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Annuario 2004-2005
p. 303
Iulian Mihai Damian,
Università degli Studi “Babeº-Bolyai” di
Cluj-Napoca/
Scuola Normale Superiore di Pisa
Giacomo della Marca[1]
(1393-1476), figura di grande spessore del movimento dell’Osservanza
francescana, uomo di cultura, giurista e canonista, predicatore, missionario ed
inquisitore, più volte commissario dell’Ordine e vicario della Bosnia,
santificato nel 1726 da papa Benedetto XIII, è un personaggio che le
diverse tradizioni storiografiche stentano ad inquadrare in una visione
unitaria: dall’alone di santità che lo avvolge nelle opere agiografiche
del primo secolo dopo la morte[2],
alle tinte più chiare o più scure che le varie storiografie di
età confessionale vollero attribuire alla sua attività
predicatoria, missionaria ed inquisitoriale svoltasi non solo in Italia ma
anche in Bosnia, Ungheria e Transilvania[3].
In mancanza di uno studio monografico completo risulta difficile quindi far
piena luce sulle apparenti contraddizioni di questa figura che, come il maestro
Bernardino da Siena ed il compagno di studi ed attività Giovanni da
Capestrano, non evitò il confronto e la polemica durante la vita e non
ammorbidì la durezza del proprio messaggio neanche di fronte alla “calliditas” umanistica o all’irenismo
neoplatonico dell’epoca[4].
In
p. 304
attesa
che si porti a compimento “quel poderoso lavoro di esplorazione”, auspicato da
Ovidio Capitani in prolusione ad un convegno di studi dedicato al santo, che
dovrebbe portare alla luce questa figura per tanto tempo ingiustamente
trascurata, ci auguriamo di riuscire con questo breve contributo se non altro
ad attirare l’attenzione su aspetti meno noti della sua lunga attività
di predicatore.
I. L’“exemplum” ed il suo contesto
Il Codice Vaticano Latino 7780[5],
opera autografa di Giacomo della Marca, proveniente dalla biblioteca del santo
di Monteprandone, conserva una serie di sermoni latini, opere proprie ed opere
di predicatori più antichi e contemporanei. Gran parte di questi
sermoni, ad eccezione di quelli inclusi nell’edizione dei Sermones domenicales[6]
o in altre brevi raccolte, risultano ancora inediti. Tra le altre importanti
notizie di carattere biografico che il codice contiene, legate agli ultimi anni
della predicazione del santo, può sorprendere ritrovare una
testimonianza molto personale, insignita di carattere di esemplarità,
tanto da affiancare le “auctoritates”
bibliche[7]
(f. 47r, r. 33-38):
“Item: dixit mihi quidam
nobilis Valaccus quod dum turci in Valachia interfecerunt multos, unus
christianus, percussus mortaliter, iacuit XI diebus in silva. Et herbae natae
sunt cooperientes eum marcido [sic!] ab infra, et inde transiens sacerdos
quidam, vocavit eum ut audiret eius confessionem. Quia beata Virgo Maria non
permittebat mori sine confessione. Videtis ergo quantum placent Deo illi qui
defendunt fidem sanctam et patriam suam”.
In
traduzione italiana: “Mi ha raccontato un nobile valacco che mentre i Turchi in
Valacchia uccisero molte persone, un cristiano, ferito mortalmente, giacque per
undici giorni nel bosco ed ormai le erbe gli crescevano sopra coprendolo di
marciume. E più tardi, passando un sacerdote, lo chiamò per
ascoltare la sua confessione. In quanto la beata
p. 305
Vergine
Maria non gli permetteva morire senza confessarsi. Vedete quanto piacciono a
Dio coloro che difendono la santa fede e la propria patria!”. Il contesto in
cui l’“exemplum” si inserisce
è quello di un sermone intitolato “De magnificentia et confusione Sacrae
Fidei Christianae” ed, in particolar modo, con esso si intende esemplificare la
seconda questione principale: “quantum ad suorum fidelium filiorum
defensionem”. Il testo si inserisce dopo una serie di passi biblici (“auctoritates”), estratti con particolare
insistenza (ben tre passi) dal secondo libro dei Maccabei (lib. II, capitoli
11, 10 e 2) e dopo un altro passo biblico mirante ad illustrare i modelli
comportamentali del vero “miles Christi”
(Daniele, 10, 12-13). Il nostro testo è preceduto da un passo citato da
Paolo Orosio (sulla vittoria miracolosa di Teodosio sui goti – VII, 35: 17-20)
e, poi, si scende dalla legenda verso realtà più concrete e
vicine per l’ascoltatore, additando con questo “exemplum” il problema
aperto del momento, ossia la minaccia ottomana. Il sermone continua con il
ricordo, senz’altro ancora vivo nelle menti degli ascoltatori, della vittoria
di Belgrado sugli eserciti di Maometto II (f. 47r, r. 38-47v,
r. 1: “Et nota de victoria Hungarorum contra turcos in castro bel Grado”) e la
testimonianza raccolta da un civis
veneziano il cui nome ci viene riportato, da un prigioniero cristiano che
partecipò alla battaglia di Belgrado nelle fila dell’esercito ottomano e
che ne descrive il grave stato di confusione e le grandi perdite provocate
dalla vittoria cristiana (f. 47v, r. 3-5): “Et dixit mihi nobilis
civis Moyses Venetus quod interogaverunt veneti quemdam captivum christianum
qui annum stetit inter turcos et fuit in proelio dicto”. Con questo quadro
della confusione provocata alla secta
Machometi dalla vittoria cristiana di Belgrado si conclude la seconda
questione trattata, si apre la terza e ultima questione, che tratta delle cause
della confusione dottrinale della fede cristiana (identificando appunto nella “setta
islamica” il male peggiore) ed indicando quale rimedio alla grave divisione la
crociata di liberazione della Terra Santa e dei cristiani d’oriente (f. 47v,
r. 10-48v, r. 9).
D’altro canto, lo stesso “exemplum” che parla del “nobilis
valaccus” lo ritroviamo aggiunto in calce ad un’altro sermone del codice, a
dimostrazione del fatto che era considerato dall’autore un’immagine forte e
convincente per il proprio pubblico. Conviene dare anche la trascrizione di
questo passo per le differenze che se ne riscontrano tra una redazione e
l’altra, pur ricordando che di esso ha già parlato nel citato articolo
il padre Lasiæ [8](f. 125v,
r. 32-34):
“Item exemplum in Ungaria:
preliator contra turchos vulneratus 40 diebus in silva, et erbe crescentes
super eum. Et clamavit sacerdotem transeuntem, et confessus expiravit, quia
Virgo conservavit eum. Dixit mihi ille nobilis valacchus”.
In traduzione italiana: “Un altro esempio: in Ungheria un combattente contro i turchi, rimase ferito per quaranta giorni nei boschi e le erbe cominciavano a crescergli sopra. Chiamò un sacerdote che passava e, confessatosi spirò, in quanto la Vergine lo
p. 306
aveva
conservato in vita. Mi disse che egli era un nobile valacco”. In questo caso
l’“exemplum” è funzionale
all’interno di un sermone intitolato “De victoria belli temporalis et
spiritualis” (ff. 126r-130r), costruito intorno ad un
passo del primo libro dei Maccabei, 3,19: “Non in multitudine exercitus
victoria belli, sed de caelo fortitudo est”. Il fine del sermone è quello
di rispondere a tre “questiones”
principali: 1. quali sono le virtù per le quali concede Dio la vittoria
spirituale e temporale; 2. cosa si richiede da parte dei combattenti affinché
ottengano la vittoria; 3. se per avere la vittoria ognuno deve combattere per
la sua patria fino alla morte. In questa ultima parte venivano inserite anche
le “auctoritates” ed “exempla” aggiunte in calce al f. 125v,
raccolte dai due libri dei Maccabei e Daniele, ripetendosi lo schema di
argomentazione del sermone precedente. In questo caso, molto di più che
nell’altro, l’autore delinea con maggior chiarezza una serie di virtù
cristiane e, addirittura, francescane (visto che ne compaiono obbedienza e “paupertas”) con le quali si vuole
tratteggiare il profilo ideale del “miles
Christi”.
Ci sembra abbastanza probabile che in tutte e due le
redazioni l’“exemplum” sia stato
scritto dalla stessa mano che, in più, è quella che aggiunse il
breve passo da f. 1v che dà al codice il carattere di
autografo e datato[9]. Oltre gli
importanti elementi interni che questo passo offre per la datazione, il fatto
stesso che esso si trovi sul verso del primo foglio del codice, che è di
natura diversa (si tratta di un foglio di pergamena, mentre quasi tutto il
resto del codice è cartaceo) e che inizialmente non era numerato
adempiendo al ruolo di foglio di guardia, ci sembrano elementi sufficienti per
supporre che la datazione dei sermoni che ci interessano sia da situare prima
del 1467, data alla quale il codice era ormai quasi interamente completato e
probabilmente legato in una forma assai simile a quella che attualmente
possiamo vedere. Nella stessa nota autografa al f. 1v si dovrebbe
intravedere il fatto che, dopo l’aggiunta, l’autore se ne separava
probabilmente dal codice che gli era servito precedentemente quale quaderno di
lavoro[10],
lasciandolo alla biblioteca del convento di Monteprandone, ad uso degli altri
frati della comunità. D’altro canto, il ricordo della strage dei
cristiani e della profanazione delle chiese e delle sacre icone commesse dai
turchi dopo la conquista di Costantinopoli (f. 48r, r. 10) e della
vittoria nella battaglia di Belgrado (f. 47v, r. 1) ci rendono il
termine post quem di datazione. Per
via di questi argomenti consideriamo che si possa affermare che siamo di fronte
a due
p. 307
sermoni
autografi di Giacomo della Marca, scritti tra il 1456 e il 1467, che erano
serviti in più occasioni per la predicazione dal pulpito. Anche gli
elementi paleografici confermano questa interpretazione, suggerendo che la
redazione del testo sia avvenuta appunto dopo la metà del XV secolo, in
un periodo di passaggio alla corsiva umanistica (che si riscontra in varie
annotazioni fatte da frati più giovani, i quali coprivano la funzione di
copisti o segretari per conto di Giacomo della Marca).
Dagli elementi interni e dalla posizione occupata nel
testo si può facilmente dedurre che la redazione dell’“exemplum” che si trova nel sermone
intitolato “De magnificentia et confusione Sacre Fidei Christianae” sia
anteriore all’aggiunta in calce al f. 125v, ma la differente
trattazione dell’argomento ci fa pensare che l’autore non abbia semplicemente
copiato l’“exemplum” del f. 47r
al f. 125v abbreviandolo per necessità di spazio, ma che
abbia riportato la vicenda basandosi anche sulla propria memoria, da dove la
differente formulazione e le differenze di contenuto. Va tenuto presente che la
stessa raccolta di sermoni del Cod. Vat. Lat. 7780 non vantava di un carattere
di definitiva compiutezza, trattandosi di un quaderno di lavoro su cui S.
Giacomo usava registrare la struttura dei sermoni che poi predicava dal pulpito
e, quindi, è certo che l’aggiunta in calce delle “exempla” al f. 125v sia stata fatta per rendere
più facile l’inserimento nel sermone “De victoria belli spiritualis et
temporalis” di questi esempi che ben
corrispondevano al tema. È noto che la predicazione dei frati minori
osservanti al popolo avveniva in volgare[11]
(sono conservate le “reportationes”
di due sermoni di Giacomo della Marca tenuti a Padova nel 1460[12])
e, di conseguenza, le schematiche notazioni del codice servivano soltanto a
ricordare al predicatore l’ossatura del discorso, costituita appunto dalle “auctoritates” e dagli “exempla” da inserire nel contesto.
Più interessante ci sembra invece affrontare il
contesto generale in cui questo “exemplum”
veniva presentato. L’argomento dei due sermoni ricordati, ma anche di altri
sermoni contenuti nel codice, ci dimostrano che siamo di fronte a una serie di
sermoni che venivano recitati dal pulpito durante la predicazione della
crociata, al fine di arruolare militi e di raccogliere fondi per lo
sostentamento dell’esercito durante le operazioni belliche. Un’importante fonte
per comprendere come funzionava la predicazione della crociata, quali ne erano
gli obiettivi ed i contenuti nel sesto decennio del XV secolo è
costituita dalla così intitolata “Instructio pro predicatoribus per eum
deputatis ad predicandum crucem” che il Cardinale Bessarione, nella sua
qualità di legato apostolico per la predicazione della Crociata nei
territori della Repubblica di Venezia, rivolgeva il 24 agosto 1463[13]
ad una serie di predicatori (tra cui però Giacomo della Marca non viene
ricordato).
p. 308
Il
cardinale insisteva affinché i predicatori presentassero ai fedeli i motivi per
cui la crociata era quanto mai necessaria, distinguendo tre principali parti su
cui il predicatore doveva tessere il proprio discorso: anzitutto, “ad
vindicandum tot ineffabiles contumelias per tot nephandas iniurias per Turchos
illatas Christo Deo, sanctis suis, sanctorum reliquiis, templis et imaginibus
sacris ac fratribus christianis”, in secondo luogo “ad subveniendum innumerabili populo christiano per Turchos gravissime
oppresso et in turpissima servitute redacto”, e per ultimo aggiungeva il
grave pericolo che l’Italia ed, in particolar modo, i domini veneti
rischiavano. Esistono molte affinità tra la struttura del sermone che
Bessarione consigliava e la struttura di ciò che potremmo definire “i
sermoni crociati” di Giacomo della Marca, come troviamo molte somiglianze tra
alcuni “exempla” (il doloroso ricordo
della caduta di Costantinopoli, della vittoria di Belgrado ecc.). Gli elementi
non sembrano però sufficienti per poter affermare che la raccolta di
sermoni di Giacomo della Marca sia ispirata dalla Instructio del Cardinale del 1463: manca l’esplicito riferimento
alla minaccia che incombe sui territori veneti e sull’Italia (elemento centrale
della lettera di Bessarione), la struttura dei sermoni non è la stessa,
le citazioni bibliche e le “exempla”
sono differenti. In più, data la fama di predicatore di cui Giacomo
della Marca godeva all’epoca, ci sembra inverosimile che la sua predicazione
avvenisse senza che il suo nome fosse ricordato nel documento.
Sappiamo invece che Giacomo della Marca rivestì il
ruolo di predicatore della crociata contro gli Ottomani in più occasioni
ed, in particolare, in una serie di ben tre lettere del pontefice Pio II e del
Cardinale Bessarione, del 19-20 maggio 1459[14],
gli veniva richiesto di raccogliere ed inviare ad Ancona quanto prima possibile
tre cento militi armati, con i necessari fondi per lo sostentamento per un
intero anno, da inviare con la massima celerità in aiuto al despota
della Morea Tommaso Paleologo. Questo era insorto all’inizio dell’anno contro
l’occupazione ottomana, riconquistando la maggior parte dei luoghi fortificati
e dando così al suo alto protettore in curia buone speranze di
resistenza della popolazione greca contro l’invasore. Veniva dunque concesso al
frate francescano da parte dei sommi responsabili per la crociata, il papa ed
il cardinale legato, per corrispondenza diretta, un incarico speciale, a
dimostrare, una volta in più, una relazione privilegiata, di fiducia e
famigliarità: “et ad tuam personam, fide et integritate ac rerum
experientia praestantem direximus oculos nostrae mentis, discretioni tuae in
virtute sanctae obedientiae injungentes”, afferma il papa Piccolomini,
mentre il cardinale Bessarione gli si rivolge con la formula “tamquam amico
nostro”[15]. E non si
tratta soltanto di amicizia e famigliarità: la lunga, articolata ed
elegante descrizione della Morea che il Cardinale Bessarione gli invia, in
parte ripresa dalla prima delle due lettere del papa, non è soltanto
p. 309
un
monumentale passo di eleganza umanistica, ma anche una precisa e puntigliosa
descrizione del Peloponneso, completa di tutte le necessarie informazioni
geografiche da impartire ai crociati, o almeno ai loro comandanti; l’attenzione
che i vertici della crociata concedono al problema, ed anche la discrezione e
la celerità con cui la questione doveva essere portata a termine,
dimostrano che Giacomo della Marca godeva di una grandissima fiducia da parte
del papa, dovuta senz’altro alle sue eccellenti doti di predicatore, ma anche
ai delicati impegni portati a termine con successo per conto dei precedenti
pontefici, da Martino V fino a Callisto III. In più, i suoi rapporti con
il cardinale Bessarione erano molto stretti, visto che quest’ultimo ricopriva
dal 10 settembre 1458 la carica di protettore dei frati minori e che Giacomo
della Marca, per la sua prestanza, era la guida spirituale del movimento
osservante francescano in quel momento. Esistevano quindi tutti i migliori
motivi per desiderare di mantenere l’appoggio del Cardinale: cosa che gli
riuscì, adempiendo egli all’incarico affidatogli.
Il 1458-1459 ci sembra quindi il periodo più
probabile di composizione della raccolta di sermoni, sostenuti dal pulpito
durante la predicazione fatta nelle Marche e ad Ancona nel 1459, come
d’altronde durante la predicazione quaresimale di Padova dell’anno seguente.
Non è da escludere che i sermoni venissero pronunciati in seguito anche
in altre occasioni, visto che il tema della crociata sarebbe restato di gran
attualità in Italia fino alla fine del secolo e dato che frate Giacomo
continuò ad impegnarsi in grandi campagne di predicazione quasi
ininterrottamente fino al 1467. D’altro canto è molto probabile che il
codice servisse almeno ad un’altra generazione di frati. La presenza nella
raccolta di molto materiale legato alla controversia sulla natura divina del
sangue di Cristo, culminata con un dibattito tra teologi domenicani e
francescani in presenza del papa Pio II nel 1462, senza però che questo
materiale fosse organicamente incluso in un sermone o in un trattato apposito,
ma sparso per il codice, ci fa pensare che a quella data buona parte del
sermonario era già scritta, in quanto l’autore si doveva accontentare di
riempire gli spazi rimasti liberi tra un sermone e l’altro. Un altro elemento
ci conduce a questa stessa conclusione: nel 1458[16]
Giacomo della Marca rientrava dal suo ultimo viaggio nel regno d’Ungheria,
fatto su richiesta di papa Callisto III, espressa per un Breve del 14 maggio 1457[17],
al fine di coordinare la predicazione della crociata in Ungheria e Boemia ed
un’azione inquisitoriale di ampia portata contro l’eresia ussita, lasciata non
ultimata dalla morte del confratello Giovanni da Capestrano ad Ilok, un anno
prima. Questo secondo viaggio in Ungheria sembra l’occasione in cui il frate
abbia raccolto molte delle testimonianze sui turchi e sulla caduta di
Costantinopoli ed incontrò anche quei nobili valacchi lodati per il loro
eroismo e virtù cristiane, dimostrate in varie occasioni.
p. 310
III. I valacchi nella visione francescana e
nell’immaginario collettivo
L’“exemplum”
presentato pone una serie di problemi interpretativi: mentre l’informazione
è raccolta in Ungheria (come abbiamo detto, probabilmente durante il viaggio
compiuto nel 1457-58) e la fonte risulta un anonimo nobile valacco (e, in
questo caso, dobbiamo pensare ad un transilvano), l’“exemplum” è ambientato in Valacchia, in un momento
imprecisato ma che, in fondo, non può essere molto lontano nel tempo, visto
che l’autore con ciò vuol proporre un modello comportamentale vicino ai
tempi presenti: quindi, i personaggi sono da collocare in un contesto valacco
e, probabilmente, si tratta di persone di rito greco-ortodosso. È
impossibile ricostruire il preciso contesto storico a cui l’“exemplum” si ispira, visto che il
predicatore non ci presenta alcun particolare, in quanto non funzionale
all’interno del suo discorso omiletico. Più rilevante, senz’altro,
è invece comprendere qual è la visione francescana sui romeni e
quale ruolo viene assegnato loro nell’ambito della “respublica Christiana” e,
in secondo luogo, quale era l’immagine di loro che la predicazione minoritica
voleva proporre.
La collocazione dell’“exemplum”
all’interno del sermone “De magnificentia et confusione fidei christianae”
implica da parte dell’autore anche una schematica riflessione storica e
geografica sulla Chiesa, ricondotta ad una sua unità ideatica. Questo
tentativo di ricostruire l’unità del corpo mistico del Cristo,
caratterizza la riflessione minoritica dalle sue origini. Il tentativo di
ricondurre “ad unum” le membra disperse concerne anche i romeni, ed i mezzi per
ricondurli all’unità sembrano gli stessi per l’intero medioevo: la
rinascita all’interno della Chiesa universale, ossia il battesimo[18].
Come spiegare quindi l’attribuzione della frase “Videtis ergo quantum
placent Deo illi qui defendunt fidem
sacram et patriam suam” ad un “defensor sacrae fidei” che non si
trova in comunione con la Chiesa romana, come probabilmente era il caso del
nostro romeno della Valacchia?[19]
E evidente che ci troviamo di fronte ad un’operazione simile a quella che, due
decenni dopo, compiva un altro prodotto di questa cultura minoritica, l’ex
frate minore, allora papa, Sisto IV, attribuendo il titolo di “athleta
Christi” al voivoda moldavo Stefano il Grande. Forse uno dei testi spia che
meglio di tutti ci fa comprendere l’operazione, è il discorso attribuito
a Giovanni da Capestrano prima della battaglia di Belgrado, da un altro frate
minore, Giovanni da Tagliacozzo[20]:
p. 311
“«Quicunque etiam nobiscum assistere contra turcos volunt, amici nostri sunt; Rassiani schismatici, Valachi, Iudaei, haeretici et quicunque infideles in hac tempestate esse volunt, eos amicitia complectamur. Nunc contra Turcos […] pugnandum est». Sicque pater, haereticae pravitatis generalis inquisitor, exstirpator et confusor, eos tamen, qui contra Turcos arma sumebant, nolebat tunc aliqua molestia conturbari; faciebat eos saepisime acclamare Nomen Iesu”.
In
traduzione italiana: “«Tutti coloro che volessero assisterci contro i Turchi,
sono nostri amici; Serbi scismatici Valacchi, Giudei, eretici e qualsiasi
infedele che volesse essere in questa tempesta, tutti loro gli abbracceremmo
con amicizia. Adesso contro i Turchi […] bisogna combattere». Così il
padre, inquisitore generale dell’eretica pravità, sradicatore e
distruttore di essa, non voleva che coloro che contro i Turchi impugnavano le
armi, fossero allora conturbati da alcuna molestia; gli faceva acclamare spesso
il Nome di Gesù”. Evidentemente, con questo discorso si supera di gran
lunga la dimensione dell’unione fiorentina, visto che si propone un alleanza
con chiunque volesse partecipare alla crociata, inclusi gli ebrei e gli
infedeli. E, per quanto si potesse intravedere in questa frase un cambiamento
dell’atteggiamento in confronto ai non cattolici[21],
di fatto questo è un tipo di comportamento perfettamente inseribile in
una tradizione minoritica di lunga durata. Lo si ritrova nelle abili soluzioni
proposte da Fidenzio da Padova per la conquista ed il governo della Terra Santa[22],
come nell’ambivalenza dei rapporti intrecciati con i popoli d’Oriente da
Guglielmo da Rübrück[23]
ed è probabilmente da ricondurre ad una dottrina francescana che trae
l’origine dalla Regula non Bullata di
S. Francesco[24]. Il fatto
stesso di proporre ai non cattolici un l’adesione ad una forma di culto
minoritica, come l’adorazione del S. Nome di Gesù, dimostra la
volontà dei minori di superare il livello dottrinale ed ecclesiologico,
a favore di un Vangelo vissuto e glorificato con l’esempio personale.
La vicinanza dottrinale tra la visione minoritica
proposta dal Tagliacozzo ed il sermone di Giacomo della Marca è
più grande di quanto si possa pensare, in quanto quest’ultimo fu colui
che richiese a frate Giovanni una dettagliata descrizione sulle ultime gesta di
Giovanni da Capestrano. Pertanto, la lettera del Tagliacozzo (finita in una
prima versione nel 1460, e nella seconda e definitiva nel 1461), si fonda su
una solida dottrina minoritica, di cui Giacomo della Marca, in quanto professor ordinis, doveva esserne
l’ispiratore.
p. 312
I due testi, pur condividendo una stessa dottrina, per
funzionalità riempivano ruoli molto diversi. Mentre il testo del
Tagliacozzo aveva una evidente dimensione apologetica e serviva nel processo di
santificazione del Capestranese[25],
volendo dimostrare la tesi francescana sulla “crociata dei minori” in ambienti
curiali e colti, i sermoni di Giacomo della Marca si rivolgevano al popolo e
pertanto il contenuto era adeguato alla comprensione della gente comune. Il
discorso del predicatore, a differenza degli scritti degli umanisti, non era
una questione meramente intellettuale, un dibattito limitato ad una cerchia
ristretta di conoscitori, ma aveva la forza di insinuarsi in maniera capillare
nel mentale comune, riempiendo in parte anche il ruolo che i tempi moderni
hanno affidato alla stampa ed ai media. Il missionario, come il mercante, erano
i canali per cui l’informazione poteva arrivare da un lato all’altro della
cristianità. Il controllo di uno di questi canali dava al predicatore la
possibilità di esercitare una profonda influenza sul proprio pubblico.
Visto che abbiamo davanti un discorso costruito, mirato,
destinato ad un pubblico per lo più semplice, ci sembra lecito chiederci
perché si desiderava diffondere questa immagine sui valacchi. Senz’altro poco
si conosceva su di loro al di fuori degli ambienti colti e le poche conoscenze
si fondavano sui contatti che la nobiltà romena delle aree di confine
della Transilvania aveva allacciato con l’Italia a cominciare dalla fine del
XIV secolo, durante i pellegrinaggi romani “ad limina apostolorum”.[26]
Poco poteva interessare invece al pubblico del predicatore la questione
dell’origine romanza dei romeni, che costituiva uno dei maggiori punti
d’interesse degli umanisti in quanto gli riguardava (da Flavio Biondo ad Enea
Silvio Piccolomini) e di cui il predicatore ne era probabilmente a conoscenza
(visti contatti che l’Osservanza francescana aveva con gli ambienti umanistici
e, d’altro canto, la probabile esistenza all’interno del movimento di frati in
grado di predicare anche in lingua romena). Essenziale invece in questo
contesto era diffondere o rafforzare un’immagine legata all’esplicita funzione
che i romeni adempivano nella geografia della respublica Christiana occidentale, in un momento in cui, persa la
libertà di gran parte dei cristiani d’orientale, ci si sforzava ad
integrare la parte rimasta nell’area di cristianità latina. Ed i
valacchi costituivano appunto l’antemuraglia della Cristianità.
Essenziale quindi diffondere un’immagine di loro quali strenui difensori della
cristianità, non solo per stimolare l’uditorio a seguirne l’esempio, ma
anche per poter svolgere con successo l’enorme impegno di raccolta delle
finanze necessarie per poter far fronte alle necessità belliche.
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[1] I profili più recenti per la figura di Giacomo
della Marca (nelle fonti latine Jacobus
de Monteprandone, Jacobus Picenus
oppure Jacobus de Marchia Anconitana,
al secolo Domenico Gangali) sono
quelli di Renato Lioi che troviamo nella Bibliotheca
Sanctorum, VI, Roma 1965, coll. 396 e quello pubblicato nel Lexicon des Mittelalters, vol. V, Monaco
di Baviera 1991, coll. 259-260. Per una presentazione complessiva
dell’attività di S. Giacomo in Bosnia e Ungheria, accanto all’ancora
utile articolo di Athanasius Mataniæ, De
duplici activitate S. Iacobi de Marchia in regno et vicaria franciscali Bosnae,
in “Archivium Franciscanum Historicum”, LIII, 1960, pp. 111-127, i più
recenti saggi sono: Basilio Pandžic, Giacomo
della Marca vicario della Vicaria di Bosnia (1435-1438), in San Giacomo della Marca nell’Europa del
‘400. Atti del Convegno internazionale di studi. Monteprandone, 7-10 settembre
1994, a cura di Silvano Bracci, Padova 1997, pp. 189-202 e György Galamb, San Giacomo della Marca e gli eretici di
Ungheria, in San Giacomo della Marca
nell’Europa cit., pp. 211-220.
[2] Cfr. Antonio S. de Jacobiti, Poema inedito in ottava rima su s. Giacomo della Marca (1393/1476),
a cura di G. Mascia, Napoli 1970; La vita
di s. Giacomo della Marca (1393-1476) secondo gli antichi codici di fra
Venanzio da Fabriano, a cura di Umberto Picciafuoco, Monteprandone 1997.
[3] Per un duro, ma superficiale, giudizio sulla sua
attività, nella storiografia romena si vedano: ªtefan Pascu, Bobâlna, Bucarest 1957, pp. 90-94 e Ioan
Lupaº, Rolul episcopului Gheorghe Lepeº
din Alba Iulia ºi al inchizitorului Iacob de Marchia în rãscoalele þãrãneºti
din anii 1437-1438, in “Mitropolia Ardealului”, IV, no. 1-2, 1959, pp.
116-118.
[4] Cfr. «Epistola ad
Machometem» di papa Piccolomini, in Luca d’Ascia, Il Corano e la tiara: l’epistola a Maometto di Enea Silvio Piccolomini
(papa Pio II), Bologna 2001.
[5] La descrizione del codice e del suo contenuto si trova
in Dionysius Lasiæ, Sermones S. Iacobi de
Marchia in cod. Vat. lat. 7780 et 7642 asservati, in “Archivium
Franciscanum Historicum”, LXIII, 1970, pp. 476-565, mentre la sua importanza
come fonte per la vita di Giacomo della Marca è messa in rilievo da
Ottocar Bonmann, Fonti poco note della
vita di S. Giacomo della Marca, in “Picenum Seraphicum”, VII, 1970, pp.
99-100.
[6] Iacobus de Marchia, Sermones
domenicales, I-III e suppl. (Biblioteca Francescana), a cura di Renato
Lioi, Falconara Marittima 1978-1984.
[7] Le parti del sermone medievale erano scandite da questiones (temi), principali o
secondari; i passi biblici (auctoritates)
costituivano i veri argomenti su di cui il predicatore fondava il proprio
discorso, mentre alle exempla
spettava il compito di illustrare e facilitare la comprensione del testo; per
la struttura del sermone, si vedano: Thomas M. Charland, Artes praedicandi. Contribution à l’histoire de la rétorique au
Moyen Age, Parigi–Ottawa 1936; Carlo Delcorno, L’“exemplum” nella predicazione di Bernardino da Siena, in Bernardino predicatore nella società
del suo tempo, Todi 9-12 ottobre 1975 (Convegno del Centro di Studi sulla
spiritualità medievale, 16), Todi 1976, e l’importante raccolta Les
exempla medievaux: nouvelles perspectives, a cura di Jacques Berlioz e Anne
Marie Polo de Beaulieu, Parigi 1998.
[8] D. Lasiæ, op. cit.,
p. 494; bisogna notare che il Lasiæ aveva inquadrato l’“exemplum” all’interno del sermone precedente, mentre lo stesso
autore del codice ci avvisava che esso apparteneva al “De victoria belli temporalis et spiritualis”: f. 125v,
r. 26.
[9] Cod. Vat. Lat. 7780, f. 1v: “Ego frater
Iacobus de Monteprandone ordinis minorum etate viginti duorum annorum in nomine
Domini ingressus sum in ordinem sancti Francisci de mense julii 1416. Et incepi
predicare in festo sancti Antonii de Padua in sancto Salvatore prope Florentiam
1420. Et dimisi predicationem in festo sancti Bernardini de mense madii 1467,
manu propria; habens etatem septuaginta quinque annorum”.
[10] Per la natura di questo e di altri libri di S. Giacomo,
si veda Maria Grazia Bistoni Grilli Cicilioni, Un libro da bisaccia. Il codice 44 dell’Archivio Comunale di
Monteprandone, Roma 1996; per una più generale ma illuminante
introduzione sull’argomento: Arnaldo Petrucci, Alle origini del libro moderno. Libri da banco, libri da bisaccia,
libretti da mano, in “Italia Medioevale e Umanistica”, XII, 1969 pp.
295-313.
[11] Per la predicazione degli Osservanti, si veda Cosimo
Faggiano, L’eloquenza volgare di S.
Bernardino da Siena predicatore francescano del Quattrocento, Firenze 1916;
Bernardino predicatore nella
società del suo tempo. XVI Convegno Internazionale di Studi, Todi, 9-12
ottobre 1975, Todi 1975.
[12] Carlo Delcorno, Due
prediche volgari di Jacopo della Marca recitate a Padova nel 1460, in “Atti
dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti”, CXXVIII, 1970, pp. 135-205.
[13] Il documento si conserva nell’Archivio Storico Vaticano,
armadio XXIX. 31, ff. 19-23 ed è stato pubblicato da Ludwig Mohler, Bessarions Instruktion für die
Kreuzzugspredigt in Venedig (1463), in “Romische Quartalschrift fur christliche Altertumskunde und fur
Kirchengeschichte”, XXXV, 1927, pp. 337-349; per i nomi dei predicatori a cui
l’istruzione era ulteriormente estesa (l’1 settembre 1463), si veda Caesar
Cenci, Documenta Vaticana ad franciscales
spectantia ann. 1385-1492, in “Archivium Franciscanum Historicum”, XCIV,
2001, p. 109.
[14] Spyridon Paolou Lampros, Palaiologeia kai Peleponnesiaka, Atene
1912-1930, pp. 251 ss.
[15] Ibidem, p.
251, p. 254.
[16] Non si conosce l’esatta data del rientro di Giacomo in
Italia, è certo però che il 7 ottobre 1457 si trovava ancora a
Buda, da dove scriveva agli ascolani, Cfr. Lucas Wadding, Annales minorum seu trium ordinum a s. Francisco institutorum,
Quaracchi–Roma, 1931-19343, a.a 1457.
[17] Eudoxiu di Hurmuzaki, Documente privitoare la istoria românilor, vol. II, Bucarest
1830-1890, doc. LXXIV, p. 86.
[18] La pratica del battesimo (e del ribattesimo nei casi
considerati di dubbia ortodossia) è da collegarsi all’interpretazione
molto rigida da parte dei frati minori di una norma stabilita dal fondatore
che, nel capitolo sulle missioni della Regula
non Bullata, cap. XVI, sanciva: “ut [saraceni et infideles] baptizentur et
efficiantur christiani, quia quis renatus non fuerit aqua et spiritu sancto non
potest intrare in regnum Dei”, Francesco d’Assisi, Scritti, Padova 2002, p. 278.
[19] Per le conseguenze dottrinali dell’Unione di Firenze
nell’area romena, si veda: ªtefan C. Alexe, L’èglise
orthodoxe roumaine et le Concile de Ferrare–Florence (1438-1439), in Christian Unity. The Council of
Ferrara–Florence 1438/1439-1991, a cura di Giuseppe Alberigo, Lovanio 1991,
pp. 613-621; Gheorghe Marius Diaconescu, Les
implications confessionnelles du Concile de Florence en Hongrie, in
“Mediaevalia Transilvanica”, I, no. 1-2, 1997, pp. 29-62.
[20] Giovanni da Tagliacozzo, Victoria mirabilis de Turcis habita duce Ven. B. Patre Fr. Joanne de
Capistrano, series descripta per Fr. Jo. de Tagliacotio illius socium et
comitem atque beato Iacobo de Marchia directa (Extractum ex periodico “Acta
Ordinis Minorum”, I-XI, 1906), Firenze 1906, p. 48.
[21] Cfr. Gh. M. Diaconescu, op. cit., pp. 56-58.
[22] Fidenzio da Padova, Liber
recuperationis Terrae Sanctae (Biblioteca bio-bibliografica della Terra
Santa e dell’Oriente francescano), a cura di Girolamo Golubovich, Firenze–Quaracchi
[s. a.], pp. 9-60.
[23] Guillelmus de Rubruc, Itinerarium, in Sinica
Franciscana, vol. I, a cura di P. A. Van der Wyngaert, Firenze 1929, p.
243.
[24] Cap. XVI: “De euntibus inter saracenos et alios
infideles”, F. d’Assisi, op. cit.,
pp. 270-280.
[25] Per un’utilissima analisi della costruzione
dell’immagine di Giovanni da Capestrano nella relazione del Tagliacozzo e della
persistenza di modelli tradizionali francescani, si veda P. Evangelisti, op. cit., pp. 231-313.
[26] Daniel Barbu, Pèlerinage
à Rome et croissade. Contribution à l’histoire religieuse des
Roumains dans la première moitié du XVe siècle, in
“Revue Roumaine d’Histoire”, XXXIII, no. 1-2, 1994, pp. 27-42.