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p. 523
Venezia e il Levante.
Riflessi nella letteratura
romena
Monica Joiţa,<
Accademia di Romania,
Roma
a G.
Inizierò con una domanda fondamentale: che
cosa significa per i letterati il Levante? La
storia semantica del termine ci offre un esempio di costruzione e di
trasmissione di una mentalità. Topos
geopolitico, realtà storica, mentalità, concetto letterario
sono le dimensioni possibili del levantinismo.
L’origine semantica del termine Levante
è chiara: “vocabolo di derivazione romanica (italiano, spagnolo e portoghese
levante; francese levant), passato nelle altre lingue
(inglese Levant; tedesco Levante) designa la parte da cui si leva
il sole, quindi in senso generale l’oriente e tutti i paesi che si trovano ad
est di una data località o regione”[1].
In questo senso geografico e astronomico il vocabolo era usato da Torquato
Tasso: “Io, per mutar contrada, o nel levante
/ donde si mostra la vermiglia aurora, / o dove cade il sole, o per ch’io mora
/ e torni al cielo qual peregrino errante, / terrò di voi memoria”. Segnalo ancora che i dizionari registrano anche il
sostantivo femminile levantiniana,
che in geologia ha il significato di “facies
continentale del Pliocene, caratteristica del bacino romeno-carpatico” [sic!].
I secoli XIII-XIV portano ad una sppecializzazione del termine che,
nell’uso marittimo e commerciale, nell’ Italia, nella Francia e altrove,
servì a indicare “i paesi del Mediterraneo orientale, e specialmente la
Grecia e la Turchia d’Europa e d’Asia, ivi compreso l’Egitto”[2].
I versi di Giuseppe Ungaretti, nel poema Levante, descrivono uno dei viaggi, da
Alessandria a Parigi, dove l’atmosfera “levantina” è resa qui attraverso
l’allontanamento della nave, con la quale il giovane viaggia, dalla linea del
Levante (“La linea / vaporosa muore / al lontano cerchio del cielo”), ossia da
Alessandria, dall’allegria degli emigranti siriani (“A poppa emigranti siriani
ballano”), dal ricordo dei riti ebraici nella città che il poeta si era
appena lasciato dietro (“Di sabato sera a quest’ora / Ebrei / laggiù /
portano via / i loro morti”).
Attualmente la denominazione Levante
tende a essere sostituita da quella di Vicino
Oriente (Proche Orient, Near East, Der nahe Osten ecc.), con varie estensioni di significato, che
può comprendere i paesi dei Balcani oppure no. Accanto alla limitazione
geopolitica del termine all’area balcanica, registriamo anche una sua
particolarizzazione storica, designante “i paesi e le aree culturali posti a
Oriente dell’Italia e dell’Europa (con particolare riferimento al Medio Oriente
e ai paesi dell’Europa sud-orientale sotto la dominazione ottomana)”[3].
Tale ultimo senso del levantinismo, definito in funzione della “crescita” e
della “diminuzione” dell’Impero Ottomano, ha interessato fortemente la
terminologia critica romena, come ha dimostrato Virgil Cândea nel suo studio L’intellettuale sud-est europeo nel XVII
secolo[4].
Partendo da due
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osservazioni:
quella di R. Clément (la spedizione napoleonica ha portato gli studi europei a
concentrarsi sui secoli XVIII-XIX del Levante, a svantaggio dell’epoca
immediatamente precedente) e quella che la crisi dell’Impero Ottomano e la
nuova urgenza della Questione Orientale hanno concentrato le ricerche in modo
prevalente sull’aspetto politico, diplomatico o socio-economico, Virgil Cândea
dimostra che “l’Europa del sud-est del XVII secolo può essere compresa
meglio nel suo contesto ancora levantino, piuttosto che in quello europeo. […]
Parlare però degli intellettuali dei Balcani nel XVII secolo richiede di
considerare l’intera area culturale e di idee del Mediterraneo orientale, alla
quale essi appartenevano”[5].
Riteniamo, quindi, che la storia deei rapporti tra Oriente e Occidente
non possa trovare un’epoca e un territorio più fertile del Levante del XVII
secolo. Ancor prima che la scuola orientalista prendesse vita in Occidente,
esistevano qui degli eruditi che, per la loro stessa formazione, possedevano due spiritualità: quella
cristiana e quella musulmana, e due
culture: quella europea e quella araba. In questo capitolo possono essere
menzionati: eruditi slavi e arabi, ad esempio al-Bosnawi, come ultimi
commentatori di alcuni grandi pensatori persiani della portata del mistico
Muhyi-d-din Ibn’Arabi (che hanno ispirato, secondo una ipotesi, la Divina Commedia); o moldavi come come
Dimitrie Cantemir, conoscente del classicismo greco-latino e arabo-persiano,
autore di un sistema musicale turco, allo stesso tempo consigliere personale
dello zar Pietro il Grande e membro dell’Accademia di Scienze di Berlino,
storico dell’Impero Ottomano e studioso delle civiltà dell’Islam; o un
georgiano, Antim Ivireanu, un classico della letteratura romena, promotore
della stampa nella sua patria, fondatore della prima officina a stampa per i
melkiti della Siria e del Libano.
Nel Levante del XVII secolo, la Buccarest è paradossalmente
più vicina alla Gerusalemme e al Cairo che non a Vienna o a Roma.
“Grazie a questo forte insediamento sui territori dell’Adriatico – notava
Virgil Cândea – a più di due secoli dalla conquista la turcocrazia
europea era, da punto di vista culturale, altrettanto poco vincente nei Balcani
come nell’ Iran o nei paesi arabi”[6].
Ad eccezione delle zone sotto dominazione ottomana, che vegetavano nelle loro
vecchie strutture pre-islamiche, pur rimanendo sempre sensibili al contatto con
l’Occidente (Bosnia, Erzegovina, Albania), il Levante possedeva ancora delle
parti sottratte all’influenza diretta dell’Islam: Rodi, Cipro (dove l’impronta
della romanità veneziana rimane forte), Creta (territorio privilegiato
in cui fiorivano soprattutto l’arte e la letteratura greca, con forti
contributi veneziani), il monte Athos, massima concentrazione di
spiritualità cristiana, dove il supporto materiale offerto dai principi
(voivoda) romeni ebbe un ruolo
importante. Il Levante del XVII secolo rappresenta per la storia delle
mentalità un materiale di studio di una sorprendente ricchezza. La parte
dominata ancora dagli europei (il Peloponneso, la Creta, le isole) evolve sotto
l’influenza occidentale; i paesi autonomi (la Moldavia, la Valacchia, Ragusa)
salvano le loro strutture fondamentali e adottano dall’Europa libera quel poco
che il regime politico e le strutture tradizionali permettono loro.
Queste regioni adempiono contemporaneamente al doppio ruolo di sostegno e di rifugio
per gli abitanti dei territori sottomessi all’Impero Ottomano.
Infine, l’aggettivo levantino
“vuole spesso sottolineare la particolare abilità commerciale, l’astuzia
e, anche, la corruzione, la slealtà ecc. attribuite tradizionalmente
agli
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abitanti
di tali regioni”[7]. Nella
lingua romena, tali connotazioni si sono “concentrate” nel termine balcanismo, come notava il critico Tudor
Vianu: “Il balcanismo è diventato anche per i rappresentanti
dell’intellettuale romeno e per il contadino romeno una categoria inferiore,
degna piuttosto di essere combattuta e, secondo le possibilità,
annullata”[8].
Il termine “balcanismo” designa in modo corrente “una tara descrittiva e
categoriale” (Mircea Muthu) che include “la derisione facile,
l’instabilità fondiaria, il sentimentalismo facile, lo spirito gregario,
l’epicureismo popolare” ecc. Il balcanismo ha altresì sollevato
nella critica letteraria romena numerose discussioni, che trovano una sintesi e
un riflesso nei solidi lavori di storia e critica letteraria di Mircea Muthu[9].
Un dizionario romeno di terminologia letteraria[10]
precisa che nell’epoca interbellica il concetto di balcanismo acquista statuto di categoria letteraria, figurando per
la prima volta in quanto tale nella Storia
della letteratura romena di George Călinescu[11]. Il balcanismo
in quanto mentalità può essere spiegato sulla base di 3 accezioni
fondamentali: 1) come realtà storica e politica, di frammentazione
etnica generatrice di stati conflittuali (donde anche l’espressione che vede nei
Balcani la “polveriera dell’Europa”); 2) filosofia della sopravvivenza (la
stessa teologia ortodossa, predominante nello spazio balcanico, è di
tipo apofatico, convertendo il
negativo in positivo); 3) il riscatto del dramma collettivo attraverso l’arte,
nelle condizioni di un regime autocratico.
Al livello letterario, il balcanismo
è particolarmente produttivo in questo spazio culturale nello sfruttare
il legame, mai spezzato, tra il tipo di comunicazione orale e la
modalità scritta, attraverso lo spirito
epopeico e la l’ampio uso della
narrazione, comuni ad alcuni scrittori come Nikos Kazantzakis, Ivo Andrić,
Ismail Kadarë, Vasile Voiculescu, Mihail Sadoveanu, Panait Istrati. Il concetto
stesso di balcanismo comporta
sfumature determinate dalla sovrapposizione di diverse realtà storiche e
politiche nello spazio balcanico. Così, Nicolae Iorga contestava
decisamente l’esistenza di un’unità geografica e spirituale dei Balcani,
parlando invece, dei cosiddetti “ricordi storici” che appartengono in uguale
misura a tutti i popoli dello spazio del sud-est europeo: “Lo stesso popolo ci
ha sollevati verso la cultura più alta: il popolo romano; lo stesso stato ci ha mantenuti in una
organizzazione politica: lo stato
bizantino; la stessa razza dominatrice (i turchi) ci hanno dato, accanto a molte garanzie, molte sofferenze”[12].
Così, al termine di balcanismo si associa quello di bizantinismo, compresa l’area delle sue connotazioni negative
(bizantinismo=sottilità retoriche eccessive+comportamento duplicitario).
Il mito di Bisanzio sopravvive nella letteratura romena colta, nella filosofia
delle Învăţăturile lui Neagoe Basarab
către fiul său Theodosie (Gli
insegnamenti di Neagoe Basarab a suo figlio Teodosio), nello spirito
iconoclasta della poesia di Adrian Maniu, nella “malinconia” del “Principe” di
Eugen Barbu. L’eroe Kesarion Breb del romanzo di Sadoveanu Creanga de aur si accinge in un viaggio iniziatico verso la luce
della Propontide, dove la sua “complessione umana” conoscerà
l’essenziale, ancorché fuggente, attimo dell’Eros. L’arte retorica influenzata
dalla lettura dei Santi Padri, la dimensione tragica delle ampie glosse in
margine al motivo della vanitas vanitatum
delle
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Învăţături (Gli insegnamenti) di
Neagoe Basarab si ritrovano, secoli dopo, negli Inni di Ioan Alexandru, per cui il reale è un’epifania del
sacro, mentre il poeta rimane un servitore del Logos[13].
Ma Bisanzio significa per i romeni anche Ţarigrad, anche Istanbul. “Noi
non vediamo più nei turchi i distruttori dell’impero bizantino, ma i
suoi continuatori”[14],
scriveva lo stesso N. Iorga, autore della celebre teoria del “Bisanzio dopo
Bisanzio”. La dimensione ottomana del
bizantinismo può essere rintracciata in Dimitrie Cantemir (Istanbul
turco come la “Città dell’Epithimia” nella Istoria ieroglifică), in Mihail Sadoveanu (Fraţii Jderi, Creanga de aur,
Zodia cancerului). Lo “spirito
balcanico” aleggia sotto forma di saggezza e di culto dell’oralità
nell’opera di Anton Pann, nel Divanul
persian (Divano persiano) di Mihail Sadoveanu, nello fascino per il crepuscolo
degli eroi di Mateiu Caragiale, Craii de
Curtea Veche, illustrando la dimensione tragica del balcanismo, a volte
nascosta, dietro il velo della parodia.
Dichiaratamente postmoderna (e di certo intraducibile), l’epopea Levantul di Mircea Cărtărescu “comprende
un’offerta di lettura diversificata, e implica l’umorismo burlesco quanto
quello filologico, l’allusione alla contemporaneità, la teoria poetica,
la crisi esistenziale e quant’altro”[15].
Esiste infine una dimensione greca,
fanariota del balcanismo, reperibile
nella tipologia e nei quadri d’epoca della prosa di Ion Ghica e Nicolae
Filimon, ma anche nell’Ellada virtuale rappresentata nella copia turcizzata,
imperfetta, dell’Isarlîk di Ion Barbu che confessava: “Credevo di avere
scoperto nel pittoresco e nella comicità balcanica un’ultima Grecia”.
Nella distribuzione territoriale culturale dell’epoca, i punti di riferimento
erano costituiti non dalle frontiere, ma dai centri di attività e di
diffusione. L’Europa del sud-est conosceva nel XVII secolo alcuni centri di
questo tipo sul suo territorio o all’infuori di esso. Si trattava di
Costantinopoli, Atene, Ianina, Athos, Bucarest, Iassi, Ragusa, ma anche di
Cairo, di Venezia o di Roma. Ricordiamo l’importanza della stampa veneziana per
la cultura romena, a cominciare dall’edizione princeps del Vecchio
Testamento pubblicata da Aldo Manuzio nel 1518 e che, riprodotta
nell’edizione di Francoforte del 1597, ha costituito per Nicolae Milescu la
fonte principale per la traduzione integrale del Vecchio Testamento. Le prime “storie universali” in lingua romena
sono state create inoltre sul modello delle traduzioni di due Cronografi greci
stampati a Venezia: il Biblion istoricon
(1631), ad opera di Dorothei, metropolita della Monembazia, e il Nea sinopsis … (1637) ad opera di Matei
Kigalas.
“Ancora oggi mi accompagna il pensiiero di distinguere il modo del tutto
particolare in cui il Mediterraneo ha riflesso le sue categorie in ciascuna
delle grandi culture nazionali che noi conosciamo”, confessava Edgar Papu nel
saggio Thomas Mann e Venezia[16].
Un punto di partenza – suggeriva il saggista romeno – è la percezione e
la descrizione del paesaggio veneziano. Fatto curioso, Venezia è pocco presente nella letteratura romena.
Tranne due creazioni occasionali (nella poesia di Alexandru Macedonski[17]
o in quella recente di Ruxandra
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Cesereanu[18]),
la letteratura romena conosce solo due capolavori ispirati allo spirito
veneziano: il sonetto Veneţia (Venezia)
di Mihai Eminescu e il romanzo Săptămâna
nebunilor (La settimana dei folli) di Eugen Barbu. Pur ispirandosi al
significato corrente, di crepuscolo e di morte della Serenissima, entrambe le
opere rimangono, a un’analisi più approfondita, delle storie d’amore.
Allo stesso modo, per l’eroe di Thomas Mann, affascinato in modo letale dalla
bellezza efebica di Tadzio, la gondola
rappresenta un microcosmo di Venezia all’interno del quale l’amore si intreccia
alla morte: “E si è mai osservato che il sedile d’una tale barca
verniciato in nero feretro, la poltroncina imbottita in nero opaco, è il
sedile più soffice, più voluttuoso, più prostrante del
mondo?”[19].
Rimaneggiamento del sonetto Venedig,
del 1850, di un oscuro poeta viennese (Cajetan Cerri), Veneţia diventa sempre di più un sonetto puramente
eminesciniano, viste le venti variante poetiche che si estendono nell’arco di
dieci anni. La sentenza finale, scandita dalla campana di San Marco: “Nu-nvie
morţii – e-n zadar copile!” (“Non resuscitano i morti – è in vano, ragazzo!”) chiude la storia di
un amore impossibile. In modo inconsueto per la filosofia di Eminescu, l’acqua
è qui l’elemento maschile e sempre giovane, mentre la città di
Venezia diventa l’elemento femminile e fuggevole. La dimensione erotica
è molto amplificata nelle varianti del sonetto, come per esempio nella
seguente:
“Oceanul tremurând pe lungi canaluri
Cetatea-n braţe-a strâns-o cu iubire,
Miresei sale vecinic tânăr mire
I-ar da viaţa iar mişcând din valuri”[20]
[L’oceano, tremando nei lunghi canali,
ha stretto la città tra le braccia con
amore,
sposo eternamente giovane della sua sposa,
le renderebbe di nuovo la vita muovendo i flutti]
Nel romanzo di Eugen Barbu, Săptămâna
nebunilor (1981), Venezia acquista molteplici significati: essa rappresenta
in primo luogo lo spazio erotico ideale,
in cui lo svolgimento del Carnevale raffigura la dimensione dionisiaca della
storia d’amore tra Hrisant Hrisoscelu e Herula Lucrezia, mentre la città
tormentata dalle acque rappresenta la dimensione distruttiva dell’Eros. In
seguito, anche attraverso le molteplici allusioni letterarie, la Bucarest di
una immaginata epoca fanariota diventa la copia valacca di Venezia. La camera
in cui l’eroe sogna, nella miseria, il suo ultimo amore diventa, come la
gondola di Thomas Mann, un microcosmo veneziano sul quale infine la morte
trionferà.
Venezia è molto più ppresente nella pittura romena. In modo simile e inatteso, non è stata
l’atmosfera crepuscolare ad attirare gli artisti romeni, bensì la
dimensione “levantina” della città. Venezia come caleidoscopio di
colori, occasione di una violenta policromia, compare nella mostra personale Venezia (1927) di Nicolae Dărăscu; le Veneziane di Gheorghe Pătraşcu
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possiedono
il respiro e il carattere monumentale di alcune composizioni parietali,
carattere sottolineato dai contorni neri e precisi. A differenza di Venezia
leggera e impalpabile come un sogno di Corot, quella di Pătraşcu sembra marcata
da un destino più drammatico, che ci trasporta nel Medio Evo. Anche
nella visione di Corneliu Baba, Marius Bunescu, Ion Gheorghiu (nel suo periodo
“realistico” iniziale), Sabin Popp, Lucian Grigorescu, Ioana Bătrânu, Mihai
Sârbulescu, Horea Paştină, Paul Gherasim si perpetua il miracolo coloristico
delle lagune, lo studio dell’acqua in quanto “elemento essenzialmente
femminile”, come teorizzava Horia Bernea in cio che riguarda del fascino di
Venezia[21].
Bibliografia
aggiuntiva:
Cesare Alzati,
Influenţe cretano-veneţiene în viaţa
religioasă a Ţărilor Române în epoca postridentină, Idem, În inima Europei,
Cluj-Napoca, 1998.
Mircea Cărtărescu,
Levantul, Bucarest, 1998.
Vasile Drăguţ,
Nicolae Dărăscu, Bucarest, 1966.
Mihai Eminescu,
Constelaţia Luceafărului. Sonetele.
Scrisorile (edizione a cura e commenti di Petru Creţia), Bucarest, 1994.
Nicolae Iorga,
Ce este Sud-Estul european, Bucarest,
1940.
Bruno Mazzoni,
“Mitologemi balcanici nella
letteratura romena contemporanea”, Europa
Orientalis 8 (1989): 167-175.
George Oprescu,
Gheorghe Pătraşcu, Bucarest, 1982.
Edward W. Said,
Orientalismo (L’immagine europea
dell'Oriente), Milano,
2001.
For this material, permission is granted for electronic copying,
distribution in print form for educational purposes and personal use.
Whether you intend to utilize it in scientific purposes, indicate the
source: either this web address or the Annuario. Istituto Romeno di cultura
e ricerca umanistica 5 (2003), edited by Şerban Marin, Rudolf Dinu, Ion
Bulei and Cristian Luca, Bucharest, 2004
No permission is granted for commercial use.
© Şerban Marin, March 2004, Bucharest, Romania
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[1]
AA. VV., Enciclopedia italiana di
scienze, lettere ed arti, XXI,
Roma, 1951: 9.
[2]
Ibidem.
[3]
Salvatore Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana,
VIII, Roma, 1976: 1006.
[4]
Virgil Cândea, Intelectualul sud-est european în secolul al
XVII-lea, în Idem, Raţiunea dominantă, Cluj-Napoca, 1979.
[5]
Ibidem: 229.
[6]
Ibidem: 254.
[7]
Battaglia, op. cit.: 1007.
[8]
Tudor Vianu, Ion Barbu, Bucarest, 1970: 34.
[9]
Mircea Muthu, Literatura română şi spiritul sud-est
european, Bucarest, 1976.
[10]
AA. VV., Dicţionar de termeni literari,
Bucarest, 1976: 45-46.
[11]
G. Călinescu, Istoria
literaturii române de la origini până în prezent (2a edizione,
rivista e aggiornata, curata da Alexandru Piru),
Bucarest, 1982.
[12]
Nicolae Iorga, Ce înseamnă popoare balcanice, Vălenii
de Munte, 1915.
[13]
Ioan Alexandru, Imnele iubirii, Bucarest, 1983.
[14]
Iorga, Generalităţi cu privire la studiile istorice, Bucarest, 1933: 158.
[15]
Bruno Mazzoni, Rodica Zafiu, “Poesia romena di fine millennio”, in Annuario Poesia ‘98 (a cura di Giorgio Manacorda), Castelvecchio, 1999: 191.
[16]
Edgar Papu, “Thomas Mann şi Veneţia”, Idem, Excurs prin literatura lumii, Bucarest, 1990: 371.
[17]
Alexandru Macedonski, Opere, vol IV, Poezii,
Bucarest, 1967: 244-246 (le note al postumo Gala
vénitien).
[18]
Ruxandra Cesereanu, Veneţia cu vene violete, Cluj-Napoca,
2002.
[19]
Thomas Mann, Tonio Kröger. La morte a Venezia. Cane e padrone, Milano, 1989: 95.
[20]
Mihai Eminescu, Opere, vol. VIII (edizione curata da D. P. Perpessicius), Bucarest, 1994: 161.
[21]
Horia Bernea, Teodor Baconsky, Roma caput mundi. Un ghid subiectiv al Cetăţii Eterne, Bucarest,
2001.