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La Serbia e l’occupazione dei Principati Danubiani durante la crisi d’Oriente

del 1853-1856

 

Antonio D’Alessandri,

Università di Roma Tre

 

      Dopo il trionfo dell’offensiva delle Potenze conservatrici nel 1849, le popolazioni del Sud-est europeo si videro costrette a porre freno alle proprie iniziative indirizzate al conseguimento dell’indipendenza e alla creazione di uno Stato nazionale. In Moldavia e Valacchia, così come in Serbia, c’era bisogno di raccogliere le forze, consolidare le fragili istituzioni nazionali esistenti e cercare di salvaguardare i limitati margini d’autonomia concessi dalla Porta. In definitiva non si poteva rischiare di lanciarsi in avventure dall’esito incerto e che soprattutto avrebbero potuto compromettere i risultati fino a quel momento raggiunti.

        In questo studio saranno prese in esame alcune fra le più rilevanti vicende politiche che ebbero luogo nel piccolo Principato di Serbia durante i primi anni Cinquanta del secolo XIX nel tentativo di dimostrare come l’occupazione, dapprima russa e poi austriaca, della Moldavia e della Valacchia fu il risultato di un preciso disegno di politica estera di queste due Potenze che si contendevano l’egemonia sulla regione balcanica. In particolare si cercherà di ricostruire quel complesso intreccio di politica interna e politica estera che si risolse con l’occupazione dei Principati danubiani anziché con quella della Serbia come era stato progettato in un primo momento. 

        Due delle più importanti istanze politiche attorno alle quali si concentrò l’attenzione dei dirigenti serbi durante i primi anni Cinquanta del XIX secolo furono il confronto con la Russia, la cui influenza si fece sempre più opprimente, e la crisi internazionale che portò alla guerra di Crimea.

        In questi anni la politica estera di San Pietroburgo nei confronti della piccola Serbia divenne sempre più invadente. Essa rispondeva a una precisa strategia egemonica della Russia sulle popolazioni di religione ortodossa soggette alla Porta e sui territori da queste abitate. In gioco c’era una posta molto alta: il controllo di un’area estremamente importante dal punto di vista militare ed economico, poiché avrebbe consentito alla Russia di accedere liberamente ai porti del Mediterraneo e, in questo modo, di contrastare anche nel Sud dell’Europa l’egemonia economica anglosassone. Inoltre c’era in gioco anche il potenziale commerciale legato alla navigazione del Danubio, il controllo della foce di questo e, attraverso il Mar Nero e gli Stretti, il libero accesso al Mediterraneo orientale. In questo contesto dunque sia la Serbia che la Moldavia e la Valacchia costituivano delle regioni di assoluta importanza strategica sia dal punto di vista economico che militare. La politica russa legata alla questione d’Oriente, tuttavia, non prevedeva necessariamente la fine dell’Impero ottomano e il suo successivo smembramento, bensì il mantenimento dell’integrità territoriale di esso, una forte influenza della diplomazia zarista sul governo di Costantinopoli e l’imposizione di

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protettorati sulle popolazioni di religione ortodossa, soprattutto dei Balcani[1]. Fu solo con l’acutizzarsi, negli anni Cinquanta, della crisi d’Oriente che la politica russa verso l’Impero ottomano cambiò: fu ormai evidente che Nicola I aveva in mente un’azione aggressiva verso la Porta[2].

        I principi di questa strategia di penetrazione imperialistica, anche verso il Sud-est europeo e il Mediterraneo, erano pressappoco gli stessi che stavano alla base del regno di Nicola I e che trovarono espressione ideologica nella dottrina della “nazionalità ufficiale” proclamata nel 1833 dal conte Sergej Semenovič Uvarov, ministro dell’Istruzione dello zar, la quale si articolava in tre concetti: ortodossia, autocrazia e nazionalità (narodnost). Quest’ultima, sebbene piuttosto indefinita, sarebbe da intendersi come un sentimento generale di orgoglio nazionale e supremazia degli interessi della Russia in Europa in base al riconoscimento del suo ruolo storico e morale nell’ambito soprattutto della grande famiglia cristiana ortodossa[3].

        In Serbia, durante il regno del principe Aleksandar Karađorđević (1843-1858) questa già pluridecennale[4] politica di prestigio della Russia aveva dato i suoi frutti: le simpatie verso quel Paese erano ben radicate fra i politici e diffuse nella popolazione[5]. Tuttavia Ilija Garašanin, il maggiore uomo politico della Serbia ottocentesca, non la pensava così. Egli considerava la Russia una potenziale minaccia per la Serbia. Se lo zar avesse realizzato i suoi progetti nei Balcani, il Principato, anziché diventare veramente indipendente, sarebbe stato inghiottito dall’imperialismo russo e ciò poteva essere evitato, secondo Garašanin, solamente attraverso la creazione o di un forte Stato serbo o di una federazione di Stati balcanici capaci di preservare la loro indipendenza[6]. L’Impero ottomano, secondo il ministro degli Interni serbo, doveva restare in piedi fino a quando le popolazioni dei Balcani non sarebbero state abbastanza forti e unite in modo da essere le sole eredi del potere turco in opposizione a una spartizione austro-russa delle terre da esse abitate. Tra i politici serbi Garašanin fu il primo a credere nell’opportunità di stabilire strette relazioni con l’Inghilterra ma soprattutto con la Francia di Napoleone III che stava sostenendo in quegli anni le popolazioni cristiane dei Balcani nel tentativo di bloccare l’estensione dell’egemonia russa e austriaca. Invece la protezione esercitata da Londra nei confronti dell’Impero ottomano rendeva i rapporti

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tra lo statista serbo e l’Inghilterra semplicemente corretti ma mai di fiducia, come poteva avvenire con la Francia[7].

        Naturalmente Ilija Garašanin non era un tipo che piaceva allo zar: la diplomazia russa teneva costantemente informato Nicola I riguardo alle simpatie filo-occidentali del ministro serbo, dei suoi stretti rapporti con i patrioti polacchi[8], della sua attività propagandistica fra le popolazioni balcaniche e soprattutto della sua fiera opposizione alla Russia: “mangio il pane non con i denti della Russia ma con i miei e quelli dei miei antenati” aveva affermato Garašanin[9].

        La tensione fra Garašanin e la Russia venne ad accentuarsi in seguito a due episodi legati al suo operato in qualità di ministro degli Interni: la legge di polizia del 1850 e la “Circolare d’aprile” del 1852, contenente delle norme di tutela dell’ordine pubblico. Entrambi questi provvedimenti furono interpretati dalla diplomazia russa come un atto pensato e messo in pratica allo scopo di eliminare l’opposizione interna che era abilmente manovrata dal console russo e che annoverava fra le sue fila molti sostenitori degli Obrenović, la dinastia rivale dei Karađorđević (al potere in quegli anni) e numerosi membri della Corte[10]. Questo schieramento, come è facile immaginare, faceva causa comune con i consoli austriaco e russo.

        La legge di polizia estese i poteri a disposizione della forza pubblica consentendo a quest’ultima di poter intervenire direttamente e di imporre pene immediate, compresa la flagellazione. Tale severità, sosteneva Garašanin, era necessaria data la continua disobbedienza della popolazione e la condotta anarchica favorita dagli oppositori interni, nonché l’inarrestabile declino dell’autorità della polizia che a sua volta significava poca o nulla considerazione delle istituzioni pubbliche di cui essa era rappresentante. La “Circolare d’aprile” del 1852 fu pensata ad integrazione della legge di polizia del 1850. Essa descriveva, nei suoi sette articoli, i crimini contro l’ordine pubblico e le pene da infliggere: in altri termini essa precisava il raggio d’azione della legge di polizia di due anni prima[11].

        Fu proprio subito dopo l’approvazione di questo provvedimento che il console russo chiese per la prima volta la rimozione di Garašanin dal suo incarico. Quest’ultimo nel frattempo visitò la Francia e la Svizzera, apparentemente perché doveva sottoporsi a delle cure mediche, in realtà per cercare di guadagnare l’appoggio di Napoleone III contro l’interferenza della Russia negli affari interni della Serbia. Al suo ritorno a Belgrado, il 10 settembre 1852, Ilija Garašanin apprese della morte dell’anziano Avram Petronijević, primo ministro e responsabile degli Esteri. Il principe affidò allora a

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Garašanin gli incarichi che ricopriva fino a quel momento l’anziano statista. Nicola I interpretò questa decisione come un vero e proprio affronto alla sua persona e alla Russia[12]. Da questo momento in poi lo zar e il console russo a Belgrado Fëdor Antonovič Tumanskij condussero una serrata battaglia per ottenere il licenziamento di Ilija Garašanin.

        Proprio nel momento in cui la crisi internazionale entrava nella sua fase più acuta, culminando nel febbraio 1853 con la missione del principe Aleksandr Menšikov a Costantinopoli sulla questione dei Luoghi Santi, lo zar non era disposto ad accettare che alla guida della piccola ma strategicamente importante Serbia ci fosse un uomo profondamente antirusso e di palesi simpatie occidentali. Ciò che la Serbia rappresentava in quel momento per Nicola I fu chiaramente espresso in una lettera privata, del 30 maggio 1853, a Francesco Giuseppe nella quale lo zar rivelava la sua intenzione di procedere all’occupazione della Moldavia e della Valacchia e l’auspicio che l’Austria facesse lo stesso in Serbia e in Erzegovina[13]. Il piano che intendeva portare avanti di concerto con gli Asburgo nelle regioni balcaniche era garantire l’indipendenza formale di Bulgaria, Serbia, Moldavia e Valacchia ma sotto la protezione congiunta di Vienna e di San Pietroburgo[14].

        Nei Principati danubiani la situazione era nettamente differente da quella esistente in Serbia. La convenzione di Balta-Liman (1849) tra la Russia e la Turchia, all’indomani della sconfitta del moto rivoluzionario del 1848, gettò le basi della restaurazione del vecchio ordine politico nei Principati. Essa ristabilì il potere russo e turco e pose sul trono della Valacchia Barbu Ştirbei e su quello di Moldavia Grigore Ghica. Molto limitati furono i margini d’autonomia concessi alla classe dirigente locale[15]. Agli inizi degli anni Cinquanta dell’Ottocento i più importanti centri dell’attività politica nazionale romena si trovavano all’estero, in particolare in Inghilterra e in Francia, dove i capi della rivoluzione del 1848 avevano trovato rifugio e dove svolgevano un’intensa attività propagandistica in favore dell’indipendenza dei due Principati e della loro unione, ponendo in questo modo tale questione all’attenzione dell’opinione pubblica occidentale che in quegli anni seguiva con profondo interesse le vicende relative alla questione d’Oriente[16].

        Per la Serbia gli importanti e delicati sviluppi legati alla crisi internazionale di quegli anni erano seguiti da Konstantin Nikolajević, l’inviato del governo a Costantinopoli, che scrisse delle dettagliate relazioni a Garašanin, oggi conservate nell’Archivio di Stato di Belgrado. La lettera del 26 febbraio 1853[17] è emblematica: in

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essa veniva riferito di un colloquio intercorso tra l’inviato serbo e il principe Menšikov nell’ambasciata russa di Costantinopoli; quest’ultimo era stato chiaro: il principe Aleksandar doveva scegliere immediatamente se ripudiare lo zar come protettore e salvatore dei serbi o placarne l’ostilità provvedendo all’immediata revoca degli incarichi di Ilija Garašanin[18]. Nikolajević riferiva inoltre dei tentativi da lui compiuti per far capire a Menšikov che non c’era stato nessun intento di nuocere o di offendere lo zar nell’aver affidato proprio a Garašanin quegli incarichi, tentativi che tuttavia non spostarono di un millimetro l’inviato russo dalle sue posizioni. Lo zar considerava Garašanin un “rivoluzionario”, scriveva Nikolajević, legato ai rivoluzionari occidentali: la Russia non poteva tollerare un simile affronto[19]. Il 6 marzo il ministro degli Esteri serbo rispose al proprio inviato presso la Sublime Porta illustrando la sua posizione: se l’interesse nazionale della Serbia esigeva le sue dimissioni egli non avrebbe esitato a procedere in tal senso ma egli era anche consapevole che in questo caso la verità era un’altra. Infatti scrisse che “il principe Menšikov avrebbe fatto meglio a dire che la Russia e gli interessi russi non tolleravano Garašanin poiché questi aveva un’idea differente della protezione russa sulla Serbia rispetto a quella che il governo russo si sarebbe aspettato da lui”[20]. Era chiaro inoltre per il ministro serbo che lo zar voleva rendere il suo Paese uno Stato vassallo, come i Principati di Moldavia e Valacchia.

        Nelle giornate successive fu inviato da San Pietroburgo un ultimatum di ventiquattro ore alla Serbia per procedere al licenziamento di Garašanin, con la minaccia che la Russia avrebbe interrotto le relazioni diplomatiche col Principato qualora non fossero state soddisfatte le richieste avanzate. Il 14 marzo 1853 il principe Aleksandar Karadjordjević comunicò al Savet (una sorta di Senato) che Ilija Garašanin era stato rimosso dai suoi incarichi ed era stato inserito fra i membri del Consiglio[21]. Nei mesi seguenti la crisi internazionale entrò nella fase più delicata: il 21 maggio il principe Menšikov lasciò Costantinopoli con un bilancio decisamente fallimentare. A partire da questo momento e attraverso lenti passaggi durati circa dieci mesi la Russia, l’Impero ottomano e le Potenze occidentali sarebbero giunte, come noto, al confronto militare[22].

        Alla fine di maggio il ministro degli Esteri russo Nesselrode indirizzò un ultimatum alla Porta: qualora le richieste russe riguardo alla questione dei Luoghi Santi e alle prerogative di tutela delle popolazioni ortodosse dell’Impero ottomano non fossero state accolte favorevolmente, l’esercito dello zar avrebbe occupato i Principati danubiani. Ciò avvenne nel mese di giugno: le truppe russe (80.000 uomini) occuparono la Moldavia e la Valacchia e nell’ottobre ci fu la dichiarazione ufficiale di guerra dalla Porta[23]. Il 27 febbraio 1854 la Francia e l’Inghilterra inviarono un ultimatum alla Russia chiedendo l’evacuazione dei Principati danubiani. Al rifiuto russo, il 28 marzo le due

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Potenze occidentali dichiararono guerra a San Pietroburgo e si schierarono a sostegno della Turchia.

        Le cause dello scontro erano profonde. Né lo zar, né Napoleone III e neppure il governo inglese potevano tirarsi fuori da quello che era ormai diventato un conflitto di prestigio[24]. Nicola I aveva bisogno di una Turchia sottomessa per la sicurezza della Russia, Napoleone di un successo per consolidare la presenza francese nel Mediterraneo e la sua posizione all’interno, il governo inglese dell’indipendenza turca per la sicurezza del Mediterraneo orientale[25].

        La Serbia si trovò in questo contesto ancora una volta in una posizione imbarazzante. La sua esistenza quale Stato autonomo, basata sui trattati stipulati fra la Russia e la Porta, rischiava di essere messa in discussione[26]. Inoltre essa fu costretta a confrontarsi da un lato con le pressioni della Russia che auspicava che il Principato si schierasse ufficialmente dalla sua parte, dall’altro con le attese della Sublime Porta, che, sostenuta dalla Francia e dalla Gran Bretagna, fece presente alle autorità serbe che la condotta migliore che si potesse seguire a Belgrado era comportarsi come un leale vassallo[27]. A questo scopo il sultano, nel dicembre del 1853, quindi nell’imminenza del confronto militare, confermò in un apposito hatt-i-şerif tutti i privilegi già precedentemente concessi alla Serbia[28]. In questa particolare situazione e senza la determinazione di un politico come Ilija Garašanin, la politica ufficiale del governo di Belgrado, guidato dall’anziano Aleksa Simić, fu incerta, inconcludente e timorosa. In questo modo la posizione mantenuta dal Principato lungo tutto lo svolgimento del conflitto fu l’osservanza di una rigorosa neutralità.

        D’altronde già dopo la morte del console russo Tumanskij, avvenuta nel luglio del 1853, la Russia si era espressa in questa direzione. Nesselrode, infatti, inviò in missione a Belgrado il segretario dell’ambasciata russa in Vienna Feliks Petrovič Fonton, allo scopo di raccomandare al principe Aleksandar di mantenersi rigorosamente neutrale[29]. D’altra parte anche l’Austria si era espressa in favore della neutralità della Serbia, poiché a Vienna tutti gli sforzi della diplomazia erano indirizzati al mantenimento della pace nei Balcani e dell’integrità dell’Impero ottomano visti come i migliori strumenti per arginare l’estensione dell’imperialismo russo[30].

        Una simile decisione fu dettata anche dal pericolo (sempre presente lungo tutto lo svolgimento del conflitto) di una probabile occupazione della Serbia ad opera delle truppe austriache. A Vienna infatti, sebbene il governo avesse scelto la neutralità, si era tuttavia pronti a intervenire in Montenegro, in Bosnia, in Erzegovina, in Albania e, se fosse stato necessario, persino ad occupare militarmente la Serbia, qualora i russi non

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avessero evacuato la Moldavia e la Valacchia e avessero sostenuto una generale insurrezione antiturca fra le popolazioni ortodosse dei Balcani[31]. Il governo serbo, sentendosi minacciato da un tale pericolo, aumentò ancora di più gli sforzi già in atto indirizzati al rafforzamento del potenziale militare del Principato. Fu realizzata una vera e propria campagna di riarmo: già nel febbraio del 1853, infatti, il Savet aveva autorizzato l’impiego di ingenti capitali per l’acquisto di armi all’estero e, alla fine dell’anno, la Serbia aveva formato un esercito regolare di 48.000 fanti e 6.000 cavalieri[32]. Era chiaro che l’Austria aveva tutta l’intenzione di rafforzare la propria egemonia sulla regione balcanica e guardava con preoccupazione sia al rafforzamento dello Stato serbo che all’occupazione russa dei Principati danubiani, mostrando ingratitudine verso la Corte di Pietroburgo che l’aveva aiutata a porre fine all’indipendenza ungherese nel 1849. In quei mesi il pericolo che la Serbia fosse invasa dalle truppe austriache fu tangibile: se così fosse stato in quegli anni tutta la regione balcanica sarebbe diventata un’area occupata da Russia, Turchia e Austria, nella quale sarebbe stato messo a tacere qualsiasi tentativo di autodeterminazione nazionale. Ciò, come noto, non accadde. I patrioti romeni continuavano la loro efficace e incisiva azione di propaganda e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica europea e dei governi occidentali sul problema dell’unione delle terre romene, mentre i serbi cercavano di salvaguardare i privilegi di cui godevano e che sembravano essere in serio pericolo. L’invasione della Moldavia e della Valacchia aveva fatto capire a Belgrado che bisognava correre immediatamente ai ripari poiché, nella cornice più ampia della crisi d’Oriente, un’invasione austriaca della Serbia per controbilanciare la presenza russa nei Principati romeni era un’ipotesi tutt’altro che remota.

        A questo proposito risulta di estremo interesse un memorandum che il 17 aprile 1854 il governo serbo fece pervenire alla Sublime Porta riguardo alla situazione interna del Paese e alla minaccia di occupazione austriaca[33]. In esso si affermava che da qualche tempo le autorità asburgiche avevano ordinato un cospicuo movimento di truppe ai confini della Serbia che non aveva giustificazione alcuna dal momento che da parte serba non era stato compiuto alcun gesto di ostilità nei confronti di Vienna[34]. Inoltre si faceva presente come il governo serbo avesse preso tutte le misure necessarie per difendere il Paese da un’aggressione nemica[35]. Il memorandum continuava con un’affermazione molto esplicita:

 

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          L’Autriche met en avant deux raisons, qui devraient l’autoriser à intervenir en Serbie: 1.L’entrée des Russes. 2.Un soulèvement intérieur qui éclaterait en Serbie[36].

 

        In effetti questi erano i due casi in cui l’Austria avrebbe invaso la Serbia e a Belgrado lo si sapeva bene. Tuttavia si sapeva anche che i russi non avrebbero allargato lo scenario delle operazioni belliche ai Balcani ma, pur ammettendo un’improbabile invasione da parte della Russia

 

          […] ce qui ne serait pas facile d’effectuer, vu la resistance qui leur serait opposée de la part des Serbes comme des troupes turques, nous pouvons affirmer hardiment que l’entrée des Autrichiens en Serbie serait dans ce cas une mesure extremement malheureuse, et qui pourrait donner lieu à une foule des complications[37].

 

        Riguardo alla seconda ipotesi non c’erano dubbi: il pericolo di insurrezioni era inesistente dal momento che i serbi, si affermava nel memorandum, erano ben consapevoli che era nel loro interesse salvaguardare l’ordine interno e guardarsi da

 

          tout ce qui pourrait l’entrainer dans la guerre, et ce qui transformerait la Serbie en champe de bataille[38].

 

        Tutto ciò che il governo chiedeva alla Porta era di continuare a godere della fiducia del sultano e

 

          de ne pas voire sa patrié livrée à une occupation autrichienne, qui serait le signal et le commencement des catastrophes incalculables[39].

 

        Questo documento risulta di gran lunga molto più esplicativo di mille altre parole che si potrebbero spendere riguardo alla situazione della Serbia durante gli anni di quella che viene definita come prima crisi d’Oriente. Privo di una guida ufficiale determinata come poteva essere quella di Garašanin, il Principato di Serbia in questo periodo preferì restare alla finestra e mantenersi strettamente neutrale[40]. Il governo serbo da un lato doveva fare i conti con le ingerenze della diplomazia russa, dall’altro

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doveva fronteggiare il pericolo di un’invasione austriaca. Inoltre c’era il rischio di rovinare i rapporti con la Turchia, che rimaneva pur sempre la Cour suzeraine, in un momento particolarmente delicato per le sorti del piccolo Stato balcanico.

        La paventata occupazione austriaca della Serbia tuttavia non ebbe mai luogo e il movimento di truppe lungo i confini del Paese si concluse con l’occupazione dei Principati danubiani. Infatti, a seguito dell’accordo del 14 giugno del 1854 tra l’Austria e la Porta, alla prima fu consentito di compiere due operazioni: intervenire in Bosnia, Albania e Montenegro qualora fossero scoppiati dei disordini e procedere all’occupazione della Moldavia e della Valacchia fino a quando non fosse finita la guerra[41]. Poco dopo i due Principati danubiani furono evacuati dai Russi e occupati dall’esercito di Vienna (che vi rimase fino al marzo 1857)[42]. In questo modo, grazie anche all’iniziativa diplomatica austriaca, si riuscì a impedire che l’Europa centro-orientale diventasse il teatro di un sanguinoso conflitto. Del resto anche i governi di Londra e Parigi preferirono non dovere impegnarsi seriamente su un altro fronte. Il campo di battaglia si spostò così, nel settembre del 1854, nella penisola di Crimea, dove, dopo il lungo assedio e la resa circa un anno più tardi della fortezza di Sebastopoli, principale base navale russa, ebbe termine de facto la guerra. A Parigi, il 30 marzo 1856, fu firmato il trattato di pace.

 

 

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[1] Barbara Jelavich, Russia’s Balkan entanglements, 1806-1914, Cambridge: Cambridge University Press, 1991: 90.

[2] Ibidem: 114-115

[3] Hans Kohn, Pan-Slavism. Its history and ideology, Notre Dame (Indiana): University of Notre Dame Press, 1953: 111; si veda anche Jelavich, op. cit.: 92-93; Hugh Seton-Watson, Storia dell’impero russo (1801-1917), Torino: Einaudi, 1971: 202-209.

[4] Si ricordino ad esempio i primi contatti tra i serbi e la Russia durante gli anni della prima insurrezione: Nicholas Moravcevich, “Russian diplomatic involvement in the first serbian insurrection 1804-1813”, The New Review. A journal of east-european history 7 (1967),  1-2 (26-27): 4-28.

[5] David Mackenzie, Ilija Garašanin: Balkan Bismarck, New York: Columbia University Press, 1985: 115.

[6] Ibidem.

[7]Ibidem: 117-118.

[8] Si veda in proposito: Marceli Handelsman, “La question d’Orient et la  politique yougoslave du prince Czartoryski après 1840”, in Seances et travaux de l’Academie des sciences morales et politiques, nov.-dic. 1929: 394-433; Antoni Cetnarowicz, Tayna dyplomacja Adama Jerzego Czartoryskiego na Bałkanach. Hotel Lambert a kryzys serbski 1840-1844, Cracovia: Nakładem Uniwersytetu Jagiellońskiego, 1993.

[9] Garašanin a Marinović, 28/8/1852, in Mackenzie, op. cit.: 113.

[10] Michael Boro Petrovich, A history of modern Serbia, 1804–1918, I, New York-Londra: Harcourt Brace Jovanovich, 1976: 247.

[11] Mackenzie, op. cit.: 120-121.

[12] Ibidem: 125.

[13] Jelavich, op.cit.: 128.

[14] Ibidem: 129.

[15] Su questo periodo si veda Keith Hitchins, Românii 1774-1866, Bucarest: Humanitas, 1998: 335-339.

[16] G. I. Brătianu, Origines et formation de l’unité roumaine, Bucarest: Institut d’histoire universelle “N. Iorga”, 1943: 217-219; Dan Berindei, Din începuturile diplomaţiei româneşti moderne, Bucarest: Editura politică, 1965: 93-121; Idem, Epoca unirii, Bucarest: Editura Academiei Republicii Socialiste România, 1976: 29-33.

[17] Si veda il testo della lettera in Mackenzie, op. cit.: 129-131.

[18] Ibidem: 129.

[19] Ibidem: 130.

[20] Ibidem: 132.

[21] Ibidem: 135.

[22] Jelavich, op. cit.: 124.

[23] Nicolae Ciachir, Marile puteri şi România 1856-1947, Bucarest: Albatros, 1996: 42.

[24] Alan J. P. Taylor, L’Europa delle Grandi Potenze, Bari: Laterza, 1961: 109.

[25] Ibidem.

[26] Michael Boro Petrovich, op.cit.: 248.

[27] Ibidem: 249.

[28] Nicolae Iorga, Histoire des états balkaniques jusqu’à 1924, Parigi: Librairie Universitaire J. Gamber, 1925: 334.

[29] Ibidem.

[30] Angelo Tamborra, L’Europa centro-orientale nei secoli XIX-XX (1800-1920), Milano: Vallardi: 157.

[31] Ibidem. Numerosi documenti conservati negli archivi austriaci attestano l’eventuale volontà da parte del governo di Vienna di occupare militarmente la Serbia: per un breve elenco di essi si veda Jelavich, op. cit.: 130. 

[32] Mackenzie, op. cit.: 146.

[33] Lo storico David Mackenzie ha parlato di questo documento come del memorandum Garašanin-Marinović, attribuendone la paternità a quest’ultimo, che era l’assistente dell’allora ministro degli Esteri Simić, ma sottolineando anche il ruolo determinante avuto da Ilija Garašanin nella stesura del documento (ibidem: 151-152).

[34] Si veda il testo in I. de Testa, Recueil des traités de la Porte ottomane avec les Puissances étrangères, Parigi: Amyot, 1876, tome IV, parte II : 123-127.

[35] Ibidem: 124.

[36] Ibidem: 125.

[37] Ibidem.

[38] Ibidem: 126.

[39] Ibidem.

[40] La neutralità serba fu anche il frutto di un’esplicita richiesta della Porta che temeva un ulteriore allargamento del conflitto: si veda Nikola B. Popović, Srbija i Carska Rusija, Belgrado: Novinsko Izdavačka Ustanova, 1994: 28 (si tratta di uno studio incentrato sui rapporti tra la Serbia e la Russia durante la Prima guerra mondiale ma che comprende anche un’ampia e accurata ricostruzione delle vicende politiche serbe del XIX secolo, in particolare dei rapporti tra Belgrado e Pietroburgo).

[41] Michael Boro Petrovich, op. cit.: 249; Ciachir, România în Sud-estul europei, Bucarest: Editura Politică, 1968: 50-51.

[42] A seguito del mutato contesto diplomatico che vide l’intesa dell’Austria con la Prussia e soprattutto con la Turchia, la Russia si trovò praticamente isolata visto che sull’altro fronte era già in guerra contro Francia e Inghilterra, e si persuase dell’opportunità di evacuare la Moldavia e la Valacchia: Leonid Boicu, Austria şi Principatele Române în vremea războiului Crimeii (1853-1856), Bucarest: Editura Academiei Republicii Socialiste România, 1972: 112-120.