che a oponerse non ge vedo el modo de neuno avantazo”[43]. Questo punto di vista era sorretto dall’idea della superiorità militare dell’Impero Ottomano, di cui i sudditi del sultano erano pienamente consapevoli: “siando de natura costoro [gli Ottomani] superbi et adjutandoli la potencia molto plui et non habiando anche apresso de loro nodari plui moderati et destri scriveno cum insolencia al modo che vedera la Excellentia Vostra”[44]. Inoltre, il segretario veneziano riteneva che fosse nell’interesse della Repubblica di S. Marco il preservarsi degli ottimi rapporti politici e commerciali con la Porta perché il sultano “è le el pui potente Signor che habbia el mondo et è per farse dogniora mazor per che la trovado mazor fondamento de quello ha trovado el padre: la gran tesoro, gran dominio, grandissime et exertatissime zente darme le zovene sano et prosperoso. Et questo principio che la fatto in la Vlachia li da grandissima reputacion per che fece quello che mai non mote far el padre e si lo conferma in la gratia et hobedientia de li soi”[45]. Per tale ragione Giovanni Dario pensava che i privilegi concessi dal sultano, pur ottenuti con l’impiego del denaro e di cospicui regali, dovessero essere comprati a tutti i costi perché, in fin dei conti, i mercanti veneziani ne uscivano avvantaggiati: “e questo rasonamento fazo come merchadante atrovandome adesso in questo luogo de merchadanti”[46].

La diversità di opinioni di Bembo e Dario rispecchia due tendenze contrapposte della politica estera veneziana del Quattrocento, una più aggressiva, l’altra piuttosto pacifica[47], ma anche due soluzioni assai diverse di atteggiamento che la Serenissima assumò nei confronti degli Ottomani. I dispacci del bailo suggeriscono che un nuovo conflitto con la Porta fosse inevitabile. Per questa ragione era necessario che si prendessero urgentemente le misure adatte per la difesa dei territori della Románia veneziana; Giovanni Dario, invece, condivideva piuttosto il punto di vista dei “pacifisti”. Visto che la superiorità militare degli Ottomani era allora schiacciante, una nuova guerra sarebbe stata inutile e non avrebbe portato altro che l’inevitabile sconfitta di Venezia. La pace, dunque, doveva essere mantenuta ad ogni costo, perché i veneziani potevano controbilanciare la perdita di prestigio sul piano politico e militare attraverso lo sviluppo dei rapporti commerciali con l’Impero Ottomano. Ciascuno dei due rappresentanti della Serenissima aveva, a suo modo, ragione. Pietro Bembo, in quanto aveva capito che il successore di Maometto II mirava a conquistare gli ultimi possedimenti veneziani in Románia; Giovanni Dario perché era consapevole della superiorità militare degli Ottomani. Fu proprio questa consapevolezza della potenza militare dell’Impero Ottomano a indurre la Repubblica di S. Marco a scegliere la via del pragmatismo politico nei rapporti con la Porta, e a diffidare, a partire dal XV secolo, delle

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proposte di altri Stati cristiani di aggregarsi alle iniziative che volevano avviare grandi campagne militari antiottomane nell’ambito della tarda crociata. Venezia intendeva osservare gli accordi con l’Impero Ottomano, puntando su questa strategia di politica estera, almeno “se prima non si vedesse li altri Principi christiani far dal canto suo il dover, perché nui [veneziani] eramo in faucibus inimicorum [il corsivo è nostro][48].

 

 

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[1] Marin Sanudo il Giovane, Le vite dei Dogi (1474-1494), I (edizione e note a cura di Angela Caracciolo Aricò), Padova, 1989: 139; per la pace veneto-ottomana del 1479 si veda Franz Babinger, Maometto il Conquistatore e il suo tempo, Torino, 1957: 549-554.

[2] Ibidem: 255-256; le diverse versioni furono esaminate da Aldo Gallotta, “Il trattato turco-veneto del 12 gennaio 1482”, in AA. VV., Studia turcologica memoriae Alexii Bombaci dedita, Napoli, 1982: 219-235.

[3] Archivio di Stato di Venezia (d’ora in poi sarà citato ASV), Senato-Secreta. Dispacci Costantinopoli (=SDC): fz. 1A, 1484-1557, c. 6a; il bailo Pietro Bembo scriveva, il 18 maggio 1484: “Ho havuto nova esser zonto comandamento de questo Signor che dechiara l’armata habij andar in mar mazor contra el ulacho, come ho ditto e fatto proclamar che ognuno possino con navilij intrar in mar mazor cum vituarie e delle altre cose necessarie per la so armata, senza pagar de qui commerchio né altra angaria”.

[4] Le parole di Anselmo Adorno sono un esempio, tra tanti altri, per illustrare l’indiscutibile egemonia ottomana nel Mar Nero: “Hoc Ponticum mare, quod habet optimos pro questubus portus nulla christianorum navis sine permissione Magni Turci nec ingredi nec exire potest”, Cfr. Itinéraire d’Anselme Adorno en Terre Sainte (1470-1471) (edizione a cura, traduzione e note di Jacques Heers e Georgette de Groer), Parigi, 1978: 46.

[5] Sanudo il Giovane, Le vite dei Dogi, cit.: 148; Cfr. C. N. Sathas, Documents inédits relatifs à l’histoire de la Grèce au Moyen Age, VI, Parigi, 1885: 217-218; Babinger, op. cit.: 554.

[6] Ibidem: 167.

[7] Per quanto riguarda la biografia di Giovanni Dario si veda Babinger, “Ioannes Darius (1414-1494) sachwalter Venedigs in Morgenland und sein griechischer Umkreis”, Sitzungsberichte der Bayerische Akademie der Wissenschaften, Philologischen-Historische Klasse (1961); cfr. Maria Francesca Tiepolo, “Grecia nella cancelleria veneziana: Giovanni Dario”, in I Greci a Venezia (a cura di Tiepolo e Eurigio Tonelfi), Venezia, 2002: 257-314.

[8] All’inizio della guerra, anche a Genova si pensava che “de potentia maritima turcorum non est facienda multa cura”, Cfr. ªerban Papacostea, “Caffa et la Moldavie face à l’expansion ottomane (1453-1484)”, in AA. VV., Genovezii la Marea Neagrã în sec. XIII-XIV, Bucarest, 1977: 132.

[9] Domenico Malipiero, “Annali veneti dall’anno 1457 al 1500” (a cura di Francesco Longo), Archivio Storico Italiano VII/1 (1843-1844): 53; cfr. Cronaca di Anonimo Veronese, 1446-1488 (a cura di Giovanni Soranzo) (Monumenti Storici pubblicati dalla R. Deputazione Veneta di Storia Patria, serie terza, Cronache e Diari), IV, Venezia, 1915: 270, che recita così: “non essendo per modo alcuno creduto per Venetiani che mai, per armata che havesse, se arischasse uscire del stretto per danegiarli”.

[10] Malipiero, Annali, cit.: 51.

[11] Tale lettera fu riportata nella Cronaca di Anonimo Veronese, cit.: 270: “Sed quum ob ingentem navium numerum, quibus mare fere totum completatur, certandi tempus non esset, divina protegente clementia, classem meam e mediis hostibus incolumnem erripui, quo vel fortius vel preclarum magis, qui totiens ea ipsis victoriam retuli virtute Dei, videor gessise”.

[12] Sanudo il Giovane, Le vite dei Dogi, cit.: 176.

[13] Per quanto riguarda la guerra del 1484 si veda Nicoarã Beldiceanu, “La campagne ottomane de 1484; ses préparatifs militaires et sa chronologie”, Revue des Etudes Roumaines 5-6 (1960): 67-77; Idem, “La conquête des cités marchandes de Kilia et de Cetatea Albã par Bayezid II”, Sud-Öst Forschungen 23 (1964): 36-90.

[14] ASV, SDC: fz. 1A, c. 3a: “de la qual armata molti che dicono che non essendo fusti piccoli de intrar in el fiume, significa che questo apparato non sia per quel locho”; le informazioni contemporanee attinenti alla campagna militare ottomana contro la Moldavia, contenute nei dispacci di Bembo e Dario, verranno usate dal Dr. Mihnea Berindei (Centre Nationale de Recherches Scientifiques de Paris), studioso francese di origine romena, per il suo saggio di prossima pubblicazione nel periodico Studii ºi Materiale de Istorie Medie.

[15] ASV, SDC: fz. 1A, c. 6a.

[16] Ibidem: c. 3a: “Alguni dicono l’armata haver a uscir dal Streto et le zente terrestre passar su la Turchia”; c. 7a: “Ho trovato che ognuno teme et fin el soldano <di Egitto> prepara le so cosse in Alexandria, Rodi e Sio ha fato el simele”; Cfr. 22 dispacci da Costantinopoli al doge Giovanni Mocenigo (traduzione e commento di Giuseppe Calo, introduzione di Alvise Zorzi), Venezia, 1992: doc. 40a, 224; nel dispaccio datato 7 febbraio 1485, Dario menzionava che uno degli obiettivi della flotta ottomana poteva essere l’Egitto, poiché un musulmano venuto da Sidon, “uomo di bella presenza”, tentò di persuadere Bâyezîd II a conquistare quel paese “perché tutti l’aspettano come un Dio in terra”.

[17] ASV, SDC: fz. 1A, c. 7a: in verità il Bembo pensava, il 24 maggio, che una campagna militare ottomana diretta verso Rodi, Chio o Puglia fosse alquanto improbabile: “Sio, o Rodi non credo perché vedo tutte le zente redurse su la Grecia, contrarie a quel camino più in zoso verso el golfo o Puia, a mi pare che habij troppo indusiato a cussì longo camino; e che quando seguisse quello forsi altro pensier habij che a Puia per le rason e cason che altre volte ho dechiarito”; anche il 15 aprile il bailo dubitava della possibilità di un prossimo attacco della flotta ottomana contro Rodi, Cfr. Ibidem: 3a: “Del pensier di Rodi, che se diceno ne è totalmente levato, essendo sta per suo ambassadorj dechiarito”; si veda 22 dispacci, cit.: doc. 40a, 224. Le informazioni di Dario, riguardanti la guerra del sultano Bâyezîd II contro il Principato di Moldavia, sono state segnalate nella storiografia romena da Cristian Luca, “Observaþii asupra unei ediþii de documente veneþiene conþinând informaþii despre relaþiile moldo-otomane din veacul al XV-lea”, Istros 10 (2000): 519-524, quindi citate anche da Silvia Lazãr, “O controversatã problemã de geografie istoricã: localizarea Chiliei ºi câteva noi informaþii documentare veneþiene privitoare la cucerirea cetãþii moldovene de cãtre otomani”, Erasmus 13 (2002): 104-105 e le note 15-20.

[18] ASV, SDC: fz. 1A, c. 7a.

[19] Ibidem: fz. 1A, c. 9a.; l’ipotesi dell’apposita diffusione, da parte degli Ottomani, di notizie circa il prossimo attacco contro la Moldavia, nell’intento di distrarre i veneziani, fu ritenuta attendibile da Ionel Cândea, “Cucerirea Cetãþii Albe de cãtre turci într-un izvor italian mai puþin cunoscut”, Studii ºi Materiale de Istorie Medie 17 (1999): 27-31, quale usò il libro contemporaneo del fiorentino Andrea Cambini.

[20] ASV, SDC: fz. 1A, c. 13a.

[21] Ibidem: c. 15a; Cfr. 22 dispacci, cit.: 222: l’esercito ottomano preparava un nuovo attacco “ma che non se intendeva a che fin che ello [il sultano] la preparava et questa fama ancora continua et ogni zorno la vien pui divulgada et confermada”.

[22] Per la politica italiana della Repubblica veneta nel Quattrocento si veda Nicolai Rubinstein, “Italian Reactions to Terraferma Expansion in the Fifteenth Century”, in Renaissance Venice (a cura di J. R. Hale), Londra, 1973: 197-217; inoltre, per una breve presentazione di questo conflitto si veda Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino, 1991: 279.

[23] 22 dispacci, cit.: 90.

[24] Per la carriera di Mesih pascià si rimanda alla rispettiva voce a Halil İnalcık, The Encyclopaedia of Islam, VI, Leida, 1975: 1025-1026.

[25] 22 dispacci, cit.: 84.

[26] Ibidem: 90.

[27] Ibidem: doc. 21a (31 maggio 1484), 52-54; ibidem: 86, accenna al fatto che Mesih pascià rivendicava l’estradizione di un certo Mussachi, bandito dalle autorità ottomane, rifugiato a Durazzo, nel territorio della Repubblica; ibidem: 114, i visir ottomani reclamavano il pagamento dei danni provocati nel territorio della Porta dai stratiota sudditi veneziani; in altre occasioni si menziona la presa ed il saccheggio delle navi ottomane da parte dei corsari veneziani, riportandosi come esempio il caso segnalato sotto il 16 ottobre 1484, cfr. ibidem: 132 ed il documento citato alla nota 25; un altro problema sensibile riguardava l’insediamento degli immigrati cristiani, provenienti dall’Impero Ottomano, nei territori veneti della Grecia, cfr. ibidem: 146-150.

[28] Roberto Lopez, “Il principio della guerra Veneto-Turca nel 1463”, Archivio Veneto 64 (1934), V: 48; Kenneth M. Setton, The Papacy and the Levant (1204-1571), II, The Fifteenth Century, Philadelphia, 1978: 241.

[29] ASV, SDC: fz. 1A, c. 18a.

[30] Ibidem.

[31] Ibidem, allega la copia della lettera inviata al comandante veneto del reggimento stanziato a Modon.

[32] 22 dispacci, cit.: 50, “li dreza lo dito schiavo per cavala: hoc est per cima a la moresche”.

[33] Ibidem: 52.

[34] Ibidem: 116.

[35] Ibidem: doc. 38a, 212.

[36] Ibidem: doc. 36a, 188; gli Ottomani mostravano il loro apprezzamento nei confronti del segretario veneziano, fatto confermato dalle seguenti parole: “dove vui sareti non seguirà mai desordene né scandalo. Et regracij le Ex<cellencie> Soe de la bona opinion che fanno del fatto mio”; gli ottimi rapporti di Giovanni Dario con gli alti dignitari ottomani furono comprovati anche nell’occasione del rifugio a Lepanto di alcuni cristiani sudditi ottomani, e per quali fu prorogato il rientro che normalmente seguiva la domanda di estradizione, Cfr. Ibidem: doc. 31a, 148.

[37] Ibidem: 100.

[38] Ibidem: 96; Giovanni Dario replicò a tale accusa che la Serenissima aveva chiesto il sostegno militare dell’Impero Ottomano ma, a causa dei preparativi per la campagna contro la Moldavia, il sultano si era rifiutato; un altro documento, datato 2 novembre 1484, registrò un colloquio tra Dario e alcuni visir ottomani, occasione in cui il segretario veneziano affermò: “se la paxe non fosse sta fatta <in Italia> li voleva domandar un milion de ducati ad imprestedo per complir la guerra più presto”. È molto probabile che tale affermazione sia stata soltanto una sorte di strategia necessaria per dissimulare il ritardo dei risarcimenti dovuti alla Porta per i danni provocati dai sudditi veneti nella Morea ottomana. Per quanto riguarda le domande di sostegno militare rivolte dalla Serenissima alla Porta si veda Paolo Preto, Venezia e i Turchi, Firenze, 1975: 37-42, la cui minuta analisi fa riferimento al primo Cinquecento.

[39] 22 dispacci, cit.: 96; il terzo vizir, Maometto pascià, disse a Dario: “vui seti savij ma in questo me par che vui habiadi manchadi a non haver comunicado sta cossa cum nui. Perché nostro Signor haveva fato spesa de conzar le soe galie et era desposto de aiutarve et vui sete andati a far paxe senza dir niente a nui”.

[40] 22 dispacci, cit.: doc. 36a, 186.

[41] Ibidem: doc. 32a, 154-156.

[42] ASV, SDC, fz. 1A, c. 19a; il problema del commercio di granaglie del 1484 è stato oggetto dell’analisi di Freddy Thiriet, “Les lettres commerciales des Bembo et le commerce vénitien dans l’Empire ottoman à la fin du XVe siècle”, in AA. VV., Studi in onore di Armando Sapori, II, Milano, 1957: 911-933 e particolarmente 928-932.

[43] 22 dispacci, cit.: 58.

[44] Ibidem: doc. 21a, 54-58.

[45] Ibidem: doc. 24a, 74-76.

[46] Ibidem: doc. 24a, 74.

[47] Per un’altro dei molteplici esempi in tal senso si veda Sanudo il Giovane, Le vite dei Dogi, cit.: 233-235.

[48] Ibidem: 179, risposta presentata all’ambasciatore del re di Francia dopo la conquista ottomana di Otranto.