Back to Istituto Romeno’s Publications

 

Back to Geocities

 

Back to Yahoo

 

Back to Homepage Quaderni 2004

 

 

 

 

 

p. 379

Tipologia descrittiva del giardino

in Matteo Maria Boiardo

 

 

Monica  Fekete,

Università degli Studi “Babeº-Bolyai” di Cluj-Napoca/

Accademia di Romania in Roma

 

Intendo proporre in questa sede una tipologia del giardino nel poema cavalleresco di Boiardo e valutare quanto venga esso connotato esclusivamente in dimensione letteraria o non comporti invece elementi riconducibili ai giardini quattrocenteschi reali. L’elenco dei giardini presenti nell’opera è di fatto piuttosto vistoso: ricordiamo il regno di Dragontina (Lb. I, C. VI, ott. 43-53; Lb. I, C. IX, ott. 66-79; Lb. I, C. XIV, ott. 32-47), di Falerina (Lb. I, C. XVII, ott. 8-10; Lb. II, C. IV), della Medusa (Lb. I, C. XII, ott. 30-40), di Morgana (Lb. II, C. VIII) nonché l’isola del ‘Palazo Zoioso’ (Lb. I, C. VIII, ott. 1-15; menzionato già nel C. V, ott. 55-56), per citare solo gli esempi più cospicui. Essi vengono strettamente collegati alla quête, alla ‘ricerca’, boiardescamente intesa[1], che perseguono i vari eroi. La presenza magari addirittura eccessiva di tali spazi, per definizione chiusi, non trova però una corrispondenza adeguata in una analoga varietà e diversità contenutistica (dal momento che prevale la peculiare esperienza amorosa) e stilistico-compositiva all’interno del poema.

Ciò che colpisce subito è una certa parsimonia del poeta nella descriptio dei luoghi, in un’epoca in cui l’amplificatio era un procedimento retorico sempre in voga, così da stimolare lo sfarzo descrittivo (rintracciabile già in Boccaccio, in Petrarca, in Poliziano e presente poi nei due grandi seguaci di Boiardo, Ariosto e Tasso). L’autore dell’Orlando Innamorato opta, paradossalmente, per una descrizione concisa, quasi schematica, e convenzionale, come se il sopravvento che l’arte del giardino reale stava assumendo rispetto a quello ideale venisse ignorato in questi luoghi appartenenti all’imagerie poetica, deputati di fatto, grazie al forte sostegno di una lunga tradizione, a illustrare la felicità e la perfezione edenica. I suoi predecessori avevano tendenzialmente creato dei giardini che racchiudevano in sé la quintessenza della natura, una rivisitazione

p. 380

quindi dell’Eden ovvero del Paradiso, del cui senso primigenio si connota anche la creazione boiardesca.

La ricomposizione letteraria del giardino sarebbe difficilmente concepibile, d’altronde, senza la ripresa di quanto avevano scritto i predecessori. Il poeta, seguace abbastanza fedele del canone ciceroniano dell’imitatio, così caro alla cultura dell’Umanesimo e quindi del Rinascimento, attualizza ancora una volta il topos del locus amœnus, magistralmente investigato alla metà del XX secolo da Ernst Robert Curtius[2].

La costruzione boiardesca scaturisce da reminiscenze bibliche –è implicita la dipendenza dal giardino edenico–, classiche e medievali, e realizza un’armonia perfetta, derivante dalla pittoresca fusione del topos del locus amœnus con gli echi del giardino di corte, qual era già rappresentato nel ciclo bretone (ad esempio, in Chrétien de Troyes). Il tutto viene naturalmente trasposto, sulla scia della narrativa amorosa in versi, in una forma che non ha più nulla del primitivo elemento sacrale. La varietà delle fonti conferisce al quadro d’insieme un che di favoloso, eppure possiamo dire che ne è uscita una sintesi coerente.

L’essenzialità della descrizione di cui parlavamo si evidenzia, ad esempio, nella “dolce prigione” della maga Dragontina:

 

Davanti della loggia un giardin era,

Di verdi cedri e di palme adombrato,

E de arbori gentil de ogni maniera.

Di sotto a questi verdeggiava un prato,

Nel qual sempre fioriva primavera:

Di marmoro era tutto circondato;

E da ciascuna pianta e ciascun fiore

Usciva un fiato di suave odore.[3]

 

e racchiude in sé le collaudate denotazioni della tradizione: fontana, fiori, “fresca verdura”, alberi, prato verde – tutti elementi che, configurandosi come ben delimitati o recintati, e dunque isolati dal contesto reale, fungono da alternativa fittizia e insieme fallace, quale improbabile fuga dal mondo e dal tempo presenti. L’accesso ad essi parrebbe precluso o quantomeno arduo: ‘occorre’ bere un sorso d’acqua dalla “riv[i]era” posta oltre le mura di cinta, la cui dote miracolosa è quella di infondere l’oblio, di rendere i cavalieri immemori. Di certo Boiardo non concede qui molto spazio all’immaginazione del lettore e rivela abbastanza presto il segreto del divieto: è l’anello incantato di Angelica a rendere invisibile chi lo porti, motivo che risale indubbiamente al ‘meraviglioso’ del ciclo bretone.

Riesce piuttosto esigua e disseminata nel testo l’enumerazione delle specie di alberi che ornano il giardino in cui “sempre fioriva primavera”. L’autore parla di “arbori gentil de ogni maniera” e si limita a denominare singolarmente solo cedri, palme e pini

p. 381

(Lb. I, C. VI, ott. 48, v. 2 e C. XIV, ott. 40, vv. 3, 6). L’essenza del pino sarà tra quelle predilette nel giardino all’italiana, dato che il suo fogliame sempreverde, suggerendo l’idea della perennità, poteva agevolmente riallacciarsi, per processo metonimico, all’ideologia dei principi o dei duchi, sostenitori appassionati e promotori appunto dei giardini. Stranamente l’autore non sviluppa affatto quel che viene occultato sotto l’arcilessema generico “fiori”, salvo l’unica circostanza in cui evoca Orlando, che lega il suo destriero Brigliadoro “tra le rose ad una spina” (Lb. I, C. IX, ott. 75, v. 4). La cosa è alquanto curiosa, dal momento che il poeta tralascia vari altri tipi di fiori, né pare prestare attenzione alle descrizioni mitologico-letterarie, particolarmente stilizzate e raffinate, già esistenti in Petrarca o in Poliziano. Non si può ignorare invece il fatto che i fiori vengano relegati, anche all’interno del giardino reale, in appositi spazi circoscritti o in giardini ‘segreti’[4]. Un aspetto, d’altronde, questo, che si inserisce perfettamente nella nuova tipologia del giardino, in cui si ripristina l’archetipo del paradiso terrestre coniugato con la mitica età dell’oro: tra i punti comuni emerge quello dell’atemporalità, che si cerca indubitabilmente di conseguire. In questo senso, pare piuttosto naturale che i fiori, tanto eternizzabili in un mondo immaginario, quanto però effimeri nel mondo reale, vengano allontanati (ma non esclusi del tutto) per non rovinare il quadro generale. Abbiamo già notato come, proprio per ragioni siffatte, la preferenza dei committenti va nella direzione delle piante sempreverdi, con l’introduzione quindi dell’elemento architettonico che è in grado di infondere un aspetto duraturo o magari perenne a tali opere.

Dentro lo spazio chiuso del giardino viene ubicato il palazzo, il cui scopo complessivo è evidentemente quello di destare la meraviglia del visitatore e, ad altro livello, del lettore, per la preziosità, la magnificenza, la ricchezza delle opere, di attestare la supremazia costruttiva dell’uomo sulla natura (si pensi, ad esempio, al coté biografico dell’Alberti). La presenza del palazzo è uno degli ingredienti costitutivi del ‘giardino d’amore’: basti pensare a quello di Déduit (nel Roman de la Rose) oppure all’edificio tempestato di gemme della Venere di Poliziano (nelle Stanze per la giostra) oppure a quello molto più terreno in cui trovava riparo la brigata del Decameron boccaccesco. In Boiardo agisce in maniera esclusiva, dunque, un’impronta di matrice letteraria? O non è forse da rintracciare nella sua opera il filo di una realtà ferrarese, che abbia rivestito in qualche modo il ruolo di possibile modello?

Se si va al di là delle astrazioni letterarie, di numero peraltro ridotto, dei palazzi boiardeschi (nel giardino di Dragontina o sull’isola del ‘Palazo Zoioso’, eccezion fatta per quello di Falerina, interamente affidato al fantastico poetico), si ripristinano, in un senso piuttosto vago e velato, le cosiddette ‘delizie’ estensi: Belriguardo[5], Belfiore[6], Schifanoia[7].

p. 382

Boiardo correda i suoi edifici di varie logge, con una presenza che suona innovatrice all’interno dei giardini incantati, e a queste concede, sorprendentemente, delle descrizioni piuttosto minuziose, il che, come si è già notato, non è un tratto stilistico caratterizzante della sua creazione letteraria, propensa quasi esclusivamente al plot, all’intreccio, in cui è la narrazione delle innumerevoli vicende del poema (con sospensioni e riprese di grande rilevanza sul piano romanzesco-narrativo) a tenere desta la tensione dell’opera. Ecco, ad esempio, un passo dal canto VI del libro primo, in cui troviamo la descrizione della loggia del giardino di Dragontina:

 

Sopra a colonne de ambro e base d’oro

Una ampla e ricca logia se posava;

Di marmi bianchi e verdi ha il suol distinto,

Il cel de azurro et ôr tutto è depinto.

 

[…] Davanti della logia un giardin era,

 

[…] Posesi il conte la logia mirare

Che avea tre facce, ciascuna depinta.

Si seppe quel maestro lavorare,

Che la natura vi sarebbe vinta.

Mentre che il conte stava a riguardare,

Vide una istoria nobile e distinta.

Donzelle e cavallieri eran coloro:

Il nome di ciascuno è scritto d’oro.[8]

 

Benché tutto sia opera di magia, e per ciò destinata inevitabilmente alla dissoluzione, sembra abbastanza naturale che la ricorrenza della loggia s’ispiri alle tendenze architettoniche che presiedevano alla costruzione del giardino quattrocentesco. L’affermazione trova facilmente giustificazione sulla base delle indicazioni, diventate poi canoniche per le costruzioni rinascimentali, suggerite dal grande umanista Leon Battista Alberti. Nel trattato De re aedificatoria, affrontando la problematica della collocazione del giardino nel contesto del paesaggio e dell’ambiente (opinione condivisa

p. 383

dall’architetto a lui contemporaneo Francesco di Giorgio Martini[9]), egli postulava che l’esito pratico si concretasse nell’unione diretta del palazzo con il giardino attraverso portici, logge, scale.[10] Tale invenzione viene valutata come una delle acquisizioni maggiori che il giardino abbia avuto ai suoi esordi in età moderna, pur rimanendo ancora parzialmente ancorato alle tradizioni medievali. Tuttavia il suggerimento albertiano è tributario di concezioni risalenti a epoche remote: di sicuro egli lo riprende dalla pianificazione del giardino di età romana, che mostrava una predilezione per il tema del padiglione, soggetto architettonico penetrato nella cultura occidentale dal mondo egizio, attraverso la filiera della pittura parietale greca di paesaggio, in un certo senso, quindi, desacralizzata.[11] Si tratta in genere di elementi già collaudati presso varie civiltà, che confluiscono ora nell’estetica umanistica e rinascimentale, godendo di un’incredibile fortuna. La corte di Ferrara, grazie alla forte impronta impressale dal mecenatismo estense, si configura quale uno dei più prestigiosi ambienti culturali, in cui le arti godevano di un vigoroso sostegno ed erano delegate a rispecchiare, in senso proprio e traslato, l’immagine della potenza ducale (si pensi alla ricchezza del ciclo pittorico dei Mesi, di Palazzo Schifanoia). Ed è pure degli Estensi la volontà di formulare progetti e di realizzare ville e palazzi, destinati a estendere nel territorio del circondario la vita di corte, collocandoli in mezzo a giardini che si tramutavano in una sorta di paradiso terrestre. Il loro destino, a differenza dei giardini boiardeschi, creati dalla fantasia del poeta anche mediante il ricorso all’elemento magico, si rivela però piuttosto drammatico: essi scompariranno infatti quasi completamente già nel Cinquecento, quando il ducato passerà sotto il controllo del potere pontificio. Le testimonianze della loro florida esistenza vengono conservate da pochissimi trattati e, al contempo, da un’opera encomiastica, la cui autorevolezza concorre con quella della trattatistica del tempo. Il De triumphis religionis di Giovanni Sabadino degli Arienti, scritto nel 1497 e dedicato ad Ercole I d’Este,[12] ci restituisce la lussureggiante immagine dei giardini estensi nonché il fasto, la ricchezza e la raffinatezza che caratterizzavano l’architettura dei palazzi e in genere l’ambiente tutto della corte ferrarese. Dalla descrizione dell’Arienti si evidenzia facilmente la forte interazione vigente tra le varie arti (architettura, pittura e arte del giardino), e grazie ad esse le grandiose costruzioni estensi destavano una meraviglia pari a quella esercitata sul lettore dai luoghi descritti dalla fantasia boiardesca. La lettura dell’Arienti viene dunque a confermare il consistente numero di palazzi, di logge e di giardini, da quelli segreti, di cui non è esente nemmeno il giardino di Falerina, a quelli di più ampio respiro, destinati al piacevole ozio e a varie attività preposte a liberare il corpo e lo spirito dalle cure quotidiane, che vennero costruiti nel corso del Quattrocento. Secondo Bruno Basile, l’Arienti descrive in sostanza i giardini di corte quali “spazi

p. 384

privilegiati che appaiono intermedi fra le architetture fantastiche dell’archeologismo rinascimentale” –rinviando alla Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, al De triumphis religionis e alla Descrizione del Zardin Viola dello stesso Arienti– “e la prima creazione di luoghi di delizia divenuti elysia di un’aristocrazia tanto raffinata da coniugare la razionalizzazione urbanistica cittadina attorno al castello di origine feudale con luoghi di un’evasione arcadica”[13].

Boiardo non solo arricchisce i suoi palazzi incantati di logge, ma ricorre al tempo stesso alla presenza di affreschi vari, e alla loro descrizione, per ornarne le pareti. Mentre gli autori precedenti facevano trasparire dalle loro opere la frequente iterazione di sontuose effigi o di raffinati intarsi che decoravano elegantemente le porte delle stanze,[14] con la rivisitazione di famose vicende mitologico-amorose, il nostro poeta viene sostenuto, nell’impresa di impreziosire le sue costruzioni narrative, dalla pittura, che trattava i medesimi temi mitologici: la loggia dipinta ubicata nel giardino di Dragontina, ad esempio, rievoca la storia della maga Circe e di Ulisse.

La possibile associazione fra scrittura epica e iconografia quattrocentesca, su cui intendiamo fissare la nostra attenzione, porta in sostanza a postulare un piuttosto verosimile legame fra la creazione di Boiardo e l’attività dell’“officina ferrarese”[15] (secondo la fortunata formula coniata dal critico d’arte Roberto Longhi), da un lato, e tra i giardini boiardeschi e i sontuosi affreschi dei palazzi di Belriguardo e di Belfiore, che sono andati perduti, dall’altro. La memoria di questi ultimi rivive però intensamente nelle preziose pagine dell’Arienti, in cui vengono descritti, con dovizia di particolari, i diversi cicli decorativi, la cui tematica risaliva, in buona misura, alla stessa antichità classica, ma nel contempo delineava la vita di corte e più precisamente la personalità di Ercole I, ritratta in varie circostanze. Se i due palazzi, collocati in prossimità di Ferrara, erano diventati emblematici per la civiltà ducale sotto Ercole I, il palazzo urbano di Schifanoia –che aveva assunto anch’esso, probabilmente, una funzione di modello per il nostro poeta– aveva già avuto un valore paragonabile e paradigmatico per celebrare le imprese del suo predecessore, Borso d’Este. Il famoso ciclo pittorico del Salone dei Mesi, delle cui dodici raffigurazioni ce ne sono conservate solo sette, viene definito da Ranieri Varese come “modello cavalleresco tratto dai romanzi cortesi che si intreccia con l’interesse per l’antichità classica”[16]. Il trionfo di Venere, che sta ad illustrare il mese di Aprile, parrebbe concettualmente e idealmente assai vicino ai giardini boiardeschi. Il quadro naturale acquisisce qui le connotazioni del giardino d’amore per eccellenza, dove trovano riparo, accanto a personaggi mitologici, anche coppie in lieti conversari e amanti

p. 385

appartati nei più segreti recessi di un boschetto di melograni. L’intera natura, cioè la vegetazione a cui fanno riscontro gli uccelli e i conigli, pare aprirsi all’amore. Il gusto profano, sensuale e realistico che si desume dagli affreschi, e che avrà una forte influenza sulla cultura artistico-letteraria del Cinquecento, rispecchia, certamente con un tocco idealizzante, la vita della corte ferrarese. Di conseguenza, tali cicli pittorici potrebbero fungere come una sorta di filtro tra il giardino reale e quello simbolico-letterario di Boiardo. Il nesso tra pittura e giardino viene illustrato da Gianni Venturi, secondo il quale Boiardo celerebbe dietro il velo della descrizione fantastica una “spiccata predilezione per l’accumulazione retorica, secondo un processo che deforma e irrigidisce espressionisticamente il particolare in una fissità allucinata e lo estende senza più limiti nell’enormità del fantastico fabulatorio”[17], come avviene, per l’appunto, con l’iconografia di Palazzo di Schifanoia.

A guisa di conclusione, vorremmo soffermarci velocemente su alcuni elementi che servono ancora a definire la tipologia del giardino boiardesco e che si rivelano adatti a creare esili ponti tra l’immaginario autoriale e la realtà. La grotta, motivo tradizionalmente letterario, appare quale elemento costitutivo del regno subacqueo di Morgana (Lb. II, C. VIII, ott. 5 e sgg.). La sua descrizione si allontana da ogni traccia di realtà: la grotta è fatta di gemme e di roccia lucente, e la sua porta d’accesso, intagliata in pietre preziose, raffigura il mito di Teseo e Arianna, cioè a dire la storia del labirinto. Eugenio Battisti ha sostenuto che la grotta, intrinsecamente legata all’idea del labirinto, è una “componente essenziale della letteratura cavalleresca” e che il percorso all’interno di essa implicitamente “comporta una trasformazione spirituale”[18]. Una tale connotazione morale non può ovviamente trovare in Boiardo quel riscontro forte che farà invece da sfondo al poema cristianizzato scritto da Torquato Tasso, e quindi riscritto, nel cupo periodo della Controriforma e del manierismo. Ciò che connette invece una certa tematica letteraria alla realtà del giardino, anche se ci riferiamo qui ora a quello cinquecentesco, è proprio l’irrompere di motivi meraviglioso-fantastici nella pianificazione architettonica del giardino. La presenza della grotta e del labirinto, insieme con la forte simbologia che li accompagna, acquisterà un peso notevole nei grandi giardini allegorico-iniziatici, quali quelli di Pratolino, di Bomarzo e via dicendo. La realtà del giardino viene così permeata dall’aspetto meraviglioso, e allo stesso tempo perturbante, di un modello di ascendenza letteraria.

È opportuno fare almeno un rapido cenno al tema delle cosiddette “scritture esposte” (secondo una definizione proposta dal paleografo Armando Petrucci),[19] con cui si indicano le iscrizioni e le lapidi intenzionalmente disposte all’interno di un determinato spazio. Nel giardino incantato di Falerina, Boiardo colloca una fontana, la cui particolarità risiede nel fatto che ha al centro una figura in pietra, dal cui petto sgorga

p. 386

dell’acqua, che reca l’iscrizione: “Per questa fiumana/ al bel palagio del giardin se ariva” (Lb. II, C. IV, ott. 20, vv. 5-6). L’informazione in sé è utile al solo Orlando, deputato a distruggere la grandiosa opera di magia, ma il ricorso a tali forme scritte diverrà uno dei tratti fondamentali dell’architettura del giardino cinquecentesco. Maurizio Calvesi, in un saggio incentrato sul Bosco Sacro di Bomarzo, mette in risalto il forte influsso dei poemi cavallereschi sull’ideazione dello strano e singolare giardino orsiniano, influsso che parrebbe determinato dalla fascinazione che la materia romanzesca esercitava sulla fantasia di Vicino Orsini. L’esame delle numerose iscrizioni di ascendenza specificatamente ariostesca e tassiana, che corredano le enormi grottesche figurazioni mitologiche presenti nel giardino di Bomarzo, “porta in luce –secondo il critico d’arte– una serie di riscontri da cui sembra emergere la centralità […] di questo genere letterario, congeniale alla poetica del bosco incantato”[20].

Se sul piano letterario le grotte vengono descritte come elementi della morfologia naturale o come risultato meraviglioso conseguito grazie al ricorso all’elemento magico, nel giardino reale ritroviamo sicuramente anche delle grotte artificiali che erano, in buona misura, collegate alla presenza di una fonte d’acqua sul cui corso interviene la mano dell’artista. Sono molteplici, infatti, le forme entro cui l’elemento acquatico viene disciplinato, addomesticato, costretto a chiudersi al fine di evidenziare gli effetti della volontà e dell’estro umano: vasche, fontane, ruscelletti zampillanti, canali, peschiere, laghetti, ninfei. L’esistenza del giardino, sia esso reale o immaginario, viene sovraordinata dalla centralità della fontana. Anche se ubicata nel mondo profano, questa non tradisce le proprie origini, che vanno fatte risalire alla Fons vitae, la cui sacralità rimaneva determinante per il giardino monastico medievale: Pierre Grimal sostiene che è appunto tale elemento architettonico a conferire l’idea di “continuità del giardino medievale ai tempi del Rinascimento.”[21] In Boiardo le fontane sono chiaramente presenti, è tuttavia quasi pressoché improbabile una confutazione della loro funzione squisitamente topica. La loro presenza viene segnalata, in maniera quasi scontata, in quanto confacente al gusto retorico del locus amoenus: ricordiamo una fontana nel giardino di Dragontina, le “chiare fontane e fresche a dismisura” (con una chiara eco petrarchesca) nell’isola del ‘Palazo Zoioso’, mentre nel regno di Morgana “Vidde da lato adorna una fontana/ D’oro e di perle e de ogni pietra fina”[22] o ancora, in una forma più raffinata, nel giardino di Falerina: “[…] una fontana,/ Spargendo intorno a sé molta acqua viva;/ Una figura di pietra soprana,/ A cui del petto fuor quella acqua usciva.”[23]

p. 387

La tipologia generale del giardino rinascimentale, offertaci da Franco Cardini[24] e condivisa da Mark Laird[25], distingue tre aree fondamentali, che comportano evidentemente una forte possibilità di variazione anche combinatoria:

– il giardino segreto, che in Boiardo si ritrova sull’isola del ‘Palazo Zoioso’ e la cui descrizione trova palesi raffronti con quella arientesca di Belriguardo, non priva, forse, di accenti idealizzanti;

– il prato in mezzo al quale viene collocata la fontana: nel poema compare varie volte, insieme con l’albero della vita, la centralità dell’elemento plastico-architettonico della fontana, che, spogliatosi del senso originario, si trasforma nel principio che scioglie la magia del giardino di Falerina (è appena il caso di ricordare che siamo qui in presenza di un fortunato elemento topico);

– il bosco: ancora nel giardino di Falerina, incontriamo boschetti di pini e di abeti, che verranno poi echeggiati nei “vaghi boschetti” ariosteschi.

L’intento del progetto, di più ampio respiro, di cui si presenta qui un primo saggio, si colloca giusto all’incrocio di reciproci, sostanziali influssi tra il modello letterario, l’arte del giardino, la pittura e l’architettura rinascimentali, tutti elementi di cui ci parrebbe che l’opera di Boiardo non sia rimasta immune.

 

 

 

Other articles published in our periodicals by Monica Fekete:

 

Il «giardino» incantato della giovinezza e il giardino di Venere

 

Il locus amoenus in Petrarca ossia la metafora di uno spazio

 

 

For this material, permission is granted for electronic copying, distribution in print form for educational purposes and personal use.

Whether you intend to utilize it in scientific purposes, indicate the source: either this web address or the Quaderni della Casa Romena 3 (2004) (a cura di Ioan-Aurel Pop e Cristian Luca), Bucarest: Casa Editrice dell’Istituto Culturale Romeno, 2004

No permission is granted for commercial use.

 

© ªerban Marin, June 2005, Bucharest, Romania

 

Last updated: July 2006

 

serban_marin@rdslink.ro

 

 

Back to Geocities

 

Back to Yahoo

 

Back to Homepage Quaderni 2004

 

Go to Annuario 2000

 

Go to Annuario 2001

 

Go to Annuario 2002

 

Go to Annuario 2003

 

Go to Annuario 2004-2005

 

Go to Quaderni 2001

 

Go to Quaderni 2002

 

Back to Istituto Romeno’s Publications

 

 



[1] Se per i cavalieri della Tavola Rotonda essa significava la ricerca dell’avventura (illustrativo in tal senso è il cap. La partenza del cavaliere cortese, in Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956, pp. 136-157), “la prova volontariamente cercata, mediante la quale l’uomo, che uomo sia veramente, pienamente realizza tutta la sua umanità” (Antonio Viscardi, Storia delle letterature d’oc e d’oil, Nuova Accademia, Milano 1962, p. 222), per quelli di Boiardo essa è priva di qualsiasi implicazione morale e rappresenta spesso solo un ostacolo in cui ci si imbatte durante la ricerca della donna (Cfr. Antonio Franceschetti, L’Orlando innamorato e le sue componenti tematiche e strutturali, Leo S. Olschki, Firenze 1975, pp. 163-164).

[2] Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medioevo latino, La Nuova Italia, Firenze 1992, pp. 207-227.

[3] Matteo Maria Boiardo, Orlando innamorato, Lb. I, C. VI, ott. 48 (Garzanti, Milano 1995).

[4] “i fiori e le piante minute perdono ogni importanza nel quadro generale […] e le essenze in uso si riducono e si limitano a quelle sempreverdi che offrono maggior possibilità di fare massa e architettura”, in Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1951, s. v. giardino.

[5] La costruzione del Palazzo di Belriguardo iniziò nel 1437, sulla riva del Po, sotto Nicolò III. Il progetto, affidato all’architetto di corte Giovanni da Siena, venne successivamente arricchito sotto Leonello d’Este. Il palazzo acquistò il suo aspetto rinascimentale dopo il 1465, sotto Borso d’Este; i lavori videro impegnati l’ingegnere Pietro Benvenuto e il pittore Cosmè Tura. La parte iconografica venne realizzata sotto Ercole I e vi concorsero l’architetto Biagio Rossetti e il pittore Ercole de’ Roberti.

[6] La costruzione del Palazzo di Belfiore, risalente alla fine del Trecento, sotto il ducato di Alberto d’Este, venne ubicata appena fuori le mura di Ferrara. Essa venne successivamente inclusa nell’ampliamento della città compiuto da Biagio Rossetti e che va sotto il nome di “Addizione Erculea”.

[7] Il primo nucleo, di sei sole stanze, del Palazzo di Schifanoia risale al 1385, dove si ritirava Alberto d’Este. La peculiarità dell’edificio consisteva nel fatto che esso veniva usato solo in occasione di feste. È volutamente significativa, in questo senso, la denominazione stessa di Schifanoia, letteralmente “che allontana la noia”.

[8] M. M. Boiardo, op. cit., Lb. I, C. VI, ott. 47, vv. 5-8; ott. 48, v. 1; ott. 49.

[9] Cfr. Francesco Di Giorgio Martini, Trattato di architettura, ingegneria e arte militare, a cura di C. Maltese, vol. I, Il Polifilo, Milano 1967, pp. 246-247.

[10] Apud Francesco Fariello, Architettura dei giardini, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1967, p. 50.

[11] Cfr. Pierre Grimal, L’arte dei giardini, Donzelli, Roma 2000, pp. 14-15.

[12] Art and Life at the Court of Ercole I d’Este: The ‘De triumphis religionis’ of Giovanni Sabadino degli Arienti, edizione curata, introduzione e note di Werner L. Gundersheimer, Librairie Droz, Geneva 1972.

[13] Bruno Basile, L’elisio effimero. Scrittori in giardino, Il Mulino, Bologna 1993, p. 49.

[14] Del resto Boiardo ricorre a tale procedimento anche là dove adorna, molto suggestivamente, con la storia di Teseo e Arianna, la porta della grotta che apre il dominio subacqueo di Morgana.

[15] Capostipite di tale “officina” fu Cosmè Tura, pittore ufficiale della corte estense, il quale stabilì la fisionomia specifica dell’arte ferrarese; altri due pittori significativi della scuola furono Francesco del Cossa e Ercole de’ Roberti (è appena il caso di ricordare il famoso, storico studio ‘eponimo’ di Roberto Longhi, Officina ferrarese, Le Edizioni d’Italia, Roma 1934).

[16] Ranieri Varese, Il Palazzo di Schifanoia, Specimen Grafica Editoriale, Bologna 1983, p. 8.

[17] Gianni Venturi, Picta pöesis: ricerche sulla poesia e il giardino dalle origini al Seicento, in Storia d’Italia (Annali 5), Einaudi, Torino 1982, pp. 709-710.

[18] Eugenio Battisti, L’antirinascimento, Feltrinelli, Milano 1962, p. 80, p. 124.

[19] Cfr. Armando Petrucci, Le scritture ultime. Ideologia della morte e strategie dello scrivere nella tradizione occidentale, Einaudi, Torino 1995.

[20] Maurizio Calvesi, Gli incantesimi di Bomarzo. Il Sacro Bosco tra arte e letteratura, Bompiani, Milano 2000, p. 201.

[21] P. Grimal, op. cit., p. 50.

[22] M. M. Boiardo, op. cit., Lb. II, C. VIII, ott. 42, vv. 3-4.

[23] Ibidem, Lb. II, C. IV, ott. 20, vv. 1-4.

[24] Franco Cardini, “… Un bellissimo ordine di servire”, in Sergio Bertelli, F. Cardini, Elvira Garbero Zorzi, Le corti italiane del Rinascimento, Mondadori, Milano 1985, p. 115.

[25] Mark Laird, I grandi giardini storici. I capolavori del giardino formale dal XV al XX secolo, Allemandi, Milano 1993, p. 13.