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Quaderni 2004
p.
291
La scrittura della lingua romena in
caratteri latini nelle opere dei missionari italiani in Moldavia tra XVII e XIX
secolo
Teresa Ferro,
Università degli Studi di Udine
I missionari cattolici italiani inviati nel Principato di
Moldavia dalla Congregazione “De Propaganda Fide” a partire dal 1623-1625[1],
ci hanno lasciato alcuni importanti scritti in lingua romena, frutto della
competenza linguistica acquisita dai frati nel corso degli anni (a volte lunghi
decenni) della loro permanenza in quelle contrade. Il valore di questi scritti
risiede principalmente nel fatto che i missionari italiani apprendevano la
lingua sul posto, attraverso il contatto diretto con i parlanti nativi dei
luoghi in cui essi operavano[2].
Tale produzione, pertanto, con le dovute cautele, può essere considerata
documento abbastanza attendibile dello stato di lingua parlato nell’epoca
rispettiva in quella regione: questa era l’opinione di Carlo Tagliavini, uno
dei massimi esperti di testi romeni antichi in caratteri latini[3],
e questa era anche l’opinione di Giuseppe Piccillo, uno dei più recenti
studiosi del problema alla fine del secolo appena conclusosi[4].
Purtroppo, però, i frati si servirono di sistemi ortografici vari e
complessi che spesso rendono impossibile seguire l’andamento di molti dei
fenomeni linguistici dialettali che gli stessi loro scritti parrebbero
consegnarci. Oltre all’impegno di decifrare tali sistemi ortografici, tutti i
linguisti e i filologi che si sono occupati della produzione moldava in alfabeto
latino hanno dovuto cercare di dare una risposta al seguente interrogativo: per
chi scrivevano i missionari? Se non per i cattolici romeni –che dovevano essere
pochissimi e che, qualora avessero saputo leggere, sarebbero stati avvezzi
piuttosto all’alfabeto cirillico– per chi ? Forse per i confratelli più
inesperti? E allora perché avrebbero consegnato loro testi che, se erano ottimi
per il contenuto, risultavano poi quasi illeggibili a causa della veste grafica
in cui erano presentati?
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Esisteva
forse una tradizione che i frati intendevano rispettare? A queste domande,
nessuno degli specialisti ha potuto dare risposte sicure e fondate.
Probabilmente la causa di ciò risiede nella convinzione diffusa che
debbano esistere risposte univoche e valide per tutte le opere prodotte. Pare,
invece, che così non sia. I testi pervenuti fino a noi, infatti, se
considerati e studiati alla luce delle più recenti acquisizioni,
mostrano di costituire una categoria molto eterogenea per genesi e per
finalità. I caratteri linguistici e grafici dei testi stessi, insieme
alla valutazione attenta delle circostanze che hanno portato alla loro
produzione, sono elementi che ci possono consentire di avanzare nuove ipotesi
circa la loro destinazione e le intenzioni dei loro autori. In quello che segue
vedremo come si può prospettare una ipotesi di soluzione per questo
problema.
I missionari italiani di Moldavia scrissero molte opere,
tra grammatiche, preghiere, traduzioni di catechismi e di vangeli con relativi
commenti, stimolati in quest’attività dalla stessa Propaganda che sempre
più spesso nel corso del tempo richiese prove dell’acquisizione di una
buona padronanza del romeno[5].
Di questi ingenti materiali, della cui reale esistenza, per molti casi, si
hanno prove sufficienti negli Archivi della Congregazione, è rimasto ben
poco ai giorni nostri, anche a causa di una serie di sfortunate circostanze[6].
Quanto ci è pervenuto, comunque, se considerato nella sua
totalità, è sufficiente per capire come le esigenze e le
motivazioni dei missionari–scrittori siano state varie nel corso del lungo arco
di tempo, un secolo e mezzo, in cui i loro scritti si situano. La prima
difficoltà che gli scritti romeni in alfabeto latino ci pongono, dunque,
è quella della decifrazione dell’ortografia utilizzata, cioè del
sistema di segni grafici adoperato per rendere i suoni della lingua romena.
Senza la decodificazione di tali sistemi di segni non è possibile
valutare lo stato di nessun fenomeno linguistico reso dai testi. Ma la questione
ortografica è tanto più importante in quanto nel caso degli
scritti dei missionari italiani siamo in presenza di sistemi diversi da autore
ad autore, talvolta diversi perfino da opera ad opera dello stesso autore, e,
comunque, generalmente tutti molto incoerenti e tanto capricciosamente e
inutilmente variati da apparire perfino bizzarri. L’interrogativo circa la
destinazione di tali testi, dunque, diviene ancora di più complessa
risoluzione. D’altra parte, è doveroso riconoscere che i missionari italiani
in Moldavia furono dei veri pionieri in questa materia, essendo certamente loro
ignota, o
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poco
nota, la produzione in alfabeto latino prodotta in altre regioni romene. In
caratteri latini, infatti, esisteva una ricca produzione banatense legata al
calvinismo, di grande profilo e di una certa ampiezza, ma di circolazione
ristrettissima, i cui destinatari erano i romeni del Banato, che avevano una
tradizione –non sappiamo quanto antica– nell’uso dell’alfabeto latino[7]:
come è prevedibile, l’ortografia utilizzata in tutti questi scritti,
editi e inediti, era quella ungherese. Esisteva, poi, una produzione sempre di
area banatense, ma di matrice cattolica, l’unica che per un certo periodo, come
vedremo, si sarebbe saldata con quella nascente moldava: essa, che è
rappresentata essenzialmente dal Catechismus
di Gheorghe Buitul (si veda infra),
scaturiva dalla necessità di difendere le posizioni cattoliche in Banato
e parrebbe essere stata destinata principalmente a religiosi e predicatori,
generalmente ungheresi, quindi a soggetti già avvezzi all’uso
dell’alfabeto latino, nella variante ortografica magiara. Esistevano, infine,
alcuni lessici rimasti manoscritti, sempre di provenienza occidentale
(Banato-Hunedoara), e quindi ancora una volta fortemente influenzati dal sistema
ortografico ungherese[8].
In Moldavia, a parte l’isolato esperimento di Luca Stroici[9],
non esisteva una consuetudine di scrittura in alfabeto latino, e meno ancora
poteva esistere una tradizione: così agli specialisti non è
apparso del tutto anomalo il fatto che i missionari facessero ricorso a diverse
sperimentazioni ortografiche. Corre l’obbligo di dire che per la verità
alcuni dei migliori conoscitori di questa produzione si sono chiesti come mai
tra i sistemi utilizzati non comparisse quello italiano che sarebbe stato il
più semplice e accessibile. Già C. Tagliavini, ad esempio, nel
1929/1930 osservava quanto fosse strano che i linguisti romeni non avessero
cercato di capire come mai gli italiani usassero “una ortografia così poco
italiana”[10]. Ma lo stesso
Tagliavini, poi, rinunciava a fornire una risposta. Si capisce, dunque, che il
problema ortografico può essere centrale per la nostra analisi.
Gli scritti che prenderemo in considerazione brevemente
sono tutti quelli che ci sono pervenuti dalla Moldavia ad opera dei frati
italiani: il celebre catechismo del padre Vito Piluzio, l’unico testo
pubblicato mentre l’autore era ancora in vita (1677), le opere di Silvestro
Amelio che si collocano nei primi decenni del Settecento, le Diverse Materie in Lingua Moldava del
padre Anton Maria Mauro (1760) e, infine, la miscellanea di scritti conservata
nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, dovuta a diversi frati
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operanti
nella Missione tra gli ultimi due decenni del Settecento e il primo quindicennio
dell’Ottocento[11].
Il testo più antico della serie considerata
è la celebre Dottrina Christiana,
un catechismo tradotto dal minore conventuale Vito Piluzio da Vignanello,
pubblicato a Roma nel 1677 dalla tipografia della Propaganda Fide[12],
la Congregazione per la quale l’autore era missionario in Moldavia dal 1653[13].
Egli fu il primo frate, poi prefetto della Missione e anche arcivescovo di
Marcianopoli, con una lunghissima attività nella regione (1653-1687, con
rare interruzioni), e con una reputazione a Roma di uomo degno di fede e di
grande esperienza[14].
Dopo i giudizi negativi espressi dagli studiosi che, in tempi ormai remoti,
avevano potuto esaminare il testo di Piluzio solo sommariamente[15],
alla fine degli anni Settanta del secolo scorso esso è stato rivalutato
da G. Piccillo che ne ha dimostrato la piena validità come documento
linguistico[16]. Tale
riabilitazione si deve anche ad una decodificazione accurata del complesso
sistema ortografico usato dall’autore che, fra tutti quelli qui considerati,
appare il più enigmatico. Ma lo stesso G. Piccillo, che in più
lavori aveva rivendicato credibilità al testo del francescano di
Vignanello, nel 1992, senza mettere in discussione l’innegabile valore
linguistico del testo, ebbe a dimostrare che V. Piluzio aveva ampiamente
attinto (da p. 3 a p. 31) al Catechismus
del romeno banatense Gh. Buitul[17],
pubblicato a Bratislava nel 1636, ma ristampato nel 1703[18].
Il missionario, che dopo più di un ventennio di
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permanenza
tra i romeni doveva avere una eccellente conoscenza della lingua, in
realtà aveva “moldavizzato” il testo e lo aveva camuffato sotto una
veste ortografica diversa[19],
facendo ricorso a grafemi dell’ortografia polacca oltre che ad alcune soluzioni
personali, nel tentativo, per altro riuscito, di celare il plagio.
Caratteristica di questo testo, dunque, come di quelli più tardi del
confratello Silvestro Amelio (si veda infra)
è una ortografia capricciosa e inutilmente incoerente che per
rappresentare lo stesso suono ricorre talvolta a cinque o sei soluzioni differenti,
tutte ugualmente adottate nello stesso contesto fonico[20].
Proprio tale evidente incoerenza ha indotto gli specialisti a chiedersi a quale
pubblico l’opera potesse mai essere destinata. G. Piccillo, nell’articolo in
cui svelava il plagio di Piluzio, dichiarava: “Resta tutt’al più da
chiedersi a quale cerchia di lettori potesse essere destinato un testo
siffatto, certamente di difficile lettura e di difficile interpretazione”[21].
Come G. Piccillo, in tempi più recenti anche altri studiosi hanno cercato
di individuare i possibili destinatari di un’opera come quella del Piluzio che,
essendo stampata, doveva essere ritenuta di una certa utilità per
qualcuno. Al momento attuale le risposte date sono varie. Se Piccillo affermava
che “non rimane da supporre che il Catechismo
[…] fosse destinato in primo luogo allo stesso autore e in secondo luogo ad
altri missionari che ne avessero appreso la chiave di lettura”[22],
e più tardi si correggeva, sostenendo che il testo doveva essere
destinato alle popolazioni ungheresi e sassoni di Moldavia, che certamente
conoscevano l’alfabeto latino[23],
G. Chivu, invece, è propenso a credere che i destinatari fossero i
romeni ortodossi provenienti dalla Transilvania e, quindi, genti abituate a
tale tipo di alfabeto; secondo G. Chivu la scelta dei missionari cattolici di
Moldavia “era un act firesc, menit sa asigure o continuitate”[24].
Certamente quest’ultima ipotesi appare come la più fondata e realistica,
ma essa è valida, a mio parere, solo per i testi più tardi.
Nell’epoca di Piluzio, infatti, le cifre relative alla presenza cattolica in
Moldavia, così come sono riferite nelle molte relazioni degli stessi
missionari, inducono a ritenere che nella regione non vi fosse un afflusso
apprezzabile di romeni dalla Transilvania, cosa che sarebbe stata vera, invece,
a partire dagli anni
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Quaranta
del Settecento[25]. Inoltre va
considerato il fatto che le condizioni in cui veniva predicato il cattolicesimo
in Moldavia facevano sì che vi fosse occasione solo per una predicazione
orale: solo i pochi mercanti cattolici (tutti stranieri) e i pochi nobili a
corte dovevano essere nella condizione di leggere[26],
mentre gli altri, romeni o ungheresi che fossero, apprendevano la dottrina dalla
viva voce del missionario e ritenevano i precetti a memoria. Quindi, un testo
come la Dottrina Christiana doveva
servire ai missionari: ma allora perché era reso in una veste grafica per loro
illeggibile? Una spiegazione più concreta di quelle proposte fino ad ora
ci pare la seguente. Libri come quelli di Vito Piluzio, o come quelli
più tardi di Silvestro Amelio, erano molto richiesti dalla Propaganda,
che riteneva di utilizzarli per eliminare il drammatico problema delle lingue
“da usarsi nelle Missioni”, fornendo ai nuovi missionari strumenti utili perché
essi potessero subito operare[27].
Di fatto, la prova di conoscenza della lingua fu sempre grande titolo di merito
agli occhi dei cardinali di Propaganda[28].
Da parte di chi scriveva, dunque, si sapeva di fare non solo cosa gradita in
Congregazione, ma anche di grande utilità personale, essendo la
conoscenza della lingua titolo preferenziale per occupare posti di rilievo
nella gerarchia della Missione, o semplicemente per ottenere la conferma o il
dottorato. Così si spiegherebbe come molti dei missionari –in genere, i
più ambiziosi e inquieti–, nelle loro lettere alla Propaganda
promettevano di inviare al più presto la tal grammatica o il tal altro
vocabolario. Sono quelle grammatiche, quelle omelie e quei vocabolari tante
volte annunciati e probabilmente mai scritti di Bartolomeo Bassetti[29],
di Gasparo Malandrino –l’ambiguo Casparus del Codex Bandinus che neppure conosceva il rumeno[30]–,
di Francesco Maria Madrelli[31],
di Francantonio Minotto[32],
tutti autori di opere mai trovate.
Vito Piluzio scrisse la Dottrina Christiana in una non lunga fase di permanenza a Roma,
quando, ritornato dalla Moldavia dopo più di vent’anni di
attività, sollecitava la nomina a vicario apostolico di Bacău, alla
quale aspirava già dal 1670, come dimostrano le sue lettere dai luoghi
della Missione[33]. La
composizione del testo potrebbe non essere
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stata
estranea a tale aspirazione del conventuale che, di fatto, nel marzo del 1678
ottenne la nomina di arcivescovo di Marcianopoli[34].
Il fatto che l’opera sia stata redatta a Roma, d’altra parte, è
implicitamente dimostrata dalla totale assenza di ogni riferimento alla Dottrina Christiana nella fitta e
dettagliata corrispondenza che intrattenne con la Propaganda dai luoghi della
Missione prima del suo ritorno in Italia.
A Roma, invece, il francescano poté avere facile accesso
al Cathechismus di G. Buitul che
riprodusse, come si è detto, con le “moldavizzazioni” ritenute opportune
da uno che, come lui, conosceva molto bene le parlate della regione. Per
camuffare il plagio (anche se all’epoca il concetto di plagio era molto diverso
da quello attuale), il conventuale introdusse grafemi dell’ortografia polacca
(di cui doveva avere una certa conoscenza, se non altro per la frequentazione
con intellettuali del calibro di Miron Costin)[35],
introdusse segni dell’ortografia italiana, oltre che curiose soluzioni
personali. Naturalmente non rinunciò del tutto all’ortografia magiara
adottata da Buitul, anzi sostanzialmente la mantenne: il libricino del gesuita
rumeno aveva il prestigio del testo stampato e a Piluzio mancava, in fondo, un
modello di riferimento. Così la Dottrina
Christiana, praticamente inutilizzabile per via di quel complesso sistema
ortografico, vide trionfalmente la luce: la Propaganda credette di far opera
utile per quella sua primogenita e tormentata Missione e nulla ebbero da
obiettare gli alti prelati della Congregazione, non essendovi modo alcuno di
controllare l’operato dello stimato Piluzio[36].
Qualcosa del genere dovette accadere anche con i vangeli
e il catechismo di F. Antonio Zauli nel 1715-1716: il frate missionario, dopo
aver spedito le sue traduzioni alla Propaganda, si affrettava a chiedere il
titolo di visitatore apostolico[37].
Ma dell’opera di Zauli, effettivamente scritta e ricevuta dalla Propaganda[38],
non possiamo dire nulla perché, prima ancora di essere stampata, essa si
smarrì in circostanze oscure[39].
Il catechismo di Silvestro Amelio del 1719[40],
come è stato dimostrato da tempo, non è che una copia fedele del
testo stampato del confratello Vito Piluzio[41].
Il catechismo di Amelio, però, faceva parte di un fascicolo ben
più ampio inviato alla
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298
Congregazione
per la stampa[42], che
conteneva le formule cattoliche, bilingui, per la somministrazione dei
sacramenti, la traduzione romena della passione di Cristo secondo i quattro
evangelisti[43] e un
vocabolario “italiano-muldavo”[44],
cioè, come ebbe a scrivere lo stesso Amelio nel 1737, “tutto il
necessario o bisognevole all’operario del Crocefisso”[45],
tutto ciò che poteva servire al missionario all’inizio della sua
attività . Si trattava quindi di un’opera destinata ad essere utilizzata
, come l’altra compiuta nel 1737 dallo stesso Amelio, le Conciones latino-muldave, cioè un Evangheliar con relative omelie[46].
È forse per questa ragione che l’Amelio, pur nel rispetto dell’illustre
modello di Vito Piluzio, momentaneo capostipite di una tradizione che, come
vedremo, si sarebbe presto estinta, e quindi pur trasferendo nei suoi scritti
buona parte delle soluzioni ortografiche ungheresi e polacche, prese l’ardua
decisione di rendere secondo i criteri dell’ortografia italiana alcuni dei
fonemi romeni. Ad esempio, decise di trascrivere la palatale č con c,
contro la “tradizione” della sua rappresentazione con il digramma ungherese cs,
introdusse z per trascrivere ţ, anche se mantenne il digramma
ungherese cz; rappresentò la sibilante sorda s con s,
anche se in qualche caso si registra ancora sz, il digramma ungherese
fino ad allora adottato, ecc[47].
Ma una vera inversione di tendenza avvenne con la seconda
metà del secolo XVIII quando la necessità di produrre testi
immediatamente utilizzabili –e quindi accessibili ai novelli missionari, della
cui opera c’era vero bisogno per l’arrivo di molti romeni dalla Transilvania[48]–
indusse i missionari più anziani a redigere testi facilmente
utilizzabili per l’attività quotidiana del missionario: preghiere,
formule di confessione, formule di abiura, omelie. Questi materiali sono
conservati nel fondo Mezzofanti, oggi posseduto dalla Biblioteca
dell’Archiginnasio di Bologna. I testi, che giunsero fortunosamente nelle mani
del cardinale poliglotta, sono risalenti ad un periodo che va dal 1760 al 1814
ca[49].
Il grosso fascicolo –purtroppo mutilo dopo lo smarrimento di alcuni dei testi
che fino agli anni Trenta vi erano contenuti[50]–
è stato paradossalmente trascurato dagli studiosi, dopo la
pubblicazione, da parte di C. Tagliavini, della parte
p.
299
sicuramente
più notevole di esso, le Diverse
Materie in Lingua Moldava[51],
una inconsueta guida di conversazione, con argomenti molto spesso legati alla
sfera religiosa[52], redatta
dal padre Anton Maria Mauro. E invece proprio gli altri testi rimasti inediti
nel fascicolo risultano particolarmente illuminanti per tutta la questione ortografica,
come ora veniamo scoprendo. Essi, infatti, proprio come le Diverse Materie, sono redatti in una ortografia rigorosamente
ispirata a quella italiana, molto coerente e razionale. Ciò è
tanto più notevole in quanto i testi pervenutici sono dovuti non ad uno,
ma a numerosi autori, quasi che finalmente si fosse creata una “tradizione” il
cui capostipite sembra essere stato proprio il padre Mauro. Le Diverse Materie, quindi, cessano di
apparire come una felice eccezione, come riteneva il Tagliavini, ma
rappresentano la tendenza prevalente in questa seconda metà del secolo
XVIII. All’origine delle nuove scelte ortografiche è da collocarsi,
probabilmente, il fatto che per la prima volta i testi scritti dai missionari
dovevano servire per le necessità pratiche della Missione: se le Diverse Materie erano una “guida di
conversazione”, una sorta di dizionario fraseologico preparato per consentire
di sapersi esprimere nelle principali situazioni della vita quotidiana, gli
altri testi consentivano al missionario di confessare, predicare, leggere i
vangeli, insegnare le preghiere e battezzare.
A queste conclusioni ci inducono anche altre
considerazioni, come i caratteri linguistici (fonetici, morfologici, lessicali
e stilistici) dei testi stessi, oltre che la valutazione delle circostanze in
cui essi videro la luce. Ci riferiamo al fatto che nella seconda metà
del Settecento, per le fughe di sudditi transilvani verso la Moldavia, si
registrò un aumento vertiginoso del numero dei cattolici che ricadevano
nella giurisdizione della Missione di Iassi. Fra questi profughi vi dovevano
essere anche molti romeni; di quale confessione religiosa essi fossero,
è argomento che esula da questa trattazione. Qui basterà dire che
diversi elementi inducono a ritenere che non si debba escludere la presenza di
ortodossi: in questo caso, i nostri testi sarebbero stati preparati per far
fronte alla più importante azione di proselitismo che la Chiesa
Cattolica di Moldavia –con circospezione e con la massima discrezione– si preparava
ad affrontare.
In conclusione, i testi in alfabeto latino dei missionari
italiani in Moldavia non costituiscono una classe omogenea di scritti, ma sono
strettamente legati alle specifiche motivazioni per cui di volta in volta
vennero prodotti e alla destinazione che gli autori intendevano dare loro. Il
problema più spinoso che essi presentano, quello ortografico, si rivela
un utile indizio per andare alla ricerca di motivazioni e destinatari: se
Piluzio scriveva per la gloria, Amelio cominciava a porsi il problema della
leggibilità dei suoi testi che intendeva destinare ai missionari, mentre
gli autori della fine del Settecento, ormai in condizioni di vera emergenza,
produssero autentici prontuari facilmente leggibili e immediatamente
utilizzabili nell’attività quotidiana della Missione.
Other articles published in
our periodicals by Teresa Ferro:
La figura di
Stefano il Grande nella Descriptiio Moldaviae di Dimitrie Cantemir
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(2004) (a cura di Ioan-Aurel Pop e Cristian Luca), Bucarest: Casa Editrice dell’Istituto
Culturale Romeno, 2004
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Bucharest, Romania
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[1] La Congregazione, fondata proprio in quegli anni, ebbe nella
Moldavia la sua prima Missione. Per la prima attività della Missione
moldava rimandiamo a B. Morariu, La missione dei frati minori conventuali in Moldavia e Valacchia nel
suo primo periodo, 1623-50, in “Miscellanea Francescana”, LXII, fasc.
I-II, 1962, pp. 16-103.
[2] Più volte la Congregazione aveva ritenuto
opportuno istituire un insegnamento di lingua romena a Roma perché i missionari
vi fossero preparati prima di essere inviati in Moldavia, ma pare che questa
iniziativa non fosse realizzata se non per un periodo brevissimo, G. Călinescu,
Alcuni
missionari cattolici italiani nella Moldavia nei secoli XVII e XVIII, in
“Diplomatarium Italicum”, I, 1925, passim.
[3] C. Tagliavini, Alcuni
manoscritti rumeni sconosciuti di missionari cattolici italiani in Moldavia
(sec. XVIII), in “Studi Rumeni”, IV, 1929-1930, p. 16.
[4] G. Piccillo, Note
sulla “lingua valacha” del Katekismo Kriistinesko di V. Piluzio, in “Studii
şi cercetări lingvistice”, XXX, no. 1, 1979, pp. 44-46.
[5] Anche perché molte polemiche sorte tra ordini religiosi
diversi avevano come pretesto la scarsa conoscenza della lingua da parte dei
missionari italiani; su questo problema e sul modo di affrontarlo da parte
della Propaganda rimando ad alcune mie note: Teresa Ferro, Ungherese e romeno nella Moldavia dei secoli XVII-XVIII sulla base dei
documenti della “Propaganda Fide”,
in Italia e Romania. Due popoli e
due storie a confronto (secc. XIV-XVIII), a cura di Sante Graciotti,
Firenze, 1998, pp. 291-318.
[6] Non ci riferiamo qui solamente a quelle opere che nessun
ricercatore ha mai visto e il cui smarrimento, dunque, risalirebbe ad un’epoca
imprecisabile, ma parliamo, non senza un certo disappunto, di opere che
esistevano negli archivi fino alla prima metà del secolo scorso –come prova
il fatto che esse sono state sommariamente descritte ed esaminate–, e che ora
non si ritrovano più laddove dovrebbero essere collocate; è il
caso dei testi del fondo Mezzofanti della Biblioteca dell’Archiginnasio di
Bologna di cui si tratterà fra breve. Sul problema della sparizione di
molti testi del fondo si veda T. Ferro, Per
la storia della propaganda cattolica in Moldavia alla fine del sec. XVIII,
in Studi offerti ad Al. Niculescu dagli
amici e allievi di Udine, Udine, 2001, pp. 64-65.
[7] Su questo problema, si veda I. Lupaş, Documente istorice transilvane, vol. I,
Cluj, 1940, p. 275; S. Puşcariu, Istoria
literaturii române. Epoca Veche, Bucarest, 1987, p. 87.
[8] Uno di questi è il celebre Lexicon Marsilianum
edito da C. Tagliavini nel 1930: Idem, Il “Lexicon Marsilianum”–Dizionario
latino-rumeno-ungherese del sec. XVII–Studio filologico e testo, Bucarest,
1930; alle pp. 7-14 si possono trovare brevi cenni sulle altre opere affini al Lexicon.
[9] Sul breve testo di Stroici e i possibili collegamenti
con una tradizione grafica in alfabeto latino si veda M. Lörinczi, Alle origini della linguistica romena, da H.
Megiser a F. J. Sulzer, in “Annali della Facoltà di Magistero di
Cagliari”, no. 18, 1982, pp. 123 e segg.
[10] C. Tagliavini, Alcuni
manoscritti cit., p. 58, nota 5: il riferimento è a S. Amelio che
pure, come si dirà, ha una ortografia molto più coerente di altri
missionari.
[11] Rimane fuori il cosiddetto manoscritto di Göttingen, la
cui attribuzione è dubbia e per il quale rimandiamo alla nota 52.
[12] Il titolo è Dottrina
Christiana tradotta in lingua valacca da Vito Piluzio, Roma, 1677; il testo
è stato utilizzato e citato da molti intellettuali romeni (M.
Kogălniceanu, T. Cipariu, A. Papiu Ilarian), Cfr. D. Găzdaru, Omagiu Profesorului D. Găzdaru. Miscellanea
din studiile sale inedite sau rare,
vol. I, Studii istorico-filologice, Freiburg im Breisgau, 1974, p. 26.
[13] Sull’attività di Piluzio si può consultare
G. Călinescu, op. cit., pp. 75-79.
[14] Riguardo al prestigio di cui il missionario godeva si possono
leggere eloquenti testimonianze in D. Găzdaru, op. cit., pp. 28-32.
[15] Si vedano, tra gli altri, V. A. Urechea, Schiţă de istoria literaturii române,
Bucarest, 1885, p. 204; A. Densuşianu, Istoria
limbii şi literaturii române, Iassi, 1894, p. 202; R. Ortiz, Per la storia della cultura italiana in
Rumania. Studi e ricerche, Roma, 1943, p. 96.
[16] G. Piccillo, Considérations
sur le lexique du Catéchisme roumain (1677) de Vito Piluzio, in “Revue de
Linguistique Romane”, 44, 1980, pp. 121-134.
[17] G. Buitul, nobile romeno del Banato, operante dal 1625
al 1635 a Caransebeş, fu il primo gesuita romeno: sulla sua figura si veda L.
Periş, Le missioni gesuite in
Transilvania e Moldavia nel Seicento, Cluj-Napoca, 1998, pp. 91-108.
[18] Catechismus sau
Summá Kredinczéi Katholicsésti R. P. Petri Canisii Szkip: szvent den Rendul
Szociéy lui Issus entorsz pre limba Rumemnaszka dé R. P. Buitul Gsurgs Dokt:
Szkrip: svente den acselas Rend akum de isznove tiperit ku oszirdie R. R. P. P.
Szociey luj Issus, Clusium, 1703. Che sia effettivamente esistita la prima
edizione non v’è dubbio: nella ristampa di Cluj si dice “de iznove tiperit”, cioè
“nuovamente stampato”; inoltre l’opera fu conosciuta da Piluzio che le
riprodusse in gran parte nel suo Catechismo del 1677 (si veda infra).
Infine nelle Effemeridi del Collegio
gesuita di Tyrnavia, tenute da Gh. Dobronoki, sotto l’anno 1636, si legge “Accepi a Karansebes a nostris patribus
catechismus P. Canisii e latino in linguam Valachicam imprimendum Posonii opera
P. Iacobi Nemethi”, Cfr. N. Drăganu, Mihai
Halici (Contribuţie la istoria
culturală românească din sec. XVII), in “Dacoromania”, IV, 1924-1926, p.
119.
[19] G. Piccillo, Le
fonti della «Dottrina Christiana tradotta in lingua valacha da Vito Piluzio»
(1677), in “Revue de Linguistique Romane”, 56, 1992, pp. 495-507; a p. 506
lo studioso catanese scriveva: “I rilievi
che la comparazione tra le due opere ci ha consentito di fare, anche se
ridimensionano l’importanza attribuita al Catechismo di Piluzio nella storia
della propaganda cattolica in Moldavia, non ne incrinano, comunque, il valore
documentario: il testo, pur con le sue incoerenze e bizzarrie ortografiche, […] rimane quanto meno un repertorio utile alla dialettologia storica
romena per le interessanti e attendibili attestazioni di alcuni fenomeni
dialettali moldavi della fine del Seicento”.
[20] È il caso, ad esempio, di č rappresentato con ch, k,
ck, c, z + i, cz, Cfr. G.
Piccillo, Note sulla «lingua valacha»
cit., p. 35.
[21] Idem, Le fonti
cit., p. 506.
[22] Ibidem.
[23] Idem, Testi romeni
in alfabeto latino (secoli XVI-XVIII), Catania, 1991, p. 7.
[24] Gh. Chivu, G.
Chivu, Influenţe maghiare asupra
ortografiei scrierilor misionarilor italieni din secolele al XVII-lea şi al
XVIII-lea, in Conferinţa naţională de
bilingvism, coordinatore: Olga Murvai, Bucarest, 1999, pp. 9-18.
[25] Al riguardo mi permetto di rimandare ad un mio
contributo: T. Ferro, Alcuni aspetti dell’attività
missionaria cattolica in Moldavia tra la seconda metà del Settecento e i
primi anni dell’Ottocento, in Studi in ricordo di G. Barbina, vol. II, Udine, 2001, pp. 101-113.
[26] G. Călinescu, op. cit., pp. 1-35.
[27] Un’altra soluzione sarebbe stata quella di istruire i
missionari prima della partenza; la richiesta di Collegi ad hoc, infatti, fu avanzata da più parti nel corso della
storia della Missione di Moldavia: per i dati al riguardo, Cfr. G. Piccillo, Sul catechismo romeno di Gaspare da Noto
(1644), in “Studi
italo-romeni”, I, 1997, pp. 10 e segg.
[28] Cfr. il mio lavoro, già citato, T. Ferro, Ungherese e romeno nella Moldavia dei secoli
XVII-XVIII cit., pp.
291-318.
[29] Cfr. D. Găzdaru, op. cit., pp. 10-13.
[30] G. Piccillo, Sul
catechismo romeno di Gaspare da Noto cit., pp. 10 e segg.
[31] Idem, La langue
roumaine dans les écrits des missionaires italiens (XVIIe-XVIIIe
siècles), in “Revue des études Sud-Est europérennes”, XXVI,
no. 3, 1988, p. 211.
[32] D. Găzdaru, op. cit., pp. 41-42.
[33] I. Bianu, Vito
Piluzio. Documente inedite din Archivulŭ Propagandei, in “Columna lui
Traian”, IV, no. 1, 1883, pp. 275 e segg.
[34] Ibidem.
[35] Il celebre storico cita Piluzio in De neamul moldovenilor, Cfr. M. Costin, Opere, edizione curata da P. P. Panaitescu, Bucarest, 1958, p. 247.
[36] Circa l’impossibilità (cronica!) di trovare
esperti di romeno si veda G. Călinescu, op.
cit., p. 66.
[37] Cfr. D. Găzdaru, op.
cit., pp. 32-34.
[38] Così risulta dallo stesso registro della
tipografia della Propaganda, Archivio della Congregazione “De Propaganda
Fide”–Roma, Acta, 1716, 193, f. 34.
[39] Al riguardo si veda G. Piccillo, La langue roumaine cit., p. 208.
[40] Dottrina
Christiana tradotta in lingua muldaua dal padre Silvestro Amelio da Foggia
Minor conventuale di S. Francesco olim prefetto delle Sagre missioni
apostoliche di Moldauia, Vallachia, e Transilvania, l’anno 1719: in Yassi.
[41] N. Drăganu, Catehismul
din Manuscrisul de la 1719 al lui Silvestro Amelio, copie după al lui Vito
Pilutio tipărit la 1667 [sic!], in “Făt-Frumos. Revistă de literatură şi
folclor” (Suceava), I, no. 1, 1926, pp. 34-38.
[42] Così afferma lo stesso autore in una lettera
inviata alla Propaganda Fide l’11 dicembre 1723; a favore dell’ipotesi che il
testo fosse destinato alla stampa depongono anche le lettere inviate alla
Congregazione dal superiore dei Gesuiti di Iassi e dal prefetto della missione
di Moldavia: Cfr. G. Călinescu, op. cit.,
pp. 150-151.
[43] Il ms. è catalogato come D 30 nell’Archivio dei
Frati Minori di Roma; esso è stato pubblicato da G. Piccillo, Il “Katekismu krestinesku” di Silvestro
Amelio (1719), in “Balkan-Archiv”, 17-18, 1992-1993, pp. 433-538.
[44] Il glossario è stato pubblicato separatamente da
G. Piccillo, Il glossario
italiano-moldavo di Silvestro Amelio (1719). Studio filologico-linguistico e
testo, Catania, 1982.
[45] Lettera autografa, conservata all’interno del
manoscritto, datata 20 aprile 1737.
[46] Ms. 2882 della Biblioteca dell’Accademia Romena di
Bucarest, ancora inedito.
[47] Cfr. G. Piccillo, Il
manoscritto romeno di Silvestro Amelio (1719): osservazioni linguistiche,
in “Studii şi cercetări lingvistice”, XXXI, no. 1, 1980, pp. 11-30.
[48] T. Ferro, Alcuni
aspetti dell’attività missionaria cattolica cit., pp. 101-113.
[49] Eadem, Per la
storia della propaganda cattolica cit., pp. 61-72.
[50] Come si evince dalla descrizione fattane da C.
Tagliavini in Idem, Alcuni manoscritti cit., p. 49.
[51] Il testo fu pubblicato da C. Tagliavini, Ibidem, pp. 51-104.
[52] Lo stesso A. M. Mauro fu l’autore, probabilmente, del
manoscritto anonimo Asch. 223 di Göttingen che con le Diverse Materie presenta molti punti di contatto, Cfr. G. Piccillo,
Il Ms. Asch. 223 di Göttingen (sec.
XVIII), in “Travaux de linguistique et de littérature”, XXV, no. 1, 1987,
pp. 7-147.