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Istituto Romeno’s Publications
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Quaderni 2004
p. 353
Alcuni
tropi e topoi comuni alla letteratura bizantina e alla lirica romanza
Monica Joiþa,
Accademia di Romania in Roma
Come è impossibile comprendere un discorso greco o latino se non si
conosce il greco o il latino, così per colui che non ama, l’amore
è una lingua barbara (San Bernardo, Sermone LXXIX, 1,
sul Cantico dei Cantici).
A prima vista niente infatti può sembrare
più fortuito oppure eclettico che un accostamento del “discorso amoroso”
nella letteratura bizantina a quello della poesia romanza, che oltrettutto
dovrebbe cancellare una differenza temporale e mentale di secoli. La prima
–benché poco conosciuta– sembra impossibile da separare dal fasto estetico e
retorico della liturgia ortodossa e dal linguaggio liturgico che celebra
l’Amore divino. La seconda invece –e specialmente la lirica provenzale– ha
generato un ampio corpus saggistico, con numerosissime ipotesi specialmente
sull’origine e sul linguaggio poetico. L’osservazione più comune
è quella che la lirica provenzale fa l’apologia della fin’amors[1],
essendo considerata anche “una letteratura d’amore, e di un amore che ha fama
d’amore essenzialmente adultero; in quella società medievale del Midi,
che viene citata come modello di raffinatezza fastosa e di irreligiosa
leggerezza; nei trovatori impegnati nella ginnastica mentale di complicatissimi
schemi strofici; tutto ciò può apparire davvero strano, o tutt’al
più giustificabile in sede di erudizione pura” per citare, ad esempio,
le parole di Diego Zorzi tratte dal suo saggio sui valori religiosi nella
letteratura provenzale[2].
L’audacia di trovare tali affinità fra due letterature apparentemente
così diverse si fonda però su almeno due caratteristiche generali
del fenomeno spirituale che le ha generate. La prima si riferisce al “tema”
essenzialmente comune alle due letterature: l’Amore, considerato –per
riassumere le “battaglie saggistiche” sull’Amore (sia su quello cristiano,
espresso nel linguaggio mistico, sia sulla fin’amors e sul loro
intreccio)– come la presenza di Dio nelle cose e nelle persone. E questo perché
nel mondo bizantino, come in quello romanico, i confini “linguistici” tra la
speculazione teologica e la conoscenza affettiva erano molto sfumati. Una
conseguenza
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354
secondaria
di questo processo così intimo si riferisce alla poesia come momento di
proposta, come “espansione di senso” ed “estetizzazione” dei valori cristiani,
e alla teologia cristiana come base dell’arte. In termini medievali, la formula
di questo scambio si può trovare in Giovanni Scoto: “Come l’arte poetica
sviluppa interpretazioni morali o cosmogoniche mediante storie immaginarie e
allegorie per stimolare la mente dell’uomo […] così la teologia, simile
a una poetessa, adopera invenzioni intellettuali per adattare la Sacra
Scrittura alla capacità dell’intelletto”[3].
Nella lirica bizantina e in quella romanza il compito del linguaggio fu dunque
proprio quello di “addolcire” la dottrina nella dolcezza della poesia, come
indica anche la vastità del campo semantico di dolce (dous,
glykýs) nelle due letterature. Prendiamo un esempio per questa funzione
“addolcente” del linguaggio poetico citando una strofa di una Passione
medievale francese nella quale la Vergine si rivolge a Suo Figlio, proprio nel
momento della nascita, con queste parole:
Createur
de firmament,
Roy
prudent,
Tu
me fay grant demonstrance
D’amour,
quant tu dignement,
Doulcement,
De
moy a pris ta naissance
Sans
ce qu’aulcune pesance,
Ne
grevance,
Aye
senti nullement[4].
Ricordiamo
a questo punto che il problema del rapporto fra l’Amore divino e l’amore
“profano” (epiteto che, in questo caso, sembra poco adeguato) si trova in primo
piano nelle discussioni riguardanti la possibile filiazione diretta o la
derivazione della lirica cortese provenzale dalla mistica cristiana del
Medioevo[5].
Perciò, ribadiamo che, da una parte, il tema dell’Amore arriva all’epoca
dei trovatori con tutta la preziosa carica del pensiero agostiniano e di quello
neoplatonico[6], e che,
dall’altra, nei numerosi commenti del XII secolo ai diversi libri della Bibbia,
il Cantico dei Cantici occupa il primo posto. “Nel pensiero romanico
–considera M.-M. Davy– l’amore coniugale si presenta come
p.
355
quello
più difficile a descriversi. Questo tema non costituisce affatto
un’innovazione medievale, ma è profondamente biblico”[7].
Infatti, per afferrare il senso dei numerosissimi simboli e delle allegorie di
impronta così “erotica” che la nostra mentalità moderna si
stupisce, nell’interpretare i testi medievali del Cantico i studiosi
hanno l’abitudine di rifarsi ai Padri della Chiesa greci e latini. Per esempio,
commentando il celebre testo “Ch’egli mi baci di un bacio della sua bocca” (Cant.,
I, 1), San Bernardo (Sermone III) paragona l’esperienza di questo “bacio
spirituale ad una manna segreta, ad una fontana sigillata, ad un segno d’amore”[8].
Un bacio del genere simbolizza l’effusione dello Spirito Santo (VIII, 2), vale
a dire la rivelazione recata dalla presenza dello Spirito Santo (VIII, 5).
Questa, dice San Bernardo, è luce di conoscenza e fuoco d’amore
(VIII, 5). Una tale esegesi della simbolistica amorosa dovrebbe però
oltrepassare (superare) il possibile “pericolo” rappresentato dalla tentazione
di ignorare una realtà storica precisa. Nel pensiero ebraico tanto che
in quello bizantino oppure in quello romanico, il tema dell’Amore aveva una
simbolistica precisa e, di più, una precisione rigorosa dei
termini. Per riprendere l’esempio del Cantico dei Cantici, nel
pensiero ebraico quando un uomo ed una donna si congiungono, la Schekhina
(presenza divina) alleggia su di essi, essendo la procreazione richiesta agli
uomini sotto forma di un primo comandamento: tale atteggiamento corrisponde
alla necessità di popolare la terra. Quindi il lirismo e la simbolistica
erotica del Cantico sono stati precisamente generati dal pensiero
ebraico che proclama in essenza che l’unione può essere intesa non in
modo fisico, ma su un piano spirituale. Pur rispettando questo principio, noi
invece vogliamo invocare l’aspetto “umano”, “affettivo”, che presenta per la
nostra ipotesi un interesse molto più esplicito: tanto l’innografo
bizantino che il trobador tenta continuamente di dire ciò che non può
essere detto. Ma non sarebbe proprio questo il ruolo della poesia?!
Possiamo affermare quindi che i poeti analizzati sono dei
“mistici” rispetto alla definizione più breve che ci sia stata data:
mistica è “conoscenza sperimentale di Dio” (“cognitio Dei experimentalis”).
Se prendiamo per altro l’aggettivo greco mystikos nel suo senso
più ampio, “mistico” sembra disegnare delle realtà segrete,
velate, di non immediata accezione o comunicazione, e che appartengono
all’ordine religioso o affettivo[9].
E che altro vi può essere di più segreto e di più velato
dell’Amore?! È proprio così che il linguaggio mistico delle due
liriche ha “necessariamente, come condizione della sua esattezza, delle
dominanti psicologiche e affettive” per utilizzare le parole di
p.
356
Jacques
Maritain[10].
Così Gregorio di Nazianzo scriveva uno dei suoi più celebri carmi
che fa parte del primo libro dal titolo La Natura umana, nel quale egli
si immaginava un parallelo fra il carcere del corpo e il carcere del
linguaggio, entrambi indegni di ricevere l’Amore:
Prima
ero nella carne di mio padre, poi mia madre mi accolse in sé, legato a
entrambi. E poi fui carne indistinta, non ancora uomo, ma informe turpitudine,
priva di verbo ed intelletto: mia madre ne era la tomba. La nostra è una
duplice sepoltura. […] Anima, ti dirò d’ora
in poi quanto è opportuno; chi, donde o cosa sei? Chi ti ha imposto di
portare un morto e ti avvinse ai lacci odiosi dell’esistenza, facendoti tutta
piegare a terra? Come tu, che sei spirito, fosti mescolata alla crassa materia,
tu intelletto, alla carne, tu, leggera, alla gravità? […] Ogni
cosa è secondaria, viene dopo Dio. Cedi alla Parola. Ma invano Dio
creò me. Il mio canto, io lo ritratto: dipendeva dalla pochezza della
mia mente. Ora le tenebre, ma poi la Parola: capirai ogni cosa o nella
contemplazione di Dio o consumandoti al fuoco[11].
Se infatti il linguaggio filosofico oppure quello
teologico si propone anzitutto di dire la realtà senza toccarla, il
linguaggio “mistico” si propone invece di farla divinare, quasi toccandola per
rendersi conto della sua continenza. Potrebbe essere proprio questa una
“naturale” motivazione, la più genuina, dell’amor de lonh nella
lirica provenzale, “un amour chrétien transposé sur le plan séculier”, secondo
Leo Spitzer[12], oppure “une
mystique de l’amour à la fois proche d’un certain mysticisme chrétien et
d’un culte de l’amour déjà à l’oeuvre chez les poètes
arabes”[13],
secondo Jean–Charles Huchet.
Mas
am de vos le talen e.lo desir
que
d’autr’aver tot so c’a drut s’eschai.
[J’aime mieux le désir de
vous
que d’avoir d’une autre tout
ce que reçoit un amant][14]
(Arnaut de Mareuil).
Di più, avendo generato l’Amore una “pienezza”
affettiva risentita dal poeta come una preziosa ma “dolorosa” carica, un tale
stato di esaltazione sarebbe particolarmente fecondo per la retorica del
discorso. È precisamente nei momenti di tormento mistico che l’ossimoro
diventa il tropos più “necessario” al poeta, idea che
riprenderemo più avanti. Nella lirica trobadorica, un ossimoro di
grande importanza è quello al quale accennava Pierre Bec, dicendo che:
“[il] oscille constamment entre deux champs sémantiques, ou plutôt poétiques,
anthitétiques: celui de la joie (joi) et celui de la
p.
357
douleur (dol-s,
dolor-s, enoi-s, ecc.) avec des imbrications essentielles et des
zones d’ombre mal définies où la joie devient douloureuse et la douleur
joie”[15].
Joi, “gioia” –“termine misterioso che è la disperazione
dei romanisti”[16]– sarebbe
per l’amore trobadorico quello che la grazia è per l’agapè
dei lirici bizantini. È quel che bene esprime il bel testo di Arnaut de
Mareuil:
Si
cum li peis an en l’aiga lor vida,
L’ai
eu en joi e totz temps la·i aurai.
[Come i pesci hanno nell’aqua
la loro vita,
Io l’ho nella gioia e sempre
l’avrò][17].
Purtroppo,
a dispetto del “contenuto amoroso” fondamentale, “se la particolare concezione
dell’amore –scriveva R. Antonelli– è forse il dato più evidente
fra quanto contribuisce a definire il movimento trobadorico sia rispetto a se
stesso che nei confronti della successiva poesia europea, l’aspetto formale ne
costituisce certo l’alta cifra caratteristica e ciò che per il suo
concreto aspetto tecnico vale forse meglio ad identificare, anche nella
tradizione che ne ebbe origine, la ‘funzione’ specifica dei suoi cultori”[18].
Osservazione valida anche nel caso della letteratura
bizantina, che ci permette di avvicinarci alla seconda caratteristica del
fenomeno analizzato. Essa ha invece una natura molto tecnica, derivata dalla
stessa funzione primaria dell’atto poetico nell’età d’oro della Patristica,
rispettivamente nel Medio Evo latino: quella musicale. “Chanter
m’estuet” [“Mi serve un canto”] dice la formula con la quale iniziano
più di venti poemi trovierici. La formula trovierica “chanter m’estuet” si
fonderebbe nella formula “amer m’estuet” [“Mi serve l’amore”] cosicché un’estampie
–che assieme alla ballette, alla rotrouenge, al rondet de
carole oppure al rondeau aveva una funzione musicale o coreografica–
comincia con l’invocazione del soggetto “cantabile”, cioè la Dama, la
donna amata:
Je
chans
Souvent
De
cuer amerouzement,
Ke
pris suis si doucement
De
cors bien fait, avenant,
A
cui me rant
Trestout
mon vivant;
Car
kant je l’ai en remirant,
An
moi s’estant
Mes
cuers et esprant
An
chantant
p.
358
Gaiement.
[Je chante
souvent
d’un coeur amoureux,
car je suis, si doucement,
prisonnier
d’un corps bien fait et
agréable
auquel je me rends
pour ma vie durant.
Toutes les fois que je le
contemple,
mon coeur s’enfle
et s’enflamme
en chantant
gaiement][19].
Tu [Dio]
sei al di là di ogni cosa: cos’altro infatti è possibile dire di
Te nel canto?[20],
si domandava secoli fa Gregorio di Nazianzo parlando anche delle “fatiche” che
gli aveva inflitto l’elaborazione “mistica” del discorso innico. E continuava a
lamentarsi della povertà delle parole che l’uomo possiede: Ma, o mia
Trinità, di te soltanto mi preoccupo: avrai una lingua idonea alla tua
difesa, o almeno libera e piena di zelo?. Cosicché, pur avendo un carattere
depresso che ha contribuito fortemente “all’effetto del divario avvertito
dall’individuo fra l’idea che nutre di se stesso e la realtà che lo
circonda”[21], Gregorio
riuscì a esercitare una forte pressione sui confini linguistici della
teologia. Nell’ambito della nostra ipotesi sulla generazione nelle due letterature
di alcuni topoi e tropi comuni proprio dagli stessi atteggiamenti affettivi
attraverso simili esperienze “amorose”, siamo stati colpiti dalla pressoché
totale similitudine di linguaggio fra il primo lamento gregoriano citato sopra
e la seguente strofa scritta da Lorenzo il Magnifico:
O,
Dio, o sommo bene, or
come
fai,
che
te sol cerco e non ti
trovo
mai?[22].
Nella prospettiva sociologica, le qualità
“mistiche” dei nostri poeti sono spesso state considerate proprio come un
“dono” divino oppure come una sorta di “deformazione professionale”,
specialmente nel caso dei poeti bizantini quali erano nella
p.
359
vita
quotidiana i chierici o i monaci. Da questo punto di vista, due casi sono molto
simili, quello di Romano il Melode e quello di Jaufre Rudel.
Le poche informazioni sulla vita di Romano il Melode
emergono per lo più da fonti liturgiche e precisamente dai sinassari[23],
ossia da quelle notizie storiche che vengono lette nella Chiesa bizantina al
mattutino dei giorni festivi. Uno di questi sinassari riferisce l’origine
soprannaturale del dono poetico posseduto da Romano:
Apparsagli
in sogno la Santa Madre di Dio nella sera di Natale di Cristo e consegnatoli un
rotolo di carta, gli ordinò di inghiottirlo. Svegliatosi subito dopo
aver mangiato, egli salì sull’ambone e cominciò a declamare e a
cantare armoniosamente: La Vergine oggi ha generato il soprannaturale. Da
allora compose per le feste del Signore e in memoria di vari santi circa un
migliaia di contaci, la maggior parte dei quali, scritti dalle sue stesse mani,
sono custoditi nella chiesa en toîs kýrou. Morì in pace e fu sepolto in
quella chiesa dove si celebra la sua sinassi[24].
Una
tale funzione del sinassario, di contenitore e trasmettitore delle note
biografiche, è simile in qualche modo a quella delle vidas e
delle razos nella letteratura provenzale del XIII secolo. Per esempio,
la vida di Jaufre Rudel si costituisce in una sorte di “critica
genetica” di tre cansos che celebrano l’amor de lonh: Quan lo
rossignols el foillos, Quan lo rius de la fontana e Lanquan li
jorn son lonc en mai. Infatti, i quattro manoscritti del XIII secolo della vida
di Jaufre Rudel permettono di ricostruire l’“originale” dei poemi citati
sopra, in una sorte di “quête du récit” secondo l’espressione di
Jean–Michel Caluwé[25].
La vida lega la persona mortale del poeta nientemeno che al tema poetico
prediletto che l’ha reso celebre, quello dell’amor de lonh,
restituendogli così una gloria postuma, come ci testimonia una partimen
composto da Guiraut da Salanhac e Peironet:
c’amors
dels huolls no·i vai si·l cors no·i sen
e
ses los huoills pot lo cors francamen
amar
cellui q’anc non vic a presen,
si
cum Jaufres Rudels fetz de s’amia.
[L’amour ne va pas par les
yeux si le coeur ne l’éprouve pas; et le coeur peut se passer des yeux pour
aimer sans réserve la personne qu’il n’a jamais vue devant lui, ainsi qu’il en
fut de Jaufré Rudel et de son amie][26].
p.
360
“La vida du troubadour est inconcevable sans le
motif de l’amor de lonh. La vie du troubadour tient au fait de ne pas
avoir vu la dame. Dès qu’il la voit, il meurt. Cela est emblématique du
statut du troubadour, qui n’existe que dans la mesure où il chante, mais
qui ne peut chanter qu’un amor de lonh, c’est-à-dire un amour
impossible. Si cet amour vient néanmoins à se réaliser, le troubadour
n’a plus de raison d’être. Aussi la vida, en réalisant le
rêve lyrique de Jaufré Rudel, n’avait-elle d’autre issue que de faire
mourir le troubadour. Jaufré Rudel est la victime de la fiction de sa propre
vie”[27].
Nell’età d’oro dell’innografia bizantina (secoli VI-VIII) fu Romano il
Melode, colui del quale si diceva che aveva ricevuto il dono divino della
poesia dalla Vergine stessa, a essere acclamato come “oratore di Dio”,
θεορρήτωρ[28].
Non sarebbe dunque –e speriamo di essere convincenti– un artificio
intellettuale questo parallelismo che noi proponiamo fra le due letterature, ma
tutt’al contrario un fatto poetico della più pura essenza. Per citare di
nuovo Jacques Maritain nei suoi scritti sul linguaggio mistico, alcune formule
comuni alla lirica bizantina e a quella romanza, assolutamente temerarie se
intese alla maniera della teologia, “assumono il loro vero significato se si
riconosce all’amore un modo autonomo di espressione”[29].
E allo stesso modo che l’amore imponeva alla loro umana affettività una
“dolce” tensione, i nostri poeti imporrebbero alle parole una sorta di torsione
creatrice di senso. Si può trovare qui una possibile motivazione per un
caso quasi unico nella storia delle poetiche, come osservava Paolo Canettieri
nei suoi saggi sulla lirica romanza: “Per la forma esiste quindi un linguaggio
comune, un’osmosi continua con la poesia religiosa e profana mediolatina,
mentre per i temi (e aggiungerei: per i tratti di stile) i rapporti non sono
così stringenti. D’altronde non è un caso se tutta la
trattatistica relativa alla lirica romanza si concentra sull’aspetto
retorico-formale (o linguistico), trascurando quasi completamente quello
contenutistico e/o storico-letterario […]”[30].
Una buona introduzione in tal senso potrebbe essere la
teoria di Roman Jakobson che afferma che il problema fondamentale della tecnica
poetica sarebbe il parallelismo. L’equivalenza di suono, proiettata
nella sequenza come suo principio costitutivo, implica inevitabilmente
l’equivalenza semantica, e, ad ogni livello linguistico, ogni costituente di
una tale sequenza suggerisce una delle esperienze correlative definite da un
altro seguace del principio, Gerard Manley Hopkins, comparazione per
somiglianza e comparazione per dissomiglianza. Diceva Hopkins nei
suoi primi saggi del 1865: “La struttura della poesia è caratterizzata
da un parallelismo continuo, che va dai cosiddetti parallelismi tecnici della
poesia ebraica e dalle antifone della musica liturgica, fino alla
complessità del verso greco, italiano o inglese”[31].
p. 361
Nel caso delle due letterature in discussione, l’aspetto
macrostrutturale primordiale –cioè la presenza della musica nella
poesia– ha imposto una profusione rara delle forme poetiche, destinate
probabilmente a essere immediatamente percepibili agli ascoltatori. Non sarebbe
eccessivo affermare che la lirica bizantina è quasi considerata oggi
come un tipo pseudo-letterario, come un “libretto” della liturgia ortodossa
greca; quanto alla lirica romanza, è stato più volte notato, la forma
è diventata sistema e ideologia. L’arte dei trovatori, osservava Paolo
Canettieri, “è quella che più riflette su se stessa, mettendo
costantemente in diretta relazione la materia del canto con la sua
modalità. L’aderenza della materia al canto non è un tratto
fenotipico, una manifestazione sovrastrutturale, come si potrebbe pensare, ma
piuttosto un elemento di tradizione che il trobar portava in sé fin
dalla sua fondazione”[32].
Jaufre Rudel è stato il primo in Non sap chantar che ha messo in rapporto
diretto la razo (la biografia) alla rima:
Non
sap chantar qui so no di
ni
vers trobar qui motz non fa,
ni
conois de rima co·s va
si
razo non enten en si[33].
[Non sa cantar cchi non crea melodia,
né fare versi seenza ordinar parole,
non sapendo le rregole di rima,
se la ragione noon intende in sé.
Perciò coomincia il mio canto così:
più l’udiirete e più varra, a, a.][34]
Nella
stessa prospettiva formale, alcuni commentatori della lirica trobadorica hanno
osservato ed analizzato la “posterità” delle forme della poesia
liturgica mediolatina. Inoltre, nell’antico provenzale, il trobar
presuppone la forma tropare – non attestata nel romanzo e nel latino
medievale, derivata dalla forma latina classica tropus, che designava
una figura di retorica e poi, in Boetio, i toni musicali. Sarebbe legittimo
pensare assieme a Pierre Giraud che tropare ha avuto probabilmente il
significato di “mettere le parole sulla musica” mentre il trobar era
innanzitutto l’arte della composizione musicale[35].
È
importante, in questo senso, l’associazione –anche soltanto dal punto di vista
etimologico– con il ‘tropo’ come termine chiave della musica liturgica tanto
che il ‘canone poetico’ del Bisanzio[36].
p.
362
Ricordiamo in poche parole la sua storia, perché è
proprio il tropo che ha generato la macrostruttura della lirica
bizantina: nella liturgia si dà il nome di “tropo” a un testo nuovo
inserito nei canti e nelle lezioni della messa o del breviario. A volte si
tratta di brevi commenti che, in seguito, si trasformarono in poemi ritmici o
in versi. Bisanzio ha conosciuto fin dal V secolo l’esistenza dei tropi
(monodici); i testi cantati durante il Mattutino e ai Vespri, tra gli ultimi
versetti dei cantici biblici, si chiamavano τςόποι.
Alla fine del V secolo e all’inizio del VI appaiono i celebri κοντάκια
(“cantici”), inni che raggruppavano da 18 a 30 τςόποι
cantati sopra una sola melodia e che fungevano da omelia. Nel VII secolo fecero
la loro comparsa i “canoni poetici”, le cui strofe erano intercalate nei
versetti ispirati ai cantici sopra menzionati. Anche più stretta alla
forma tropare è quella di τςοπάριου
(“tropario”), che costituisce la vera cellula della innografia di
Bisanzio, passando da forma litanica a più libera espressione melodica.
Ritornando al principio invocato sopra, che riguarda la
simbolistica precisa e la precisione rigorosa dei termini nel discorso amoroso
“mistico”, secondo Rodolfo Otto, ciò che è tipico della religione
non può essere espresso a parole. A suo avviso, “il cristianesimo
è una religione fortemente concettualizzata, piena di parole: inni,
prediche, libri di teologia, la stessa Bibbia. L’aspetto concettualizzato della
religione –quello che è messo in parole– è molto importante. Ma
non ci deve far dimenticare che c’è qualche altra cosa che non
può essere messa in parole, ed è l’elemento non-razionale,
l’esperienza del numinoso”[37].
E se, come già notato, non può esistere altro di “non-razionale”
che l’Amore, i tropi specifici al discorso amoroso sarebbero, secondo Wellek e
Warren, il paradosso, l’ossimoro e la catacresi, i
mediatori fra l’accumulo parossistico nell’anima del cantante e
“l’ineffabilità” che egli tenta di sfiorare. E che altro può
generare il paradosso più “paradossale” se non l’oggetto stesso del
desiderio mistico oppure di quello puramente erotico? Nel processo
contemplativo e soprattutto nel desiderio di avere, di possedere “l’essere” non
presente, l’ardore cristiano rima con l’amor de lonh: è
così che i carmi bizantini e alcune canzoni trobadoriche diventano degli
inni all’Amore come strumento di conoscenza.
L’assenza come “paradosso amoroso”, secondo
l’espressione di Leo Spitzer, è un topos comune alle due
letterature, “amour qui ne veut posséder, mais jouir de cet état de
non-possession, amour Minne contenant aussi bien le désir sensuel de
«toucher» à la femme vraiement «femme» que le chaste éloignement, amour
chrétien transposé sur le plan séculier, qui veut «have and have not»”
come scriveva Leo Spitzer nel suo celebro saggio sull’amor de lonh di Jaufre
Rudel[38]:
Dieu
que fetz tot quant ve ni vai
E
formet ses’amor de lonh
Mi
don poder, que cor ieu n’ai,
p.
363
[Que Dieu, qui a crée tout ce
qui va et vient, et qui a formé cet amour de loin, me donne la pouvoir –car
j’en ai le désir– de voir cet amour … ][39].
Il corporeo sarebbe stato sublimato per preparare lo
“spazio” non soltanto all’assenza, come nel caso di Jaufre Rudel, ma
anche all’essenza. Nelle cansos di Cercamon, la Donna viene
assimilata nella sua propria assenza alla Veritas cristiana e, di
conseguenza, sarebbero gli iniziati e gli innamorati i soli in grado di sapere
che:
Amors
es douza a l’intrar
Et
amara el departir.
[Amour est doux à
l’entrée
et amer à la sortie][40].
L’Amore-Veritas diventa dunque un topos di
importanza maggiore nelle due liriche. Nel caso della poesia provenzale,
afferma Jean–Charles Huchet, “La langue qui dirait «toute» La Verité et
serait capable d’englober le sobreplus qu’est La Femme, c’est la
langue primitive reçue du Verbe, de Dieu, par Adam, au Paradis”[41].
Proprio per ricevere le parole d’amore del poeta, dietro la Dama si trova Dio
stesso; nella dottrina ortodossa e nella letteratura bizantina, mediatrice (mediatrix)
tra le parole umane e la Sapienza divina e, allo stesso tempo, madre del Logos
(Theotokos) è la Vergine stessa. Una splendente costellazione di
tropi poetici affini alle due liriche circonderebbe la figura della Donna
ideale –cioè assente– e della Vergine.
Non sarebbero dunque sorprendenti le ricche occorrenze
della dolcezza, virtù cardinale della donna contemplata e, allo
stesso tempo, riflesso affettivo del poeta. Nella lirica provenzale, la
descrizione della bellezza fisica inizia e finisce nella “dolcezza” del viso
della donna amata, come scriveva Arnaut Daniel nel suo celebro poema L’aura
amara:
Doussa
car’a, a
totz
aips volgutz,
sofrir
m’er
per vos mainz orguoills,
car
etz
decs
de
totz mos fandecs.
[Doux visage, orné de toutes
les qualités désirées, il m’appartiendra de souffrir pour vous maints affronts,
car vous êtes le but de toutes mes folies][42].
p.
364
Maria stessa andrebbe celebrata come “vergena
doussa” in una delle canzoni trobadoriche marianiche[43]
e sarebbe proprio per l’amore della Vergine che i poeti bizantini e romanici
promossero un’eccezionale fioritura di immagini e, soprattutto, un sorprendente
“discorso amoroso”, come nella seguente lauda di Lorenzo de’ Medici:
Con
la tua bellezza tanta
la
bellezza innamorasti.
Tu
d’amor l’amor legasti,
Vergin
santa, dolce e pia[44].
Nei
canti di devozione dei trouvères, le funzioni “sociali” della
Donna che è madre, sposa, regina sono simili (oppure affilianti?) a
quelle attribuite alla Vergine nella liturgia. A tutto ciò, nei canti
vernacolari, si aggiunge il cortese amie:
et
mon chant renouveler
et
faire de li m’amie...
[I wish to sing of her and to
renew my
song, and to make her my
lady … ][45].
Dame,
de qui Jhesu Crist fist s’amie,
si
m’aït Diex, il ne vos gaba mie,
de
bon cuer vos ama
quant
mere vos clama:
en
vos bon dame a
il qui
vos a chierie.
[Lady, who Jesus Christ made
his loving friend
as God aids me! – he did not
mock you.
With good heart he loved you
when he called you mother:
he who cherished you had a
good lady][46].
Nella lirica bizantina, la presenza femminile centrale
è la Vergine, come Madre di Dio. Il Suo amore –“ossimorrico” dalla
prospettiva poetica perché sentito materno da parte di una donna immacolata, da
dove la bella formula poetica di Romano il Melode,
p.
365
“la
madre purissima”– è più ardente nella scena della Crocifissione.
Il fondatore di questo topos nella lirica bizantina e anche nella
dossologia pasquale ortodossa è stato lo stesso Romano il Melode, autore
del famosissimo contacio ή
Παρθένος
σήμερον. Proprio in tale scena di
drammatismo “umano”, la vergine doussa conobbe il dolor
dell’Amore diventando così l’Agnella:
Sono
vinta, o figlio, sono vinta dall’amore;
e
veramente non sopporto che io sia nel talamo e tu sul legno,
io
nella casa e tu nel sepolcro[47].
Per
conseguenza, nel contacio di Romano, nei momenti drammatici della
Crocifissione, Cristo si rivolge alla Vergine nella sua qualità materna
ma soprattutto in quella di portatrice del Logos. È cosi che il contacio
di Romano il Melode, Maria presso la Croce[48],
che si canta nella chiesa ortodossa il Venerdì santo, finisce con la
sublime invocazione di Cristo sulla Croce non come salvatore
dell’umanità ma come “figlio e Dio” della Vergine:
O
figlio della Vergine, o Dio della Vergine
e
creatore del Mondo! Tua è la passione, tuo è l’abisso della
sapienza[49].
Ora ci soffermiamo su un altro paradosso: il paradosso
del silenzio. L’unico linguaggio che Dio ascolta, scriveva San Giovanni
della Croce, è “il silenzio d’amore”. Il silenzio di colui che
ama può avvenire sia a causa della povertà delle parole –come nei
carmi di Gregorio Nazianzeno oppure come nell’amor de lonh– sia per
bisogno di solitudine. “La nostra anima –scriveva anche Sant’Agostino nel suo Commento
al Vangelo di San Giovanni– ha bisogno di solitudine. Nella solitudine, se
l’anima è attenta, Dio si lascia vedere. La folla è chiassosa:
per vedere Dio è necessario il silenzio”. Di più, nella poesia
bizantina il silenzio viene celebrato con tutta la sua impronta
ascetico-religiosa, essendo considerato l’unico spazio affettivo e mentale
favorevole alla preghiera[50]
e diventato col tempo il fondamento della dottrina ortodossa dell’esicasmo[51].
p. 366
Da una parte, il silenzio si costituisce come paradosso
rispetto al tumultuoso desiderio di contattare –o almeno di sfiorare– l’oggetto
della passione, diventando, d’altra parte, il linguaggio più appropriato
per comunicare “in assenza”, per gustare “la dolce bevanda della conversazione”
(Romano il Melode) oppure per “conversare con gli angeli” come s’esprime
Gregorio di Nazianzo:
“Niente infatti mi
sembrava tanto bello quanto zittire le sensazioni, estraniarsi dalla carne e
dal mondo, e ritirarsi in se stessi, non curare le cose umane, se non per
necessità, parlare con la propria anima e con Dio, per vivere al di
sopra della realtà fenomenica e portare in sé le ispirazioni divine,
sempre pure e non mescolate con queste impressioni né con questi errori delle
cose terrene. Diventare dunque uno specchio veramente immacolato di Dio e delle
cose divine, ora e sempre prendendo luce da luce e sostituendo la chiarezza,
là dove maggiore è la confusione, già godendo con le
speranze presenti il bene della vita futura;
conversare con gli angeli pur stando ancora sulla terra, ma avendo abbandonato
la terra perché innalzato dallo Spirito. Chi di voi conosce, per averlo
provato, questo amore del quale io parlo, intende ciò che voglio dire”[52].
Un altro paradosso intimamente connesso alla passione
amorosa, godendo nella lirica bizantina e in quella romanza di un ruolo
privilegiato, si riferisce alla vicenda della materia e del corpo umano: una
problematica estremamente complessa sia nella prospettiva teologica sia in
quella letteraria. Citiamo a tal proposito la fine di un carme di Gregorio di
Nazianzo che contiene un doppio paradosso, come topos tanto che tropos:
«Io
sono». Dimmi, che significa? Una parte di me è fuggita. Cosa diversa
sono ora ed altra ancora sarò (se mai sarò!). Nulla di stabile
sono io: corrente di un fiume fangoso, sempre in movimento, senza alcuna
stabilità. A quale fra quelle cose mi riferirai? Che cosa sono io
più per te? Insegnamelo! Ma, pur rimanendo qui fermo, attento a che io
non ti sfugga. Né attraversai ancora la corrente del fiume che prima avevi
varcato, né vedrai lo stesso uomo che prima vedesti[53].
Negli
ultimi versi citati parla un Eraclito bizantino. Il suo paradosso più
doloroso, quello generato dalla dualità materia/spirito, corpo/anima,
è purtroppo intimamente caratteristico all’essere umano, creazione della
divinità e, nello stesso tempo, erede del peccato originale. Nella poesia
cristiana occidentale vi è stato derivato, per prendere un altro
esempio, il tema della redenzione. Negando il suo essere di carne per
amore di Dio, Maria Maddalena si esprime, in un paradosso “pieno” di effusione,
in una Passione medievale francese:
Tous
les membres dont ont pechié
Destraint
pour l’amour Dieu avoir.
[…] De viande materielle,
De
quoi nous uson volontiers,
p.
367
Ne
tasta en trente ans entiers[54].
Pur rimanendo nel quadro della discussione sulla
dualità materia/spirito proprio, ribadiamo che essa costituisce un topos
fondamentale nella cultura dell’umanità e per il nostro tema ancor
di più. Il corpo umano come oggetto della passione amorosa, il corpo
umano come ricettacolo dell’Amore, l’Amore stesso fra materia e spirito: non si
può trovare un ossimoro “ontologico” più prezioso per
l’immaginazione dei poeti.
Fu molto fortunata in tutto l’Alto Medioevo romanico
l’immagine del corpo come carcere dell’anima. Di origine platonica, tale
immagine aveva avuto una importante rivisitazione nel neoplatonismo. La
liturgia romano-occidentale offre nei secoli altomedievali testi significativi
e illuminanti relativi al tema dell’uomo, del suo corpo e della sua anima, nei
quali si assiste al progressivo mutamento del concetto di corpo come carcere
dell’anima. Il corpo appare semmai come oggetto di redenzione (si vedano sopra
le parole di Maria Maddalena) al pari dell’anima o della mente o dello
spirito dell’uomo, e ancora della condizione umana, dell’intera esistenza terrena
dell’uomo. Questa trasmutazione, questa “sensibilità” manifestata dalla
letteratura liturgica romano-occidentale –negata invece, nella letteratura
bizantina, da tutta una tradizione patristica– ha offerto anch’essa,
secondo la nostra opinione, un ambiente favorevole alla comparsa dell’Amore
trobadorico. “Il corpo dell’uomo –considera Ilario Tolomio– non si pone
più in quella concezione dualistica che lo considerava l’eterno nemico
dell’anima, il luogo dal quale l’anima doveva fuggire per essere finalmente
libera […], ma il «buon compagno» dell’anima, pure esso oggetto di salvezza e
di redenzione da parte di Cristo”[55].
Da questo atteggiamento culturale è stato derivato –benché, come
già detto, gli argomenti furono assai diversi– un altro topos di
grande frequenza in ambedue letterature: la castità. Non si
può affermare però una opposizione certa fra amore e
castità (importante generatrice di antitesi poetiche) ma piuttosto un
ossimoro: l’amore casto, che viene da una parte dall’idea generale
già notata, quella dell’Amore come principio da cui discende ogni
ricchezza interiore, ogni progresso morale. L’amore è la Virtù,
come diceva Guillem de Montaignagol nella strofa in cui si trova il famoso
verso sull’amore che causa castità:
Quar
amors non es peccatz,
Anz
es vertutz que·ls malvatz
Fai
bos, e·lh bo·n son melhor,
E
met om en via
De
ben far tota dia
E
d’amor mou castitatz,
quar
qui·n amor ben s’enten
No
pot far que puies mal ren.
[L’amore non è
peccato,
p.
368
Anzi è virtù
che i malvagi
Rende buoni, e i buoni
migliori,
E mette l’uomo sulla via
Di ben fare sempre;
E da amore viene
castità,
Perché chi si impegna
nell’amore
Non può agire male][56].
Sarebbe però troppo facile, e d’altronde un errore
esegetico, assimilare la castitatz[57],
virtù “amorosa” prevalentemente cavalleresca, all’agapè
cristiana, l’amore che viene da Dio, appartiene a Dio e tende verso Dio e che
si trova in una particolare compresenza con “la mollezza dei piaceri” secondo
l’espressione di Romano il Melode. D’altronde, la lirica bizantina risuona di
laude all’ideale cristiano della verginità (quanto diversa
però della castitatz!), quella teoretizzata da San Paolo nelle
sue epistole. La celebrazione più famosa è rimasta Exhortatio
ad Virgines di Gregorio di Nazianzo, fondata sulla parabola biblica delle
“vergini folli”, “spose di Cristo”. Vi troveremo però lo stesso
linguaggio ossimoronico –si riveda la simbolistica erotica nel Cantico dei
Cantici– e questo perché, afferma il poeta, l’Amore “muove” non soltanto il
cielo e le stelle, ma soprattutto l’essenza dell’uomo stesso, concentrazione di
“spirito e fuoco”:
O vergine sposa di Cristo,
glorifica il tuo sposo
sempre: purifica te stessa,
in ragione e sapienza,
affinché
splendida, con lui splendido, viva tutta la vita;
questo
invero è molto più bello di connubio mortale.
Nel
corpo imitasti le virtù intellettuali,
angelica
vita seguisti sulla terra.
Qui,
legami e scioglimenti, e corpi nati da corpi:
in
cielo, unità singola, mai soggetta a dissoluzione.
I
primi ricevono il raggio della pura essenza,
spirito
e fuoco, ministri dei comandi di Dio.
La
materia invece trovò mescolanza, natura sempre fluente,
cui
Dio stabili un termine, ponendo legge nuziale.
Ma
tu, fuggendo l’opera della materia, ai celesti ti congiungesti,
come
mente che si adatta a mente, per l’armonia divina:
e
combattendo la carne, soccorri l’immagine[58].
Il desiderio di purità viene celebrato in un verso
oscuramente erotico di Gregorio di Nazianzo così:
θερμòν έρωτα
χέεν όψις έμοì
νυχίη [A
nocturnal vision
p. 369
instilled
in me a burning desire for purity][59],
“una visione notturna mi ha inflitto un’ardente desiderio di purità”.
È per ciò che nel linguaggio della letteratura teologica
ortodossa la “legge nuziale” primordiale che ha unito la materia con lo spirito
viene espressa in figure prevalentemente ossimoriche, nelle quali lo spirito
scende nella carne e il corpo diventa pneuma, soffio divino[60],
come nella seguente strofa di Romano il Melode:
Tutto
quanto nel mio cuore
è
fetido
profumalo
tu con il miro
delle
tue preghiere […][61].
o
meglio nelle parole della Vergine nella scena della Crocifissione:
Perché
mi dici, o figlio: «Non lasciarti trasportare
(dal
dolore) con le altre donne»?
E
infatti come queste in grembo figlio
ti
portai, nel ventre, e col mio seno latte ti offrii.
Si può dunque affermare che la preferenza del
discorso amoroso mistico va al paradosso e specialmente all’ossimoro
poiché esso “è una figura che tende al vuoto, che dietro al brillare di
un accostamento impossibile lascia più travedere il silenzio: è
una figura della reticenza con cui, ancora paradossalmente in metafore della
estrema forza erotica e carnale, il mistico nomina Dio, che è
Innominabile”[62]. Sarebbe
dunque il silenzio come paradosso di maggior importanza per gli
innografi bizantini e i trovatori il tema di un altro studio.
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[1] Sin dall’inizio del XIX secolo, impropriamente
intitolata amour courtois, Cfr. Jean–Charles Huchet, L’amour
discourtois. La “Fin’Amors” chez les premiers troubadours, Privat Editions,
Tolosa 1987.
[2] Diego Zorzi, Valori religiosi nella letteratura
provenzale. La spiritualità trinitaria (Pubblicazioni
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, nuova serie, vol. XLIV),
Società Editrice “Vita e Pensiero”, Milano 1954, p. 11.
[3] Cfr. Francesco Stella, Poesia e teologia. L’Occidente
latino tra IV e VIII secolo (“Eredità medievale”, 18), Jaca Book,
Milano 2001, p. 11.
[4] Da Elisabeth Pinto–Mathieu, Vision du corps et
conscience du péché dans les Passions médiévales. Une approche, in AA. VV.,
Anima e corpo nella cultura medievale, Atti del V Convegno di Studi della
Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale, a cura di
Carla Casagrande e Silvana Vecchio, SISMEL–Del Galluzzo Editori, Firenze 1999,
p. 240.
[5] Leo Spitzer, L’amour lointain de Jaufré Raudel et le
sens de la poésie des troubadours, in Idem, Romanische Literaturstudien,
1936-1956, Tübingen 1951; Peter Dronke, Medieval Latin and the Rise of
European Love-Lyric, 2 voll., Oxford 1965; Mira Mocan, I pensieri del
cuore. Per la semantica del provenzale ‘cossirar’, Bagatto Libri Editore,
Roma 2004.
[6] Vedi E. H. Cousins, “Intravi in intima mea”:
Augustine and the Neoplatonism, in AA. VV., Neoplatonismo e religione.
Atti del Colloquio indetto dal Centro Internazionali di Studi Umanistici e
dall’Istituto di Studi Filosofici “Enrico Castelli”, Roma 5-8 gennaio 1982,
Roma 1983.
[7] M.–M. Davy, Initiation à la symbolique romane
(XIIe siècle), Éditions Flammarion, Parigi 1964,
traduzione italiana Il simbolismo medievale, a cura di Gianfranco de
Turris, traduzione di Barbara Pavarotti, Edizioni Mediterranee, Roma 1988, p.
86.
[8] Ibidem, p. 89.
[9] “L’epiteto [mistico] è imparentato, come
un aggettivo ad un sostantivo di identico ceppo e senso, alla parola mystêrion;
l’una e l’altra risalgono per etimologia alla stessa radice greca: myô,
chiudere gli occhi o la bocca; gli occhi per non vedere ciò che è
segreto, la bocca per non rivelarne niente”, scriveva Ermanno Ancilli nel suo
saggio La mistica: alla ricerca di una definizione in AA. VV, La
mistica. Fenomenologia e riflessione teologica, vol. I, Città Nuova
Editrice, Roma 1984, p. 17.
[10] Jacques Maritain, Distinguer pour unir ou les degrés
du savoir, Parigi 1932, edizione italiana Idem, Distinguere per unire. I
gradi del sapere, Marcelliana Editrice, Brescia 1974, p. 382.
[11] Cit. in Jean Bernardi, Gregorio di Nazianzo, teologa
e poeta nell’età d’oro della Patristica, Città Nuova Editrice,
Roma 1997, pp. 315-316.
[12] L. Spitzer, op. cit., p. 364.
[13] J.–C. Huchet, op. cit., p. 15. Per l’ipotesi
della filiazione araba, si veda Henri–Irénée Marrou, Les troubadours,
Editions du Seuil, Parigi 1971, edizione italiana Idem, I trovatori, Jaca
Book, Milano 1994, pp. 117-129.
[14] Cit. in J.–C. Huchet, op. cit., p. 13.
[15] Cit. in M. Mocan, op. cit., pp. 111-112.
[16] H.–I. Marrou, op. cit., p. 157.
[17] Ibidem, p. 158.
[18] Roberto Antonelli, Le origini, Firenze 1973, p.
199.
[19] Chansons des trouvères. Chanter m’estuet,
édition critique de 217 textes lyriques d’après les manuscrits,
mélodies, traduction, présentation et notes de Samuel N. Rosenberg et Hans
Tischler, avec la collaboration de Marie-Geneviève Grossel, “Lettres
gothiques”, Le libre de poche Editions, Parigi 1995, pp. 136-137.
[20] Cit. in J. Bernardi, op. cit.
[21] Ibidem, p. 339.
[22] Cit. in Domenico Coppola, La poesia religiosa del
secolo XV, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1963, p. 27.
[23] Sinassario
[dal greco συναζάςιον, der.
di σύναζις, riunione] – Nella
liturgia greca, indice delle lezioni, bibliche o no, incluse nella liturgia; e
anche il libro liturgico che raccoglieva queste lezioni per disteso, escluse le
Epistole e i Vangeli, Cfr. Lessico universale italiano di lingua, lettere,
arti, scienze e tecnica, vol. XXI, Istituto della Enciclopedia Italiana
Treccani, Roma 1979, p. 112.
[24] La sinassi ha qui il senso usato prevalentemente
come sinonime di celebrazione eucaristica nella liturgia cristiana dei
primi secoli. Cit. in Romano il Melode, Inni, a cura di Rosario
Scognamiglio, Centro Studi Nicolaiani, Bari 1985, p. 8.
[25] La “vida” de Jaufré Rudel: de l’«amor de lonh»
à la quête du récit, in Jean–Charles Caluwé, Du chant
à l’enchantement. Contribution à l’étude des rapports entre
lyrique et narratif dans la littérature provençale du XIIIe
siècle, Gent 1993, pp. 73-92.
[26] Ibidem, p. 78.
[27] Ibidem, p. 91.
[28] Cfr. Konstantinos Trypanis, La poesia bizantina.
Dalla fondazione di Costantinopoli alla fine della Turcocrazia, edizione
italiana a cura di Lucia M. Raffaelli, Guerini e Associati Editori, Milano
1990, p. 63.
[29] J. Maritain, op. cit.
[30] Paolo Canettieri, Il gioco delle forme nella lirica
dei trovatori, Bagatto Libri Editore, Roma 1996, p. 17.
[31] Cfr. Roman Jakobson, Linguistica e poetica, in AA.
VV., La metrica, a cura di Renzo Cremante e Mario Pazzaglia, Il Mulino,
Bologna 1972, p. 51.
[32] P. Canettieri, op. cit., p. 14.
[33] Giuseppe Chiarini, Il canzoniere di Jaufre Rudel,
L’Aquila Editrice, L’Aquila 1988, p. 57.
[34] La poesia
dell’antica Provenza. Testi e storia dei trovatori, vol. I,. a cura di Giuseppe E. Sansone, Ugo
Guanda Editore, Milano 1984, pp. 86-87.
[35] Cfr. Pierre Guiraud, Les structures étimologiques du
‘trobar’, in “Poétique”, no. 8, 1971, p. 419.
[36] Cfr. Dizionario enciclopedico universale della musica
e dei musicisti (Il lessico PRE-Z), vol. IV, diretto da Alberto
Basso, UTET, Torino 1984, pp. 604-605.
[37] Cit. in Massimo Baldini, Il linguaggio dei mistici,
Editrice Queriniana, Brescia 1986, p. 94.
[38] L. Spitzer, op. cit., p. 364.
[39] Cit. in J.–C. Huchet, op. cit., p. 130.
[40] Ibidem, p. 172.
[41] Ibidem, p. 173.
[42] Arnault Daniel, Canzoni, edizione critica, studio
introduttivo, commento e traduzione a cura di Gianluigi Toja, Sansoni, Firenze
1960, p. 257.
[43] Pons de Capdoill, En honor del Pair “en cui es”,
cit. in D. Zorzi, op. cit., p. 192.
[44] Cit. in D. Coppola, op. cit., p. 87; per
“dolcezza” come topos, si vedano anche le occorrenze “cristiche” come, ad
esempio, nella lauda Miserere di me, Signore Iddio (CCCCLV) di Francesco
D’Albizzo:
Gesú, Gesù, dolcezza pia,
Non mi lasciar perire ... ; oppure in quella citata sopra e scritta da Lorenzo de’
Medici:
Poi ch’io gustai, Gesù, la tua dolcezza,
l’anima più non prezza
del mondo cieco alcun altro diletto (Ibidem, p. 57 e p. 90).
[45] “Prions en chantant”: Devotional Songs of the
Trouvères, edizione curata e traduzione di Marcia Jenneth Epstein,
University of Toronto Press, Toronto 1997, pp. 146-147.
[46] Ibidem, pp. 122-123.
[47] Raffaele Cantarella, Poeti bizantini, a cura di
Fabrizio Conca, 2 voll., Rizzoli, Milano 2000, p. 375.
[48] A questo argomento ha dedicato uno studio approfondito
E. Kataphygiotou, Mary at the Cross: St. Romanos’Kontakion for Holy Friday,
in “Byzantine Studies”, no. 4, 1977, pp. 18-37.
[49] R. Cantarella, op. cit., p. 375.
[50] Vedi Olivier Clément, La prière de l’Eglise
d’Orient, Desclée de Brouwer Editions, Parigi 1985, e Tomás Špidlík, La
preghiera secondo la tradizione dell’Oriente cristiano, Lipa Editore, Roma
2002.
[51] “Il termine esicasmo trae la sua origine dal
vocabolo greco hesychìa che significa quiete, pace interiore; il
suo equivalente latino potrebbe essere reso con tranquillitas animae,
indicando la condizione vissuta dal cristiano perfetto quando si trova immerso
nella luce increata da cui riceve l’illuminazione (photismòs)
divina. […] Il cuore vivificante dell’esicasmo è la Preghiera di
Gesù o Invocazione del Nome la cui formula più comune suona
così: Kyrie Jesou Christè, Yie tou Theou elèison me tón
amartolón! (Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà
di me peccatore)”, Cfr. Dizionario di mistica, a cura di L.
Borriello, E. Caruana, M. R. Del Genio, N. Suffi, Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 1998, pp. 460-461.
[52] Cit. in J. Bernardi, op. cit.
[53] Ibidem, p. 314
[54] Cit. in E. Pinto–Mathieu, op. cit., p. 239.
[55] Ilario Tolomio, «Corpus carcer» nell’Alto Medioevo.
Metamorfosi di un concetto, in AA. VV., Anima e corpo nella cultura
medievale cit., pp. 10-11.
[56] Cit. in H.–I. Marrou, op. cit., p. 157.
[57] Per questo tema, è fondamentale il libro di René
Nelli, L’érotique des troubadours, Tolosa 1963 (ma si vedano, in tal
proposito, le riserve dell’autore stesso in “Cahiers de Civilisation
Médiévale”, 1965, pp. 427-428) e il testo di Denis de Rougemont, L’amour et
l’Occident, 2a edizione, Parigi 1956 (traduzione italiana L’Amore
e l’Occidente, Rizzoli, Milano 1977).
[58] R. Cantarella, op. cit., pp. 139-141.
[59] Gregory of Nazianzus, Autobiographical Poems,
traduzione ed edizione a cura di Carolinne White, Cambridge University Press,
Cambridge 1986, p. 183.
[60] Questa rappresenta una teoria fondamentale nella
teologia ortodossa, la teofania.
[61] Romano il Melode, Inni cit., p. 47.
[62] Giuseppe Conte, Mistica e retorica: a proposito di un
sonetto di John Donne, apud M. Baldini, op. cit., p. 54.