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p. 246
Il
Levante di Venezia.
Criminalità
in Dalmazia ed Albania nel secolo XVIII: itinerari di ricerca nell’Archivio del
Consiglio di Dieci
Michela Dal
Borgo,
Archivio
di Stato di Venezia
Il termine “Levante veneziano” ha riscosso un certo
successo nel dibattito storiografico europeo dell’ultimo decennio. Dal volume Levante veneziano, a cura di Massimo Costantini e Aliki Nikiforou sulle isole
Ionie[1],
cui ha fatto seguito il convegno internazionale di studi, sempre a cura di
Costantini, su “Il Mediterraneo centro-orientale”[2],
ai saggi di Alfredo Viaggiano sulla politica e sull’amministrazione veneziana
sullo Stato da Mar[3],
si è rinvigorita l’attenzione sulla “gestione” – mi sia consentito l’uso
di questo termine onnicomprensivo – di questa vasta e strategica fetta dei
domini veneziani che, proprio per la distanza con la Dominante-capitale,
presenta caratteristiche e problematiche territoriali, socio-culturali, nonché
religiose, cui fa necessariamente riscontro un sistema amministrativo e di
controllo politico-giudiziario con sue adeguate specificità.
La Dalmazia, con l’Albania, rappreseentava una provincia fra le
più estese e, nel contempo, tra le più povere e scarsamente
popolate. Nel 1786, nelle parole dell’allora Provveditore Generale Francesco
Falier, emerge la visione di un territorio poco adatto alla coltivazione, ancor
meno all’industria “solo con ruinato commercio,
atto appena ad accordare uno stentato vivere”[4]. Nondimeno
Dalmazia ed Albania meritavano una “predilezione
distinta” da parte della
Serenissima e concreti aiuti alle popolazioni, duramente colpite da cicliche
epidemie di peste ed esposte alle continue minacce del confinante impero Turco[5].
Non si doveva, insomma, mai dimenticare che “forma essa il litorale all’Adriatico, e può contarsi senza
dubbio l’antemurale dell’Italia, della libertà e della pubblica
sicurezza”[6].
La Dalmazia e l’Albania erano governate da un Provveditore Generale, con i
più ampi poteri di sovrintendere e coordinare l’attività
più capillare di Provveditori, Castellani, Conti – a seconda
dell’importanza politico-militare più o meno rilevante della sede –
tutti patrizi veneti, eletti dal Maggior Consiglio e inviati a governare in
nome di Venezia[7]. Se noi
scorriamo le relazioni finali presentate in Collegio da questi Provveditori
Generali una volta rientrati nella Dominante alla scadenza della carica,
coglieremo
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interessanti
riferimenti sull’indole, ovvero sulla “natura”, sentita quasi primordiale, di
questi sudditi. I giudizi espressi, quasi ripetitivi anche a distanza di
decenni, non rendono molto onore a questi fieri popoli di frontiera,
soprattutto nei confronti del rispetto delle leggi e dell’ordine pubblico. “Feroci e rapaci” li giudica Pietro Vendramin nel 1729[8];
“di natura feroce ma non indomita. Vuol
esser trattato senza eccesso. La troppa dolcezza lo fa impertinente ed l’estraordinario rigore lo rende fiero ed
aspro” come si esprime
Giorgio Grimani nel 1732[9];
“sono per natura dediti alle rapine, né
viene tra loro considerato alcuno bravo soldato se non chi è haiduccu,
vale a dire ladro da strada”
sono le lapidarie parole di Nicolò Zorzi Papadopoli nel 1756[10],
ancor più pesanti se teniamo conto che, dalla Dalmazia, Venezia
arruolava la sua migliore truppa marittima e terrestre come afferma anche il
Romanin.
Gente dunque non facile da governaree e da tenere a freno, animati da un
atavico odio – “un livore perenne” dice il Papadopoli – verso gli
Ottomani che provocava non infrequenti sconfinamenti ed episodi di cruente
violenza, spesso senza apparente motivazione, che si riflettevano in situazioni
di politica e diplomatica conflittualità con la Porta. Ma l’analisi più
lucida per il “buon governo” di queste province è quella offerta dal
segretario cancelliere Antonio Giusti al Provveditore Generale Francesco
Grimani nel 1756[11]. Egli
constata lo stato della “sconvolta
provincia”, ove ormai
dilagano “abusi, contraffazione di tante leggi e sovvertimento totale della disciplina” che solo “non vi si richiede meno di un miracolo per rifonderlo”. Il Giusti suggerisce ai governanti
di usare una equilibrata miscela di severità, giustizia, carità:
“La severità come un freno
necessario al di lei feroce genio; la giustizia come un mezzo di sottrarla
all’oppressione; la carità come ministra d’istruzione all’ignoranza e di
sovvenimento alle sue indigenze. O variabil che fossero secondo la
varietà de’ pareri l’uso di questa massima; o incagliando con gl’accidenti
il rilassamento de costumi o mancando il tempo alle cure, o alle cure
prevalendo la fatalità di queste genti: verità si è
indenegabile che a seconda delle proprie malvagie inclinazioni sono precipitate
in uno stato che tutto spira confusione et orrore”.
Ma la situazione sembra veramente aii limiti del gestibile, e l’unica
scusante offerta dal Giusti a tanta criminalità è l’endemica
miseria che abbruttiva gli animi. Cito ancora le dirette parole del Giusti,
poiché è abitudine dell’archivista rifarsi direttamente ai documenti,
specie se così pregnanti di significati come in questo caso:
“Pigri
costoro per natura, e percossi per mille ree abitudini dal provocato castigo
della sterilità e di molt’altre sciagure, hanno sostituito ad un’arte
innocente la professione enormissima del latrocinio, che se per l’inanti era un
geniale esercizio dei più scorretti, or divenne una profesion generale
et indistinta, et in una parola: un industria necessaria per vivere. Perché qui
stando la depravazione, come un delitto ne figlia molt’altri, così da
questa inondazione di ladronezzi derivano assai famigliari gl’omicidi
e gli incendi et ogn’altro genere de deliti i più lacrimevoli. A
così trascendente coratella [corruzione], mal potendo supplire le provvigioni ordinarie della
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Giustizia,
ne sciegue che per un delitto che si punisca, molti se ne commettono che vanno
impuniti. Il latrocinio se non è aggravato di pesanti circostanze per la
sua frequenza e per un invalso politico riguardo, trattasi dalla Primaria
carica con formalità sommaria e civile; ma appena un furattore è
costretto a pagar un furto, ch’ei tosto diviene recidivo, per reintegrarsi di
tutta la soccombeza, ancorché giustamente patita. Al qual passo
s’intenderà, come stupenda et incredibil cosa, che questi ladroni
impieghino la maggior parte del tempo loro nel meditare e concertare i furti;
nell’eseguirli nasconderli e distrarli; e finalmente nel difendersi sino
all’ultimo fiato dalle querimonie de derubati, che pur sono altrettanti
ladroni. Né minor meraviglia recherà l’intendere che la folla incessante
di tali querimonie occupino la maggior parte di un Generalato – a gravissime
cure sottoposto – alla cui udienza, toltone la materia de’ terreni ch’è
un altro abisso di confusione, null’altro s’ode, che un incessante clamore di
ruberie, dall’une con perpetua vicenda nascendo altre, e da tutte assieme la
sovversion del paese. Se poi li misfatti de Morlacchi arrivano a divenir criminali, ogni espediente che si prenda riesce
nocivo e gl’indurrà vie più nella contumacia. Di rado
presentandosi, i delinquenti incorono nel Bando, et incontro o si danno senza
riserva all’infestazione delle strade o passano in Turchia e nel Paese
Austriaco, mantenendosi di ruberie che trasportano, con le famigliari
intelligenze, dall’uno all’altro stato, senza alcun rispetto alle leggi et ai
riguardi della salute.
Né questo è il solo motivo che li muove e
gl’alletta a dividere la sudditanza fra il Veneto, Austriaco et Ottomano Stato.
Ciò fanno di continuo, o transitando con aperto libertinaggio dall’una
all’altra parte, o dividendo le famiglie nella duplice stazione per tener piede
ne terreni loro concessi, usar del doppio asilo a impunità de lor
delitti, e riunirsi secondo ove li spinge l’urto degl’accidenti. Così
servendo agl’Agallari delle vicine regioni Turche, non ben distinguersi il
carattere della loro sudditanza: ciò che grandemente ripugna al vero
interesse dello Stato. Per scusare questa inamisibil condotta allegano la povertà
che gl’opprime e la necessità di sfamersi nelle terre ubertose della
Bosna e della Lika”.
La difficile situazione nell’esercizzio di un’equa giustizia era
parimenti stata oggetto di una dettagliata e specifica relazione da parte del
Provveditore Generale Giacomo Boldù, nel 1748[12].
Sarebbe fuori luogo, in questa sede, dare troppa voce al Provveditore
Boldù, ma ne suggerisco la lettura agli storici, anche antropologi, di
tali territori. Il Boldù riferisce che furti ed omicidi sono i due
eventi criminosi più diffusi, quasi dilaganti. Ad essi faceva seguito,
nei costumi di quelle popolazioni, una immediata azione punitiva – di vendetta
e rappresaglia – da parte dei famigliari dell’offeso contro tutti i parenti,
seppur innocenti, del colpevole o presunto tale, venendosi a creare così
una spirale di violenza che “per quanti
vigorosi ordini e disposizioni siano state fatte dalla carica Gentilizia, e da
Pubblici rappresentanti della provincia, mai fu possibile di sradicare
dalla natione il barbaro costume delle suddette rappresaglie” anche perché “succedono per lo più queste prima che giunga negli offitii la
relazione degli omicidi”.
Particolarmente attenta la descrizioone della “solenne formalità”
con cui, in altri casi o dopo la vendetta, le controparti, ignorando totalmente
la giustizia dello Stato, si accordavano tra
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loro e
patteggiavano un – in termini moderni – “risarcimento danni”, attraverso una
privata arbitraria, che lasciava
sostanzialmente i colpevoli impuniti. Alla luce di queste considerazioni assume
ancor più valore la documentazione conservata presso l’Archivio del
Consiglio di Dieci, consiglio sovrano e supremo tribunale penale nell’ambito
dell’amministrazione veneziana. Ad esso spettava giudicare “i casi di
prodizione, di Sette; di turbato pacifico Stato, di sodomia; d’arme da fuoco,
di false monete o merci; d’intacco di Cassa Fiscale; di viziature di pubblici
scritti; di maschere, di singolare duello. Sono sue particolarmente le Causa
Criminali nelle quali intervengono Ecclesiastici, Patrizi; Secretarii, Notari Ducali,
Ufficiali e Ministri inservienti”[13].
E li giudicava secondo una procedura particolare, segreta che, per le
caratteristiche presentate, si definiva “rito dell’Eccelso”[14].
Per comodità del lettore, le caratteristiche più significative di
tale rito possono così riassumersi: processo scritto sempre per mano del
Cancelliere, i testi citati – de visu,
cioè presenti al fatto, o de
audito, come bene informati sull’accaduto – restavano segreti, così
come le loro deposizioni (venivano fatti giurare de silentio e poi anche de
veritate); il reo, se arrestato, non era subito informato del reato che gli
era contestato, e anche alla fine dell’istruttoria, non otteneva copia del
processo per programmare la sua difesa; non erano permessi ricognizione dei
testi, confronto tra testi o tra reo e testimoni (permesso invece il confronto
tra imputati); la pena doveva essere esclusivamente corporale (pena di galea con ceppi ai piedi, di prigione serrata alla luce, di bando, a tempo o
in perpetuo, per i rei condannati in contumacia); la sentenza era inappellabile
ma il condannato poteva ottenere la realdizione,
ovvero una riapertura. Nei casi dei processi delegati con “rito”alle
autorità locali – nella fase di “formazione” (istruttoria) e/o anche di
“spedizione” (emissione della sentenza) – queste agivano con pari
autorità dei Dieci, rendendo il processo inappellabile. Ma per quanto
importante, questa fonte ha purtroppo subito gravissime e volontarie operazioni
di scarto selvaggio all’inizio del XIX secolo.
Dopo la caduta di Venezia (maggio 17797), solo nel 1807 le
autorità francesi del Regno d’Italia avviarono un piano generale di
riorganizzazione e sistemazione degli archivi dell’ex Serenissima Repubblica.
Nel 1812 si procedette, assecondando le istruzioni inviate dal Prefetto Generale
degli Archivi, Luigi Bossi, all’Archivista Generale Marin, ad una massiccia
operazione di scarto delle carte inutili, in particolare ad essere
stralciata dai fondi originari fu la documentazione di tipo giudiziario e
contabile, ritenuta di non poter più essere “d’alcun servizio per lo Stato”,
né futuro “oggetto di ricerca per parte
de privati e neppure da considerarsi monumenti
diplomatici e/o storici che servano in alcun conto alla storia”[15].
La documentazione così “espurgata” fu depositata nella chiesa soppressa
di San Paterniano, e in seguito venduta ad una fabbrica di carta, per essere
distrutta e riciclata. Dall’archivio del Consiglio di Dieci fu
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eliminata
la parte più antica, salvando solo i processi della seconda metà
del XVIII secolo, ritenuti ancora utili sia giudiziariamente che
amministrativamente[16].
Alla luce di questo scempio archivisstico, analizziamo ora quanto rimasto
a disposizione del ricercatore per uno studio sulla criminalità in
Dalmazia ed Albania. Sia conveniente fare una considerazione di carattere
generale e di metodologia: non riduciamo la documentazione processuale a mero
ed univoco strumento di indagine sulla sola giustizia penale. Come ha ben
rilevato Claudio Povolo, il processo è “fonte spesso insostituibile”
nell’ambito di uno studio storico-sociologico di un territorio o di una
comunità. Per tutti, basti pensare allo splendido affresco di una intera
“cultura popolare” fatto da Carlo Ginzburg nel volume “Il formaggio e i vermi”
proprio partendo dalla vicenda processuale del mugnaio Menocchio, inquisito dal
Santo Uffizio alla fine del ‘500. Ritornando a queste fonti, preziose e
poliedriche, all’archivio del vero e proprio Consiglio di Dieci appartiene la
serie dei “Processi Criminali delegati”, composta complessivamente di 604 buste
di incartamenti processuali, cronologicamente solo dal 1750 in poi (per le
già citate ragioni), ripartite per le principali città o
territori del dominio da Terra e da Mar[17].
Per la Dalmazia e Albania ci sono pervenute 32 buste per complessivi 129 incartamenti
processuali. Scorrendo i capi di imputazione, al primo posto è
l’omicidio (27), spesso perpetrato in famiglia o a scopo di vendetta, o come
aggravante di un tentativo di furto. Seguono poi le “violenze” (26), venendo
queste onnicomprensivamente ad identificare molestie, più o meno
efferate, commesse in famiglia, o contro le pubbliche autorità, o contro
la popolazione, talora corrispondenti a “tentativi” falliti di omicidio.
Seguono poi statisticamente gli incendi dolosi, contro beni dello Stato, ad
esempio i boschi[18], o contro
beni di privati, probabilmente a scopo di vendetta personale o per
rappresaglia. Al quarto posto gli “abusi di potere”, ovvero irregolarità
commesse da pubblici rappresentanti – laici, militari ma anche religiosi –
nell’esercizio del loro ufficio (11). I restanti capi d’imputazione si spargono
tra “frodi” (9), comprensive di frodi daziarie ma anche di falsi monetari;
“sedizioni”, ovvero formazioni di vere e proprie “bande armate” a scopo di
taglieggiamento nei confronti delle popolazioni piuttosto che di opposizione al
sistema politico (9), “offese alla religione”, cioè bestemmie e altri
atteggiamenti contrari alla dottrina cristiana (7), furti, anche sacrileghi (5)
(ma la bassa incidenza non deve trarre in inganno, essendo quasi sempre il
furto presente anche nei processi per omicidio), violenze e sedizioni,
“intacco” cioè frode alle casse di un ufficio pubblico o di altra
istituzione, è la nostra appropriazione indebita (5), deflorazione (3),
ammutinamento (2), incesto, anche con l’aggravamento di infanticidio (2).
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Per personale verifica, devo dire chhe il panorama criminoso di questi
territori, malgrado la cattiva fama corrente nella Dominante e riferita
poc’anzi, poco si distoglie da quello di altre province del dominio da Terra, come ad esempio il rettorato
bresciano, anch’esso terra di confine, dove sembrano pullulare bande armate al
seguito di signorotti locali o composte da fuoriusciti, banditi da strada,
malviventi pronti a tutto per sopravvivere[19].
Ai Capi del Consiglio di Dieci è invece da riferirsi la serie “Processi
e Carte criminali”, organizzata per località o per magistratura
delegata, comprendente anche due buste attribuite al “Provveditore Generale in
Dalmazia ed Albania”, per il periodo 1507-1764. Purtroppo tale documentazione[20]
molto raramente comprende interi e completi incartamenti. Trattasi per lo
più di “frammenti” in materia penale, quali denuncie, informazioni,
costituti, capitoli a difesa. Ma, nella scarsità della documentazione
non vanno neppur essi ignorati.
Le serie processuali testé citate pootranno – anzi dovranno – essere
integrate dalla consultazione delle Parti,
ovvero delle deliberazioni, emesse dal Consiglio di Dieci ad esse attinenti e
conservate nelle serie dei registri, e rispettive filze, dei “Comuni” e dei
“Criminali”, nonché dalle lettere periodicamente inviate dai Provveditori
Generali ai Capi del Consiglio di Dieci, che, a differenza di quelle conservate
negli archivi del Senato e nella serie specifica dei “Provveditori da Terra e
da Mar”[21],
informavano il Consiglio centrale sull’andamento dell’ordine pubblico, sulla
criminalità e sull’amministrazione giudiziaria[22].
Ed infine la serie delle “Raspe dei Rettori e altre cariche”, attribuibile
all’archivio proprio del Camerlengo del Consiglio di Dieci[23].
Tale documentazione trae origine dal contributo fisso che spettava alla Cassa
del Consiglio su tutte le sentenze emesse in processi da esso delegati, sia con
procedura ordinaria, o servatis servandis,
o con proprio rito di segretezza[24].
La serie è ordinata alfabeticamente per località o per
magistratura, all’interno in ordine cronologico, ed è composta
complessivamente di 67 buste[25].
Al Provveditore Generale in Dalmazia ed Albania corrispondono le buste numerate
23 e 24, comprendenti le raspe dei Provveditori Francesco Grimani, Alvise
Contarini III, Domenico
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Condulmer,
Giacomo Da Riva, Giacomo Gradenigo, Alvise Foscari III, Paolo Boldù,
Alvise Marin, per gli anni dal 1753 al 1795 (purtroppo con lacune). Con
quest’ultima segnalazione concludo questo mio intervento di carattere
squisitamente archivistico, nella speranza di aver adeguatamente solleticato il
vostro desiderio di conoscenza storica anche attraverso nuove vie di ricerca,
ricordando comunque che gli Archivi, per loro stessa natura, rappresentano non uno itinere, ma mille e mille
ricchissimi percorsi, talvolta ancora inesplorati.
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e ricerca umanistica 5 (2003), edited by ªerban Marin, Rudolf Dinu, Ion
Bulei and Cristian Luca, Bucharest, 2004
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© ªerban Marin, March 2004, Bucharest, Romania
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