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In Senatu senator, in foro civis, in habitu princeps:

i Dogi di Venezia al tempo di Stefano il Grande (1457-1504)

 

 

Michela  Dal  Borgo,

Archivio di Stato di Venezia

 

Nel panorama della storia europea della seconda metà del XV secolo non si può negare che la Repubblica di Venezia fu potenza di primo piano nel difficile gioco di alterne vicende, politico-militari, che comincia ad intravedere – e a dover affrontare – la grande , insanabile contrapposizione tra Occidente cristiano e Oriente islamico. Venezia, si vede giocoforza costretta a difendere il suo dominio marittimo nel bacino mediterraneo e pure i territori della terraferma, tra la pianura padana e le cinte alpine. Ma al di là dei grandi eventi storici, l’intero ‘400 rappresenta per la Serenissima il secolo più significativo per la definitiva strutturazione del suo apparato di amministrazione, nella complessità di consigli, uffici, magistrature affidati ad un ristretto gruppo di famiglie patrizie a cui , con la Serrata del Maggior Consiglio del 1297, era stato completamente affidato il governo dell’aristocratica Repubblica. Al vertice il Dux Veneciarum che dopo un macchinoso sistema di elezione per evitare inganni, alla nomina giurava su una Promissione, codice che ne regolava e soprattutto conteneva i poteri, e che dopo la morte era oggetto di una vera e propria indagine per verificare suoi eventuali abusi di potere. Nondimeno il Doge è figura – personificazione della Serenissima, protagonista della quotidiana vita politica, in continuo dialogo, nell’iconografia e nella monetazione, con il protettore San Marco, vero simbolo vivente depositario e garante della legge e della giustizia. Ma dietro il simulacro statuale vi sono straordinarie figure di uomini forti, dal carattere deciso, capaci di spaziare dalla cultura, alla diplomazia, al commercio, alle attività militari. Sempre uomini però, con le loro passioni, vizi e virtù, debolezze e ingegnosità. Ciò che mi ha colpito e fatto decidere sull’argomento da trattare è la casuale cronologia tra l’anno di ascesa al trono e quello di morte di Stefano il Grande, con la morte di Francesco Foscari e il dogato di Leonardo Loredan, due tra i Dogi veneziani che più hanno personalmente segnato le direttive e l’operato del governo della Repubblica di San Marco.

Francesco Foscari (1374 ca.-1 novembre 1457, Doge dal 16 aprile 1423 al 23 ottobre 1457), eletto Doge a 49 anni, mantenne fermamente il potere per ben 34 anni, anni funestati da continui conflitti ma che videro pure un aumento notevole dei possedimenti della Serenissima nella Terraferma. Dotato di una straordinaria personalità – fu per speciale divina volontà adatto al governo della Repubblica ed al peso delle fatiche che aveva a sostenere – influì pesantemente nelle scelte politiche dello Stato, riscuotendo prestigio e gloria personali. Triste la fine del Doge Foscari, deposto alla veneranda età di 84 anni perché reputato non più fisicamente in grado di ben governare la res publica e lacerato nell’intimo dall’esilio e dalla morte dell’amato figlio Jacopo, condannato per aver cospirato contro la Repubblica. Ma noi preferiamo ricordarlo con le parole di Bernardo Giustinian, che lo descrive mentre parla in Senato: sollevandosi con tutta la persona si scagliava contro i malvagi; vedeste il regale aspetto e il contegno meraviglioso dei guardi e degli accenti,

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e quasi faci di sdegno di terrore e di odio, con la singolare e quasi divina sua eloquenza, suscitasse negli animi di tutti, quando poi – il che solea fare spesso e con ogni decenza – lasciava dalla spalla sinistra cadere la toga, che raccoglieva sotto alla sinistra, affinché più liberamente, quasi dardo, agitasse il braccio, con occhi fissi, con acerbo volto, con alta voce e sonora; allora pareva che tremassero quasi e traballassero i muri delle sale e risuonassero folgori e tuoni, come, per ricordanza di Aristofane, abbiamo che al perorar di Pericle avvenisse.

Il suo successore, Pasquale Malipiero (1392 ca.-1462, Doge dal 30 ottobre 1457 al 5 maggio 1462), membro di una casata contraria ai Foscari, eletto a 65 anni, fu uomo amante della pace, per lo Stato come per se stesso. Ma più per mediocrità che per profonda convinzione, come anche testimoniato dal suo pronipote Domenico: “reussì [riuscì] felicemente in tutte le cose con honor e utile della terra. Fo homo giusto, grave de aspetto, de bella maniera, de mezzana statura e de mediocre facultà. No fo fatto in so [suo] tempo cosa degna de memoria”. Anche la scritta che orna il suo ritratto nella sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale rispecchia il suo operato: “Me duce pax patriae data est et tempora fausta”. Non di meno fu uomo che amava le gioie della vita, come testimoniano le feste per la sua elezione e per quella della dogaressa Giovanna Dandolo, l’abitudine di vestirsi di seta senza il pesante manto, e un certo debole per il gentil sesso, sovente, raccontano le cronache, giunto a buon fine.

A succedergli, nel 1462, fu Cristoforo Moro (1390 ca.-1471, Doge dal 12 maggio 1462 al 9 novembre 1471), piccolo di statura, gracile nel fisico, guercio di un occhio. Ma anche uomo di buona cultura, avendo frequentato lo Studio di Padova, collezionista di libri e manoscritti, probabilmente destinato più ad una vita monastica che ad una intensa carriera politica. Amico personale di San Bernardino da Siena, che gli predisse l’elezione, fu Doge benedetto da Papa Pio II, Enea Silvio Piccolomini e dalla curia romana. Con il Pontefice avrebbe dovuto partire nel 1464 per una nuova crociata contro i Turchi ma la morte di Pio II lo fermò ad Ancona. Morì nel novembre 1471 e negli Annali di Domenico Malipiero è descritto “con pessima fama de tristo, ipocrita, vindicativo, duplice et avaro et è sta malvogiuo [malvoluto] dal popolo. In so tempo la terra ha sempre habù [avuto] spesa, guerre e tribolation”; nelle sue Vite, Marino Sanudo riporta anche una poesia, in lingua latina, opera di un anonimo contemporaneo:

 

“In Christophorrum Maurum venetum ducem

Impius hic situus est, crudelis, raptor, avarus,

Christophorum MMaurus, quem frater demon iniquus

Archa tenet corrpus. Vanissima pompa volavit

Exit aqua noduss: petit infera non rediturus”.

 

Ma verso lo Stato fu zelante nei suoi doveri, tanto da meritarsi una medaglia con il motto religionis et justiciae cultor, e il lascito di tutto il suo patrimonio, ai poveri e ad istituti pii, in assenza di discendenti diretti, lo riscatta in parte dalla cattiva fama meritata da vivo.

Breve fu il dogado di Nicolò Tron (1399-1473, Doge dal 23 novembre 1471 al 28 luglio 1473, vero mercante, uomo d’affari – pure in odore d’usura – e grande

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proprietario d’immobili. Doge a 72 anni, “era de grave natura, grosso, brutto de faza [faccia, volto], con brutta pronuncia intanto che parlando spumava per labbri, e dopo la tragica morte, a Negroponte, del figlio Giovanni, sopracomito di galea, si era fatto crescere la barba”. Assicuratosi il possesso dell’isola di Cipro, in una tregua nella perenne guerra contro il Turco, Nicolò Tron riformò la moneta veneta, coniando tra l’altro la lira d’argento, chiamata appunto “trono”. Il suo fu insomma un periodo di calma, come afferma il Malipiero: “tutti s’ha contentà del so governo, perché in so tempo le cose son passate assai felicemente”. Alla sua memoria dobbiamo il monumento funebre forse più grandioso di tutto il Rinascimento, nella Cappella Maggiore di Santa Maria Gloriosa dei Frari, opera di Antonio Rizzo. Molto brevi, poco più di un anno, i dogadi di Nicolò Marcello e Pietro Mocenigo.

Nicolò Marcello (1399 ca.-1474, Doge dal 13 agosto 1473 all’1 dicembre 1474), dopo lunghi anni di proficua attività mercantile a Damasco, si dedicò alla vita politica sino a giungere all’ambita carica di Procuratore di San Marco ed infine, a 74 anni, al soglio dogale. Fu uomo giusto, pietoso, di carattere naturalmente buono ed affettuoso. Incline alla pace, non brillò per doti intellettuali ma si dedicò con serietà all’amministrazione finanziaria, come tramandatoci da Ermolao Barbaro: “con tanta lealtà e con tanta diligenza amministrò… che l’erario, comunque sinora per giusti motivi spremuto al maggior segno, pareva quinci non potersi votare [vuotare] mai”. Il contemporaneo Malipiero testimonia che esigeva, di giorno in giorno, gli esatti importi di quanto veniva riscosso e speso senza decreto, ovvero senza autorizzazione dell’autorità dello Stato. Durante il suo dogato fu coniata la mezza lira d’argento, che anche in seguito fu indicata con il nome di marcello. Come contrappasso, fu altrettanto amante dei fasti e del lusso e fu il primo Doge a vestire tutto d’oro. Colto da malore durante una pubblica processione, fu pianto con gran dolore di tutta la città per essere stato un realissimo principe.

Pietro Mocenigo (1405 ca.-1476, Doge dal 14 dicembre 1474 al 23 febbraio 1476), fu grande Doge guerriero. Appena adolescente si distinse nella flotta veneziana da guerra, giungendo alla massima carica di Capitano generale da Mar, coprendosi di gloria nelle imprese contro l’impero Ottomano. Le sua gesta, soprattutto la presa di Smirne e la liberazione di Scutari, furono tramandate nella pittura e nella letteratura celebrative. Ma fu tutt’altro che un semplice marinaio, seppure di eccelso livello. Uomo colto, di rara intelligenza, liberale, di fluida eloquenza, si distinse pure nell’amministrazione della giustizia. Eletto all’età di 69 anni, con grande sostegno del popolo come ricordato anche dall’iscrizione a Palazzo Ducale – Patrum consensu populi dux voce creatus – morì dopo soli 14 mesi, sfibrato nel fisico dalla malaria, che comunque non gli impedì, sino all’ultimo, di coricarsi con due giovani schiave turche, come ci ha malignamente tramandato l’ambasciatore milanese a Venezia. Come da disposizioni contenute nel suo testamento – poiché il Mocenigo morì senza figli legittimi dal breve matrimonio contratto con Laura Zorzi, ma con un maschio illegittimo, pure figlio di una turca e che diventerà priore della Ca’ di Dio – le due predette ancelle, Agnese e Lena, saranno affrancate entro quattro anni e dotate di un lascito di cinquanta ducati d’oro. Il monumento funebre, ai santi Giovanni e Paolo, eretto grazie alle sue prede di guerra, opera di Pietro Lombardo e dei figli Antonio

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e Tullio, lo mostra eretto, fiero in volto, con l’armatura sotto il mantello generalizio, sovrastando sei statue di guerrieri in costume romano.

Andrea Vendramin (1393 ca.-1478, Doge dal 5 marzo 1476 al 6 maggio 1478), di una casata aggregata al patriziato per meriti acquisiti in occasione della guerra di Chioggia del 1381, fu eletto Doge nel 1476, alla veneranda età di 83 anni. La relativamente recente nobiltà della famiglia generò il malevolo commento: “non aveva altri da far dose che un casaruol [= un venditore di biade]”. Di bell’aspetto, nella giovinezza, pur non tralasciando lo studio delle lettere e delle arti liberali, si dedicò alla cura del corpo attraverso attenti esercizi fisici, che ne fecero un ottimo schermitore. Non trascurò neppure il patrimonio di famiglia che, per mezzo di oculati commerci con Alessandria d’Egitto, lo portarono ad essere uno dei patrizi più ricchi della Dominante, con eterna gratitudine sia di altri nobili che aveva favorito ma soprattutto delle sei figlie avute da Regina Gradenigo che, generosamente dotate, contrassero importanti, se non sempre amorosi, matrimoni. La sua vita ed il suo operare sono ben compendiati da questo sonetto di gusto popolare:

 

“In tutte le suue cose fu felice:

nel’ età; giovanil fu il più avvenente

di quanti gentiiluomini ci fussero.

Ebbe molti figllioli di gran conto

Eccellenti in vvirtute et in valore

Ebbe pure moltee figlie maritate

Nelle altre casse migliori della patria […]

di facolt&agravve; e ricchezze era ricolmo

piacevole per&oograve; e cortese molto”.

 

A succedergli, nel 1478, fu ancora un Mocenigo – Giovanni (1409 ca.-1485, Doge dal 18 maggio 1478 al 4 novembre 1485) – fratello minore del ricordato Doge Pietro, “homo quieto, human, liberal, destro e giusto”, come afferma il Malipiero. Aveva sposato una sua nipote, Taddea, figlia della sorella Lucia, che perì nell’epidemia di peste nel 1479. Il doge stesso morì in sospetto di peste nel 1485 e frettolosamente sepolto. Durante il suo dogato fu firmato un accordo di pace con i Turchi, dopo ben sedici anni di guerra, ma Venezia fu pure impegnata militarmente in Italia, a difesa di Firenze prima, contro il Duca di Ferrara poi.

In pieno imperversare della peste, a 72 anni fu eletto Doge Marco Barbarigo (1413 ca.-1486, Doge dal 19 novembre 1485 al 14 agosto 1486), dal lungo collo, membro di una delle casate più antiche, ricche e potenti della Serenissima, che leggenda vuole prendere il nome da un avo, certo Arrigo, che dopo aver sconfitto i saraceni si fece una collana con le loro barbe, barbe che, in numero di sei, compaiono pure nello stemma gentilizio. Marco Barbarigo, “huomo de gran memoria, giusto e savio”, chiamato il ricco per le grandi disponibilità economiche, usò i propri mezzi per il bene della res publica, procacciandosi il favore degli avversari e agevolando gli alleati. Forse a lui dobbiamo la fine della divisione, all’interno del patriziato veneziano, tra le fazioni di guelfi e ghibellini. Legatissimo al fratello Agostino, narra Marino Sanudo che la sua morte fu proprio in conseguenza di un violento alterco avuto con lo stesso in Senato, che così profeticamente accusò: “Messer

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Agostino voi fate ogni cosa, perché noi muoiamo, per succedere in nostro luogo, ma se la terra conoscesse così bene come facciamo noi la persona vostra, si sceglierebbe più presto un altro”. Ma il saggio consiglio non fu ascoltato e il suo successore, nell’agosto 1486, fu proprio il fratello Agostino (1420 ca.-1501, Doge dal 30 agosto 1486 al 20 settembre 1501), sebbene con scrutinio lungo e contrastato. “Huomo de degna statura, de admiranda prexentia et non veduta la tale a li tempi nostri” riporta encomiasticamente il Priuli, ottimo principe, che per la venerabile Maestà e decoro dell’aspetto suo, portava anche nella faccia la ragione della sua dignità testimonia pure il seicentesco storico Alessandro Maria Vianoli, aveva un curioso intercalare: “havè [abbiate] bona volontà e bona disposition”. Dal carattere fermo ma pacato, abilissimo e diplomatico nel sedare le controversie, era uomo di vasta cultura, di ferrea memoria, di fluente eloquenza. Ma fu anche uomo ambizioso, superbo, ben conscio della propria dignità di Doge – al punto di aver reintrodotto l’uso del baciamano – sensibile a doni ed omaggio di valore, amante del buon vino e delle vesti di pelliccia. Compiacente con famigliari ed amici non esitò a vessare città suddite e privati cittadini. Non fu insomma Doge ossequiante la Promissione, e la lunghissima inchiesta sul suo operato rivelò maneggi, usure, debiti insoluti, che però, lui vivente, nessuno aveva avuto il coraggio di denunciare. E come per le monete c’è un recto ed un verso, queste comprovate accuse dopo la sua morte oscurarono pure la sua fama ai posteri, “aliter saria stato delli degnissimi principi avesse mai abutto la repubblica Venetta”, come affermato ancora dal Priuli.

Leonardo Loredan (1436-1521, Doge dal 2 ottobre 1501 al 22 giugno 1521), eletto nel 1501, guidò la Serenissima per ben venti anni, anni difficili e di alterne fortune, che videro Venezia - contrapposta all’intera Europa, coalizzata nella Lega di Cambray – perdere tutti i suoi possedimenti in Terraferma, per poi recuperarli attraverso un’abile azione diplomatica, e pure ad espanderli verso Oriente. Il Loredan, che sin dalla fanciullezza dimostrò una certa singolare venustà, congiunta con la bontà e colla mobilissima indole dell’ingegno come tramandato da Andrea Navagero, non si distinse in azioni militari, poco dotato fisicamente, anzi macilento de carne, tutto spirito e statura grande, de poca prosperità, ma fu uomo imparziale e severo, oratore convincente più che brillante, morigerato nei costumi sebbene portato naturalmente alla collera che seppe però sempre tenere a freno nell’amministrazione della res publica. Lo splendido ritratto di Gentile Bellini, conservato alla National Gallery di Londra, riesce ancor oggi, a trasmetterci tutte queste peculiari caratteristiche.

 

 

Bibliografia:

 

Barbaro E., >Orazione in morte del doge Nicolò Marcello, in Orazioni, elogi e vite scritti da letterati veneti e patrizi, Venezia, 1798.

Da Mosto A., I Dogi di Venezia con particolare riguardo alle loro tombe, Venezia, 1939.

Da Mosto A., I Dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano, 1966.

Giustinian B., Orazione funebre nelle esequie di Francesco Foscari, in Orazioni, elogi e vite scritti da letterati veneti e patrizi, Venezia, 1798.

p. 176

Malipiero D., <Annali veneti dall’anno 1457 al 1500, a cura di Agostino Sagredo, in “Archivio Storico Italiano”, tomo VII, Firenze, 1843-1844.

Navagero A., Oratio in funere Leonardi Lauretani ducis Venetiarum principis, in Nauagerii opera, Padova, 1718.

Priuli G., DDiari (1494-1512), a cura di A. Segre e R. Cessi, in Rerum italicarum scriptores, tomo XXIV, Milano, 1941, p. III e seguenti.

Sanudo M., VVitae Ducum Venetorum italice ab origine Urbis sive ab anno CCCCXXI usque ad annum MCCCCXCIII, in Rerum italicarum scriptores, tomo XXII.

Vianoli A. M., Historia Veneta, Venezia, 1680.

 

 

 

Other articles published in our periodicals by Michela Dal Borgo:

 

Il Levante di Venezia. Criminalità in Dalmazia ed Albania nel secolo XVIII: itinerari di ricerca nell’Archivio del Consiglio di Dieci

 

 

 

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© ªerban Marin, October 2005, Bucharest, Romania

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