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La
Serbia e l’occupazione dei Principati Danubiani durante la crisi d’Oriente
del
1853-1856
Antonio D’Alessandri,
Università di Roma Tre
Dopo il trionfo dell’offensiva delle
Potenze conservatrici nel 1849, le popolazioni del Sud-est europeo si videro
costrette a porre freno alle proprie iniziative indirizzate al conseguimento
dell’indipendenza e alla creazione di uno Stato nazionale. In Moldavia e
Valacchia, così come in Serbia, c’era bisogno di raccogliere le forze,
consolidare le fragili istituzioni nazionali esistenti e cercare di
salvaguardare i limitati margini d’autonomia concessi dalla Porta. In
definitiva non si poteva rischiare di lanciarsi in avventure dall’esito incerto
e che soprattutto avrebbero potuto compromettere i risultati fino a quel
momento raggiunti.
In questo studio saranno
prese in esame alcune fra le più rilevanti vicende politiche che ebbero
luogo nel piccolo Principato di Serbia durante i primi anni Cinquanta del
secolo XIX nel tentativo di dimostrare come l’occupazione, dapprima russa e poi
austriaca, della Moldavia e della Valacchia fu il risultato di un preciso
disegno di politica estera di queste due Potenze che si contendevano l’egemonia
sulla regione balcanica. In particolare si cercherà di ricostruire quel
complesso intreccio di politica interna e politica estera che si risolse con
l’occupazione dei Principati danubiani anziché con quella della Serbia come era
stato progettato in un primo momento.
Due delle più
importanti istanze politiche attorno alle quali si concentrò
l’attenzione dei dirigenti serbi durante i primi anni Cinquanta del XIX secolo
furono il confronto con la Russia, la cui influenza si fece sempre più
opprimente, e la crisi internazionale che portò alla guerra di Crimea.
In questi anni la politica
estera di San Pietroburgo nei confronti della piccola Serbia divenne sempre
più invadente. Essa rispondeva a una precisa strategia egemonica della
Russia sulle popolazioni di religione ortodossa soggette alla Porta e sui
territori da queste abitate. In gioco c’era una posta molto alta: il controllo
di un’area estremamente importante dal punto di vista militare ed economico,
poiché avrebbe consentito alla Russia di accedere liberamente ai porti del
Mediterraneo e, in questo modo, di contrastare anche nel Sud dell’Europa
l’egemonia economica anglosassone. Inoltre c’era in gioco anche il potenziale
commerciale legato alla navigazione del Danubio, il controllo della foce di
questo e, attraverso il Mar Nero e gli Stretti, il libero accesso al
Mediterraneo orientale. In questo contesto dunque sia la Serbia che la Moldavia
e la Valacchia costituivano delle regioni di assoluta importanza strategica sia
dal punto di vista economico che militare. La politica russa legata alla
questione d’Oriente, tuttavia, non prevedeva necessariamente la fine
dell’Impero ottomano e il suo successivo smembramento, bensì il
mantenimento dell’integrità territoriale di esso, una forte influenza
della diplomazia zarista sul governo di Costantinopoli e l’imposizione di
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protettorati sulle popolazioni di religione ortodossa, soprattutto dei
Balcani[1].
Fu solo con l’acutizzarsi, negli anni Cinquanta, della crisi d’Oriente che la
politica russa verso l’Impero ottomano cambiò: fu ormai evidente che
Nicola I aveva in mente un’azione aggressiva verso la Porta[2].
I principi di questa
strategia di penetrazione imperialistica, anche verso il Sud-est europeo e il
Mediterraneo, erano pressappoco gli stessi che stavano alla base del regno di
Nicola I e che trovarono espressione ideologica nella dottrina della
“nazionalità ufficiale” proclamata nel 1833 dal conte Sergej Semenovič
Uvarov, ministro dell’Istruzione dello zar, la quale si articolava in tre
concetti: ortodossia, autocrazia e nazionalità (narodnost). Quest’ultima, sebbene piuttosto indefinita, sarebbe da
intendersi come un sentimento generale di orgoglio nazionale e supremazia degli
interessi della Russia in Europa in base al riconoscimento del suo ruolo
storico e morale nell’ambito soprattutto della grande famiglia cristiana
ortodossa[3].
In Serbia, durante il
regno del principe Aleksandar Karađorđević (1843-1858) questa già
pluridecennale[4] politica di
prestigio della Russia aveva dato i suoi frutti: le simpatie verso quel Paese
erano ben radicate fra i politici e diffuse nella popolazione[5].
Tuttavia Ilija Garašanin, il maggiore uomo politico della Serbia ottocentesca,
non la pensava così. Egli considerava la Russia una potenziale minaccia
per la Serbia. Se lo zar avesse realizzato i suoi progetti nei Balcani, il
Principato, anziché diventare veramente indipendente, sarebbe stato inghiottito
dall’imperialismo russo e ciò poteva essere evitato, secondo Garašanin,
solamente attraverso la creazione o di un forte Stato serbo o di una
federazione di Stati balcanici capaci di preservare la loro indipendenza[6].
L’Impero ottomano, secondo il ministro degli Interni serbo, doveva restare in
piedi fino a quando le popolazioni dei Balcani non sarebbero state abbastanza
forti e unite in modo da essere le sole eredi del potere turco in opposizione a
una spartizione austro-russa delle terre da esse abitate. Tra i politici serbi
Garašanin fu il primo a credere nell’opportunità di stabilire strette relazioni
con l’Inghilterra ma soprattutto con la Francia di Napoleone III che stava
sostenendo in quegli anni le popolazioni cristiane dei Balcani nel tentativo di
bloccare l’estensione dell’egemonia russa e austriaca. Invece la protezione
esercitata da Londra nei confronti dell’Impero ottomano rendeva i rapporti
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tra lo statista serbo e l’Inghilterra semplicemente corretti ma mai di
fiducia, come poteva avvenire con la Francia[7].
Naturalmente Ilija
Garašanin non era un tipo che piaceva allo zar: la diplomazia russa teneva
costantemente informato Nicola I riguardo alle simpatie filo-occidentali del
ministro serbo, dei suoi stretti rapporti con i patrioti polacchi[8],
della sua attività propagandistica fra le popolazioni balcaniche e
soprattutto della sua fiera opposizione alla Russia: “mangio il pane non con i
denti della Russia ma con i miei e quelli dei miei antenati” aveva affermato
Garašanin[9].
La tensione fra Garašanin
e la Russia venne ad accentuarsi in seguito a due episodi legati al suo operato
in qualità di ministro degli Interni: la legge di polizia del 1850 e la
“Circolare d’aprile” del 1852, contenente delle norme di tutela dell’ordine
pubblico. Entrambi questi provvedimenti furono interpretati dalla diplomazia
russa come un atto pensato e messo in pratica allo scopo di eliminare
l’opposizione interna che era abilmente manovrata dal console russo e che
annoverava fra le sue fila molti sostenitori degli Obrenović, la dinastia
rivale dei Karađorđević (al potere in quegli anni) e numerosi membri della Corte[10].
Questo schieramento, come è facile immaginare, faceva causa comune con i
consoli austriaco e russo.
La legge di polizia estese
i poteri a disposizione della forza pubblica consentendo a quest’ultima di
poter intervenire direttamente e di imporre pene immediate, compresa la
flagellazione. Tale severità, sosteneva Garašanin, era necessaria data
la continua disobbedienza della popolazione e la condotta anarchica favorita
dagli oppositori interni, nonché l’inarrestabile declino dell’autorità
della polizia che a sua volta significava poca o nulla considerazione delle
istituzioni pubbliche di cui essa era rappresentante. La “Circolare d’aprile”
del 1852 fu pensata ad integrazione della legge di polizia del 1850. Essa
descriveva, nei suoi sette articoli, i crimini contro l’ordine pubblico e le
pene da infliggere: in altri termini essa precisava il raggio d’azione della
legge di polizia di due anni prima[11].
Fu proprio subito dopo
l’approvazione di questo provvedimento che il console russo chiese per la prima
volta la rimozione di Garašanin dal suo incarico. Quest’ultimo nel frattempo
visitò la Francia e la Svizzera, apparentemente perché doveva sottoporsi
a delle cure mediche, in realtà per cercare di guadagnare l’appoggio di
Napoleone III contro l’interferenza della Russia negli affari interni della
Serbia. Al suo ritorno a Belgrado, il 10 settembre 1852, Ilija Garašanin
apprese della morte dell’anziano Avram Petronijević, primo ministro e
responsabile degli Esteri. Il principe affidò allora a
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Garašanin gli incarichi che ricopriva fino a quel momento l’anziano
statista. Nicola I interpretò questa decisione come un vero e proprio
affronto alla sua persona e alla Russia[12].
Da questo momento in poi lo zar e il console russo a Belgrado Fëdor Antonovič
Tumanskij condussero una serrata battaglia per ottenere il licenziamento di
Ilija Garašanin.
Proprio nel momento in cui
la crisi internazionale entrava nella sua fase più acuta, culminando nel
febbraio 1853 con la missione del principe Aleksandr Menšikov a Costantinopoli
sulla questione dei Luoghi Santi, lo zar non era disposto ad accettare che alla
guida della piccola ma strategicamente importante Serbia ci fosse un uomo
profondamente antirusso e di palesi simpatie occidentali. Ciò che la
Serbia rappresentava in quel momento per Nicola I fu chiaramente espresso in
una lettera privata, del 30 maggio 1853, a Francesco Giuseppe nella quale lo
zar rivelava la sua intenzione di procedere all’occupazione della Moldavia e
della Valacchia e l’auspicio che l’Austria facesse lo stesso in Serbia e in
Erzegovina[13]. Il piano
che intendeva portare avanti di concerto con gli Asburgo nelle regioni
balcaniche era garantire l’indipendenza formale di Bulgaria, Serbia, Moldavia e
Valacchia ma sotto la protezione congiunta di Vienna e di San Pietroburgo[14].
Nei Principati danubiani
la situazione era nettamente differente da quella esistente in Serbia. La
convenzione di Balta-Liman (1849) tra la Russia e la Turchia, all’indomani
della sconfitta del moto rivoluzionario del 1848, gettò le basi della
restaurazione del vecchio ordine politico nei Principati. Essa ristabilì
il potere russo e turco e pose sul trono della Valacchia Barbu Ştirbei e su
quello di Moldavia Grigore Ghica. Molto limitati furono i margini d’autonomia
concessi alla classe dirigente locale[15].
Agli inizi degli anni Cinquanta dell’Ottocento i più importanti centri
dell’attività politica nazionale romena si trovavano all’estero, in
particolare in Inghilterra e in Francia, dove i capi della rivoluzione del 1848
avevano trovato rifugio e dove svolgevano un’intensa attività
propagandistica in favore dell’indipendenza dei due Principati e della loro
unione, ponendo in questo modo tale questione all’attenzione dell’opinione
pubblica occidentale che in quegli anni seguiva con profondo interesse le
vicende relative alla questione d’Oriente[16].
Per la Serbia gli
importanti e delicati sviluppi legati alla crisi internazionale di quegli anni
erano seguiti da Konstantin Nikolajević, l’inviato del governo a Costantinopoli,
che scrisse delle dettagliate relazioni a Garašanin, oggi conservate
nell’Archivio di Stato di Belgrado. La lettera del 26 febbraio 1853[17]
è emblematica: in
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essa veniva riferito di un colloquio intercorso tra l’inviato serbo e
il principe Menšikov nell’ambasciata russa di Costantinopoli; quest’ultimo era
stato chiaro: il principe Aleksandar doveva scegliere immediatamente se
ripudiare lo zar come protettore e salvatore dei serbi o placarne
l’ostilità provvedendo all’immediata revoca degli incarichi di Ilija
Garašanin[18].
Nikolajević riferiva inoltre dei tentativi da lui compiuti per far capire a
Menšikov che non c’era stato nessun intento di nuocere o di offendere lo zar
nell’aver affidato proprio a Garašanin quegli incarichi, tentativi che tuttavia
non spostarono di un millimetro l’inviato russo dalle sue posizioni. Lo zar
considerava Garašanin un “rivoluzionario”, scriveva Nikolajević, legato ai
rivoluzionari occidentali: la Russia non poteva tollerare un simile affronto[19].
Il 6 marzo il ministro degli Esteri serbo rispose al proprio inviato presso la
Sublime Porta illustrando la sua posizione: se l’interesse nazionale della
Serbia esigeva le sue dimissioni egli non avrebbe esitato a procedere in tal
senso ma egli era anche consapevole che in questo caso la verità era
un’altra. Infatti scrisse che “il principe Menšikov avrebbe fatto meglio a dire
che la Russia e gli interessi russi non tolleravano Garašanin poiché questi
aveva un’idea differente della protezione russa sulla Serbia rispetto a quella
che il governo russo si sarebbe aspettato da lui”[20].
Era chiaro inoltre per il ministro serbo che lo zar voleva rendere il suo Paese
uno Stato vassallo, come i Principati di Moldavia e Valacchia.
Nelle giornate successive
fu inviato da San Pietroburgo un ultimatum
di ventiquattro ore alla Serbia per procedere al licenziamento di Garašanin,
con la minaccia che la Russia avrebbe interrotto le relazioni diplomatiche col
Principato qualora non fossero state soddisfatte le richieste avanzate. Il 14
marzo 1853 il principe Aleksandar Karadjordjević comunicò al Savet (una sorta di Senato) che Ilija
Garašanin era stato rimosso dai suoi incarichi ed era stato inserito fra i
membri del Consiglio[21].
Nei mesi seguenti la crisi internazionale entrò nella fase più
delicata: il 21 maggio il principe Menšikov lasciò Costantinopoli con un
bilancio decisamente fallimentare. A partire da questo momento e attraverso
lenti passaggi durati circa dieci mesi la Russia, l’Impero ottomano e le
Potenze occidentali sarebbero giunte, come noto, al confronto militare[22].
Alla fine di maggio il
ministro degli Esteri russo Nesselrode indirizzò un ultimatum alla Porta: qualora le richieste russe riguardo alla
questione dei Luoghi Santi e alle prerogative di tutela delle popolazioni
ortodosse dell’Impero ottomano non fossero state accolte favorevolmente,
l’esercito dello zar avrebbe occupato i Principati danubiani. Ciò avvenne nel mese di giugno:
le truppe russe (80.000 uomini) occuparono la Moldavia e la Valacchia e
nell’ottobre ci fu la dichiarazione ufficiale di guerra dalla Porta[23].
Il 27 febbraio 1854 la Francia e l’Inghilterra inviarono un ultimatum alla Russia chiedendo
l’evacuazione dei Principati danubiani. Al rifiuto russo, il 28 marzo le due
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Potenze occidentali dichiararono guerra a San Pietroburgo e si
schierarono a sostegno della Turchia.
Le cause dello scontro
erano profonde. Né lo zar, né Napoleone III e neppure il governo inglese
potevano tirarsi fuori da quello che era ormai diventato un conflitto di
prestigio[24]. Nicola I
aveva bisogno di una Turchia sottomessa per la sicurezza della Russia,
Napoleone di un successo per consolidare la presenza francese nel Mediterraneo
e la sua posizione all’interno, il governo inglese dell’indipendenza turca per
la sicurezza del Mediterraneo orientale[25].
La Serbia si trovò
in questo contesto ancora una volta in una posizione imbarazzante. La sua
esistenza quale Stato autonomo, basata sui trattati stipulati fra la Russia e
la Porta, rischiava di essere messa in discussione[26].
Inoltre essa fu costretta a confrontarsi da un lato con le pressioni della
Russia che auspicava che il Principato si schierasse ufficialmente dalla sua
parte, dall’altro con le attese della Sublime Porta, che, sostenuta dalla
Francia e dalla Gran Bretagna, fece presente alle autorità serbe che la
condotta migliore che si potesse seguire a Belgrado era comportarsi come un
leale vassallo[27]. A questo
scopo il sultano, nel dicembre del 1853, quindi nell’imminenza del confronto
militare, confermò in un apposito hatt-i-şerif
tutti i privilegi già precedentemente concessi alla Serbia[28].
In questa particolare situazione e senza la determinazione di un politico come
Ilija Garašanin, la politica ufficiale del governo di Belgrado, guidato
dall’anziano Aleksa Simić, fu incerta, inconcludente e timorosa. In questo modo
la posizione mantenuta dal Principato lungo tutto lo svolgimento del conflitto
fu l’osservanza di una rigorosa neutralità.
D’altronde già dopo
la morte del console russo Tumanskij, avvenuta nel luglio del 1853, la Russia
si era espressa in questa direzione. Nesselrode, infatti, inviò in
missione a Belgrado il segretario dell’ambasciata russa in Vienna Feliks
Petrovič Fonton, allo scopo di raccomandare al principe Aleksandar di
mantenersi rigorosamente neutrale[29].
D’altra parte anche l’Austria si era espressa in favore della neutralità
della Serbia, poiché a Vienna tutti gli sforzi della diplomazia erano
indirizzati al mantenimento della pace nei Balcani e dell’integrità
dell’Impero ottomano visti come i migliori strumenti per arginare l’estensione
dell’imperialismo russo[30].
Una simile decisione fu
dettata anche dal pericolo (sempre presente lungo tutto lo svolgimento del
conflitto) di una probabile occupazione della Serbia ad opera delle truppe
austriache. A Vienna infatti, sebbene il governo avesse scelto la
neutralità, si era tuttavia pronti a intervenire in Montenegro, in
Bosnia, in Erzegovina, in Albania e, se fosse stato necessario, persino ad
occupare militarmente la Serbia, qualora i russi non
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avessero evacuato la Moldavia e la Valacchia e avessero sostenuto una
generale insurrezione antiturca fra le popolazioni ortodosse dei Balcani[31].
Il governo serbo, sentendosi minacciato da un tale pericolo, aumentò
ancora di più gli sforzi già in atto indirizzati al rafforzamento
del potenziale militare del Principato. Fu realizzata una vera e propria
campagna di riarmo: già nel febbraio del 1853, infatti, il Savet aveva autorizzato l’impiego di
ingenti capitali per l’acquisto di armi all’estero e, alla fine dell’anno, la
Serbia aveva formato un esercito regolare di 48.000 fanti e 6.000 cavalieri[32].
Era chiaro che l’Austria aveva tutta l’intenzione di rafforzare la propria
egemonia sulla regione balcanica e guardava con preoccupazione sia al
rafforzamento dello Stato serbo che all’occupazione russa dei Principati
danubiani, mostrando ingratitudine verso la Corte di Pietroburgo che l’aveva
aiutata a porre fine all’indipendenza ungherese nel 1849. In quei mesi il
pericolo che la Serbia fosse invasa dalle truppe austriache fu tangibile: se
così fosse stato in quegli anni tutta la regione balcanica sarebbe
diventata un’area occupata da Russia, Turchia e Austria, nella quale sarebbe
stato messo a tacere qualsiasi tentativo di autodeterminazione nazionale.
Ciò, come noto, non accadde. I patrioti romeni continuavano la loro
efficace e incisiva azione di propaganda e di sensibilizzazione dell’opinione
pubblica europea e dei governi occidentali sul problema dell’unione delle terre
romene, mentre i serbi cercavano di salvaguardare i privilegi di cui godevano e
che sembravano essere in serio pericolo. L’invasione della Moldavia e della
Valacchia aveva fatto capire a Belgrado che bisognava correre immediatamente ai
ripari poiché, nella cornice più ampia della crisi d’Oriente,
un’invasione austriaca della Serbia per controbilanciare la presenza russa nei
Principati romeni era un’ipotesi tutt’altro che remota.
A questo proposito risulta
di estremo interesse un memorandum
che il 17 aprile 1854 il governo serbo fece pervenire alla Sublime Porta
riguardo alla situazione interna del Paese e alla minaccia di occupazione
austriaca[33]. In esso si
affermava che da qualche tempo le autorità asburgiche avevano ordinato
un cospicuo movimento di truppe ai confini della Serbia che non aveva
giustificazione alcuna dal momento che da parte serba non era stato compiuto
alcun gesto di ostilità nei confronti di Vienna[34].
Inoltre si faceva presente come il governo serbo avesse preso tutte le misure
necessarie per difendere il Paese da un’aggressione nemica[35].
Il memorandum continuava con un’affermazione
molto esplicita:
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L’Autriche met en avant deux raisons, qui devraient
l’autoriser à intervenir en Serbie: 1.L’entrée des Russes. 2.Un
soulèvement intérieur qui éclaterait en Serbie[36].
In effetti questi erano i
due casi in cui l’Austria avrebbe invaso la Serbia e a Belgrado lo si sapeva
bene. Tuttavia si sapeva anche che i russi non avrebbero allargato lo scenario
delle operazioni belliche ai Balcani ma, pur ammettendo un’improbabile
invasione da parte della Russia
[…] ce qui ne serait pas facile d’effectuer, vu la
resistance qui leur serait opposée de la part des Serbes comme des troupes
turques, nous pouvons affirmer hardiment que
l’entrée des Autrichiens en Serbie serait dans ce cas une mesure extremement
malheureuse, et qui pourrait donner lieu à une foule des complications[37].
Riguardo alla seconda
ipotesi non c’erano dubbi: il pericolo di insurrezioni era inesistente dal
momento che i serbi, si affermava nel memorandum,
erano ben consapevoli che era nel loro interesse salvaguardare l’ordine interno
e guardarsi da
tout ce qui pourrait l’entrainer dans la guerre, et ce qui
transformerait la Serbie en champe de bataille[38].
Tutto ciò che il
governo chiedeva alla Porta era di continuare a godere della fiducia del
sultano e
de ne pas voire sa patrié livrée
à une occupation autrichienne, qui serait le signal et le commencement
des catastrophes incalculables[39].
Questo
documento risulta di gran lunga molto più esplicativo di mille altre parole
che si potrebbero spendere riguardo alla situazione della Serbia durante gli
anni di quella che viene definita come prima crisi d’Oriente. Privo di una
guida ufficiale determinata come poteva essere quella di Garašanin, il
Principato di Serbia in questo periodo preferì restare alla finestra e
mantenersi strettamente neutrale[40].
Il governo serbo da un lato doveva fare i conti con le ingerenze della
diplomazia russa, dall’altro
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doveva fronteggiare il pericolo di
un’invasione austriaca. Inoltre c’era il rischio di rovinare i rapporti con la
Turchia, che rimaneva pur sempre la Cour
suzeraine, in un momento particolarmente delicato per le sorti del piccolo
Stato balcanico.
La paventata occupazione austriaca della Serbia tuttavia non ebbe mai luogo e il movimento di truppe lungo i confini del Paese si concluse con l’occupazione dei Principati danubiani. Infatti, a seguito dell’accordo del 14 giugno del 1854 tra l’Austria e la Porta, alla prima fu consentito di compiere due operazioni: intervenire in Bosnia, Albania e Montenegro qualora fossero scoppiati dei disordini e procedere all’occupazione della Moldavia e della Valacchia fino a quando non fosse finita la guerra[41]. Poco dopo i due Principati danubiani furono evacuati dai Russi e occupati dall’esercito di Vienna (che vi rimase fino al marzo 1857)[42]. In questo modo, grazie anche all’iniziativa diplomatica austriaca, si riuscì a impedire che l’Europa centro-orientale diventasse il teatro di un sanguinoso conflitto. Del resto anche i governi di Londra e Parigi preferirono non dovere impegnarsi seriamente su un altro fronte. Il campo di battaglia si spostò così, nel settembre del 1854, nella penisola di Crimea, dove, dopo il lungo assedio e la resa circa un anno più tardi della fortezza di Sebastopoli, principale base navale russa, ebbe termine de facto la guerra. A Parigi, il 30 marzo 1856, fu firmato il trattato di pace.
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[1]
Barbara Jelavich, Russia’s Balkan entanglements, 1806-1914, Cambridge: Cambridge University Press, 1991: 90.
[2] Ibidem: 114-115
[3]
Hans Kohn, Pan-Slavism. Its history and ideology, Notre Dame (Indiana):
University of Notre Dame Press, 1953: 111; si veda anche Jelavich, op. cit.: 92-93; Hugh
Seton-Watson, Storia dell’impero
russo (1801-1917), Torino: Einaudi, 1971: 202-209.
[4] Si ricordino ad esempio i primi contatti tra i serbi e la Russia durante
gli anni della prima insurrezione: Nicholas
Moravcevich, “Russian diplomatic
involvement in the first serbian insurrection 1804-1813”, The New
Review. A journal of east-european history 7
(1967), 1-2 (26-27): 4-28.
[5] David Mackenzie, Ilija
Garašanin: Balkan Bismarck, New York: Columbia
University Press, 1985: 115.
[6] Ibidem.
[7]Ibidem: 117-118.
[8] Si veda in proposito: Marceli Handelsman, “La question d’Orient et la politique yougoslave du prince Czartoryski après 1840”, in Seances et travaux de l’Academie des sciences morales et politiques, nov.-dic. 1929: 394-433; Antoni Cetnarowicz, Tayna dyplomacja Adama Jerzego Czartoryskiego na Bałkanach. Hotel Lambert a kryzys serbski 1840-1844, Cracovia: Nakładem Uniwersytetu Jagiellońskiego, 1993.
[9] Garašanin a
Marinović, 28/8/1852, in Mackenzie, op. cit.: 113.
[10] Michael Boro Petrovich, A
history of modern Serbia, 1804–1918, I, New York-Londra:
Harcourt Brace Jovanovich, 1976: 247.
[11] Mackenzie, op. cit.:
120-121.
[12] Ibidem: 125.
[13] Jelavich, op.cit.: 128.
[14] Ibidem: 129.
[15] Su questo periodo si veda Keith
Hitchins, Românii 1774-1866,
Bucarest: Humanitas, 1998: 335-339.
[16] G. I. Brătianu, Origines et formation de l’unité roumaine,
Bucarest: Institut d’histoire universelle “N. Iorga”, 1943: 217-219; Dan Berindei, Din începuturile diplomaţiei româneşti moderne, Bucarest: Editura politică,
1965: 93-121; Idem, Epoca unirii, Bucarest: Editura
Academiei Republicii Socialiste România, 1976: 29-33.
[17] Si veda il testo della lettera in Mackenzie, op. cit.: 129-131.
[18] Ibidem: 129.
[19] Ibidem: 130.
[20] Ibidem: 132.
[21] Ibidem: 135.
[22] Jelavich, op. cit.: 124.
[23] Nicolae Ciachir, Marile puteri şi România 1856-1947,
Bucarest: Albatros, 1996: 42.
[24] Alan J. P. Taylor, L’Europa delle Grandi Potenze, Bari:
Laterza, 1961: 109.
[25] Ibidem.
[26] Michael Boro Petrovich, op.cit.:
248.
[27] Ibidem: 249.
[28] Nicolae Iorga, Histoire des
états balkaniques jusqu’à 1924, Parigi: Librairie Universitaire J.
Gamber, 1925: 334.
[29] Ibidem.
[30] Angelo Tamborra, L’Europa
centro-orientale nei secoli XIX-XX (1800-1920), Milano: Vallardi: 157.
[31] Ibidem. Numerosi documenti conservati negli archivi
austriaci attestano l’eventuale volontà da parte del governo di Vienna
di occupare militarmente la Serbia: per un breve elenco di essi si veda Jelavich, op. cit.: 130.
[32] Mackenzie, op. cit.:
146.
[33] Lo storico David Mackenzie ha parlato di questo documento come del memorandum Garašanin-Marinović,
attribuendone la paternità a quest’ultimo, che era l’assistente
dell’allora ministro degli Esteri Simić, ma sottolineando anche il ruolo
determinante avuto da Ilija Garašanin nella stesura del documento (ibidem: 151-152).
[34] Si veda il testo in I. de Testa, Recueil des traités de la Porte ottomane
avec les Puissances étrangères, Parigi: Amyot, 1876, tome IV, parte
II : 123-127.
[35] Ibidem: 124.
[36] Ibidem: 125.
[37] Ibidem.
[38] Ibidem: 126.
[39] Ibidem.
[40] La neutralità serba fu anche il frutto di un’esplicita richiesta
della Porta che temeva un ulteriore allargamento del conflitto: si veda Nikola B. Popović, Srbija i Carska Rusija, Belgrado: Novinsko Izdavačka Ustanova,
1994: 28 (si tratta di uno studio incentrato sui rapporti tra la Serbia e la
Russia durante la Prima guerra mondiale ma che comprende anche un’ampia e
accurata ricostruzione delle vicende politiche serbe del XIX secolo, in
particolare dei rapporti tra Belgrado e Pietroburgo).
[41] Michael Boro Petrovich, op.
cit.: 249; Ciachir, România în Sud-estul europei, Bucarest:
Editura Politică, 1968: 50-51.
[42] A seguito del mutato contesto diplomatico che vide l’intesa dell’Austria
con la Prussia e soprattutto con la Turchia, la Russia si trovò
praticamente isolata visto che sull’altro fronte era già in guerra
contro Francia e Inghilterra, e si persuase dell’opportunità di evacuare
la Moldavia e la Valacchia: Leonid Boicu, Austria şi Principatele Române în vremea
războiului Crimeii (1853-1856), Bucarest: Editura Academiei Republicii
Socialiste România, 1972: 112-120.