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La scrittura della lingua romena in caratteri latini nelle opere dei missionari italiani in Moldavia tra XVII e XIX secolo

 

 

Teresa  Ferro,

Università degli Studi di Udine

 

I missionari cattolici italiani inviati nel Principato di Moldavia dalla Congregazione “De Propaganda Fide” a partire dal 1623-1625[1], ci hanno lasciato alcuni importanti scritti in lingua romena, frutto della competenza linguistica acquisita dai frati nel corso degli anni (a volte lunghi decenni) della loro permanenza in quelle contrade. Il valore di questi scritti risiede principalmente nel fatto che i missionari italiani apprendevano la lingua sul posto, attraverso il contatto diretto con i parlanti nativi dei luoghi in cui essi operavano[2]. Tale produzione, pertanto, con le dovute cautele, può essere considerata documento abbastanza attendibile dello stato di lingua parlato nell’epoca rispettiva in quella regione: questa era l’opinione di Carlo Tagliavini, uno dei massimi esperti di testi romeni antichi in caratteri latini[3], e questa era anche l’opinione di Giuseppe Piccillo, uno dei più recenti studiosi del problema alla fine del secolo appena conclusosi[4]. Purtroppo, però, i frati si servirono di sistemi ortografici vari e complessi che spesso rendono impossibile seguire l’andamento di molti dei fenomeni linguistici dialettali che gli stessi loro scritti parrebbero consegnarci. Oltre all’impegno di decifrare tali sistemi ortografici, tutti i linguisti e i filologi che si sono occupati della produzione moldava in alfabeto latino hanno dovuto cercare di dare una risposta al seguente interrogativo: per chi scrivevano i missionari? Se non per i cattolici romeni –che dovevano essere pochissimi e che, qualora avessero saputo leggere, sarebbero stati avvezzi piuttosto all’alfabeto cirillico– per chi ? Forse per i confratelli più inesperti? E allora perché avrebbero consegnato loro testi che, se erano ottimi per il contenuto, risultavano poi quasi illeggibili a causa della veste grafica in cui erano presentati?

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Esisteva forse una tradizione che i frati intendevano rispettare? A queste domande, nessuno degli specialisti ha potuto dare risposte sicure e fondate. Probabilmente la causa di ciò risiede nella convinzione diffusa che debbano esistere risposte univoche e valide per tutte le opere prodotte. Pare, invece, che così non sia. I testi pervenuti fino a noi, infatti, se considerati e studiati alla luce delle più recenti acquisizioni, mostrano di costituire una categoria molto eterogenea per genesi e per finalità. I caratteri linguistici e grafici dei testi stessi, insieme alla valutazione attenta delle circostanze che hanno portato alla loro produzione, sono elementi che ci possono consentire di avanzare nuove ipotesi circa la loro destinazione e le intenzioni dei loro autori. In quello che segue vedremo come si può prospettare una ipotesi di soluzione per questo problema.

I missionari italiani di Moldavia scrissero molte opere, tra grammatiche, preghiere, traduzioni di catechismi e di vangeli con relativi commenti, stimolati in quest’attività dalla stessa Propaganda che sempre più spesso nel corso del tempo richiese prove dell’acquisizione di una buona padronanza del romeno[5]. Di questi ingenti materiali, della cui reale esistenza, per molti casi, si hanno prove sufficienti negli Archivi della Congregazione, è rimasto ben poco ai giorni nostri, anche a causa di una serie di sfortunate circostanze[6]. Quanto ci è pervenuto, comunque, se considerato nella sua totalità, è sufficiente per capire come le esigenze e le motivazioni dei missionari–scrittori siano state varie nel corso del lungo arco di tempo, un secolo e mezzo, in cui i loro scritti si situano. La prima difficoltà che gli scritti romeni in alfabeto latino ci pongono, dunque, è quella della decifrazione dell’ortografia utilizzata, cioè del sistema di segni grafici adoperato per rendere i suoni della lingua romena. Senza la decodificazione di tali sistemi di segni non è possibile valutare lo stato di nessun fenomeno linguistico reso dai testi. Ma la questione ortografica è tanto più importante in quanto nel caso degli scritti dei missionari italiani siamo in presenza di sistemi diversi da autore ad autore, talvolta diversi perfino da opera ad opera dello stesso autore, e, comunque, generalmente tutti molto incoerenti e tanto capricciosamente e inutilmente variati da apparire perfino bizzarri. L’interrogativo circa la destinazione di tali testi, dunque, diviene ancora di più complessa risoluzione. D’altra parte, è doveroso riconoscere che i missionari italiani in Moldavia furono dei veri pionieri in questa materia, essendo certamente loro ignota, o

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poco nota, la produzione in alfabeto latino prodotta in altre regioni romene. In caratteri latini, infatti, esisteva una ricca produzione banatense legata al calvinismo, di grande profilo e di una certa ampiezza, ma di circolazione ristrettissima, i cui destinatari erano i romeni del Banato, che avevano una tradizione –non sappiamo quanto antica– nell’uso dell’alfabeto latino[7]: come è prevedibile, l’ortografia utilizzata in tutti questi scritti, editi e inediti, era quella ungherese. Esisteva, poi, una produzione sempre di area banatense, ma di matrice cattolica, l’unica che per un certo periodo, come vedremo, si sarebbe saldata con quella nascente moldava: essa, che è rappresentata essenzialmente dal Catechismus di Gheorghe Buitul (si veda infra), scaturiva dalla necessità di difendere le posizioni cattoliche in Banato e parrebbe essere stata destinata principalmente a religiosi e predicatori, generalmente ungheresi, quindi a soggetti già avvezzi all’uso dell’alfabeto latino, nella variante ortografica magiara. Esistevano, infine, alcuni lessici rimasti manoscritti, sempre di provenienza occidentale (Banato-Hunedoara), e quindi ancora una volta fortemente influenzati dal sistema ortografico ungherese[8]. In Moldavia, a parte l’isolato esperimento di Luca Stroici[9], non esisteva una consuetudine di scrittura in alfabeto latino, e meno ancora poteva esistere una tradizione: così agli specialisti non è apparso del tutto anomalo il fatto che i missionari facessero ricorso a diverse sperimentazioni ortografiche. Corre l’obbligo di dire che per la verità alcuni dei migliori conoscitori di questa produzione si sono chiesti come mai tra i sistemi utilizzati non comparisse quello italiano che sarebbe stato il più semplice e accessibile. Già C. Tagliavini, ad esempio, nel 1929/1930 osservava quanto fosse strano che i linguisti romeni non avessero cercato di capire come mai gli italiani usassero “una ortografia così poco italiana”[10]. Ma lo stesso Tagliavini, poi, rinunciava a fornire una risposta. Si capisce, dunque, che il problema ortografico può essere centrale per la nostra analisi.

Gli scritti che prenderemo in considerazione brevemente sono tutti quelli che ci sono pervenuti dalla Moldavia ad opera dei frati italiani: il celebre catechismo del padre Vito Piluzio, l’unico testo pubblicato mentre l’autore era ancora in vita (1677), le opere di Silvestro Amelio che si collocano nei primi decenni del Settecento, le Diverse Materie in Lingua Moldava del padre Anton Maria Mauro (1760) e, infine, la miscellanea di scritti conservata nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, dovuta a diversi frati

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operanti nella Missione tra gli ultimi due decenni del Settecento e il primo quindicennio dell’Ottocento[11].

Il testo più antico della serie considerata è la celebre Dottrina Christiana, un catechismo tradotto dal minore conventuale Vito Piluzio da Vignanello, pubblicato a Roma nel 1677 dalla tipografia della Propaganda Fide[12], la Congregazione per la quale l’autore era missionario in Moldavia dal 1653[13]. Egli fu il primo frate, poi prefetto della Missione e anche arcivescovo di Marcianopoli, con una lunghissima attività nella regione (1653-1687, con rare interruzioni), e con una reputazione a Roma di uomo degno di fede e di grande esperienza[14]. Dopo i giudizi negativi espressi dagli studiosi che, in tempi ormai remoti, avevano potuto esaminare il testo di Piluzio solo sommariamente[15], alla fine degli anni Settanta del secolo scorso esso è stato rivalutato da G. Piccillo che ne ha dimostrato la piena validità come documento linguistico[16]. Tale riabilitazione si deve anche ad una decodificazione accurata del complesso sistema ortografico usato dall’autore che, fra tutti quelli qui considerati, appare il più enigmatico. Ma lo stesso G. Piccillo, che in più lavori aveva rivendicato credibilità al testo del francescano di Vignanello, nel 1992, senza mettere in discussione l’innegabile valore linguistico del testo, ebbe a dimostrare che V. Piluzio aveva ampiamente attinto (da p. 3 a p. 31) al Catechismus del romeno banatense Gh. Buitul[17], pubblicato a Bratislava nel 1636, ma ristampato nel 1703[18]. Il missionario, che dopo più di un ventennio di

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permanenza tra i romeni doveva avere una eccellente conoscenza della lingua, in realtà aveva “moldavizzato” il testo e lo aveva camuffato sotto una veste ortografica diversa[19], facendo ricorso a grafemi dell’ortografia polacca oltre che ad alcune soluzioni personali, nel tentativo, per altro riuscito, di celare il plagio. Caratteristica di questo testo, dunque, come di quelli più tardi del confratello Silvestro Amelio (si veda infra) è una ortografia capricciosa e inutilmente incoerente che per rappresentare lo stesso suono ricorre talvolta a cinque o sei soluzioni differenti, tutte ugualmente adottate nello stesso contesto fonico[20]. Proprio tale evidente incoerenza ha indotto gli specialisti a chiedersi a quale pubblico l’opera potesse mai essere destinata. G. Piccillo, nell’articolo in cui svelava il plagio di Piluzio, dichiarava: “Resta tutt’al più da chiedersi a quale cerchia di lettori potesse essere destinato un testo siffatto, certamente di difficile lettura e di difficile interpretazione”[21]. Come G. Piccillo, in tempi più recenti anche altri studiosi hanno cercato di individuare i possibili destinatari di un’opera come quella del Piluzio che, essendo stampata, doveva essere ritenuta di una certa utilità per qualcuno. Al momento attuale le risposte date sono varie. Se Piccillo affermava che “non rimane da supporre che il Catechismo […] fosse destinato in primo luogo allo stesso autore e in secondo luogo ad altri missionari che ne avessero appreso la chiave di lettura”[22], e più tardi si correggeva, sostenendo che il testo doveva essere destinato alle popolazioni ungheresi e sassoni di Moldavia, che certamente conoscevano l’alfabeto latino[23], G. Chivu, invece, è propenso a credere che i destinatari fossero i romeni ortodossi provenienti dalla Transilvania e, quindi, genti abituate a tale tipo di alfabeto; secondo G. Chivu la scelta dei missionari cattolici di Moldavia “era un act firesc, menit sa asigure o continuitate”[24]. Certamente quest’ultima ipotesi appare come la più fondata e realistica, ma essa è valida, a mio parere, solo per i testi più tardi. Nell’epoca di Piluzio, infatti, le cifre relative alla presenza cattolica in Moldavia, così come sono riferite nelle molte relazioni degli stessi missionari, inducono a ritenere che nella regione non vi fosse un afflusso apprezzabile di romeni dalla Transilvania, cosa che sarebbe stata vera, invece, a partire dagli anni

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Quaranta del Settecento[25]. Inoltre va considerato il fatto che le condizioni in cui veniva predicato il cattolicesimo in Moldavia facevano sì che vi fosse occasione solo per una predicazione orale: solo i pochi mercanti cattolici (tutti stranieri) e i pochi nobili a corte dovevano essere nella condizione di leggere[26], mentre gli altri, romeni o ungheresi che fossero, apprendevano la dottrina dalla viva voce del missionario e ritenevano i precetti a memoria. Quindi, un testo come la Dottrina Christiana doveva servire ai missionari: ma allora perché era reso in una veste grafica per loro illeggibile? Una spiegazione più concreta di quelle proposte fino ad ora ci pare la seguente. Libri come quelli di Vito Piluzio, o come quelli più tardi di Silvestro Amelio, erano molto richiesti dalla Propaganda, che riteneva di utilizzarli per eliminare il drammatico problema delle lingue “da usarsi nelle Missioni”, fornendo ai nuovi missionari strumenti utili perché essi potessero subito operare[27]. Di fatto, la prova di conoscenza della lingua fu sempre grande titolo di merito agli occhi dei cardinali di Propaganda[28]. Da parte di chi scriveva, dunque, si sapeva di fare non solo cosa gradita in Congregazione, ma anche di grande utilità personale, essendo la conoscenza della lingua titolo preferenziale per occupare posti di rilievo nella gerarchia della Missione, o semplicemente per ottenere la conferma o il dottorato. Così si spiegherebbe come molti dei missionari –in genere, i più ambiziosi e inquieti–, nelle loro lettere alla Propaganda promettevano di inviare al più presto la tal grammatica o il tal altro vocabolario. Sono quelle grammatiche, quelle omelie e quei vocabolari tante volte annunciati e probabilmente mai scritti di Bartolomeo Bassetti[29], di Gasparo Malandrino –l’ambiguo Casparus del Codex Bandinus che neppure conosceva il rumeno[30]–, di Francesco Maria Madrelli[31], di Francantonio Minotto[32], tutti autori di opere mai trovate.

Vito Piluzio scrisse la Dottrina Christiana in una non lunga fase di permanenza a Roma, quando, ritornato dalla Moldavia dopo più di vent’anni di attività, sollecitava la nomina a vicario apostolico di Bacău, alla quale aspirava già dal 1670, come dimostrano le sue lettere dai luoghi della Missione[33]. La composizione del testo potrebbe non essere

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stata estranea a tale aspirazione del conventuale che, di fatto, nel marzo del 1678 ottenne la nomina di arcivescovo di Marcianopoli[34]. Il fatto che l’opera sia stata redatta a Roma, d’altra parte, è implicitamente dimostrata dalla totale assenza di ogni riferimento alla Dottrina Christiana nella fitta e dettagliata corrispondenza che intrattenne con la Propaganda dai luoghi della Missione prima del suo ritorno in Italia.

A Roma, invece, il francescano poté avere facile accesso al Cathechismus di G. Buitul che riprodusse, come si è detto, con le “moldavizzazioni” ritenute opportune da uno che, come lui, conosceva molto bene le parlate della regione. Per camuffare il plagio (anche se all’epoca il concetto di plagio era molto diverso da quello attuale), il conventuale introdusse grafemi dell’ortografia polacca (di cui doveva avere una certa conoscenza, se non altro per la frequentazione con intellettuali del calibro di Miron Costin)[35], introdusse segni dell’ortografia italiana, oltre che curiose soluzioni personali. Naturalmente non rinunciò del tutto all’ortografia magiara adottata da Buitul, anzi sostanzialmente la mantenne: il libricino del gesuita rumeno aveva il prestigio del testo stampato e a Piluzio mancava, in fondo, un modello di riferimento. Così la Dottrina Christiana, praticamente inutilizzabile per via di quel complesso sistema ortografico, vide trionfalmente la luce: la Propaganda credette di far opera utile per quella sua primogenita e tormentata Missione e nulla ebbero da obiettare gli alti prelati della Congregazione, non essendovi modo alcuno di controllare l’operato dello stimato Piluzio[36].

Qualcosa del genere dovette accadere anche con i vangeli e il catechismo di F. Antonio Zauli nel 1715-1716: il frate missionario, dopo aver spedito le sue traduzioni alla Propaganda, si affrettava a chiedere il titolo di visitatore apostolico[37]. Ma dell’opera di Zauli, effettivamente scritta e ricevuta dalla Propaganda[38], non possiamo dire nulla perché, prima ancora di essere stampata, essa si smarrì in circostanze oscure[39].

Il catechismo di Silvestro Amelio del 1719[40], come è stato dimostrato da tempo, non è che una copia fedele del testo stampato del confratello Vito Piluzio[41]. Il catechismo di Amelio, però, faceva parte di un fascicolo ben più ampio inviato alla

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Congregazione per la stampa[42], che conteneva le formule cattoliche, bilingui, per la somministrazione dei sacramenti, la traduzione romena della passione di Cristo secondo i quattro evangelisti[43] e un vocabolario “italiano-muldavo”[44], cioè, come ebbe a scrivere lo stesso Amelio nel 1737, “tutto il necessario o bisognevole all’operario del Crocefisso”[45], tutto ciò che poteva servire al missionario all’inizio della sua attività . Si trattava quindi di un’opera destinata ad essere utilizzata , come l’altra compiuta nel 1737 dallo stesso Amelio, le Conciones latino-muldave, cioè un Evangheliar con relative omelie[46]. È forse per questa ragione che l’Amelio, pur nel rispetto dell’illustre modello di Vito Piluzio, momentaneo capostipite di una tradizione che, come vedremo, si sarebbe presto estinta, e quindi pur trasferendo nei suoi scritti buona parte delle soluzioni ortografiche ungheresi e polacche, prese l’ardua decisione di rendere secondo i criteri dell’ortografia italiana alcuni dei fonemi romeni. Ad esempio, decise di trascrivere la palatale č con c, contro la “tradizione” della sua rappresentazione con il digramma ungherese cs, introdusse z per trascrivere ţ, anche se mantenne il digramma ungherese cz; rappresentò la sibilante sorda s con s, anche se in qualche caso si registra ancora sz, il digramma ungherese fino ad allora adottato, ecc[47].

Ma una vera inversione di tendenza avvenne con la seconda metà del secolo XVIII quando la necessità di produrre testi immediatamente utilizzabili –e quindi accessibili ai novelli missionari, della cui opera c’era vero bisogno per l’arrivo di molti romeni dalla Transilvania[48]– indusse i missionari più anziani a redigere testi facilmente utilizzabili per l’attività quotidiana del missionario: preghiere, formule di confessione, formule di abiura, omelie. Questi materiali sono conservati nel fondo Mezzofanti, oggi posseduto dalla Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna. I testi, che giunsero fortunosamente nelle mani del cardinale poliglotta, sono risalenti ad un periodo che va dal 1760 al 1814 ca[49]. Il grosso fascicolo –purtroppo mutilo dopo lo smarrimento di alcuni dei testi che fino agli anni Trenta vi erano contenuti[50]– è stato paradossalmente trascurato dagli studiosi, dopo la pubblicazione, da parte di C. Tagliavini, della parte

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sicuramente più notevole di esso, le Diverse Materie in Lingua Moldava[51], una inconsueta guida di conversazione, con argomenti molto spesso legati alla sfera religiosa[52], redatta dal padre Anton Maria Mauro. E invece proprio gli altri testi rimasti inediti nel fascicolo risultano particolarmente illuminanti per tutta la questione ortografica, come ora veniamo scoprendo. Essi, infatti, proprio come le Diverse Materie, sono redatti in una ortografia rigorosamente ispirata a quella italiana, molto coerente e razionale. Ciò è tanto più notevole in quanto i testi pervenutici sono dovuti non ad uno, ma a numerosi autori, quasi che finalmente si fosse creata una “tradizione” il cui capostipite sembra essere stato proprio il padre Mauro. Le Diverse Materie, quindi, cessano di apparire come una felice eccezione, come riteneva il Tagliavini, ma rappresentano la tendenza prevalente in questa seconda metà del secolo XVIII. All’origine delle nuove scelte ortografiche è da collocarsi, probabilmente, il fatto che per la prima volta i testi scritti dai missionari dovevano servire per le necessità pratiche della Missione: se le Diverse Materie erano una “guida di conversazione”, una sorta di dizionario fraseologico preparato per consentire di sapersi esprimere nelle principali situazioni della vita quotidiana, gli altri testi consentivano al missionario di confessare, predicare, leggere i vangeli, insegnare le preghiere e battezzare.

A queste conclusioni ci inducono anche altre considerazioni, come i caratteri linguistici (fonetici, morfologici, lessicali e stilistici) dei testi stessi, oltre che la valutazione delle circostanze in cui essi videro la luce. Ci riferiamo al fatto che nella seconda metà del Settecento, per le fughe di sudditi transilvani verso la Moldavia, si registrò un aumento vertiginoso del numero dei cattolici che ricadevano nella giurisdizione della Missione di Iassi. Fra questi profughi vi dovevano essere anche molti romeni; di quale confessione religiosa essi fossero, è argomento che esula da questa trattazione. Qui basterà dire che diversi elementi inducono a ritenere che non si debba escludere la presenza di ortodossi: in questo caso, i nostri testi sarebbero stati preparati per far fronte alla più importante azione di proselitismo che la Chiesa Cattolica di Moldavia –con circospezione e con la massima discrezione– si preparava ad affrontare.

In conclusione, i testi in alfabeto latino dei missionari italiani in Moldavia non costituiscono una classe omogenea di scritti, ma sono strettamente legati alle specifiche motivazioni per cui di volta in volta vennero prodotti e alla destinazione che gli autori intendevano dare loro. Il problema più spinoso che essi presentano, quello ortografico, si rivela un utile indizio per andare alla ricerca di motivazioni e destinatari: se Piluzio scriveva per la gloria, Amelio cominciava a porsi il problema della leggibilità dei suoi testi che intendeva destinare ai missionari, mentre gli autori della fine del Settecento, ormai in condizioni di vera emergenza, produssero autentici prontuari facilmente leggibili e immediatamente utilizzabili nell’attività quotidiana della Missione.

 

 

 

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[1] La Congregazione, fondata proprio in quegli anni, ebbe nella Moldavia la sua prima Missione. Per la prima attività della Missione moldava rimandiamo a B. Morariu, La missione dei frati minori conventuali in Moldavia e Valacchia nel suo primo periodo, 1623-50, in “Miscellanea Francescana”, LXII, fasc. I-II, 1962, pp. 16-103.

[2] Più volte la Congregazione aveva ritenuto opportuno istituire un insegnamento di lingua romena a Roma perché i missionari vi fossero preparati prima di essere inviati in Moldavia, ma pare che questa iniziativa non fosse realizzata se non per un periodo brevissimo, G. Călinescu, Alcuni missionari cattolici italiani nella Moldavia nei secoli XVII e XVIII, in “Diplomatarium Italicum”, I, 1925, passim.

[3] C. Tagliavini, Alcuni manoscritti rumeni sconosciuti di missionari cattolici italiani in Moldavia (sec. XVIII), in “Studi Rumeni”, IV, 1929-1930, p. 16.

[4] G. Piccillo, Note sulla “lingua valacha” del Katekismo Kriistinesko di V. Piluzio, in “Studii şi cercetări lingvistice”, XXX, no. 1, 1979, pp. 44-46.

[5] Anche perché molte polemiche sorte tra ordini religiosi diversi avevano come pretesto la scarsa conoscenza della lingua da parte dei missionari italiani; su questo problema e sul modo di affrontarlo da parte della Propaganda rimando ad alcune mie note: Teresa Ferro, Ungherese e romeno nella Moldavia dei secoli XVII-XVIII sulla base dei documenti della “Propaganda Fide”, in Italia e Romania. Due popoli e due storie a confronto (secc. XIV-XVIII), a cura di Sante Graciotti, Firenze, 1998, pp. 291-318.

[6] Non ci riferiamo qui solamente a quelle opere che nessun ricercatore ha mai visto e il cui smarrimento, dunque, risalirebbe ad un’epoca imprecisabile, ma parliamo, non senza un certo disappunto, di opere che esistevano negli archivi fino alla prima metà del secolo scorso –come prova il fatto che esse sono state sommariamente descritte ed esaminate–, e che ora non si ritrovano più laddove dovrebbero essere collocate; è il caso dei testi del fondo Mezzofanti della Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna di cui si tratterà fra breve. Sul problema della sparizione di molti testi del fondo si veda T. Ferro, Per la storia della propaganda cattolica in Moldavia alla fine del sec. XVIII, in Studi offerti ad Al. Niculescu dagli amici e allievi di Udine, Udine, 2001, pp. 64-65.

[7] Su questo problema, si veda I. Lupaş, Documente istorice transilvane, vol. I, Cluj, 1940, p. 275; S. Puşcariu, Istoria literaturii române. Epoca Veche, Bucarest, 1987, p. 87.

[8] Uno di questi è il celebre Lexicon Marsilianum edito da C. Tagliavini nel 1930: Idem, Il “Lexicon Marsilianum”–Dizionario latino-rumeno-ungherese del sec. XVII–Studio filologico e testo, Bucarest, 1930; alle pp. 7-14 si possono trovare brevi cenni sulle altre opere affini al Lexicon.

[9] Sul breve testo di Stroici e i possibili collegamenti con una tradizione grafica in alfabeto latino si veda M. Lörinczi, Alle origini della linguistica romena, da H. Megiser a F. J. Sulzer, in “Annali della Facoltà di Magistero di Cagliari”, no. 18, 1982, pp. 123 e segg.

[10] C. Tagliavini, Alcuni manoscritti cit., p. 58, nota 5: il riferimento è a S. Amelio che pure, come si dirà, ha una ortografia molto più coerente di altri missionari.

[11] Rimane fuori il cosiddetto manoscritto di Göttingen, la cui attribuzione è dubbia e per il quale rimandiamo alla nota 52.

[12] Il titolo è Dottrina Christiana tradotta in lingua valacca da Vito Piluzio, Roma, 1677; il testo è stato utilizzato e citato da molti intellettuali romeni (M. Kogălniceanu, T. Cipariu, A. Papiu Ilarian), Cfr. D. Găzdaru, Omagiu Profesorului D. Găzdaru. Miscellanea din studiile sale inedite sau rare, vol. I, Studii istorico-filologice, Freiburg im Breisgau, 1974, p. 26.

[13] Sull’attività di Piluzio si può consultare G. Călinescu, op. cit., pp. 75-79.

[14] Riguardo al prestigio di cui il missionario godeva si possono leggere eloquenti testimonianze in D. Găzdaru, op. cit., pp. 28-32.

[15] Si vedano, tra gli altri, V. A. Urechea, Schiţă de istoria literaturii române, Bucarest, 1885, p. 204; A. Densuşianu, Istoria limbii şi literaturii române, Iassi, 1894, p. 202; R. Ortiz, Per la storia della cultura italiana in Rumania. Studi e ricerche, Roma, 1943, p. 96.

[16] G. Piccillo, Considérations sur le lexique du Catéchisme roumain (1677) de Vito Piluzio, in “Revue de Linguistique Romane”, 44, 1980, pp. 121-134.

[17] G. Buitul, nobile romeno del Banato, operante dal 1625 al 1635 a Caransebeş, fu il primo gesuita romeno: sulla sua figura si veda L. Periş, Le missioni gesuite in Transilvania e Moldavia nel Seicento, Cluj-Napoca, 1998, pp. 91-108.

[18] Catechismus sau Summá Kredinczéi Katholicsésti R. P. Petri Canisii Szkip: szvent den Rendul Szociéy lui Issus entorsz pre limba Rumemnaszka dé R. P. Buitul Gsurgs Dokt: Szkrip: svente den acselas Rend akum de isznove tiperit ku oszirdie R. R. P. P. Szociey luj Issus, Clusium, 1703. Che sia effettivamente esistita la prima edizione non v’è dubbio: nella ristampa di Cluj si dice “de iznove tiperit”, cioè “nuovamente stampato”; inoltre l’opera fu conosciuta da Piluzio che le riprodusse in gran parte nel suo Catechismo del 1677 (si veda infra). Infine nelle Effemeridi del Collegio gesuita di Tyrnavia, tenute da Gh. Dobronoki, sotto l’anno 1636, si legge “Accepi a Karansebes a nostris patribus catechismus P. Canisii e latino in linguam Valachicam imprimendum Posonii opera P. Iacobi Nemethi”, Cfr. N. Drăganu, Mihai Halici (Contribuţie la istoria culturală românească din sec. XVII), in “Dacoromania”, IV, 1924-1926, p. 119.

[19] G. Piccillo, Le fonti della «Dottrina Christiana tradotta in lingua valacha da Vito Piluzio» (1677), in “Revue de Linguistique Romane”, 56, 1992, pp. 495-507; a p. 506 lo studioso catanese scriveva: “I rilievi che la comparazione tra le due opere ci ha consentito di fare, anche se ridimensionano l’importanza attribuita al Catechismo di Piluzio nella storia della propaganda cattolica in Moldavia, non ne incrinano, comunque, il valore documentario: il testo, pur con le sue incoerenze e bizzarrie ortografiche, […] rimane quanto meno un repertorio utile alla dialettologia storica romena per le interessanti e attendibili attestazioni di alcuni fenomeni dialettali moldavi della fine del Seicento”.

[20] È il caso, ad esempio, di č rappresentato con ch, k, ck, c, z + i, cz, Cfr. G. Piccillo, Note sulla «lingua valacha» cit., p. 35.

[21] Idem, Le fonti cit., p. 506.

[22] Ibidem.

[23] Idem, Testi romeni in alfabeto latino (secoli XVI-XVIII), Catania, 1991, p. 7.

[24] Gh. Chivu, G. Chivu, Influenţe maghiare asupra ortografiei scrierilor misionarilor italieni din secolele al XVII-lea şi al XVIII-lea, in Conferinţa naţională de bilingvism, coordinatore: Olga Murvai, Bucarest, 1999, pp. 9-18.

[25] Al riguardo mi permetto di rimandare ad un mio contributo: T. Ferro, Alcuni aspetti dell’attività missionaria cattolica in Moldavia tra la seconda metà del Settecento e i primi anni dell’Ottocento, in Studi in ricordo di G. Barbina, vol. II, Udine, 2001, pp. 101-113.

[26] G. Călinescu, op. cit., pp. 1-35.

[27] Un’altra soluzione sarebbe stata quella di istruire i missionari prima della partenza; la richiesta di Collegi ad hoc, infatti, fu avanzata da più parti nel corso della storia della Missione di Moldavia: per i dati al riguardo, Cfr. G. Piccillo, Sul catechismo romeno di Gaspare da Noto (1644), in “Studi italo-romeni”, I, 1997, pp. 10 e segg.

[28] Cfr. il mio lavoro, già citato, T. Ferro, Ungherese e romeno nella Moldavia dei secoli XVII-XVIII cit., pp. 291-318.

[29] Cfr. D. Găzdaru, op. cit., pp. 10-13.

[30] G. Piccillo, Sul catechismo romeno di Gaspare da Noto cit., pp. 10 e segg.

[31] Idem, La langue roumaine dans les écrits des missionaires italiens (XVIIe-XVIIIe siècles), in “Revue des études Sud-Est europérennes”, XXVI, no. 3, 1988, p. 211.

[32] D. Găzdaru, op. cit., pp. 41-42.

[33] I. Bianu, Vito Piluzio. Documente inedite din Archivulŭ Propagandei, in “Columna lui Traian”, IV, no. 1, 1883, pp. 275 e segg.

[34] Ibidem.

[35] Il celebre storico cita Piluzio in De neamul moldovenilor, Cfr. M. Costin, Opere, edizione curata da P. P. Panaitescu, Bucarest, 1958, p. 247.

[36] Circa l’impossibilità (cronica!) di trovare esperti di romeno si veda G. Călinescu, op. cit., p. 66.

[37] Cfr. D. Găzdaru, op. cit., pp. 32-34.

[38] Così risulta dallo stesso registro della tipografia della Propaganda, Archivio della Congregazione “De Propaganda Fide”–Roma, Acta, 1716, 193, f. 34.

[39] Al riguardo si veda G. Piccillo, La langue roumaine cit., p. 208.

[40] Dottrina Christiana tradotta in lingua muldaua dal padre Silvestro Amelio da Foggia Minor conventuale di S. Francesco olim prefetto delle Sagre missioni apostoliche di Moldauia, Vallachia, e Transilvania, l’anno 1719: in Yassi.

[41] N. Drăganu, Catehismul din Manuscrisul de la 1719 al lui Silvestro Amelio, copie după al lui Vito Pilutio tipărit la 1667 [sic!], in “Făt-Frumos. Revistă de literatură şi folclor” (Suceava), I, no. 1, 1926, pp. 34-38.

[42] Così afferma lo stesso autore in una lettera inviata alla Propaganda Fide l’11 dicembre 1723; a favore dell’ipotesi che il testo fosse destinato alla stampa depongono anche le lettere inviate alla Congregazione dal superiore dei Gesuiti di Iassi e dal prefetto della missione di Moldavia: Cfr. G. Călinescu, op. cit., pp. 150-151.

[43] Il ms. è catalogato come D 30 nell’Archivio dei Frati Minori di Roma; esso è stato pubblicato da G. Piccillo, Il “Katekismu krestinesku” di Silvestro Amelio (1719), in “Balkan-Archiv”, 17-18, 1992-1993, pp. 433-538.

[44] Il glossario è stato pubblicato separatamente da G. Piccillo, Il glossario italiano-moldavo di Silvestro Amelio (1719). Studio filologico-linguistico e testo, Catania, 1982.

[45] Lettera autografa, conservata all’interno del manoscritto, datata 20 aprile 1737.

[46] Ms. 2882 della Biblioteca dell’Accademia Romena di Bucarest, ancora inedito.

[47] Cfr. G. Piccillo, Il manoscritto romeno di Silvestro Amelio (1719): osservazioni linguistiche, in “Studii şi cercetări lingvistice”, XXXI, no. 1, 1980, pp. 11-30.

[48] T. Ferro, Alcuni aspetti dell’attività missionaria cattolica cit., pp. 101-113.

[49] Eadem, Per la storia della propaganda cattolica cit., pp. 61-72.

[50] Come si evince dalla descrizione fattane da C. Tagliavini in Idem, Alcuni manoscritti cit., p. 49.

[51] Il testo fu pubblicato da C. Tagliavini, Ibidem, pp. 51-104.

[52] Lo stesso A. M. Mauro fu l’autore, probabilmente, del manoscritto anonimo Asch. 223 di Göttingen che con le Diverse Materie presenta molti punti di contatto, Cfr. G. Piccillo, Il Ms. Asch. 223 di Göttingen (sec. XVIII), in “Travaux de linguistique et de littérature”, XXV, no. 1, 1987, pp. 7-147.