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Una lettura del ciclo “Bérenger” di Eugène Ionesco attraverso la visione di Ludwig Wittgenstein sul linguaggio

 

 

Marina  Cristea,

Accademia di Belle Arti di Roma

 

Ludwig Wittgenstein, il filosofo, e Eugène Ionesco, il drammaturgo, appaiono accanto nel presente tentativo di analisi, uniti dal loro comune interesse per il linguaggio, e per la loro importanza nel trattare sia le ragioni d’essere e funzionare del linguaggio, sia i sintomi, le tare della società che il linguaggio manifesta. Il linguaggio che Ionesco propone nel suo secondo percorso drammatico, il cosiddetto “ciclo Bérenger” è in un certo senso riscontrabile nella diagnosi di Wittgenstein riguardo all’uso del linguaggio ordinario. Secondo Wittgenstein, è nel nostro linguaggio che risiedono le inquietudini e i disagi della mente, chiamati problemi filosofici, problemi che non vanno risolti, bensì dissolti tramite una terapia linguistica. Vedeva la filosofia non come una dottrina, ma come un’attività[1]: il suo scopo dichiarato non era la costruzione di un sistema metafisico, ma l’illustrazione delle condizioni logiche della rappresentazione della realtà, “la chiarificazione logica dei pensieri”, cioè il “chiarirsi delle proposizioni”[2] attraverso il manifestarsi della forma logica del linguaggio.

La meta del secondo Wittgenstein consiste in questa chiarificazione del linguaggio nella sua relazione con il fondamento immediato, con la sua base pre-riflessiva, inaccessibile. Per raggiungere un fondamento pre-linguistico si parte dalla mediazione linguistica. L’impulso di ogni forma di linguaggio si trova appunto in questa radice immediata e non riflessa, sotto la forma di un evento, di un’azione. Se nel primo Wittgenstein il silenzio rappresentava l’unica salvezza della parola svuotata di significato, nel secondo Wittgenstein le possibilità del linguaggio sono rivalorizzate al livello dei “giochi linguistici” nel contesto delle “forme di vita”. Ciò rimarrà il vero e costante compito della sua filosofia, trovando applicabilità critica in vari campi come l’antropologia, l’etica, la religione, la psicologia, l’arte, ma acquisterà un senso esplicito nel motivo etico. Intanto, la cosa più importante è di «mettere ordine nella nostra conoscenza dell’uso del linguaggio». Filosofia, nella visione di Wittgenstein, vuol dire terapia; si tratta di risolvere gli errori e non di costruire sistemi spiegativi.

I. Wittgenstein – la visione sul linguaggio. Le malattie di un’epoca si possono curare soltanto attraverso un cambiamento nel modo di vivere umano. Si tratta di mutazioni nel modo di pensare e dello sforzo di viverle. I problemi della vita e quelli

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della filosofia hanno grammatiche fra loro connesse[3]. Negli anni successivi al Tractatus, Wittgenstein non considererà più il linguaggio come un insieme di raffigurazioni indipendenti le une dalle altre, ma come un intero sistema di proposizioni applicate alla realtà: «Il linguaggio non è più un metro di cui vengono applicati alla realtà solo gli indici estremi della linea di graduazione, ma è un metro del quale vengono accostate e applicate tutte le linee di graduazione»[4].

Secondo Wittgenstein il linguaggio è un’attività naturale che si collega alle altre attività umane. È una funzione del comportamento pubblico, l’espressione di una forma di vita umana. Uso significa, secondo lui, ciò che noi facciamo con una parola, il comportamento osservabile nel comune agire umano. Le espressioni linguistiche hanno significato soltanto entro il contesto d’uso, nelle situazioni definite e tipiche del loro impiego. Il linguaggio quotidiano (ordinary language) è la «patria» di ogni uso significativo della parola. Parlare, pensare sono attività naturali, sono parti della nostra storia naturale, come camminare, mangiare, bere, giocare[5]. Le spiegazioni dei comportamenti linguistici trovano, secondo Wittgenstein, un termine nelle nostre disposizioni naturali di reagire in un certo modo alle situazioni della vita.

La ricerca di Wittgenstein si muoveva intorno a due temi: il mondo, come totalità di fatti, e il linguaggio, come totalità di proposizioni (parole, segni, suoni ecc.) significando i fatti stessi. Le proposizioni sono fatti, ma non dei fatti che accadono o si mostrano, ma dei fatti che significano, e significano appunto fatti complessi; i fatti atomici (Sachverhalte, stati di cose), sono indipendenti (Tract., 2.04-2.062) e sono composti a loro volta da oggetti indivisibili che formano “la sostanza del mondo” (Ibidem, 2.021). L’insieme articolato in fatti atomici di questi oggetti, in sé inspiegabili, è chiamato forma. Ma così, forma vuol dire anche possibilità della struttura. (Ibidem, 2.033). Gli oggetti componenti i fatti atomici, elementi costitutivi del mondo, traslatano in linguaggio, sotto forma di nomi – “proposizioni atomiche”, costituenti il linguaggio. La proposizione è la raffigurazione formale, logica (Bild) di un fatto, la configurazione possibile degli oggetti formanti un fatto. Una raffigurazione conserva sempre qualcosa dalla realtà raffigurata, perciò anche la proposizione ha in comune con il fatto atomico la forma – quale configurazione possibile degli oggetti. Questa “presenza comune” stabilisce il nesso tra le proposizioni e i fatti. La detta connessione fa sì che il linguaggio sia dotato di senso.

Riassumiamo: come il rapporto tra i fatti del mondo e i fatti costituenti il linguaggio è uno di tipo intrinseco, considerato partendo dalla premessa che il linguaggio è “raffigurazione logica del mondo“, altrettanto non esiste una mediazione mondo – linguaggio. Tali affermazioni: “La raffigurazione logica dei fatti è il pensiero” (Tract., 3),

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“La totalità dei pensieri veri è una raffigurazione del mondo”(Ibidem, 3.01), “Il pensiero è la proposizione significante” (Ibidem, 4) equivalgono a: linguaggio e pensiero si autocostituiscono e si autodeterminano.

Wittgenstein accoglie dalla tradizione filosofica la sua vocazione terapeutica, nella speranza di “rimuovere i disaggi mentali”, effetti della stessa vocazione[6]. Ha l’intenzione di prendere cura delle “inquietudini profonde” che pervadono il linguaggio; così il linguaggio è medicina e malattia insieme. Il problema dei giochi linguistici, introdotti dai due Quaderni (1934-1935), tratta dei modelli dell’uso linguistico diversi tra loro oppure alternativi, e sottoposti a regole. Il linguaggio è un gioco come qualsiasi attività sociale, che ascolta di regole a sé intrinseche. La ricerca di Wittgenstein si muove tra la «forma logica» della rappresentazione del Tractatus e la «forma di vita» delle Ricerche filosofiche. La forma di vita determina il linguaggio ed è contemporaneamente determinata dal linguaggio stesso. Non ha sorgente in un individuo, ma presuppone una comunità che la fonda. Qualsiasi attività è comprensibile ed acquista senso solo come riferimento alla forma di vita di cui è parte[7]. Le spiegazioni riduttive o unilaterali non le sono contigue.

II. Ionesco. La denuncia e il rimedio. “Esiste un grado di comunicabilità tra gli uomini. Loro si parlano. Loro si capiscono. Come mai che si capiscono? Il fatto che si capiscono non lo capisco io”[8]. Seguendo il tratto proposto, abbiamo visto come il linguaggio costituisce lo sfondo intrascendibile del nostro pensare e del nostro agire. È nel linguaggio ordinario che si trova la matrice del significato delle operazioni linguistiche. Non occorre riformare o riplasmare la lingua. Bisogna solo far ordine all’interno del linguaggio e non dare priorità ad uno o altro dei possibili tipi di discorso. Questo è l’intento di Wittgenstein, e la nostra premessa nell’esplorare il linguaggio drammatico di Ionesco.

Nel suo primo periodo, Wittgenstein considerava che ci fosse un solo linguaggio comune, un linguaggio primario, logicamente purificato che esprimesse l’essenza dei fenomeni deformati dalle ambiguità del linguaggio ordinario. Durante le conversazioni con alcuni esponenti del Circolo di Vienna avviene però un profondo cambiamento: Wittgenstein si rende conto che esiste «un solo linguaggio, il linguaggio comune». «Il linguaggio quotidiano è già il linguaggio»[9]. Così il compito della logica diventa quello di chiarire la struttura degli usi in cui il linguaggio è effettivamente impiegato. Gli anni di insegnamento e le testimonianze orali dei suoi alunni dimostrano che dopo l’abbandono dei quadri teorici del Tractatus, Wittgenstein comincia una revisione critica del suo atomismo logico e della sua definizione di un linguaggio idealmente perfetto. Rifiuta le interpretazioni globali e complessive del linguaggio, della

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struttura dei fatti e della modalità del loro rapporto; riconosce una molteplicità di funzioni svariate agli usi del linguaggio, usi del linguaggio che non saranno più riducibili ad un modulo unitario e allo schema «oggetto–designazione», cioè ad una funzione descrittiva.

Il significato di un’espressione linguistica utilizzata all’interno di un sistema di comportamenti aperti, pubblici, vista la molteplicità delle modalità d’impiego del linguaggio, cioè dei giochi linguistici, ridimensiona la funzione descrittiva del linguaggio in uno dei suoi possibili usi, e non più come la sua funzione privilegiata[10]. «Noi combattiamo contro il linguaggio. Siamo in lotta contro il linguaggio»[11]. È con la radicale messa in discussione del linguaggio che Ionesco apre la sua attività drammaturgica nel 1950, con La Cantatrice calva, l’anti-pièce o “la tragedia del linguaggio”; sulle stesse interrogazioni Viaggio fra i morti, 1981, chiuderà la sua drammaturgia.

Dalla “tragedia del linguaggio” alla ricerca del linguaggio perduto[12]. Chiarezza e semplicità sono dimensioni da sempre «pre-sentite» dagli uomini. Una meta desiderata da sempre. Un orizzonte di possibilità tanto difficile da attingere quanto più semplice appare il canone logico; perché questa semplicità del canone della logica è raggiungibile a prezzo di incredibili sforzi[13]. La tesi è questa: ciò che è più naturale diventa più difficile capire[14]. Il linguaggio ha il ruolo di mediazione fra pensare ed essere. Il fenomeno del linguaggio appare come il momento originario del suo rapporto con il senso. Il senso ha il suo limite, che è la parola in uso. L’uso interviene al livello dei giochi linguistici solo all’interno di una certa comunità di credenze. Qui il limite è considerato come orizzonte d’appartenenza dal qual è impossibile distaccarsi. Abbandonata la concezione raffigurativa del linguaggio e riconosciuta la varietà e la molteplicità delle forme e delle attività linguistiche, i limiti di senso si applicano ai giochi linguistici e alle forme di vita. Un significato assoluto e indipendente di una parola non esiste. “Solo nella corrente del pensiero e della vita le parole hanno significato”.

Il linguaggio con il quale Ionesco opera è lo stesso “linguaggio comune” di Wittgenstein, il linguaggio quotidiano sofferente, non più significante, chiuso e svuotato. I sintomi di un tale linguaggio evolvono in un altro vuoto: la solitudine collettiva, oppure viceversa. Testimonia Ionesco: “[…] I miei personaggi sono uomini che non sanno essere solitari. Li manca il raccoglimento della mente, la contemplazione. Cosicché in alcune delle mie pièces i personaggi stanno sempre insieme e chiacchierano, e questo per

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aver dimenticato il significato, il valore della solitudine. E così sono soli, ma in un’altra maniera”[15].

III. Il linguaggio del primo Ionesco (1949-1954). “Non ho fatto altro che ascoltare ciò che si parlava intorno a me, in sotto-linguaggio”[16]. I suoi primi testi, La cantatrice calva (1948/1949), La Lezione (1950), Jacques o la sottomissione (1950), Le Sedie (1951), Ionesco li costruisce partendo dai cliché, dagli automatismi, dall’uso delle verità “pronte”, e il suo intento si risolve in demistificazione per mezzo dei cliché stessi. Senza un referente reale, queste verità “pronte”[17] diventano superflue, ridicole. E i suoi personaggi, coloro che se ne servono, sono dei pupazzi, vivono di esse. Al personaggio si oppone il meccanismo, nel senso che è il meccanismo che assume il ruolo del protagonista.

Ionesco costruisce dei personaggi svuotati totalmente del loro contenuto. Poiché il linguaggio è un ingranaggio interiore le parole ne sono ugualmente prive: “I miei personaggi sono svuotati di qualsiasi psicologia, sono semplicemente dei meccanismi. E così non possono comunicare. Loro non pensano. Si sono allontanati da loro stessi, vivono in un mondo impersonale, il mondo della collettività (borghese, comunista, fascista, poco importa). I miei personaggi sono uomini che pronunciano degli slogan, ciò che li esenta di pensare”. Del suo primo testo drammatico, La cantatrice calva del 1949, Ionesco parla così[18] descrivendo suo stato d’anima mentre andava avanti scrivendolo: “[…] per me si era trattato di una sorta di crollo del reale. Le parole erano diventate delle cortecce sonore, prive di senso; lo stesso i personaggi, si erano svuotati della loro psicologia, e il mondo mi compariva in una luce insolita, forse nella sua vera luce, al di là di interpretazioni e di una causalità arbitraria”[19]. Gli Smith e i Martin non sanno più parlare perché non sanno più pensare, perché non sanno più commuoversi, non sanno più sentire, non sanno più esistere, cosicché diventano facilmente chiunque e anche qualunque cosa[20]. Agendo in assenza della vita e in virtù dell’inerzia, in assenza del pensare, in assenza della meraviglia[21], i suoi personaggi si esprimono, s’è possibile dirlo, “in assenza del linguaggio”.

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La Lezione, del 1950, pare dimostrare che l’impossibilità di comunicare si fonda appunto sull’incapacità intrinseca del linguaggio di rendere dicibile le verità valide per ciascun individuo: ciò che distingue tutte queste lingue[22] non sono né le parole, che sono le medesime, nella struttura della frase, e nemmeno la pronuncia, ma qualcosa di ineffabile, percepibile soltanto dopo aver speso molto tempo per avvicinarsene, qualcosa di indicibile. “Non esistono delle regole, si deve sentire” dice il Professore, alla fine vittima dello stesso ineffabile, per mal uso, per mancato controllo, per la pretesa di voler superare i limiti del dicibile con il dicibile stesso, o come riassume Marie, “l’aritmetica conduce alla filologia e la filologia conduce al delitto”. La logica fissa i confini del dicibile; confini delimitati proprio per proteggere un ineffabile di cui il nostro linguaggio, a causa dei suoi limiti intrinseci, non permette parlare in modo significante. Wittgenstein conserva ben chiara la distinzione tra essere e linguaggio, tra mostrare e dire (e non solo nel Tractatus), afferma sempre che il concetto di senso non è mai quello di verità della proposizione[23].

IV. Il ciclo “Bérenger” (1955-1962). Se inizialmente il discorso denunciava, con il solo intento di presentare, di mostrare lo stato di degrado e i suoi effetti, nel ciclo “Bérenger”, il secondo della drammaturgia di Ionesco, le fonti dell’errore sono esposte, precisate. Il ciclo è nato come replica di Ionesco alle posizioni della critica che o gli attribuiva una visione del mondo limitata alla rappresentazione dell’universo come borghese, o lo accusava di fare il farceur puro, artefice di incubi filologici[24] e allucinazioni semantiche. L’improvviso dell’Alma, del 1955, formulava tale replica. Sempre in L’Impromptu nasce “il personaggio” ionesciano, che porta qui il nome del suo autore. Tale testo costituisce la premessa teorica del così- detto ciclo “Bérenger”: l’universalità del teatro ha come supporto soltanto la proiezione di un mondo interiore: i sogni, le angosce, le contraddizioni interni, i desideri oscuri, che non ci appartengono, ma fanno parte del patrimonio dell’umanità[25]; poiché sono i moti interni, le metamorfosi individuali e segreti che stano all’origine dei nostri gesti, delle nostre azioni sociali[26].

Per la prima volta, Ionesco porta le sue vedute in scena: “La critica deve essere descrittiva, e non già normativa […] non deve giudicare che secondo le leggi stesse dell’espressione artistica, secondo la mitologia della propria opera”[27] e offre una mostra

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di teatro didascalico-politico; attacca le appena nate e pretese “logie”: la spettato- psicologia, la costumologia, la decorologia, o la teatrologia, “essenza della teatralità”, quali delizi di Barthes, la logica di Adamov, “precursore di Aristotele”[28], la teoria dell’effetto di distanziare che Brecht amava tanto, ecc. Chiameremmo tutto ciò “lingua delle ideologie”. Ionesco è costretto a precisare i suoi termini per dimostrare che è proprio l’etica il vero senso del suo impegno.

LuiQa visione di Wittgenstein, forse meno evidente qui, è concludente: «L’etica […] non può essere una scienza […]. Ma è un documento di una tendenza dell’animo umano che io personalmente non posso non rispettare profondamente e che non vorrei davvero mai, a costo della vita, porre in ridicolo»[29]. L’etica è inesprimibile perché attraversa dall'interno tutta la realtà, come condizione della stessa.

Come abbiamo visto, la logica, e poi l’etica, forniscono due possibili “metodi di proiezione” nel trovare il senso del mondo. Per quanto riguarda l’etica, il senso del mondo è il soggetto dotato di volontà. L’etica è un atteggiamento dello spirito. Non è da confondere con un’indagine sociologica o psicologica. Non riguarda uno studio sul comportamento umano. L’etica si caratterizza proprio per il voler «andare al di là del mondo, ossia al di là del linguaggio significante» esprimente un fatto.

Ionesco sancisce il rovesciamento consapevole di questa “tendenza dell’animo umano”: “L’incomunicabilità non esiste. Si parla della crisi del linguaggio. Ma questa crisi è sempre una crisi voluta, per esempio dalle propagande”[30]. “Se io credessi realmente nell’incomunicabilità assoluta, non scriverei. Credo nella possibilità del comunicare, all’eccezione del caso in cui è rifiutato per mala fede, per inavvertenza, per ottusità politica o per incomprensione temporaria. Prima di tutto è importante precisare i termini. Succede pure che i sistemi di comunicazione non servano sempre la comunicazione, ma l’occultare di un pensiero. In genere, le ideologie sono degli alibi, dissimulando volutamente qualcosa di totalmente diverso da ciò che trasmettono”[31].

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“Nella dialettica delle scienze dei sistemi ideologici si ritrovano tutti i meccanismi, tutte le pazzie possibili, per la perdita del contatto con il reale”[32]. “Chiamo ideologia un sistema chiuso, che offre spiegazioni a livello di cliché”[33]. “La scienza dei sistemi ideologici assolutizza il relativo, fa della soggettività una realtà oggettiva”[34] Le ideologie, tutti i sistemi rimangono di fronte alla porta chiusa che è la “presenza monolitica”, inspiegabile del mondo. “Il problema è di andare all’origine delle nostre angosce, di ritrovare il linguaggio non convenzionale di queste angosce, forse attraverso la disarticolazione di quel linguaggio sociale che è composto di cliché, di formule vuote, slogan”. “Le persone si lasciano portate dalle loro passioni che rifiutano dilucidare perché vogliono mantenerle”[35]. Tutti gli uomini avvertono la pressione della vita, e sono consapevoli della necessità di un mutamento, ma non sono disposti a sondare le proprie profondità perché ciò fa soffrire, e pensano che basti esteriorizzare la soluzione, che cioè basta trovarne una esteriore[36].

L’abuso, fraintendimento del nostro linguaggio, è originato da illusioni, dalla mancanza del coraggio necessario per riconoscere il luogo etico dell’intenzione. Avrebbe detto Wittgenstein: “Il linguaggio non fa altro che contraddire ad ogni passo una realtà estremamente ovvia e semplice, come se rifiutasse di vederla”[37]. Bérenger. Linguaggio e logica del sogno “[…] esistevo, ero consapevole di esistere da sempre, di non morire più mai”.

L’Assassino senza movente, del 1957, cristallizza il personaggio, introdotto dall’Improptu. Se il linguaggio è espressione della coerenza interiore, i dialoghi, in particolare i monologhi attestano in Bérenger l’eroe che Ionesco ha più focalizzato. Bérenger sarà il personaggio di Il Rinoceronte, del 1959, di Il pedone dell’aria, del 1962 e infine, di Il re muore, sempre del 1962. Gli altri personaggi del ciclo, ad alcune eccezioni e non integralmente[38], vivono nello spazio della cura[39]: evitano guardare la realtà in faccia, non sono più consapevoli della loro identità, né del senso della loro esistenza. È Bérenger invece, colui che sogna. “Il sogno è naturale, non è malato. È la logica che rischia ammalarsi. Il sogno, essendo proprio espressione della vita nella complessità e le sue incoerenze, non può essere pazzesco. La logica, sì. […] L’uomo il cui spirito è nutrito di sogni ritrova tutti gli archetipi; comunque non è il prigioniero dei cliché. L’archetipo non è uno stereotipo. L’illogicità dei sogni, che nasconde un’altra

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logica, è totalmente diversa dell’illogico, del meccanismo sfasato, che non è privo di logica, anzi ha una logica portata all’estremo”[40]. Il sogno afferra ciò che non può essere né nominato né descritto attraverso il linguaggio, ma solo mostrato. Nella differenza fra dire e mostrare non avviene una separazione. Il limite del senso si traccia dall’interno. Il senso è riportato alla sua matrice, non esprimibile in parole. È come se l’essenza del mondo fosse indicata dal di dentro, attraverso la delimitazione interna di quello che si può dire ed è appreso nel silenzio.

Scoprendo per caso l’esistenza della “città della luce”, Bérenger ricorda le sue esperienze della luce[41], rivive quasi una delle sue più forti meraviglie di fronte al mondo, che ha come sentimento dominante la presenza ineffabile della luce. Il solo ricordo, la memoria che ha del sentimento dell’essere: “Io sono, io sono! Tutto è, tutto è!”, lo reggono ancora, lo aiutano a superare il sentimento della “città grigia”. L’orrore che Bérenger prova di fronte al male ingiustificato rappresentato dall’assassino –che nell’Architetto non suscita nulla, visto che come funzionario dell’Amministrazione, è intoccabile– si trasforma in decisione etica quando l’assassino colpisce la donna insieme alla quale avrebbe desiderato costruire un suo mondo di luce. Sono le fonti stesse della meraviglia che gli danno la forza di una tale decisione. Così, Bérenger prende la via assoluta dell’etica: «Sarebbe la via che ciascuno, vedendola, dovrebbe per necessità logica percorrere, o vergognarsi di non farlo»[42]. Invece, nessuna situazione empirica offre questa possibilità; ogni proposizione sensata può essere vera o falsa; rappresenta ciò che può accadere[43]. Parte per incontrare l’assassino da solo, l’assassino che non è altro che l’immagine dell’alienazione, del conformismo cieco, o la morte stessa, intesa come assurdo, come limite.

Il monologo finale di Bérenger[44] è articolato, non soffre di iati mentali, è espressione di salute interiore, di disponibilità, è sincero, incredibilmente lucido. “I morti sono più numerosi dei vivi. Il loro numero cresce sempre. I vivi sono una rarità”. Il Bérenger di Il Rinoceronte, la pièce successiva, è un Gregor Samsa[45] rovesciato, sempre autentico. Conserva i tratti dell’iniziale Bérenger, all’eccezione della rassegnazione. Già partendo da questo testo, nel mondo di Bérenger si instaurano i limiti del linguaggio che Ionesco denunciava prima. I limiti del linguaggio che sono adesso i limiti del mondo.

I residui del linguaggio del primo Ionesco –riconoscibili nelle repliche di Botard, Dudard, Jean, del Filosofo– si ritrovano in tautologie o si combinano secondo

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schemi logici classici, come il sillogismo, ma i personaggi che li usano sembrano soffrire a livello di comprensione. Le malattie semantiche del linguaggio sono trasferite nel mondo.

Ionesco usa come sempre le velleità del linguaggio. Le associazioni non sono più fonetiche, ma (a)logiche: “Ecco il sillogismo perfetto. Il gatto ha quattro zampe. Isidoro e Fricot hanno ciascuno quattro zampe. Dunque Isidoro e Fricot sono due gatti. Anche il mio cane ha quattro zampe. Allora è un gatto. Dunque, secondo la logica, il mio cane sarebbe un gatto. Secondo la logica, sì. Ma è vero anche il contrario” oppure “Altro sillogismo. I gatti sono mortali. Ma anche Socrate è mortale. Dunque, Socrate è un gatto […] e ha proprio quattro zampe. Verissimo. Ho un gatto che si chiama Socrate. Vede […]” o “Socrate dunque era un gatto”, denunciano nel pensiero la perdita della facoltà di distinguere, di differenziare, per mancata esercitazione, che equivale alla perdita della lucidità, dei valori. Essere in armonia con il mondo non significa capire il suo segreto, né rassegnarsi alla sua insensatezza. Ma piuttosto sentire il suo mistero e quello della vita. Bérenger non lo sa perché, non ancora, ma alla fine gli resta soltanto il desiderio insito di non perdere il suo essere malgré tout et tous. “Non accade ancora nulla, ancora nulla […] forse i giardini […] i giardini”.

In Il pedone dell’aria, la presenza di Bérenger si consuma metà in scena, metà al di fuori di essa. Appare all’inizio, permane un poco e poi segna la fine: non vuole più rispondere a delle domande, non per mancato altruismo, ma perché da un certo punto le parole non sono più significanti. Bérenger si riserva ad un altro tipo di discorso, al sogno, al volo, che è il naturale continuare del sentimento del radioso, della luce, della meraviglia, dell’ineffabile: “Io sono, il mondo è”. Questa volta, il mondo stesso si apre all’ineffabile, si trasforma, e lo comunica. Assistendovi, gli altri non hanno più reazioni, come se non se ne rendessero conto, come se niente potesse più muoverli, con la scusa di guardare/vedere “soltanto nei giorni di festa”. Se no, “la coscienza dell’utilità annienta e il ponte svanisce”.

Bérenger ricorre alla memoria del volare, e vola così, in vista di tutti. Lo fa per mostrare “un’evidenza della mente”. Sormonta il muro. Ciò che è al di là, “se pensi bene, lo trovi proprio nel tuo pensiero” Sembra che basti il desiderio, la decisione, e il fidarsi di essa. Ma anche qui interviene la regola, il metodo, una legge di ordine da rispettare. L’altro, l’anti-mondo, si riconosce nel rovescio degli specchi; è il negativo di questo mondo nostro, è “un’ipotesi cosmica di studio”, è l’insensato[46]. All’incubo, all’infelicità di Joséphine corrisponde, nel viaggio di Bérenger, il sorvolare dell’anti-mondo – altro mondo infernale e non alternativo. Forme di conoscenza per entrambi.

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Uno va sondare le viscere della propria miseria, l’atro va al di là dell’appariscente equilibrio di tutti e del tutto. Il primo ritorna per aver posticipato la decisione, l’altro ritorna perché “più lontano non c’è più nulla”, perché il suo volo, questa volta, è stato spinto troppo. Il volo della meraviglia resiste soltanto in questo mondo. Non è necessario volare fisicamente, superare le leggi di questo mondo. Il sogno, come alternativa di volo, è sufficiente. Nel linguaggio della pièce si insinuano rivisitati, i cliché, gli inserti in inglese, le ripetizioni, i sintagmi vuoti del primo testo drammatico di Ionesco. Soltanto nel linguaggio del nucleo Bérenger–Joséphine (anche se più riluttante)–Marthe si salvaguardano le sensatezze del pensiero.

“Ti sei resa conto che ti svegli ogni giorno? Svegliarti ogni giorno […] Vieni alla luce ogni mattina”. Con Il re muore, del 1962, “[…] arrivavo alle rovine della realtà apparente, alla frontiera dell’indicibile, dell’insondabile, all’abisso”[47]. Il re muore, l’ineffabile si ritira e il mondo si chiude, implode, si ristringe e poi svanisce. In assenza del soggetto non esiste né spazio, né tempo. Le risorse, senza fonti, seccano. Gli ultimi attimi non sono per l’evasione, ma per accettare, per riconoscere la fine. E il re vuole ancora del tempo, poiché non ne ha avuto mai abbastanza. Non è un eroe tragico, è una persona di buon senso: dopo due cento ottantatre anni, afferma di non aver avuto il tempo di respirare, di non conoscere la vita, di non aver avuto tempo.

“Sono pieno, ma di buchi. Sono roso. I buchi si allargano. Mi viene la vertigine quando mi piego sui miei buchi, sfinisco”. Anche così, “io amo me stesso qualunque cosa sia, amo sempre me stesso, sento di essere ancora. Mi vedo. Mi guardo”. “Potrei decidere di non morire. Se solo decidessi di non volere, se solo decidessi di non decidermi” Ha di fronte il ponte, deve decidersi per il passaggio. Ma decidersi non importa più, lo farà per lui l’inerzia, la sua ponderabilità. Leggendo in altri termini, l’aggressione iniziale ha come riflesso un “come sbarazzarsene”, d’altronde impossibile. L’impossibilità di sbarazzarsi si consuma nel meccanismo, un perpetuum mobile inoperante, insignificante che trasforma il personaggio, ormai svuotato per sottomissione, in oggetto. La vita degli oggetti dura affinché sono utili. Una volta dimenticati, svaniscono. Il re, dopo aver dimenticato di se stesso, ha dimenticato del mondo. Senza sottostrato, memoria e quindi coerenza, il pensiero si perde, e insieme ad esso, il linguaggio. Il legame che il linguaggio assicurava, il legame che il linguaggio era, “il ponte”, si rompe.

Il re muore non rappresenta più il tragico del linguaggio, implicitamente della società, o del mondo come totalità. È una “tragedia”[48], è una forma di mostrare una fine, una morte, una delle tante, anche se “ciascuno di noi è il primo che muore”.

V. La letteratura dell’assurdo e il linguaggio del teatro parigino d’avanguardia. “Assurdo è ciò che è privo di scopo […]. Recise le sue radici religiose,

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metafisiche e trascendentali, l’uomo è perduto; tutte le sue azioni divengono insensate, ridicole, inutili”[49], pensava Ionesco sull’uomo di Kafka[50], uno degli autori il cui influsso riconosce, come riconosceva anche l’influsso di Dostoevskij. Il termine di “assurdo” parte da un’etimologia di genere musicale: stonato, in disarmonia, donde quella comune: contrario alla ragione e al buon senso, illogico, paradossale, incongruente, ridicolo. Prima di Ionesco, è Camus che adopera la parola[51], preoccupato degli aspetti teorici dell’assurdo, sorprendendo le sue determinazioni fondamentali: l’assurdo è nato nella presa di coscienza dell’individuo come essere nel mondo e destinato al nulla: “[…] in un universo improvvisamente spogliato di illusioni e di luce, l’uomo si sente un estraneo. Questo divorzio tra l’uomo e la sua vita, fra l’autore e la scena, è propriamente il senso dell’assurdo”[52].

L’accezione che Ionesco ha dell’assurdo comprende un assurdo logico, la contraddizione, l’inavvertenza, e un assurdo metafisico, analogo a ciò che Wittgenstein chiamava mancanza di senso, frustrazione del limite: “Ciò che io non comprendo, perché limitato o perché incomprensibile”, cioè chiuso e impenetrabile, oppure “la situazione stessa di fronte all’incomprensibile, al muro infinitamente alto del vuoto solidificato, lo stato stesso di non potere non provare sormontarlo, sapendo allo stesso tempo che è insormontabile”, oppure “il non poter riconoscere una tale situazione come mia, come partecipe ad essa”, o “l’uomo che vaga senza meta, o l’oblio della meta, o l’uomo senza radici trascendentali”[53].

Camus parla dell’essere umano vivente in margine a questo mondo, il quale, in virtù del suo forte individualismo[54], trova forza per la “rivolta metafisica”: “L’uomo si erge contro la propria condizione e contro l’intera creazione”. Il discorso di Camus è protetto da un involucro letterario anacronico, perché sa stilisticamente dell’eleganza del razionalismo e della costruzione cartesiana dell’Ottocento.

Sartre espone l’idea di un’esistenza precedendo l’essenza, l’idea dell’essere beato e maledetto, che è potenzialità pura e libera nell’arbitrio[55], in testi drammatici che hanno una coerenza di cristallo, con personaggi tratteggiati in dettaglio, non riflettendo

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altro che la convenzione/convinzione “dell’anima immortale, dell’esistenza immutabile”[56]. Tali discorsi non conoscono le “tecniche” del linguaggio delle avanguardie[57]: il rifiuto della tradizione del discorso ottocentesco, la disintegrazione, le distorsioni, le sincopi, le giustapposizioni, le ripetizioni, gli ossimori ecc, non interferiscono con queste, non le riflettono, ma continuano a discutere circa l’assurdità della condizione umana senza sentirsi imbarazzati da nessuna contraddizione interna.

Il “teatro dell’assurdo”[58] però, la risente e la risolve attraverso un linguaggio che esplode, nell’impossibilità di contenere i significati[59].

La radiografia del nuovo, allora, testo drammatico presentava i seguenti caratteri, abbastanza omogenei, se si pensa che gli autori di tali testi non appartenevano ad alcuna scuola o corrente, che erano individualità forti ed isolate, con degli approcci distinti, e che non erano nemmeno francesi[60]:

– la storia o non era ben costruita, o era assente del tutto;

– i personaggi erano apsicologizzabili, tipologia di marionetta;

– racconto senza inizio o fine plausibilI;

– tema ambiguo; a livello ideatico, introspezioni o sogni, incubi rivisitati;

– il dialogo, fratturato in ripetizioni, onomatopee, colorato di ossimori o contraddizioni[61].

La poesia drammatica risulta dalla concretezza delle immagini sceniche, anche se queste contraddicono, se non trasgrediscono frequentemente le parole dei personaggi. E ciò non fa altro che ribadire il senso “antiletterario”, anti-raffigurativo, anti-rappresentazionale del pensiero creativo del nostro tempo, che avverte una tensione verso il fattore determinante della comprensione, verso la dimensione dell’ineffabile, e dall’altra parte un interesse per le forme di vita, per il fondamento dei giochi linguistici. In ciò che riguarda il ruolo del linguaggio nell’opera drammatica, Ionesco sa che il teatro non pretende di concorrere le forme di espressione autonome da punto di vista letterario (filosofia, poesia, romanzo, ecc.), perché una volta finito il ruolo della parola, essa si continua nel gesto o negli elementi scenici; sa che il linguaggio non è un fine, ma uno

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strumento[62]. E come strumento, lo usa per denunciare un mondo fittizio, per liberarsi dal sentimento viscerale della discontinuità, della frammentazione che percepisce nella realtà; al contempo, la sua visione riarticola questi frantumi, ricostituisce o almeno prova a farlo, il mondo, oppure un altro mondo. “Associazioni verbali sonore. Le parole si associano in libertà. C’è una certa gratuità qui”[63]. “Giocare con le parole è una liberazione. Saranno sempre parole legate tra loro, e perciò significanti”[64].

 

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[1] Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1995, p. 112.

[2] Ibidem.

[3] Almeno a partire da Cratilo, la filosofia si è occupata del linguaggio (della sua origine, funzioni, capacità di esprimere significati), della sua sintassi e dei tipi di relazioni semantiche, e poi del rapporto linguaggio–pensiero, linguaggio –mondo esterno, linguaggio– società, più intensamente (per esempio, nel tardo Medioevo), o meno (dal Seicento all’Ottocento, benché con eccezioni notabili: Locke, Humboldt ecc).

[4] Aldo Gargani, Lo stupore e il caso, Laterza, Roma–Bari 1985, p. 139.

[5] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967, I capitolo, § 25.

[6] Wittgenstein’s Lectures. Cambridge, 1932-1935, a cura di A. Ambrose, Blackwell, Oxford 1979, p. 28.

[7] Ibidem, p. 294.

[8] Eugène Ionesco. Între viaþã ºi vis. Convorbiri cu Claude Bonnefoy [traduzione dell’originale francese: Eugène Ionesco. Entre la vie e le rêve. Entretiens avec Claude Bonnefoy, Gallimard, Parigi 1996] Editura Humanitas, Bucarest 1999, p. 52.

[9] Wittgenstein e il circolo di Vienna, Firenze 1975, p. 34.

[10] Eugène Ionesco. Între viaþã ºi vis cit., p. 124.

[11] L. Wittgenstein, op. cit., p. 32.

[12] M.–C. Hubert, Ionesco, Edition du Seuil, Parigi 1990; «Les Contemporains», Cfr. Eugène Ionesco. Entre la vie et le rève cit, pp. 233-267: “Non possiamo dire che il linguaggio non esprime nulla, bensì che non riesce più ad esprimere l’essenza delle cose”. Ionesco firma la condanna a morte del linguaggio quale disponibilità, mezzo di rinascita del linguaggio stesso.

[13] L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980, p. 61.

[14] A. Di Carro, Linguaggio: filosofia e religione, in “Hermeneutica”, no. 7, 1987, p. 53.

[15] Eugène Ionesco. Entre la vie et le rève cit, pp. 114-115.

[16] Ibidem, p. 139.

[17] Le verità “pronte” possono essere quelle verità inizialmente vive, le quali, all’epoca della loro scoperta, sono state guardate come inammissibili, paradossali, o soltanto insolite, ma che una volta entrate in uso, sono diventate delle banalità e poi, pregiudizi.

[18] Si tratta dell’aneddoto (imparare l’inglese senza insegnante, descritto in Note e contronote, Torino 1965, p. 24) che serve come pretesto per la creazione del suo primo lavoro drammatico: in quell’innocente manuale di inglese, l’insolito per Ionesco constava di tutte quelle conversazioni, banali e solenne insieme, in cui la moglie informava il marito del numero dei loro figli, dei loro nomi, del dove abitavano, ecc., tutto accadendo nella più seria atmosfera borghese.

[19] E. Ionesco, Note e contronote, Torino 1965.

[20] Ibidem, p. 174.

[21] Ludwig Wittgenstein sottolinea un fatto fondamentale: la meraviglia non è semplicemente ciò che suscita e risveglia le domande del filosofo, ma è proprio quella risposta che nessuna spiegazione scientifica o metafisica riesce dare (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche cit., p. 524).

[22] Si tratta della lezione di filologia romanica.

[23] A. Di Carro, op. cit., pp. 305-306.

[24] Secondo Sartre, citato da Roberto de Monticelli nella prefazione a E. Ionesco, Il Rinoceronte, Einaudi, Torino 1960, p. 1.

[25] “Eppure io sono come tutti gli altri. Chiunque si può riconoscere in me”, Cfr. E. Ionesco, Printemps 1939. Les débris du souvenir. Pages du Journal, in “Cahiers de la Compagnie Madeleine Renaud – Jean Louis Barrault”, no. 29, 1960, p. 98.

[26] È questo, secondo il nostro autore, l’impegno sociale autentico, la massima prossimità alla realtà storica, e non riprodurre, descrivere, portare sul palcoscenico, con mezzi naturalistici o meno, una piattaforma politica o un’azione sindacale.

[27] Gli si è imputata frequentemente l’assenza di impegno sociale, piuttosto politico. Ciò ha portato alla controversia londinese del 1958. (Si tratta della suscettibilità, resa ad un certo momento manifesta, di K. Tynan, uno dei critici di teatro che avevano fatto conosciuto Ionesco in Inghilterra, che causerà un lungo processo di “coscienze”, e susciterà l’attenzione pubblica, provocando un tiro quasi interminabile di repliche). Sembra però che, in occasione dell’uscita del saggio in cui Adamov si pentiva per aver obliterato fin’allora la tematica sociale, gli attacchi della critica, francese questa volta, abbiano scatenato la guerra intestina del teatro e implicitamente, la guerra contro Ionesco – allora già e troppo celebre, e quindi suscettibile di essere esponente dell’odiata ideologia borghese.

[28] Da notare l’ironia: “Solo l’effimero dura”, “Intravedo delle ombre”, allusione forse, al mondo delle Idee platoniche. “Ogni tautologia è espressione di un errore del pensare”, forse proprio perché da queste proposizioni è impossibile dedurre qualcosa sul mondo, essendo le uniche proposizioni logiche mai false, ma indimostrabili. “Esse presuppongono che i nomi abbiano significato e le proposizioni elementari, senso”, Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus cit., 6.124.

[29] Idem, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Milano 1976, pp. 18-19.

[30] ”Quando Hitler dice I cecoslovacchi mi attaccheranno, io li attacco per difendermi, lui crea deliberatamente la confusione. Non discuto qui una scelta politica, constato come si può produrre una deviazione voluta del linguaggio”, Cfr. Eugène Ionesco. Entre la vie et le rève cit, p. 111.

[31] Ibidem, pp. 111-112.

[32] Ibidem, p. 109.

[33] Ibidem, p. 121.

[34] Ibidem, p. 108.

[35] Ibidem, p. 22.

[36] L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980, p. 140.

[37] Eugène Ionesco. Entre la vie et le rève cit, p. 125.

[38] Da vedere le presenze femminine, le “Marie”, partendo da “La cantatrice calva”, Mary e il personaggio- raisoneur; in “L’improvviso dell’Alma”, Marie è l’unica che controlla “gli ideologi” Bartholomeus; Marie è la amata seconda moglie del re morente Bérenger.

[39] Martin Heidegger, Essere e tempo, Milano 1953, § 26: si tratta delle forme “autentiche” e “inautentiche” dell’esistenza secondo l’autore, cioè, nel primo caso, “aver cura degli altri”, e nel secondo caso, “prendersi cura delle cose” (degli altri).

[40] Eugène Ionesco. Entre la vie et le rève cit, p. 108.

[41] “Il piacere necessario dell’esperienza onirica” (Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia), i greci lo mettono in corrispondenza a Apollo, il premonitore: deità della luce e dell’immaginario; della giusta misura, dell’assenza delle passioni selvagge, della tranquillità di colui che idea, del principium individuationis.

[42] L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, traduzione italiana di M. Rancheti, Adelphi, Milano 1967, p. 11.

[43] A. Di Carro, op. cit., p. 57.

[44] Esteso su dieci pagine nell’edizione francese.

[45] Il personaggio kafkiano di Metamorfosi che soffre lui stesso la trasformazione mentre il resto del mondo conserva le sue apparenze e funzioni.

 [46] Wittgenstein distingue tra «privo di senso» (sinnlos) e «insensato» (unsinnig). Il “privo di senso” non rappresenta necessariamente l’aspetto del nonsenso, implica anche una parte di quello che vuol dire “verità imparziali”. Il nonsenso include sia le espressioni senza significato, che i discorsi esclusivamente formali. La forma della vita diventa così anche il senso del mondo, oppure il significato della vita; (mondo=vita, L. Wittgenstein, Tractatus cit., 5.621) Nel caso di una semplice proposizione, il senso consiste nel fatto che essa descrive una situazione possibile nel mondo, mostra come sono le cose quando la proposizione è vera (cioè mostra il suo senso), e dice che le cose stanno così. (Ibidem, 4.022).

[47] E. Ionesco, La quete intermittente, Gallimard, Parigi 1987, p. 112.

[48] Come non si tratta di un eroe tragico, così non si tratta di una tragedia classica, perché il suo senso alto, ciò che rende il tragico, è la sua finalità. La morte dell’eroe non portava alla dissoluzione dell’universo, ma al ristabilire delle sue regole. Certo, i greci avevano i loro dei.

[49] E. Ionesco, Dans les armes de la ville, in “Cahiers de la Compagnie Madeleine Renaud – Jean Louis Barrault”, 20 ottobre 1957.

[50] Il tema della caduta nell’insignificanza e nella banalità quotidiana che toglie all’uomo perfino il suo carattere umano (Metamorfosi).

[51] Albert Camus, Il mito di Sisifo, Milano 1971, pp. 29-30.

[52] Non tanto sull’assurdo, che sull’angoscia si concentra l’analisi di Kierkegaard intorno alla condizione umana, sottoposta alla legge del possibile: “L’angoscia non è né necessità, né libertà astratta, cioè libero arbitrio; è liberta finita, cioè limitata e impastoiata, e così si identifica con il sentimento della possibilità”, Cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol. III, UTET, Torino 2003, p. 199.

[53] Eugène Ionesco. Entre la vie et le rève cit., p. 125.

[54] Vedi, per esempio, L’Uomo in rivolta (1951), che in difesa della dignità umana universale: “Noi siamo davanti alla storia e la storia deve fare i conti con questo noi siamo che a sua volta deve mantenersi nella storia”, si oppone a qualsiasi forma di assolutismo, per non poter lasciar la dignità del noi siamo “avvilire in me stesso e neppure negli altri”

[55] Jean–Paul Sartre, L’essere e il nulla, Milano 1958, p. 515.

[56] M. Esslin, Il teatro dell’assurdo, in L’Evento teatrale, Abete Editore, Roma 1990, p. 21, nell’introduzione al primo testo che individuava e teorizzava la letteratura drammatica parigina di quegli anni (1957) come “teatro dell’assurdo”.

[57] Secondo Ionesco, il Surrealismo aveva schiacciato le parole, ricostituendole ad un livello esteriore, superficiale, mentre Dada le aveva sbriciolate ancor più forte, ricercandovi i resti di senso.

[58] Esslin lo distingue dal “teatro dell’avanguardia poetica”: Ghelderode, Audiberti, Neveux, o dall’ultima generazione: Schehadé, Michette, Vauthier, in quanto più lirico, poeticamente consapevole – i testi prodotti sono poemi immagistici che hanno la base associazioni poetiche.

[59] E. Ionesco, Note e contronote cit., p. 31.

[60] All’eccezione di Eugène Ionesco, metà francese, metà romeno.

[61] Secondo A. Bosquet, Le théâtre d’Eugène Ionesco ou les 36 recettes du comique, in “Combat”, Parigi, 17 febbraio 1955, in ciò che riguarda solo La Cantatrice calva, l’enumerazione può continuare: titolo ingannante, pseudo-logica, inserti di parole o proposizioni in un’altra lingua, trasformazioni delle parole attraverso assonanze foniche ecc.

[62] E. Ionesco, Note e contronote cit., p. 231.

[63] Eugène Ionesco. Entre la vie et le rève cit., p. 129.

[64] Ibidem, p. 128.