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Annuario 2004-2005
p. 177
Note extravaganti sulla “svolta” deel XV secolo
Gianfranco Giraudo,
Università degli Studi Ca’ Foscari di Venezia
Franz Babinger, nella sin troppo celebrata monografia su
Maometto II il Conquistatore[1],
parla di una “grande paura” che scoppia negli anni che precedono immediatamente
e seguono la conquista di Costantinopoli da parte delle apparentemente
inarrestabili armate ottomane. Oggi come allora, la Turchia, erede in una
indiscutibile linea di continuità dell’Impero ottomano, fa paura, si
teme il suo ingresso in Europa, mentre dal 1453 né l’una né l’altro hanno mai
smesso di essere parte rilevante del sistema geopolitico europeo.
La paura genera rimozione, rimozione che coinvolge quelle
terre e quelle figure che, sin dallo scorcio del XIV secolo, si sono per
necessità dovute confrontare con il Drang
nach Westen delle “verdi bandiere di Allah”, in uno scontro che – dovremmo
finalmente convincercene – non è mai stato scontro di religioni o
culture, come, da allora sino ad oggi, si è insistentemente ribadito in
Occidente. Si è trattato e si tratta di uno scontro di Potenze, centrali
in prospettiva geopolitica nel XV secolo, periferiche oggi. Tre personaggi,
grosso modo coetanei tra di loro e con Maometto II, incarnano, in un dato
momento e in maniera sotto certi aspetti simile, questo scontro: il Moldavo
Stefano il Grande (ªtefan cel Mare),
il Valacco Vlad l’Impalatore (Dracula,
Vlad Þepeº) ed il Moscovita Ivan III il Terribile (Ioann Vasil’eviè), Gran Principe di Vladimir, poi di Mosca e di
tutta la Rus’. Un episodio, invero
alquanto macabro, accomuna i tre personaggi, un episodio che, al di là
delle diverse incrostazioni di motivi folclorici che si sono venute aggiungendo
a ciascuno, ha una forte rilevanza politica.
Nella Povest’ o
Drakule si racconta che Vlad Þepeº fece inchiodare alle teste degli
ambasciatori ottomani i turbanti che, secondo il proprio costume, si erano
rifiutati di togliersi di fronte a lui:
“Vennero una volta da lui ambasciatori del Turco e, giunti davanti a lui, si inchinarono secondo il proprio costume, ma non tolsero dalla testa il berretto. Ed egli chiese loro: ‘Perché fate ciò? Siete venuti da un grande sovrano, e mi fate questo disonore. Ed essi risposero:
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“Questo è il nostro
costume, Signore, e tale ha la nostra terra’. Ed egli disse loro: ‘Ed io voglio
fissare la vostra legge, affinché per salda la teniate’. E ordinò che i
loro berretti fossero fissati alle loro teste con piccoli chiodi di ferro; li
congedò e disse loro: ‘Andate e dite al vostro sovrano: egli è
avvezzo a sopportare da voi tale disonore, ma noi non siamo avvezzi; non mandi
il proprio costume ad altri sovrani che non vogliono averlo, ma lo tenga presso
di sé”[2].
Analogo episodio si trova nelle narrazioni tedesche[3],
con la sola differenza, riguardo al soggetto, che gli ambasciatori non sono
“turchi”, bensì walhen[4].
Una differenza più sostanziale discende dalla diversa impostazione,
stilistica ed ideologica insieme, dei due gruppi di narrazioni. Nel testo russo
il principe valacco, nella cui figura è adombrato Ivan III[5],
interviene per lo più in prima persona a dare una spiegazione
“convincente” del proprio operato, mentre nel testo tedesco le azioni di Dracole Wayda sono “raccontate”
dall’autore, che talvolta ne sottolinea l’atrocità con gli aggettivi unkristenlich e unmenschlich.
Ancora, ha un rilievo non soltanto stilistico la diversa
ampiezza e la differente collocazione dell’episodio nei due contesti, che pure
hanno una struttura in larga parte comune: gli episodi di informazione storica
sono riuniti in gruppi ben distinti, isolati in posizione di rilievo tra la
massa di quelli di carattere novellistico. Nelle redazioni tedesche l’episodio
in esame rientra nella seconda categoria, mentre nella povest’ russa esso, pur ripetendo lo stesso macabro calembour (il verbo tedesco bestetigen ha un perfetto pendant nel russo potverditi), non soltanto viene portato tra quelli “storici”, ma
addirittura collocato all’inizio stesso della narrazione: esso serve ad
introdurre il personaggio, permette a questi di esprimere, subito ed
inequivocabilmente, la coscienza della propria legittimità a governare.
In entrambi i casi si tratta di letteratura politica, seppure a livelli diversi
di elaborazione ideologica: i testi tedeschi appartengono a quel filone che
individua nei vicini orientali (Ortodossi o Musulmani che siano) la minaccia,
che deve essere demonizzata prima per essere esorcizzata poi; la Povest’ o Drakule presenta una figura complessa
di principe adatta alla complessità della congiuntura storica del
crepuscolo del feudalesimo e delle prime, incerte affermazioni degli Stati
centralizzati, la cui identità non è etnica, bensì
confessionale. Non casualmente Dracole
Wayda, dopo la conversione al
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Cattolicesimo,
compie vil guter sach, mentre Drakula smette di essere un modello di virtus dopo aver abiurato l’Ortodossia.
L’episodio in esame è stato in seguito attribuito
al Terribile: secondo il racconto di S. Collins, medico dello Car’ Aleksej Michajloviè, Ivan IV
avrebbe fatto inchiodare alla testa d’un ambasciatore, questa volta francese,
il cappello che questi s’era rifiutato di togliersi[6].
A noi pare che l’elemento più significativo di un tale “motivo vagante”[7]
non sia tanto il dettaglio, per così dire “tecnico”, dei cappelli
inchiodati alle teste degli ambasciatori (immagine peraltro di forte impatto
visivo, come dimostrano la sua diffusione e l’attribuzione a personaggi diversi
di diversi luoghi ed epoche), quanto il dénouement.
Facile è l’accostamento con il comportamento di Stefano il Grande, come
riferito dal cronista polacco Miechowski (Maciej
z Miechowa): quando dal voivoda
moldavo, nel 1469, giunsero ambasciatori del Khan tartaro Maniak a pretendere la liberazione del figlio di
quest’ultimo, Stefano fece prima giustiziare novantanove di questi e
rimandò il centesimo, le orecchie ed il naso mozzati, a portare al Khan la “risposta” dei Moldavi[8],
molto simile a quella dei Valacchi al Sultano.
Occorre osservare che tutte le varianti dell’episodio
sopra indicate hanno un modello comune nel racconto biblico della “sentenza” di
Nabucodonosor contro Sedecia:
“E quelli, preso il re, lo
condussero dinanzi al re di Babilonia, dove questi pronunciò sentenza
contro di lui. E uccise alla presenza di Sedecia i suoi figliuoli, e a lui fece
cavare gli occhi, e lo mise alla catena, e menollo in Babilonia”[9].
L’ammonimento contenuto nella figura del superstite
mutilato della strage era stato ben compreso, seppure a suo modo, da Mons.
Martini:
“Con innanzi lo spettacolo di
un padre che dopo aver veduto trucidarsi al fianco i figli, gli son cavati gli
occhi, è menato schiavo; con innanzi lo spettacolo di un gran popolo da
Dio guardato già come la pupilla del suo occhio, e che è
trascinato schiavo in terra straniera […]; con sotto gli occhi di simili
spettacoli, mi si dica se torni all’uomo conto abbandonare la religione del
vero Dio, e non obbedire alla sue leggi”[10].
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Il problema non è evidentemente quello del
rispetto della legge di un Dio trascendente e minaccioso, bensì quello
del rispetto di un sovrano immanente e dalle prerogative divine, che, per
affermare, di fronte ai nemici tanto interni quanto esterni, una
legittimità ancora tutta da dimostrare, non può non ricorrere a
mezzi estremi di persuasione. Anche Ivan III non esitò a ricorrervi:
allorché, nel 1476, giunsero a Mosca da Kazan’ ambasciatori del Khan Ahmet per esigere il versamento dei
tributi che il Principe di Mosca per consolidata consuetudine riscuoteva per
conto del Khan[11],
egli scagliò a terra e calpestò il sigillo con cui gli inviati
tartari si accreditavano, li fece mettere a morte tutti meno uno, perché
portasse al proprio sovrano la “risposta” di Mosca[12].
Non si tratta, come ingenuamente scrive il Picot, di una
“ferocité” che “était malheureusement dans les moeurs du temps”[13]. I grandi
centralizzatori hanno bisogno di gesti che restino impressi nella memoria
collettiva, affinché in essa si fissi anche l’idea del loro diritto a regnare
entro confini certi e a governare sudditi che li riconoscano come legittimi
sovrani. L’esempio era stato dato da Filippo il Bello con lo schiaffo di Anagni
e con l’eliminazione dei Templari: con il primo atto aveva negato le pretese
imperiali di un Papa, con il secondo si era liberato di un gruppo di potere che
rischiava di diventare uno Stato nello Stato.
Nel secolo successivo i tre Sovrani di cui trattiamo si
erano opposti all’avanzata di un Sultano che riuniva nella propria persona
l’idea imperiale romano-costantinopolitana e quella turco-mongola
gengis-khanide. D’altro canto, come ha cercato con qualche successo di
dimostrare D. Nãstase l’idea imperiale si manifesta, in forma appena
mascherata, nell’araldica già nel XIV secolo e sino a tutto il XVIII[14].
Sul piano interno i tre si erano comportati in modo simile tra loro , fatte
ovviamente le debite proporzioni. Nella riscrittura della storia della Rus’ compiuta a Mosca tra la fine del XV
secolo e l’inizio del successivo, l’annessione di Novgorod e Tver’ e la lotta
contro i privilegi delle aristocrazie di sangue sono dettate da superiori
ideali di unità e giustizia; analogamente sia Vlad che ªtefan devono
lottare contro le spinte centrifughe di una riottosa casta di boiari.
Il fatto che anche ªtefan abbia utilizzato metodi
draconiani – o draculiani – nei confronti dei nemici esterni ed interni, non ha
impedito che, nella tradizione popolare gli venisse attribuito, oltre
all’abituale titolo di cel mare,
anche quello di cel bun[15].
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Analogamente,
per Philippe de Commynes, Luigi XI, che ha l’abitudine di riposare in una
radura di un boschetto, da ogni albero del quale pende un impiccato, è e
resta optimus princeps.
Certo, l’Europa della fine del XV secolo assomiglia ormai
molto poco a quella dell’inizio. In tempi rapidissimi, dopo l’apparente
immobilità medievale, avviene un totale ricambio delle istituzioni:
aboliti o svuotati di contenuto i privilegi feudali, si affermano forme di
statualità che privilegiano la centralizzazione degli apparati, da quello
giudiziario a quello finanziario e militare, a guida del quale sta una
nobiltà di servizio che risponde direttamente ad una suprema
autorità: può essere un Imperatore nel caso di Costantinopoli / Qonstantiniyye o di Mosca, la cui
vocazione imperiale si sarebbe manifestata in modo esplicito solo nel secolo
successivo; può trattarsi di Principi nel caso di formazioni politiche
“minori”, quali Moldavia e Valacchia; può trattarsi addirittura di una
Repubblica oligarchica, quale la Serenissima, unico esempio, a nostra
conoscenza, di prevalenza di rapporti politico-sociali orizzontali in un mondo
dominato da rapporti rigorosamente verticali.
Un altro elemento importante è quello
dell’affermarsi anche in Occidente, mentre nell’Oriente ortodosso era stato
raramente messo in dubbio, del primato dell’imperium
sul sacerdotium. In questo senso
l’episodio di Vlad Þepeº e dei due monaci ungheresi, nonostante il suo
carattere di facezia macabra, è paradigmatico:
“Un giorno vennero da lui
dalla terra Ungara due monaci latini in cerca di elemosina. Egli ordinò
di separarli e chiamò a sé il primo, e gli mostrò il cortile con
un’innumerevole quantità di cadaveri su pali e ruote e lo
interrogò: ‘Ho io fatto bene, e che cosa sono quegli impalati?’ E quegli
disse: ‘No, mio Sovrano, fai il male, senza pietà punisci; ma al Sovrano
conviene essere misericordioso, e quegli impalati sono martiri’. Fece dunque
chiamare il secondo e lo interrogò allo stesso modo. E quegli rispose:
‘Tu, mio sovrano, sei stato posto da Dio a punire i malvagi e a premiare chi fa
il bene. E quelli hanno fatto il male ed hanno ricevuto quanto loro spetta’.
Egli dunque richiamò il primo e gli disse: ‘Perché sei uscito dal
monastero e dalla tua cella vai da grandi Sovrani, senza sapere nulla? E mi hai
detto che quelli sono martiri, ed io voglio rendere te martire, affinché tu sia
martire con loro’. E ordinò fosse impalato per l’orifizio posteriore, ed
all’altro ordinò di dare 50 ducati d’oro, dicendo: ‘Tu sei un uomo
ragionevole’. E ordinò di rimandarlo nella Terra Ungara con grande
onore”[16].
Non dimentichiamo che nel 1492 viene scoperta l’America,
con il che l’asse geopolitico del mondo si sposta dal Mediterraneo
all’Atlantico. E l’anno 1492 corrisponde al 7000 del millenarismo russo
ortodosso, quello della fine del mondo; ed è certo stata la fine se non
del mondo, di un intero continente, ovvero l’inizio di quella che è
forse la pagina più buia nella storia dell’Occidente, quella del
colonialismo, Né si deve dimenticare che il 1492 è anche l’anno del Gerush, dell’espulsione degli Ebrei
dagli unificati Regni di Castiglia ed Aragona. E delle conseguenze degli eventi
del 1492 stiamo tuttora pagando un prezzo molto elevato.
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Vogliamo, per finire, fare un’altra considerazione: ora si
parla in molti Paesi di ingresso in Europa come di un miraggio più che,
a nostro avviso, di una speranza di palingenesi sociale. Ma l’Europa
Centro-Orientale e Balcanica, ivi compresa la Turchia, ha da sempre fatto parte
dello stesso sistema geopolitico, dei cui valori, nonché del proprio utile,
l’Occidente si è considerato depositario unico ed autorizzato.
Other articles published in
our periodicals by Gianfranco Giraudo:
Hammer-Purgstall,
Iorga, Babinger. Un piccolo diverstissement
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Vénitiens Concernant les Pays Roumains dans la Bibliothèque du Museo
Correr de Venise (XVI-XVIII siècles) (together with Marcella
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Tra spirito di
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carteggio di Minuccio Minucci (together with Marcella Ferraccioli)
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(2004-2005), edited by Ioan-Aurel Pop, Cristian Luca, Florina Ciure, Corina
Gabriela Bãdeliþã, Venice-Bucharest 2005.
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© ªerban Marin,
October 2005, Bucharest, Romania
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[1] Abbiamo potuto consultare soltanto la traduzione
francese (Mahomet II le Conquérant et son
temps (1432-1481). La grande peur au tournant de l’histoire, trad. de E. H.
Del Medico, revue par l’auteur, préface par P. Lemerle, Paris 1954), salutata
de resto come “incontestabilmente superiore” all’opera originale; si veda la
recensione di R. Guilland, in “Byzantinoslavica”, XVI, no. 2, 1955, p. 361.
Sulle perplessità suscitate dai debiti non dichiarati di Babinger nei
confronti della storiografia precedente, da Hammer–Purgstall a Zinkeisen e
Iorga, si veda G. Giraudo, Hammer–Purgstall,
Iorga, Babinger. Un piccolo divertissement, in “Quaderni della Casa Romena
di Venezia”, no. 1, 2001, pp. 128–134.
[2] Traduzione nostra da Povest’
o Drakule, issledovanie i podgotovka teksta Ja. S. Lur’e, Moskva–Leningrad
1964, p. 117.
[3] G. Conduratu, Michael Beheims Gedicht über den Woiwoden
Wlad III. Dracul, Bucarest 1903, p.
105, p. 113, p. 117; si veda anche L’edizione
di Lipsia del 1493 della ‘History von Dracola Wayda’, in “Annali di Ca’
Foscari”, XII, no. 1, 1973, pp. 165-177.
[4] Il termine, di origine celtica, indica nelle lingue
germaniche, talvolta con una connotazione vagamente spregiativa, i popoli
neo-latini o, più genericamente, gli stranieri, i non Germani.
[5] La Povest’ o Drakule e la
vocazione centralizzatrice e anti-ottomana della politica moscovita nel secolo
XV, in “Annali dell’Istituto Orientale di Napoli”, nuova serie, XIX, no. 4,
1969, pp. 467-486.
[6] Povest’ o Drakule
… cit., p. 66, n. 20; A. A. Morozov, Nacional’noe
svoeobrazie i problema stilej (k izuèeniju drenerusskoj literatury i
literatury XVIII veka), in
“Russkaja literatura”, X, no. 3, 1967, p. 118, n. 19. Un episodio analogo
è citato dal viaggiatore olandese Jan Danckaert, che ha soggiornato in
Russia dal 1609 al 1611; in questo caso si tratta di un ambasciatore italiano:
si veda Beschryvinge van Moscovien ofte
Ruslant: gestelt in twee deelen. Waer van het eerste tracteert van den stant des rijcks … Het tweede
van der Moscoviten oft Russen religie …, by Broer Jansz, Amsterdam 1615, p. 21.
[7] Brodjaèij motiv, secondo la definizione data da A A. Morozov, op. cit., p. 118.
[8] Si cita da B. P. Haºdeu, Archiva istoricã a României, Bucarest 1866, p. 36.
[9] IV Re, 25, 6-7; si cita da: La Sacra Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, I, traduzione secondo
la Vulgata di Mons. A. Martini, Milano 1906, p. 523.
[10] Ibidem, n. 1.
[11] Già all’inizio del XIV secolo Ivan Kalita,
Principe di Vladimir, residente a Mosca, aveva ottenuto il forse poco onorevole
privilegio di riscuoter tutti i tributi dovuti al Khan dalla terra di Rus’,
dando così inizio all’irresistibile ascesa di Mosca; si veda M. N.
Pokrovskij, Storia della Russia,
traduzione di A. Marchi e D. Bernardini, prefazione di E. Ragionieri, Roma
1970, p. 38.
[12] M. Le Clerc, Histoire
physique, morale, civile et politique de la Russie Ancienne, II, Paris
1783, p. 242.
[13] G. Ureche, Chronique
de Moldavie depuis le milieu du XIVe siècle jusqu’à
l’an 1594, texte roumain avec traduction, notes historiques et
commentaires, tableaux généalogiques, glossaire et table par E. Picot,
Paris1878, pp. 108-109.
[14] D. Nãstase, L’héritage
impérial byzantin dans l’art et l’histoire des pays roumains, Milano 1976;
Eiusdem, L’aigle bicéphale dissimulée
dans les armoiries des pays roumains, vers une cryptohéraldique, in Roma, Costantinopoli, Mosca, Napoli
1983, pp. 357–374.
[15] P. Ispirescu, ªtefan
cel Mare ºi Bun, Bucureºti 1908.
[16] Nostra traduzione da Povest’
on Drakule … cit., p. 119.