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Annuario 2004-2005
p. 171
Michela Dal Borgo,
Archivio di Stato di Venezia
Nel panorama della storia europea della seconda
metà del XV secolo non si può negare che la Repubblica di Venezia
fu potenza di primo piano nel difficile gioco di alterne vicende,
politico-militari, che comincia ad intravedere – e a dover affrontare – la
grande , insanabile contrapposizione tra Occidente cristiano e Oriente
islamico. Venezia, si vede giocoforza costretta a difendere il suo dominio
marittimo nel bacino mediterraneo e pure i territori della terraferma, tra la
pianura padana e le cinte alpine. Ma al di là dei grandi eventi storici,
l’intero ‘400 rappresenta per la Serenissima il secolo più significativo
per la definitiva strutturazione del suo apparato di amministrazione, nella
complessità di consigli, uffici, magistrature affidati ad un ristretto
gruppo di famiglie patrizie a cui , con la Serrata del Maggior Consiglio del
1297, era stato completamente affidato il governo dell’aristocratica
Repubblica. Al vertice il Dux Veneciarum che dopo un macchinoso sistema
di elezione per evitare inganni, alla nomina giurava su una Promissione,
codice che ne regolava e soprattutto conteneva i poteri, e che dopo la morte
era oggetto di una vera e propria indagine per verificare suoi eventuali abusi
di potere. Nondimeno il Doge è figura – personificazione della
Serenissima, protagonista della quotidiana vita politica, in continuo dialogo,
nell’iconografia e nella monetazione, con il protettore San Marco, vero simbolo
vivente depositario e garante della legge e della giustizia. Ma dietro il
simulacro statuale vi sono straordinarie figure di uomini forti, dal carattere
deciso, capaci di spaziare dalla cultura, alla diplomazia, al commercio, alle
attività militari. Sempre uomini però, con le loro passioni, vizi
e virtù, debolezze e ingegnosità. Ciò che mi ha colpito e
fatto decidere sull’argomento da trattare è la casuale cronologia tra
l’anno di ascesa al trono e quello di morte di Stefano il Grande, con la morte
di Francesco Foscari e il dogato di Leonardo Loredan, due tra i Dogi veneziani
che più hanno personalmente segnato le direttive e l’operato del governo
della Repubblica di San Marco.
Francesco Foscari (1374 ca.-1 novembre 1457, Doge dal 16
aprile 1423 al 23 ottobre 1457), eletto Doge a 49 anni, mantenne fermamente il
potere per ben 34 anni, anni funestati da continui conflitti ma che videro pure
un aumento notevole dei possedimenti della Serenissima nella Terraferma. Dotato
di una straordinaria personalità – fu per speciale divina volontà
adatto al governo della Repubblica ed al peso delle fatiche che aveva a
sostenere – influì pesantemente nelle scelte politiche dello Stato,
riscuotendo prestigio e gloria personali. Triste la fine del Doge Foscari,
deposto alla veneranda età di 84 anni perché reputato non più
fisicamente in grado di ben governare la res publica e lacerato
nell’intimo dall’esilio e dalla morte dell’amato figlio Jacopo, condannato per
aver cospirato contro la Repubblica. Ma noi preferiamo ricordarlo con le parole
di Bernardo Giustinian, che lo descrive mentre parla in Senato: sollevandosi
con tutta la persona si scagliava contro i malvagi; vedeste il regale aspetto e
il contegno meraviglioso dei guardi e degli accenti,
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e
quasi faci di sdegno di terrore e di odio, con la singolare e quasi divina sua
eloquenza, suscitasse negli animi di tutti, quando poi – il che solea fare
spesso e con ogni decenza – lasciava dalla spalla sinistra cadere la toga, che raccoglieva
sotto alla sinistra, affinché più liberamente, quasi dardo, agitasse il
braccio, con occhi fissi, con acerbo volto, con alta voce e sonora; allora
pareva che tremassero quasi e traballassero i muri delle sale e risuonassero
folgori e tuoni, come, per ricordanza di Aristofane, abbiamo che al perorar di
Pericle avvenisse.
Il suo successore, Pasquale Malipiero (1392 ca.-1462,
Doge dal 30 ottobre 1457 al 5 maggio 1462), membro di una casata contraria ai
Foscari, eletto a 65 anni, fu uomo amante della pace, per lo Stato come per se
stesso. Ma più per mediocrità che per profonda convinzione, come
anche testimoniato dal suo pronipote Domenico: “reussì [riuscì]
felicemente in tutte le cose con honor e utile della terra. Fo homo giusto,
grave de aspetto, de bella maniera, de mezzana statura e de mediocre
facultà. No fo fatto in so [suo] tempo cosa degna de memoria”. Anche la
scritta che orna il suo ritratto nella sala del Maggior Consiglio di Palazzo
Ducale rispecchia il suo operato: “Me duce pax patriae data est et tempora
fausta”. Non di meno fu uomo che amava le gioie della vita, come testimoniano
le feste per la sua elezione e per quella della dogaressa Giovanna Dandolo,
l’abitudine di vestirsi di seta senza il pesante manto, e un certo debole per
il gentil sesso, sovente, raccontano le cronache, giunto a buon fine.
A succedergli, nel 1462, fu Cristoforo Moro (1390
ca.-1471, Doge dal 12 maggio 1462 al 9 novembre 1471), piccolo di statura,
gracile nel fisico, guercio di un occhio. Ma anche uomo di buona cultura,
avendo frequentato lo Studio di Padova, collezionista di libri e manoscritti,
probabilmente destinato più ad una vita monastica che ad una intensa
carriera politica. Amico personale di San Bernardino da Siena, che gli predisse
l’elezione, fu Doge benedetto da Papa Pio II, Enea Silvio Piccolomini e dalla
curia romana. Con il Pontefice avrebbe dovuto partire nel 1464 per una nuova
crociata contro i Turchi ma la morte di Pio II lo fermò ad Ancona.
Morì nel novembre 1471 e negli Annali di Domenico Malipiero
è descritto “con pessima fama de tristo, ipocrita, vindicativo, duplice
et avaro et è sta malvogiuo [malvoluto] dal popolo. In so tempo la terra
ha sempre habù [avuto] spesa, guerre e tribolation”; nelle sue Vite,
Marino Sanudo riporta anche una poesia, in lingua latina, opera di un anonimo
contemporaneo:
“In Christophorrum Maurum venetum ducem
Impius hic situus est, crudelis, raptor, avarus,
Christophorum MMaurus, quem frater demon iniquus
Archa tenet corrpus. Vanissima pompa volavit
Exit aqua noduss: petit infera non rediturus”.
Ma verso lo Stato fu zelante nei suoi doveri, tanto da
meritarsi una medaglia con il motto religionis et justiciae cultor, e il
lascito di tutto il suo patrimonio, ai poveri e ad istituti pii, in assenza di
discendenti diretti, lo riscatta in parte dalla cattiva fama meritata da vivo.
Breve fu il dogado di Nicolò Tron (1399-1473, Doge dal 23 novembre 1471 al 28 luglio 1473, vero mercante, uomo d’affari – pure in odore d’usura – e grande
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proprietario
d’immobili. Doge a 72 anni, “era de grave natura, grosso, brutto de faza
[faccia, volto], con brutta pronuncia intanto che parlando spumava per labbri,
e dopo la tragica morte, a Negroponte, del figlio Giovanni, sopracomito di
galea, si era fatto crescere la barba”. Assicuratosi il possesso dell’isola di
Cipro, in una tregua nella perenne guerra contro il Turco, Nicolò Tron
riformò la moneta veneta, coniando tra l’altro la lira d’argento,
chiamata appunto “trono”. Il suo fu insomma un periodo di calma, come afferma
il Malipiero: “tutti s’ha contentà del so governo, perché in so tempo le
cose son passate assai felicemente”. Alla sua memoria dobbiamo il monumento
funebre forse più grandioso di tutto il Rinascimento, nella Cappella
Maggiore di Santa Maria Gloriosa dei Frari, opera di Antonio Rizzo. Molto
brevi, poco più di un anno, i dogadi di Nicolò Marcello e Pietro
Mocenigo.
Nicolò Marcello (1399 ca.-1474, Doge dal 13 agosto
1473 all’1 dicembre 1474), dopo lunghi anni di proficua attività
mercantile a Damasco, si dedicò alla vita politica sino a giungere
all’ambita carica di Procuratore di San Marco ed infine, a 74 anni, al soglio
dogale. Fu uomo giusto, pietoso, di carattere naturalmente buono ed affettuoso.
Incline alla pace, non brillò per doti intellettuali ma si dedicò
con serietà all’amministrazione finanziaria, come tramandatoci da
Ermolao Barbaro: “con tanta lealtà e con tanta diligenza
amministrò… che l’erario, comunque sinora per giusti motivi spremuto al
maggior segno, pareva quinci non potersi votare [vuotare] mai”. Il contemporaneo
Malipiero testimonia che esigeva, di giorno in giorno, gli esatti importi di
quanto veniva riscosso e speso senza decreto, ovvero senza autorizzazione
dell’autorità dello Stato. Durante il suo dogato fu coniata la mezza
lira d’argento, che anche in seguito fu indicata con il nome di marcello. Come
contrappasso, fu altrettanto amante dei fasti e del lusso e fu il primo Doge a
vestire tutto d’oro. Colto da malore durante una pubblica processione, fu
pianto con gran dolore di tutta la città per essere stato un realissimo
principe.
Pietro Mocenigo (1405 ca.-1476, Doge dal 14 dicembre 1474
al 23 febbraio 1476), fu grande Doge guerriero. Appena adolescente si distinse
nella flotta veneziana da guerra, giungendo alla massima carica di Capitano
generale da Mar, coprendosi di gloria nelle imprese contro l’impero Ottomano.
Le sua gesta, soprattutto la presa di Smirne e la liberazione di Scutari,
furono tramandate nella pittura e nella letteratura celebrative. Ma fu
tutt’altro che un semplice marinaio, seppure di eccelso livello. Uomo colto, di
rara intelligenza, liberale, di fluida eloquenza, si distinse pure
nell’amministrazione della giustizia. Eletto all’età di 69 anni, con
grande sostegno del popolo come ricordato anche dall’iscrizione a Palazzo Ducale
– Patrum consensu populi dux voce creatus – morì dopo soli 14
mesi, sfibrato nel fisico dalla malaria, che comunque non gli impedì,
sino all’ultimo, di coricarsi con due giovani schiave turche, come ci ha
malignamente tramandato l’ambasciatore milanese a Venezia. Come da disposizioni
contenute nel suo testamento – poiché il Mocenigo morì senza figli
legittimi dal breve matrimonio contratto con Laura Zorzi, ma con un maschio
illegittimo, pure figlio di una turca e che diventerà priore della Ca’
di Dio – le due predette ancelle, Agnese e Lena, saranno affrancate entro
quattro anni e dotate di un lascito di cinquanta ducati d’oro. Il monumento
funebre, ai santi Giovanni e Paolo, eretto grazie alle sue prede di guerra,
opera di Pietro Lombardo e dei figli Antonio
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e
Tullio, lo mostra eretto, fiero in volto, con l’armatura sotto il mantello
generalizio, sovrastando sei statue di guerrieri in costume romano.
Andrea Vendramin (1393 ca.-1478, Doge dal 5 marzo 1476 al
6 maggio 1478), di una casata aggregata al patriziato per meriti acquisiti in
occasione della guerra di Chioggia del 1381, fu eletto Doge nel 1476, alla
veneranda età di 83 anni. La relativamente recente nobiltà della
famiglia generò il malevolo commento: “non aveva altri da far dose che
un casaruol [= un venditore di biade]”. Di bell’aspetto, nella giovinezza, pur
non tralasciando lo studio delle lettere e delle arti liberali, si
dedicò alla cura del corpo attraverso attenti esercizi fisici, che ne
fecero un ottimo schermitore. Non trascurò neppure il patrimonio di
famiglia che, per mezzo di oculati commerci con Alessandria d’Egitto, lo
portarono ad essere uno dei patrizi più ricchi della Dominante, con
eterna gratitudine sia di altri nobili che aveva favorito ma soprattutto delle
sei figlie avute da Regina Gradenigo che, generosamente dotate, contrassero
importanti, se non sempre amorosi, matrimoni. La sua vita ed il suo operare
sono ben compendiati da questo sonetto di gusto popolare:
“In tutte le suue cose fu felice:
nel’ età; giovanil fu il più avvenente
di quanti gentiiluomini ci fussero.
Ebbe molti figllioli di gran conto
Eccellenti in vvirtute et in valore
Ebbe pure moltee figlie maritate
Nelle altre casse migliori della patria […]
di facolt&agravve; e ricchezze era ricolmo
piacevole per&oograve; e cortese molto”.
A succedergli, nel 1478, fu ancora un Mocenigo – Giovanni (1409
ca.-1485, Doge dal 18 maggio 1478 al 4 novembre 1485) – fratello minore del
ricordato Doge Pietro, “homo quieto, human, liberal, destro e giusto”, come afferma
il Malipiero. Aveva sposato una sua nipote, Taddea, figlia della sorella Lucia,
che perì nell’epidemia di peste nel 1479. Il doge stesso morì in
sospetto di peste nel 1485 e frettolosamente sepolto. Durante il suo dogato fu
firmato un accordo di pace con i Turchi, dopo ben sedici anni di guerra, ma
Venezia fu pure impegnata militarmente in Italia, a difesa di Firenze prima,
contro il Duca di Ferrara poi.
In pieno imperversare della peste, a 72 anni fu eletto Doge Marco
Barbarigo (1413 ca.-1486, Doge dal 19 novembre 1485 al 14 agosto 1486), dal
lungo collo, membro di una delle casate più antiche, ricche e potenti
della Serenissima, che leggenda vuole prendere il nome da un avo, certo Arrigo,
che dopo aver sconfitto i saraceni si fece una collana con le loro barbe, barbe
che, in numero di sei, compaiono pure nello stemma gentilizio. Marco Barbarigo,
“huomo de gran memoria, giusto e savio”, chiamato il ricco per le grandi
disponibilità economiche, usò i propri mezzi per il bene della res
publica, procacciandosi il favore degli avversari e agevolando gli alleati.
Forse a lui dobbiamo la fine della divisione, all’interno del patriziato
veneziano, tra le fazioni di guelfi e ghibellini. Legatissimo al fratello
Agostino, narra Marino Sanudo che la sua morte fu proprio in conseguenza di un
violento alterco avuto con lo stesso in Senato, che così profeticamente
accusò: “Messer
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Agostino voi fate ogni cosa,
perché noi muoiamo, per succedere in nostro luogo, ma se la terra conoscesse
così bene come facciamo noi la persona vostra, si sceglierebbe
più presto un altro”. Ma il saggio consiglio non fu ascoltato e il suo
successore, nell’agosto 1486, fu proprio il fratello Agostino (1420 ca.-1501,
Doge dal 30 agosto 1486 al 20 settembre 1501), sebbene con scrutinio lungo e
contrastato. “Huomo de degna statura, de admiranda prexentia et non veduta la
tale a li tempi nostri” riporta encomiasticamente il Priuli, ottimo principe,
che per la venerabile Maestà e decoro dell’aspetto suo, portava anche
nella faccia la ragione della sua dignità testimonia pure il seicentesco
storico Alessandro Maria Vianoli, aveva un curioso intercalare: “havè
[abbiate] bona volontà e bona disposition”. Dal carattere fermo ma
pacato, abilissimo e diplomatico nel sedare le controversie, era uomo di vasta
cultura, di ferrea memoria, di fluente eloquenza. Ma fu anche uomo ambizioso,
superbo, ben conscio della propria dignità di Doge – al punto di aver
reintrodotto l’uso del baciamano – sensibile a doni ed omaggio di valore,
amante del buon vino e delle vesti di pelliccia. Compiacente con famigliari ed
amici non esitò a vessare città suddite e privati cittadini. Non
fu insomma Doge ossequiante la Promissione, e la lunghissima inchiesta
sul suo operato rivelò maneggi, usure, debiti insoluti, che però,
lui vivente, nessuno aveva avuto il coraggio di denunciare. E come per le
monete c’è un recto ed un verso, queste comprovate accuse dopo la sua
morte oscurarono pure la sua fama ai posteri, “aliter saria stato delli
degnissimi principi avesse mai abutto la repubblica Venetta”, come affermato
ancora dal Priuli.
Leonardo Loredan (1436-1521, Doge dal 2 ottobre 1501 al 22 giugno
1521), eletto nel 1501, guidò la Serenissima per ben venti anni, anni
difficili e di alterne fortune, che videro Venezia - contrapposta all’intera
Europa, coalizzata nella Lega di Cambray – perdere tutti i suoi possedimenti in
Terraferma, per poi recuperarli attraverso un’abile azione diplomatica, e pure
ad espanderli verso Oriente. Il Loredan, che sin dalla fanciullezza dimostrò
una certa singolare venustà, congiunta con la bontà e colla
mobilissima indole dell’ingegno come tramandato da Andrea Navagero, non si
distinse in azioni militari, poco dotato fisicamente, anzi macilento de carne,
tutto spirito e statura grande, de poca prosperità, ma fu uomo
imparziale e severo, oratore convincente più che brillante, morigerato
nei costumi sebbene portato naturalmente alla collera che seppe però
sempre tenere a freno nell’amministrazione della res publica. Lo
splendido ritratto di Gentile Bellini, conservato alla National Gallery di
Londra, riesce ancor oggi, a trasmetterci tutte queste peculiari
caratteristiche.
Bibliografia:
Barbaro E., >Orazione in morte del doge
Nicolò Marcello, in Orazioni, elogi e vite scritti da letterati
veneti e patrizi, Venezia, 1798.
Da Mosto A.,
Da Mosto A.,
Giustinian B., Orazione funebre nelle esequie di
Francesco Foscari, in Orazioni, elogi e vite scritti da letterati veneti
e patrizi, Venezia, 1798.
p. 176
Malipiero D., <Annali veneti dall’anno 1457 al
1500, a cura di Agostino Sagredo, in “Archivio Storico Italiano”, tomo VII,
Firenze, 1843-1844.
Navagero A.,
Priuli G., DDiari (1494-1512), a cura di A.
Segre e R. Cessi, in Rerum italicarum scriptores, tomo XXIV, Milano,
1941, p. III e seguenti.
Sanudo M., VVitae Ducum Venetorum italice ab
origine Urbis sive ab anno CCCCXXI usque ad annum MCCCCXCIII, in Rerum
italicarum scriptores, tomo XXII.
Vianoli A. M., Historia Veneta, Venezia,
1680.
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Gabriela Bãdeliþã, Venice-Bucharest 2005.
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October 2005, Bucharest, Romania
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