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Quaderni 2004
p. 197
L’esercito crociato nella Battaglia di Belgrado
(14 e 21/22 luglio 1456): etnia e stato sociale
Iulian Mihai Damian,
Università degli Studi “Babeº-Bolyai” di
Cluj-Napoca/
Scuola Normale Superiore di Pisa
Per quanto l’importanza della battaglia di Belgrado sia
ormai abbastanza nota, anche per una serie di opere storiografiche di alto
pregio[1],
ben poco in epoca moderna è stato dedicato ai due tratti di essa da noi
presi in analisi: la grande diversità etnica dei crociati, che le
rendono un carattere internazionale nel più ampio senso, ed il problema
della partecipazione alla crociata del popolo minuto, che molto ha da dire su
questa “crociata dei poveri” e sui delicati equilibri sociali del plurietnico
Regno d’Ungheria nei sette decenni precedenti la conquista ottomana. Non lo
stesso si può invece sostenere in quanto riguarda la letteratura
storiografica della seconda metà del Quattrocento e dell’inizio del
Cinquecento, secoli in cui la splendida e inaspettata vittoria sull’esercito di
Maometto II il Conquistatore scaturì un’importante polemica sul ruolo
avuto dalle varie nazioni e sulla vergognosa assenza dal campo di battaglia del
re d’Ungheria e dei baroni del Regno.
Tra le principali fonti della battaglia è doveroso
elencare le opere dedicate alla vita di S. Giovanni da Capestrano, scritte dai
suoi confratelli francescani negli anni seguenti alla morte del grande maestro,
testimoni diretti agli eventi di Belgrado, ossia, in ordine cronologico, le
opere di Girolamo da Udine[2],
Nicola da Fara[3] e Cristoforo
da Varese[4],
a cui si aggiungono le due relazioni maggiori di fra Giovanni da Tagliacozzo[5],
che, per estensione e autorità, meritano senz’altro una particolare
attenzione. Dall’altro
p. 198
canto,
nella storiografia laica ed ufficiale dell’epoca, le principali fonti sono:
l’opera di Enea Silvio Piccolomini[6],
quella di Pietro da Ragusa[7]
e quella di Antonio Bonfini[8],
mentre un interessante passo sui pellegrini tedeschi a Belgrado lo troviamo
nell’opera dell’umanista tedesco Hartmann Schedel, “Cronaca della città
di Norimberga”[9].
Ulteriori fonti d’informazione, assunte proprio “dal
campo di battaglia” (e che, per questo, consideriamo meno soggettive e
più vicine alla realtà) o scritte in prossimità degli eventi,
sono le lettere dei testimoni oculari della battaglia o delle persone che della
battaglia dovevano avere una profonda conoscenza, in parte conosciute tramite
raccolte bibliografiche ormai note[10],
o rese note in tempi più o meno recenti per mezzo di pubblicazioni
locali o, comunque, poco accessibili agli studiosi romeni interessati[11].
Una di queste lettere, che avremo occasione di citare ora –anche perché
contiene una serie di chiarimenti su com’era percepita la figura di Iancu di
Hunedoara negli ambienti italiani e francescani– è la lettera del 5
marzo 1569, indirizzata da S. Giacomo della Marca al cardinale Francesco da
Savona, in precedenza Generale dell’Ordine, lettera conservata in un codice
della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia[12].
Non è nostro intento riprendere l’intero discorso
creatosi intorno alla battaglia di Belgrado –che ha già trovato peraltro
delle ottime trattazioni nelle opere in precedenza indicate– quanto quello di
fornire, allacciandoci all’intero discorso storico, una prospettiva diversa e,
senz’altro, più esatta sulle nozioni di etnia e stato sociale
nell’ambito storico della crociata difensiva del 1456. Le fonti che prenderemo
in analisi, ed in particolare quelle francescane, per quanto abbondino in
riferimenti sulla nazione e lo stato sociale dei crociati, richiedono una
corretta interpretazione, che può essere data soltanto dal contesto
storico in cui si svolse la crociata. Bisogna fare anzitutto due
considerazioni: la prima riguarda lo stretto rapporto esistente nel Regno d’Ungheria
tra natio (che spesso implica anche l’ambito confessionale) e stato
sociale degli individui,
p. 199
risultato
di una politica di privilegi e concessioni elargiti durante i secoli dai re
d’Ungheria alle singole comunità etniche (specialmente se poste sul
confine sud-orientale del Regno) che, come è noto, è uno dei
tratti più longevi del Regno; la seconda considerazione riguarda il
delicato momento storico della crociata, quando per l’applicazione della bolla
di unione del Concilio di Firenze (6 luglio 1439), in particolar modo nei
territori dominati dai signori di fede cattolica[13],
gli equilibri esistenti erano sottoposti ad una forte pressione, sotto la
spinta delle nazioni medioevali emergenti, con privilegi minori o inesistenti,
ma comunque mature e pronte a combattere per i propri interessi[14].
Nel territorio e nel conteso di nostro interesse, i rasciani (termine con cui
dobbiamo intendere serbi, croati e bosniaci) ed i valacchi (delle due sponde
del Danubio, nonché della Transilvania e del Banato) erano senz’altro i
più numerosi.
È noto l’impegno con cui S. Giovanni da
Capestrano, tributario ad una visione di universalità della Chiesa, si
adoperò per l’unità della Respublica Christiana, quale
unica garanzia non solo per il miglioramento dello statuto dei poveri e degli
emarginati, ma anche affinché la Cristianità potesse dare una risposta
adeguata alla minaccia ottomana. In un Quaresimale egli afferma omne regnum
in se divisum desolabitur[15]
e, ispirato, ripete la visione in un’altro sermone: quam bonum et quam
jucundum habitare fratres in unum[16].
Fu questa visione la base del programma religioso, sociale e politico con cui
egli (di comune accordo con Iancu di Hunedoara) preparò la crociata
negli anni 1455-1456 in Ungheria e Transilvania e questa, molto probabilmente,
fu la visione che ispirò fino alla conquista ottomana la comunità
francescana di questi territori. La predicazione della crociata, della
concordia e dell’unione costituirono il punto centrale dell’attività di
Giovanni da Capestrano per l’intera fase di preparativi. Non deve quindi
stupire che la chiamata a prendere la croce fosse stata rivolta non soltanto ai
tedeschi ed agli ungheresi (cattolici e, in genere, con uno statuto
privilegiato), ma anche a tutti gli altri abitanti delle aree direttamente
minacciate: “chiunque voglia combattere i turchi è nostro amico:
rassiani scismatici, valacchi, giudei, eretici, e qualsiasi altro infedele,
voglia stare al nostro fianco in questa frangente, noi li accogliamo con grande
amicizia”[17]. Il passo
è da interpretare come una chiamata generale alle armi, che supera
l’ambito della politica pro-unionista che Giovanni da Capestrano promosse nella
p. 200
seconda
metà del 1455 e all’inizio del 1456, e fa riferimento a tutti i gruppi
etnici e religiosi del mondo feudale, visto che vi compaiono persino i gruppi
più emarginati della società feudale, ebrei ed eretici[18].
Il fatto che Giovanni da Capestrano confidi completamente per la difesa della
Cristianità occidentale nei gruppi etnici, religiosi e sociali che vivevano
al margine di essa, per quanto singolare potesse sembrare, è pienamente
giustificabile per una serie di motivazioni di natura oggettiva quali: il
rifiuto del re magiaro Ladislao il Postumo di assumere la guida (almeno
istituzionale) dell’esercito, ciò che automaticamente esentava la
nobiltà dal prendere parte al conflitto[19],
la minaccia impellente sull’intera area che costituiva senz’altro un
sufficiente motivo di coesione e, non per ultimo, l’esperienza che valacchi e
serbi avevano acquisito nella lotta contro gli Ottomani[20].
A ciò bisogna aggiungere una motivazione soggettiva, propria dell’Ordine
dei Frati Minori, che in una “crociata dei poveri” vedeva una straordinaria
occasione per la propagazione dei propri insegnamenti. La conferma che la gran
parte dell’esercito crociato di Belgrado fosse costituita dai ceti più
bassi della società viene data dall’umanista tedesco Hartmann Schedel,
portavoce del patriziato di Norimberga (dove Giovanni da Capestrano aveva
predicato), che ci informa che nel 1456 dalla Germania partirono alla volta di
Belgrado calzolai, sarti, tessitori, minatori, fornai, studenti, chierici[21].
Se in quanto riguarda lo stato sociale di questo esercito
plurietnico crociato tutte le fonti coeve sono concordi, relativamente la loro
origine etnica, le cose sono meno chiare: da un lato si tratta di crociati
d’origine tedesca e polacca, fatti aderire alla causa antiottomana durante la
predicazione degli anni 1453-1454, mentre un secondo gruppo, costituito
nell’immediata vicinanza delle operazioni belliche, era quello formato
all’inizio della seconda metà del 1455 nelle terre dell’Ungheria
meridionale e in Transilvania. Senz’altro si trattava di popolazione ungherese,
valacca e tedesca, popolo minuto delle città, ma anche delle campagne: tutti
coloro invece, che risposero all’appello, erano popolani, contadini, poveri,
sacerdoti, chierici secolari, studenti, monaci, frati di diverse famiglie,
mendicanti, persone del terz’ordine di S. Francesco, eremiti[22].
Anche le armi di questi crociati ricordano un mondo rurale e pastorizio: abbondavano
le spade, i bastoni, le fionde, le mazze come quelle che sogliono portare i
pastori e tutti disponevano di uno scudo[23].
Il dubbio che potremmo invece sollevare riguarda la loro
partecipazione effettiva alle operazioni di difesa, visto il numero ridotto di
difensori che la fortezza
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di
Belgrado poteva contenere ed il ritardo con cui i crociati si erano riuniti
nell’accampamento di Slankamen. A questa conclusione ci spingerebbe anche
un’affermazione di Nicola da Fara, che sostiene che dell’intero numero di
crociati, soltanto cinquemila (o, addirittura, tremila) presero parte alle
operazioni belliche[24].
Risulta, di conseguenza, che per la maggior parte delle operazioni di difesa
della fortezza (dove il valore militare era di gran lunga più importante
del numero) fossero stati impiegati combattenti addestrati, abituati alla lotta
contro gli Ottomani. Se poi si prende in considerazione l’importante ruolo
avuto dall’artiglieria nell’intera operazione difensiva si comprende che ben
poco ci si poteva aspettare da gente senza alcuna preparazione militare. Ne
risulta, invece, che alle varie categorie di combattenti fossero stati affidati
compiti differenti. L’azione maggiore di questo gruppo dell’esercito crociato,
impreparato militarmente ma, senz’altro, reso ardito e infuocato dai sermoni di
Giovanni da Capestrano, fu l’assalto del 21 luglio (che rovesciò la
situazione) e l’ulteriore partecipazione alla conquista del campo ottomano il
giorno dopo.
Un gruppo etnico compatto che viene presentato dalle
fonti è quello dei cittadini di Belgrado che, nella battaglia svoltasi
sul Danubio il 14 luglio, hanno avuto il ruolo di colpire alle spalle la
flottiglia ottomana, permettendo ai vascelli di Iancu di Hunedoara, che discesero
il corso del fiume, l’accerchiamento e l’annientamento del nemico: Questi
subito preparano ed apparecchiano quaranta barche, stabiliscono che soltanto i
cittadini fossero abilitati alla guida di esse, e che gli stessi cittadini vi
dovessero combattere. Questi, benché si professino scismatici, rimangono
tuttavia nemici dichiarati dei turchi, coraggiosi e bellicosi contro di essi,
tanto che i turchi li temono più di qualsiasi altro gruppo –afferma
Tagliacozzo[25], da dove risulta
alquanto chiaro che la maggioranza della popolazione che abitava nella
città di Belgrado al momento dell’assedio ottomano fosse serba, di rito
orientale, con a capo un vescovo “scismatico” che negava il consenso all’unione
di Firenze. Il ruolo dei “cittadini” non doveva limitarsi soltanto
all’operazione militare ricordata, al trasporto fluviale ed alle opere di
consolidamento della fortezza, ma anche ad una permanente difesa di essa.
Il terzo gruppo, che le fonti francescane (ed in
particolare Giovanni da Tagliacozzo) tendono a tenere sotto silenzio o,
comunque, a cui viene ridotto il ruolo per non sminuire quello dei “minori”
nella battaglia, è l’esercito professionista, assunto a spese di Iancu
di Hunedoara, che formava il nucleo della guarnigione di Belgrado (circa
duemila soldati) e a cui, prima dell’inizio dell’assedio, si aggiunse un
ulteriore corpo di 200 balestrieri polacchi[26]
(per la cui efficienza nella difesa delle città è sufficiente
ricordare che nel 1437 una delle garanzie militari richieste dall’imperatore
bizantino Giovanni VIII Paleologo per partecipare al Concilio di Firenze fu il
presidio di Costantinopoli da parte di 300 balestrieri). Ad essi bisogna
aggiungere l’intero corpo di artiglieri ed artificieri (di cui, nell’epoca,
ungheresi, valacchi e serbi erano tra i più
p. 202
rinomati)
ed il corpo di cavalleggeri che prese parte alle operazioni del 22 luglio. Il
nucleo di comando dell’intero esercito era formato dai familiares di
Iancu di Hunedoara (corrispondenti ai vassalli del mondo occidentale), il cui
numero non ci è noto, ma che potremmo valutare a oltre cinquecento
persone (considerando per analogia che la familia regis del re
Sigismondo di Lussemburgo, in senso stretto, ne contava circa cinquecentotrenta[27]
e che lo statuto di “re non incoronato”[28]
che Iancu di Hunedoara ebbe nel periodo 1440-1456 favoriva questa forma privata
di vassallaggio). Si trattava di membri della piccola e media nobiltà
terriera scelti, per lo più, a seconda di come lo imponeva il costume
del tempo[29], dalle regioni
circostanti al distretto di Hunedoara; a questi se ne aggiungevano altri,
imparentati con Iancu di Hunedoara o, comunque, in rapporti di vassallaggio con
le famiglie Szilágyi di Horogszeg, Pongrácz di Dindeºti e Gereb di Vingrad. Si
tratta, quindi, dal punto di vista etnico, per lo più di romeni
transilvani, ma anche di ungheresi, originari della Transilvania o
dell’Ungheria meridionale. Senz’altro, però, dal punto di vista dello
stato sociale, la loro posizione non corrispondeva alle esigenze degli scritti
apologetici francescani, il cui intento era quello di dimostrare che quella
crociata era vissuta soltanto dai poveri e non dai ricchi[30]
(e l’opera di Giovanni da Tagliacozzo sembra, più delle altre, insistere
su questo aspetto).
Il contributo dei nobili alla crociata (compreso quello
di Iancu di Hunedoara) non corrispondeva a questa visione sugli eventi svoltisi
sotto le mura di Belgrado e, di conseguenza, il suo ruolo nell’opera del frate
da Tagliacozzo tende ad essere considerevolmente sminuito. Non possiamo
escludere, però, che gli eventi di Belgrado stavano quasi per sfociare
in una guerra popolare (è noto l’incidente dei crociati ungheresi,
polacchi e tedeschi[31]
che, non avendo ottenuto il permesso di inseguire gli Ottomani, stavano per
ribellarsi al comandante, mentre il continuo arrivo di nuove ondate di crociati
impose la precipitosa chiusura delle operazioni belliche, con la concessione
della benedizione e dell’indulgenza promessa[32]).
Al di là di qualsiasi intento propagandistico, permane in tutte le fonti
uno spirito di ribellione nei confronti di un ordine ormai sconvolto: il re ed
i baroni che fuggono davanti al pericolo, abbandonando il proprio ruolo
istituzionale, e il popolo semplice che combatte per la fede e la
libertà, ma che resta escluso ed emarginato nella vita sociale.
Le fonti francescane (ed, in particolar modo, per
estensione e argomento, Giovanni da Tagliacozzo) si rifiutano di spiegare (e
forse nemmeno lo sanno) la presenza a capo di questa “crociata dei poveri” di
un nobile della portata di Iancu di Hunedoara (i cui beni, impressionanti
all’epoca, gli avevano garantito il primato assoluto
p. 203
nel
Regno d’Ungheria): non possono spiegarlo perché, probabilmente, non
comprendevano in maniera sufficiente i delicati meccanismi della società
transilvana e ungherese d’allora, ossia la base etnica e sociale sulla quale
Iancu di Hunedoara fondò il proprio potere. Una conferma di questa
spiegazione ci viene data, invece, da una lettera scritta a una certa distanza
dagli eventi (il 5 marzo 1469) dal primo collaboratore di Giovanni da
Capestrano, S. Giacomo della Marca (in quel periodo generale dell’Ordine).
Elencando i meriti dell’Ordine dei Frati Minori di fronte al cardinale
Francesco da Savona[33],
facendo riferimento alla crociata del 1456, S. Giacomo della Marca scriveva: Et
sepe dicti sacri nostri ordinis frater Johanes de Capistrano duxit exercitum
hungarorum et aliorum regionum ad bel Gradum contra Turcos, nullo domino vel
barone existente, quia timebant interfici a populis, excepto Johanne blancho,
cun timore grande veniunt recedunt. Et facta est victoria magna et recuperatum
est regnum ad magnificentiam fidei et sancti ordinis prefacti. Tralasciando
la barbarità della lingua latina usata (che, quasi di sicuro, è
dovuta a un’ulteriore trascrizione da parte di un copista inesperto ed infedele
alla fonte originaria), risulta in una maniera evidente che l’assenza del re e
dei baroni del Regno fosse dovuta appunto al timore di una possibile rivolta
del popolo, che si sarebbe potuta concludere con l’annientamento del partito di
Ladislao il Postumo e dell’alta nobiltà magiara di sangue antico e la
conseguente presa del potere da parte del partito “popolare” di Iancu di
Hunedoara, sostenuto non soltanto da un’ampia maggioranza della popolazione ma,
appunto perché vlacchus, dai romeni del Regno d’Ungheria, forza politica
che in quell’epoca risulta abbastanza potente e compatta, tanto da poter
imporre il proprio candidato al trono.
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(2004) (a cura di Ioan-Aurel Pop e Cristian Luca), Bucarest: Casa Editrice dell’Istituto
Culturale Romeno, 2004
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Bucharest, Romania
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[1] Di cui la più importante resta tutt’oggi J.
Hofer, J. Kapistran. Ein Leben im Kampum die Reform der Kirche,
IIa edizione curata da O. Bonmann, Roma–Heidelberg 1964-1965;
traduzione italiana Giovanni da Capestrano, L’Aquila 1955.
[2] L. Wadding, Annales Fratrum Minorum, IIIa
edizione, vol. XII, Roma, 1932, traduzione italiana
in Vita di fra Giovanni da Capestrano, a cura di Michele Antonio di
Loreto, L’Aquila 1988.
[3] L. Wadding, Annales cit., IIIa
edizione, vol. XII, traduzione italiana in Vita di fra Giovanni da
Capestrano cit.
[4] L. Wadding, Annales cit., IIIa edizione,
vol. XII, traduzione italiana in Vita di fra Giovanni da Capestrano cit.
[5] Victoria mirabilis de Turcis habita duce Ven. B.
Patre Fr. Joanne de Capistrano, series descripta per Fr. Jo. de Tagliacotio
illius socium et comitem e Relatio mortis B. Jo. a Capistrano ad eundem
B. Jacobum de Marchia in L. Wadding, Annales cit., IIIa
edizione, vol. XII, pp. 750-796, traduzione italiana Relazione sulla
battaglia di Belgrado e sulla morte di fra Giovanni da Capestrano, a cura
di M. A. di Loreto, L’Aquila 1989.
[6] Historia Bohemica, LXV e Europa sui temporis
varias continens historias, V, VIII, in Aeneae Sylvii Piccolomini Opera
quae extant omnia, Basilea 1571.
[7] Petrus Ragusanus, Epitome rerum Hungaricarum, a
cura di I. G. Schwandtner, in Scriptores rerum hungaricarum, Tyrnaviae
1765, pp. 643-648.
[8] Antonius de Bonfinis, Rerum Ungaricarum decades,
edizione curata da B. G. Teubner, Lipsia 1936, d. III, lib. VII-VIII.
[9] H. Schedel, Historia rerum memorabilium ab anno
MCCCCXXXIX ed annum MCCCCLX, edizione curata da A. F. Oefelius, Scriptores
rerum boicarum, vol. I, Augustae Vindelicorum 1763, p. 394.
[10] Mi riferisco anzitutto alle lettere di Iancu di
Hunedoara pubblicate in Monumenta Hungariae Historica, vol. 33, Budapest
1907, mentre per quanto riguarda Giovanni da
Capestrano si veda sopratutto L. Wadding, Annales cit., IIIa
edizione, vol. XII, ma anche ai frammenti pubblicati in Schematismus almae
provinciae Sancti Joannis a Capistrano Ord. Fr. Min. S.P. Francisci in Hungaria
ad annum Christi MCMIX, Koloszvar 1909.
[11] Mi riferisco in particolar modo alle lettere pubblicate
negli Annales Fratrum Minorum. Periodica publicatio trimestris cura PP.
Collegii D. Bonaventurae, ma anche in altri periodici di
spiritualità francescana, come ad empio il “Picenum Seraphicum”, VI, 1969.
[12] Cod. Marc. Lat. XIV, 265-266, vol. 2, (no. 4501-4502),
opuscula varia, vol. 2, cc. 259r-260r del no. 266 (4502),
pubblicata da Renato Lodi, Alcune lettere inedite di S. Giacomo della Marca,
in “Picenum Seraphicum”, VI, 1969, pp. 99-116.
[13] Christian Unity: the Council of Ferrara-Florence,
1438/39-1989, a cura di A. Giuseppe, Firenze 1989; C. Alzati, Influssi
candiotto-veneti nella vita religiosa delle terre romene in Italia e
Romania due popoli e due storie a confronto (secc. XIV-XVIII), a cura di
Sante Graciotti, Firenze 1998, pp. 171-191.
[14] Per la pressione esercitata dai “cnezi” per ottenere
l’accesso al sistema politico feudale transilvano si vedano I.–A. Pop, Instituþii
medievale româneºti. Adunãrile cneziale ºi nobiliare (boiereºti) din Transilvania
în secolele XIV-XVI, Cluj-Napoca 1991; I. Drãgan, Nobilimea româneascã
din Transilvania între 1440-1514, Bucarest 2000.
[15] Quaresimale di Siena (1424), edizione anastatica
del Cod. Capestr. XXXI, c. 53r; Cfr. anche Fr. d’Elia, Profetismo
ed escatologia in S. Giovanni da Capestrano, in AA. VV., S.
Giovanni da Capestrano nella Chiesa e nella società del suo tempo
(Atti del Convegno storico internazionale Capestrano, L’Aquila 8-12 ottobre
1986), L’Aquila 1989, p. 228.
[16] Sermoni De pace e De bono unionis et caritatis,
edizione anastatica del Cod. Capistr. XXIV, cc. 32v-35r.
[17] G. da Tagliacozzo, Victoria mirabilis cit., cap.
20, pp. 68-69.
[18] Non si tratta degli ussiti della Boemia, quanto dei bogomili,
abbastanza diffusi a sud del Danubio e, in particolar modo, in Bosnia, eresia
contro di cui l’Ordine aveva iniziato nell’epoca un’ampia azione di
conversione.
[19] Sembra che Giovanni da Capestrano fosse stato implicato
in una mediazione tra i nobili in conflitto, senza però conseguire alcun
risultato, Cfr. J. Hofer, op. cit., pp. 639-640 e Schematismus cit.,
26, 28 e 29.
[20] G. da Tagliacozzo, Victoria mirabilis cit., cap.
14, p. 54.
[21] H. Schedel, Historia rerum memorabilium cit., p.
394.
[22] G. da Tagliacozzo, Victoria mirabilis cit., cap.
22, p. 70.
[23] Ibidem.
[24] Nicola da Fara in L. Wadding, Annales cit., IIIa
edizione, vol. XII, c. 105, p. 150.
[25] G. da Tagliacozzo, Victoria mirabilis cit., cap.
14, p. 54.
[26] Ibidem, cap. 17, p. 61.
[27] M. Kintzinger, De la région à l’Europe.
Recrutement et function de l’entourage de l’empereur Sigismond in A
l’ombre du pouvoir–les entourages princieres au moyen age, a cura di
A. Marchandisse e J.–L. Kupper, Ginevra 2003, pp. 111-112.
[28] Cfr. A. A. Rusu, Ioan de Hunedoara ºi românii din
vremea sa. Studii, Cluj-Napoca 1999.
[29] M. Kintzinger, op. cit., p. 108.
[30] G. da Tagliacozzo, Victoria mirabilis cit., cap.
19, p. 63.
[31] Ibidem, cap. 41, pp. 110-111.
[32] Ibidem, cap. 51, pp. 136-137.
[33] R. Lodi, op. cit., pp. 99-116.