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Alcuni tropi e topoi comuni alla letteratura bizantina e alla lirica romanza

 

 

Monica  Joiþa,

Accademia di Romania in Roma

 

Come è impossibile comprendere un discorso greco o latino se non si conosce il greco o il latino, così per colui che non ama, l’amore è una lingua barbara (San Bernardo, Sermone LXXIX, 1, sul Cantico dei Cantici).

 

A prima vista niente infatti può sembrare più fortuito oppure eclettico che un accostamento del “discorso amoroso” nella letteratura bizantina a quello della poesia romanza, che oltrettutto dovrebbe cancellare una differenza temporale e mentale di secoli. La prima –benché poco conosciuta– sembra impossibile da separare dal fasto estetico e retorico della liturgia ortodossa e dal linguaggio liturgico che celebra l’Amore divino. La seconda invece –e specialmente la lirica provenzale– ha generato un ampio corpus saggistico, con numerosissime ipotesi specialmente sull’origine e sul linguaggio poetico. L’osservazione più comune è quella che la lirica provenzale fa l’apologia della fin’amors[1], essendo considerata anche “una letteratura d’amore, e di un amore che ha fama d’amore essenzialmente adultero; in quella società medievale del Midi, che viene citata come modello di raffinatezza fastosa e di irreligiosa leggerezza; nei trovatori impegnati nella ginnastica mentale di complicatissimi schemi strofici; tutto ciò può apparire davvero strano, o tutt’al più giustificabile in sede di erudizione pura” per citare, ad esempio, le parole di Diego Zorzi tratte dal suo saggio sui valori religiosi nella letteratura provenzale[2]. L’audacia di trovare tali affinità fra due letterature apparentemente così diverse si fonda però su almeno due caratteristiche generali del fenomeno spirituale che le ha generate. La prima si riferisce al “tema” essenzialmente comune alle due letterature: l’Amore, considerato –per riassumere le “battaglie saggistiche” sull’Amore (sia su quello cristiano, espresso nel linguaggio mistico, sia sulla fin’amors e sul loro intreccio)– come la presenza di Dio nelle cose e nelle persone. E questo perché nel mondo bizantino, come in quello romanico, i confini “linguistici” tra la speculazione teologica e la conoscenza affettiva erano molto sfumati. Una conseguenza

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secondaria di questo processo così intimo si riferisce alla poesia come momento di proposta, come “espansione di senso” ed “estetizzazione” dei valori cristiani, e alla teologia cristiana come base dell’arte. In termini medievali, la formula di questo scambio si può trovare in Giovanni Scoto: “Come l’arte poetica sviluppa interpretazioni morali o cosmogoniche mediante storie immaginarie e allegorie per stimolare la mente dell’uomo […] così la teologia, simile a una poetessa, adopera invenzioni intellettuali per adattare la Sacra Scrittura alla capacità dell’intelletto”[3]. Nella lirica bizantina e in quella romanza il compito del linguaggio fu dunque proprio quello di “addolcire” la dottrina nella dolcezza della poesia, come indica anche la vastità del campo semantico di dolce (dous, glykýs) nelle due letterature. Prendiamo un esempio per questa funzione “addolcente” del linguaggio poetico citando una strofa di una Passione medievale francese nella quale la Vergine si rivolge a Suo Figlio, proprio nel momento della nascita, con queste parole:

 

Createur de firmament,

Roy prudent,

Tu me fay grant demonstrance

D’amour, quant tu dignement,

Doulcement,

De moy a pris ta naissance

Sans ce qu’aulcune pesance,

Ne grevance,

Aye senti nullement[4].

 

Ricordiamo a questo punto che il problema del rapporto fra l’Amore divino e l’amore “profano” (epiteto che, in questo caso, sembra poco adeguato) si trova in primo piano nelle discussioni riguardanti la possibile filiazione diretta o la derivazione della lirica cortese provenzale dalla mistica cristiana del Medioevo[5]. Perciò, ribadiamo che, da una parte, il tema dell’Amore arriva all’epoca dei trovatori con tutta la preziosa carica del pensiero agostiniano e di quello neoplatonico[6], e che, dall’altra, nei numerosi commenti del XII secolo ai diversi libri della Bibbia, il Cantico dei Cantici occupa il primo posto. “Nel pensiero romanico –considera M.-M. Davy– l’amore coniugale si presenta come

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quello più difficile a descriversi. Questo tema non costituisce affatto un’innovazione medievale, ma è profondamente biblico”[7]. Infatti, per afferrare il senso dei numerosissimi simboli e delle allegorie di impronta così “erotica” che la nostra mentalità moderna si stupisce, nell’interpretare i testi medievali del Cantico i studiosi hanno l’abitudine di rifarsi ai Padri della Chiesa greci e latini. Per esempio, commentando il celebre testo “Ch’egli mi baci di un bacio della sua bocca” (Cant., I, 1), San Bernardo (Sermone III) paragona l’esperienza di questo “bacio spirituale ad una manna segreta, ad una fontana sigillata, ad un segno d’amore[8]. Un bacio del genere simbolizza l’effusione dello Spirito Santo (VIII, 2), vale a dire la rivelazione recata dalla presenza dello Spirito Santo (VIII, 5). Questa, dice San Bernardo, è luce di conoscenza e fuoco d’amore (VIII, 5). Una tale esegesi della simbolistica amorosa dovrebbe però oltrepassare (superare) il possibile “pericolo” rappresentato dalla tentazione di ignorare una realtà storica precisa. Nel pensiero ebraico tanto che in quello bizantino oppure in quello romanico, il tema dell’Amore aveva una simbolistica precisa e, di più, una precisione rigorosa dei termini. Per riprendere l’esempio del Cantico dei Cantici, nel pensiero ebraico quando un uomo ed una donna si congiungono, la Schekhina (presenza divina) alleggia su di essi, essendo la procreazione richiesta agli uomini sotto forma di un primo comandamento: tale atteggiamento corrisponde alla necessità di popolare la terra. Quindi il lirismo e la simbolistica erotica del Cantico sono stati precisamente generati dal pensiero ebraico che proclama in essenza che l’unione può essere intesa non in modo fisico, ma su un piano spirituale. Pur rispettando questo principio, noi invece vogliamo invocare l’aspetto “umano”, “affettivo”, che presenta per la nostra ipotesi un interesse molto più esplicito: tanto l’innografo bizantino che il trobador tenta continuamente di dire ciò che non può essere detto. Ma non sarebbe proprio questo il ruolo della poesia?!

Possiamo affermare quindi che i poeti analizzati sono dei “mistici” rispetto alla definizione più breve che ci sia stata data: mistica è “conoscenza sperimentale di Dio” (“cognitio Dei experimentalis”). Se prendiamo per altro l’aggettivo greco mystikos nel suo senso più ampio, “mistico” sembra disegnare delle realtà segrete, velate, di non immediata accezione o comunicazione, e che appartengono all’ordine religioso o affettivo[9]. E che altro vi può essere di più segreto e di più velato dell’Amore?! È proprio così che il linguaggio mistico delle due liriche ha “necessariamente, come condizione della sua esattezza, delle dominanti psicologiche e affettive” per utilizzare le parole di

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Jacques Maritain[10]. Così Gregorio di Nazianzo scriveva uno dei suoi più celebri carmi che fa parte del primo libro dal titolo La Natura umana, nel quale egli si immaginava un parallelo fra il carcere del corpo e il carcere del linguaggio, entrambi indegni di ricevere l’Amore:

 

Prima ero nella carne di mio padre, poi mia madre mi accolse in sé, legato a entrambi. E poi fui carne indistinta, non ancora uomo, ma informe turpitudine, priva di verbo ed intelletto: mia madre ne era la tomba. La nostra è una duplice sepoltura. […] Anima, ti dirò d’ora in poi quanto è opportuno; chi, donde o cosa sei? Chi ti ha imposto di portare un morto e ti avvinse ai lacci odiosi dell’esistenza, facendoti tutta piegare a terra? Come tu, che sei spirito, fosti mescolata alla crassa materia, tu intelletto, alla carne, tu, leggera, alla gravità? […] Ogni cosa è secondaria, viene dopo Dio. Cedi alla Parola. Ma invano Dio creò me. Il mio canto, io lo ritratto: dipendeva dalla pochezza della mia mente. Ora le tenebre, ma poi la Parola: capirai ogni cosa o nella contemplazione di Dio o consumandoti al fuoco[11].

 

Se infatti il linguaggio filosofico oppure quello teologico si propone anzitutto di dire la realtà senza toccarla, il linguaggio “mistico” si propone invece di farla divinare, quasi toccandola per rendersi conto della sua continenza. Potrebbe essere proprio questa una “naturale” motivazione, la più genuina, dell’amor de lonh nella lirica provenzale, “un amour chrétien transposé sur le plan séculier”, secondo Leo Spitzer[12], oppure “une mystique de l’amour à la fois proche d’un certain mysticisme chrétien et d’un culte de l’amour déjà à l’oeuvre chez les poètes arabes”[13], secondo Jean–Charles Huchet.

 

Mas am de vos le talen e.lo desir

que d’autr’aver tot so c’a drut s’eschai.

[J’aime mieux le désir de vous

que d’avoir d’une autre tout ce que reçoit un amant][14] (Arnaut de Mareuil).

 

Di più, avendo generato l’Amore una “pienezza” affettiva risentita dal poeta come una preziosa ma “dolorosa” carica, un tale stato di esaltazione sarebbe particolarmente fecondo per la retorica del discorso. È precisamente nei momenti di tormento mistico che l’ossimoro diventa il tropos più “necessario” al poeta, idea che riprenderemo più avanti. Nella lirica trobadorica, un ossimoro di grande importanza è quello al quale accennava Pierre Bec, dicendo che: “[il] oscille constamment entre deux champs sémantiques, ou plutôt poétiques, anthitétiques: celui de la joie (joi) et celui de la

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douleur (dol-s, dolor-s, enoi-s, ecc.) avec des imbrications essentielles et des zones d’ombre mal définies où la joie devient douloureuse et la douleur joie”[15]. Joi, “gioia” –“termine misterioso che è la disperazione dei romanisti”[16]– sarebbe per l’amore trobadorico quello che la grazia è per l’agapè dei lirici bizantini. È quel che bene esprime il bel testo di Arnaut de Mareuil:

 

Si cum li peis an en l’aiga lor vida,

L’ai eu en joi e totz temps la·i aurai.

[Come i pesci hanno nell’aqua la loro vita,

Io l’ho nella gioia e sempre l’avrò][17].

 

Purtroppo, a dispetto del “contenuto amoroso” fondamentale, “se la particolare concezione dell’amore –scriveva R. Antonelli– è forse il dato più evidente fra quanto contribuisce a definire il movimento trobadorico sia rispetto a se stesso che nei confronti della successiva poesia europea, l’aspetto formale ne costituisce certo l’alta cifra caratteristica e ciò che per il suo concreto aspetto tecnico vale forse meglio ad identificare, anche nella tradizione che ne ebbe origine, la ‘funzione’ specifica dei suoi cultori”[18].

Osservazione valida anche nel caso della letteratura bizantina, che ci permette di avvicinarci alla seconda caratteristica del fenomeno analizzato. Essa ha invece una natura molto tecnica, derivata dalla stessa funzione primaria dell’atto poetico nell’età d’oro della Patristica, rispettivamente nel Medio Evo latino: quella musicale. “Chanter m’estuet” [“Mi serve un canto”] dice la formula con la quale iniziano più di venti poemi trovierici. La formula trovierica “chanter m’estuet” si fonderebbe nella formula “amer m’estuet” [“Mi serve l’amore”] cosicché un’estampie –che assieme alla ballette, alla rotrouenge, al rondet de carole oppure al rondeau aveva una funzione musicale o coreografica– comincia con l’invocazione del soggetto “cantabile”, cioè la Dama, la donna amata:

 

Je chans

Souvent

De cuer amerouzement,

Ke pris suis si doucement

De cors bien fait, avenant,

A cui me rant

Trestout mon vivant;

Car kant je l’ai en remirant,

An moi s’estant

Mes cuers et esprant

An chantant

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Gaiement.

[Je chante

souvent

d’un coeur amoureux,

car je suis, si doucement, prisonnier

d’un corps bien fait et agréable

auquel je me rends

pour ma vie durant.

Toutes les fois que je le contemple,

mon coeur s’enfle

et s’enflamme

en chantant

gaiement][19].

 

Tu [Dio] sei al di là di ogni cosa: cos’altro infatti è possibile dire di Te nel canto?[20], si domandava secoli fa Gregorio di Nazianzo parlando anche delle “fatiche” che gli aveva inflitto l’elaborazione “mistica” del discorso innico. E continuava a lamentarsi della povertà delle parole che l’uomo possiede: Ma, o mia Trinità, di te soltanto mi preoccupo: avrai una lingua idonea alla tua difesa, o almeno libera e piena di zelo?. Cosicché, pur avendo un carattere depresso che ha contribuito fortemente “all’effetto del divario avvertito dall’individuo fra l’idea che nutre di se stesso e la realtà che lo circonda”[21], Gregorio riuscì a esercitare una forte pressione sui confini linguistici della teologia. Nell’ambito della nostra ipotesi sulla generazione nelle due letterature di alcuni topoi e tropi comuni proprio dagli stessi atteggiamenti affettivi attraverso simili esperienze “amorose”, siamo stati colpiti dalla pressoché totale similitudine di linguaggio fra il primo lamento gregoriano citato sopra e la seguente strofa scritta da Lorenzo il Magnifico:

 

O, Dio, o sommo bene, or

come fai,

che te sol cerco e non ti

trovo mai?[22].

 

Nella prospettiva sociologica, le qualità “mistiche” dei nostri poeti sono spesso state considerate proprio come un “dono” divino oppure come una sorta di “deformazione professionale”, specialmente nel caso dei poeti bizantini quali erano nella

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vita quotidiana i chierici o i monaci. Da questo punto di vista, due casi sono molto simili, quello di Romano il Melode e quello di Jaufre Rudel.

Le poche informazioni sulla vita di Romano il Melode emergono per lo più da fonti liturgiche e precisamente dai sinassari[23], ossia da quelle notizie storiche che vengono lette nella Chiesa bizantina al mattutino dei giorni festivi. Uno di questi sinassari riferisce l’origine soprannaturale del dono poetico posseduto da Romano:

 

Apparsagli in sogno la Santa Madre di Dio nella sera di Natale di Cristo e consegnatoli un rotolo di carta, gli ordinò di inghiottirlo. Svegliatosi subito dopo aver mangiato, egli salì sull’ambone e cominciò a declamare e a cantare armoniosamente: La Vergine oggi ha generato il soprannaturale. Da allora compose per le feste del Signore e in memoria di vari santi circa un migliaia di contaci, la maggior parte dei quali, scritti dalle sue stesse mani, sono custoditi nella chiesa en toîs kýrou. Morì in pace e fu sepolto in quella chiesa dove si celebra la sua sinassi[24].

 

Una tale funzione del sinassario, di contenitore e trasmettitore delle note biografiche, è simile in qualche modo a quella delle vidas e delle razos nella letteratura provenzale del XIII secolo. Per esempio, la vida di Jaufre Rudel si costituisce in una sorte di “critica genetica” di tre cansos che celebrano l’amor de lonh: Quan lo rossignols el foillos, Quan lo rius de la fontana e Lanquan li jorn son lonc en mai. Infatti, i quattro manoscritti del XIII secolo della vida di Jaufre Rudel permettono di ricostruire l’“originale” dei poemi citati sopra, in una sorte di “quête du récit” secondo l’espressione di Jean–Michel Caluwé[25]. La vida lega la persona mortale del poeta nientemeno che al tema poetico prediletto che l’ha reso celebre, quello dell’amor de lonh, restituendogli così una gloria postuma, come ci testimonia una partimen composto da Guiraut da Salanhac e Peironet:

 

c’amors dels huolls no·i vai si·l cors no·i sen

e ses los huoills pot lo cors francamen

amar cellui q’anc non vic a presen,

si cum Jaufres Rudels fetz de s’amia.

[L’amour ne va pas par les yeux si le coeur ne l’éprouve pas; et le coeur peut se passer des yeux pour aimer sans réserve la personne qu’il n’a jamais vue devant lui, ainsi qu’il en fut de Jaufré Rudel et de son amie][26].

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“La vida du troubadour est inconcevable sans le motif de l’amor de lonh. La vie du troubadour tient au fait de ne pas avoir vu la dame. Dès qu’il la voit, il meurt. Cela est emblématique du statut du troubadour, qui n’existe que dans la mesure où il chante, mais qui ne peut chanter qu’un amor de lonh, c’est-à-dire un amour impossible. Si cet amour vient néanmoins à se réaliser, le troubadour n’a plus de raison d’être. Aussi la vida, en réalisant le rêve lyrique de Jaufré Rudel, n’avait-elle d’autre issue que de faire mourir le troubadour. Jaufré Rudel est la victime de la fiction de sa propre vie”[27]. Nell’età d’oro dell’innografia bizantina (secoli VI-VIII) fu Romano il Melode, colui del quale si diceva che aveva ricevuto il dono divino della poesia dalla Vergine stessa, a essere acclamato come “oratore di Dio”, θεορρήτωρ[28]. Non sarebbe dunque –e speriamo di essere convincenti– un artificio intellettuale questo parallelismo che noi proponiamo fra le due letterature, ma tutt’al contrario un fatto poetico della più pura essenza. Per citare di nuovo Jacques Maritain nei suoi scritti sul linguaggio mistico, alcune formule comuni alla lirica bizantina e a quella romanza, assolutamente temerarie se intese alla maniera della teologia, “assumono il loro vero significato se si riconosce all’amore un modo autonomo di espressione[29]. E allo stesso modo che l’amore imponeva alla loro umana affettività una “dolce” tensione, i nostri poeti imporrebbero alle parole una sorta di torsione creatrice di senso. Si può trovare qui una possibile motivazione per un caso quasi unico nella storia delle poetiche, come osservava Paolo Canettieri nei suoi saggi sulla lirica romanza: “Per la forma esiste quindi un linguaggio comune, un’osmosi continua con la poesia religiosa e profana mediolatina, mentre per i temi (e aggiungerei: per i tratti di stile) i rapporti non sono così stringenti. D’altronde non è un caso se tutta la trattatistica relativa alla lirica romanza si concentra sull’aspetto retorico-formale (o linguistico), trascurando quasi completamente quello contenutistico e/o storico-letterario […]”[30].

Una buona introduzione in tal senso potrebbe essere la teoria di Roman Jakobson che afferma che il problema fondamentale della tecnica poetica sarebbe il parallelismo. L’equivalenza di suono, proiettata nella sequenza come suo principio costitutivo, implica inevitabilmente l’equivalenza semantica, e, ad ogni livello linguistico, ogni costituente di una tale sequenza suggerisce una delle esperienze correlative definite da un altro seguace del principio, Gerard Manley Hopkins, comparazione per somiglianza e comparazione per dissomiglianza. Diceva Hopkins nei suoi primi saggi del 1865: “La struttura della poesia è caratterizzata da un parallelismo continuo, che va dai cosiddetti parallelismi tecnici della poesia ebraica e dalle antifone della musica liturgica, fino alla complessità del verso greco, italiano o inglese”[31].

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Nel caso delle due letterature in discussione, l’aspetto macrostrutturale primordiale –cioè la presenza della musica nella poesia– ha imposto una profusione rara delle forme poetiche, destinate probabilmente a essere immediatamente percepibili agli ascoltatori. Non sarebbe eccessivo affermare che la lirica bizantina è quasi considerata oggi come un tipo pseudo-letterario, come un “libretto” della liturgia ortodossa greca; quanto alla lirica romanza, è stato più volte notato, la forma è diventata sistema e ideologia. L’arte dei trovatori, osservava Paolo Canettieri, “è quella che più riflette su se stessa, mettendo costantemente in diretta relazione la materia del canto con la sua modalità. L’aderenza della materia al canto non è un tratto fenotipico, una manifestazione sovrastrutturale, come si potrebbe pensare, ma piuttosto un elemento di tradizione che il trobar portava in sé fin dalla sua fondazione”[32]. Jaufre Rudel è stato il primo in Non sap chantar che ha messo in rapporto diretto la razo (la biografia) alla rima:

 

Non sap chantar qui so no di

ni vers trobar qui motz non fa,

ni conois de rima co·s va

si razo non enten en si[33].

[Non sa cantar cchi non crea melodia,

né fare versi seenza ordinar parole,

non sapendo le rregole di rima,

se la ragione noon intende in sé.

Perciò coomincia il mio canto così:

più l’udiirete e più varra, a, a.][34]

 

Nella stessa prospettiva formale, alcuni commentatori della lirica trobadorica hanno osservato ed analizzato la “posterità” delle forme della poesia liturgica mediolatina. Inoltre, nell’antico provenzale, il trobar presuppone la forma tropare – non attestata nel romanzo e nel latino medievale, derivata dalla forma latina classica tropus, che designava una figura di retorica e poi, in Boetio, i toni musicali. Sarebbe legittimo pensare assieme a Pierre Giraud che tropare ha avuto probabilmente il significato di “mettere le parole sulla musica” mentre il trobar era innanzitutto l’arte della composizione musicale[35].

 

È importante, in questo senso, l’associazione –anche soltanto dal punto di vista etimologico– con il ‘tropo’ come termine chiave della musica liturgica tanto che il ‘canone poetico’ del Bisanzio[36].

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Ricordiamo in poche parole la sua storia, perché è proprio il tropo che ha generato la macrostruttura della lirica bizantina: nella liturgia si dà il nome di “tropo” a un testo nuovo inserito nei canti e nelle lezioni della messa o del breviario. A volte si tratta di brevi commenti che, in seguito, si trasformarono in poemi ritmici o in versi. Bisanzio ha conosciuto fin dal V secolo l’esistenza dei tropi (monodici); i testi cantati durante il Mattutino e ai Vespri, tra gli ultimi versetti dei cantici biblici, si chiamavano τςόποι. Alla fine del V secolo e all’inizio del VI appaiono i celebri κοντάκια (“cantici”), inni che raggruppavano da 18 a 30 τςόποι cantati sopra una sola melodia e che fungevano da omelia. Nel VII secolo fecero la loro comparsa i “canoni poetici”, le cui strofe erano intercalate nei versetti ispirati ai cantici sopra menzionati. Anche più stretta alla forma tropare è quella di τςοπάριου (“tropario”), che costituisce la vera cellula della innografia di Bisanzio, passando da forma litanica a più libera espressione melodica.

Ritornando al principio invocato sopra, che riguarda la simbolistica precisa e la precisione rigorosa dei termini nel discorso amoroso “mistico”, secondo Rodolfo Otto, ciò che è tipico della religione non può essere espresso a parole. A suo avviso, “il cristianesimo è una religione fortemente concettualizzata, piena di parole: inni, prediche, libri di teologia, la stessa Bibbia. L’aspetto concettualizzato della religione –quello che è messo in parole– è molto importante. Ma non ci deve far dimenticare che c’è qualche altra cosa che non può essere messa in parole, ed è l’elemento non-razionale, l’esperienza del numinoso”[37]. E se, come già notato, non può esistere altro di “non-razionale” che l’Amore, i tropi specifici al discorso amoroso sarebbero, secondo Wellek e Warren, il paradosso, l’ossimoro e la catacresi, i mediatori fra l’accumulo parossistico nell’anima del cantante e “l’ineffabilità” che egli tenta di sfiorare. E che altro può generare il paradosso più “paradossale” se non l’oggetto stesso del desiderio mistico oppure di quello puramente erotico? Nel processo contemplativo e soprattutto nel desiderio di avere, di possedere “l’essere” non presente, l’ardore cristiano rima con l’amor de lonh: è così che i carmi bizantini e alcune canzoni trobadoriche diventano degli inni all’Amore come strumento di conoscenza.

L’assenza come “paradosso amoroso”, secondo l’espressione di Leo Spitzer, è un topos comune alle due letterature, “amour qui ne veut posséder, mais jouir de cet état de non-possession, amour Minne contenant aussi bien le désir sensuel de «toucher» à la femme vraiement «femme» que le chaste éloignement, amour chrétien transposé sur le plan séculier, qui veut «have and have not»” come scriveva Leo Spitzer nel suo celebro saggio sull’amor de lonh di Jaufre Rudel[38]:

 

Dieu que fetz tot quant ve ni vai

E formet ses’amor de lonh

Mi don poder, que cor ieu n’ai,

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Qu’ieu veya sest’amor de lonh …

[Que Dieu, qui a crée tout ce qui va et vient, et qui a formé cet amour de loin, me donne la pouvoir –car j’en ai le désir– de voir cet amour … ][39].

 

Il corporeo sarebbe stato sublimato per preparare lo “spazio” non soltanto all’assenza, come nel caso di Jaufre Rudel, ma anche all’essenza. Nelle cansos di Cercamon, la Donna viene assimilata nella sua propria assenza alla Veritas cristiana e, di conseguenza, sarebbero gli iniziati e gli innamorati i soli in grado di sapere che:

 

Amors es douza a l’intrar

Et amara el departir.

[Amour est doux à l’entrée

et amer à la sortie][40].

 

L’Amore-Veritas diventa dunque un topos di importanza maggiore nelle due liriche. Nel caso della poesia provenzale, afferma Jean–Charles Huchet, “La langue qui dirait «toute» La Verité et serait capable d’englober le sobreplus qu’est La Femme, c’est la langue primitive reçue du Verbe, de Dieu, par Adam, au Paradis”[41]. Proprio per ricevere le parole d’amore del poeta, dietro la Dama si trova Dio stesso; nella dottrina ortodossa e nella letteratura bizantina, mediatrice (mediatrix) tra le parole umane e la Sapienza divina e, allo stesso tempo, madre del Logos (Theotokos) è la Vergine stessa. Una splendente costellazione di tropi poetici affini alle due liriche circonderebbe la figura della Donna ideale –cioè assente– e della Vergine.

Non sarebbero dunque sorprendenti le ricche occorrenze della dolcezza, virtù cardinale della donna contemplata e, allo stesso tempo, riflesso affettivo del poeta. Nella lirica provenzale, la descrizione della bellezza fisica inizia e finisce nella “dolcezza” del viso della donna amata, come scriveva Arnaut Daniel nel suo celebro poema L’aura amara:

 

Doussa car’a, a

totz aips volgutz,

sofrir

m’er per vos mainz orguoills,

car etz

decs

de totz mos fandecs.

[Doux visage, orné de toutes les qualités désirées, il m’appartiendra de souffrir pour vous maints affronts, car vous êtes le but de toutes mes folies][42].

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        Maria stessa andrebbe celebrata come “vergena doussa” in una delle canzoni trobadoriche marianiche[43] e sarebbe proprio per l’amore della Vergine che i poeti bizantini e romanici promossero un’eccezionale fioritura di immagini e, soprattutto, un sorprendente “discorso amoroso”, come nella seguente lauda di Lorenzo de’ Medici:

 

Con la tua bellezza tanta

la bellezza innamorasti.

Tu d’amor l’amor legasti,

Vergin santa, dolce e pia[44].

 

Nei canti di devozione dei trouvères, le funzioni “sociali” della Donna che è madre, sposa, regina sono simili (oppure affilianti?) a quelle attribuite alla Vergine nella liturgia. A tutto ciò, nei canti vernacolari, si aggiunge il cortese amie:

 

De li me covient chanter

et mon chant renouveler

et faire de li m’amie...

[I wish to sing of her and to renew my

song, and to make her my

lady … ][45].

 

Dame, de qui Jhesu Crist fist s’amie,

si m’aït Diex, il ne vos gaba mie,

de bon cuer vos ama

quant mere vos clama:

en vos bon dame a

il qui vos a chierie.

[Lady, who Jesus Christ made his loving friend

as God aids me! – he did not mock you.

With good heart he loved you when he called you mother:

he who cherished you had a good lady][46].

 

Nella lirica bizantina, la presenza femminile centrale è la Vergine, come Madre di Dio. Il Suo amore –“ossimorrico” dalla prospettiva poetica perché sentito materno da parte di una donna immacolata, da dove la bella formula poetica di Romano il Melode,

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“la madre purissima”– è più ardente nella scena della Crocifissione. Il fondatore di questo topos nella lirica bizantina e anche nella dossologia pasquale ortodossa è stato lo stesso Romano il Melode, autore del famosissimo contacio ή Παρθένος σήμερον. Proprio in tale scena di drammatismo “umano”, la vergine doussa conobbe il dolor dell’Amore diventando così l’Agnella:

 

Sono vinta, o figlio, sono vinta dall’amore;

e veramente non sopporto che io sia nel talamo e tu sul legno,

io nella casa e tu nel sepolcro[47].

 

Per conseguenza, nel contacio di Romano, nei momenti drammatici della Crocifissione, Cristo si rivolge alla Vergine nella sua qualità materna ma soprattutto in quella di portatrice del Logos. È cosi che il contacio di Romano il Melode, Maria presso la Croce[48], che si canta nella chiesa ortodossa il Venerdì santo, finisce con la sublime invocazione di Cristo sulla Croce non come salvatore dell’umanità ma come “figlio e Dio” della Vergine:

 

O figlio della Vergine, o Dio della Vergine

e creatore del Mondo! Tua è la passione, tuo è l’abisso della sapienza[49].

 

Ora ci soffermiamo su un altro paradosso: il paradosso del silenzio. L’unico linguaggio che Dio ascolta, scriveva San Giovanni della Croce, è “il silenzio d’amore”. Il silenzio di colui che ama può avvenire sia a causa della povertà delle parole –come nei carmi di Gregorio Nazianzeno oppure come nell’amor de lonh– sia per bisogno di solitudine. “La nostra anima –scriveva anche Sant’Agostino nel suo Commento al Vangelo di San Giovanni– ha bisogno di solitudine. Nella solitudine, se l’anima è attenta, Dio si lascia vedere. La folla è chiassosa: per vedere Dio è necessario il silenzio”. Di più, nella poesia bizantina il silenzio viene celebrato con tutta la sua impronta ascetico-religiosa, essendo considerato l’unico spazio affettivo e mentale favorevole alla preghiera[50] e diventato col tempo il fondamento della dottrina ortodossa dell’esicasmo[51].

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Da una parte, il silenzio si costituisce come paradosso rispetto al tumultuoso desiderio di contattare –o almeno di sfiorare– l’oggetto della passione, diventando, d’altra parte, il linguaggio più appropriato per comunicare “in assenza”, per gustare “la dolce bevanda della conversazione” (Romano il Melode) oppure per “conversare con gli angeli” come s’esprime Gregorio di Nazianzo:

 

Niente infatti mi sembrava tanto bello quanto zittire le sensazioni, estraniarsi dalla carne e dal mondo, e ritirarsi in se stessi, non curare le cose umane, se non per necessità, parlare con la propria anima e con Dio, per vivere al di sopra della realtà fenomenica e portare in sé le ispirazioni divine, sempre pure e non mescolate con queste impressioni né con questi errori delle cose terrene. Diventare dunque uno specchio veramente immacolato di Dio e delle cose divine, ora e sempre prendendo luce da luce e sostituendo la chiarezza, là dove maggiore è la confusione, già godendo con le speranze presenti il bene della vita futura; conversare con gli angeli pur stando ancora sulla terra, ma avendo abbandonato la terra perché innalzato dallo Spirito. Chi di voi conosce, per averlo provato, questo amore del quale io parlo, intende ciò che voglio dire[52].

 

Un altro paradosso intimamente connesso alla passione amorosa, godendo nella lirica bizantina e in quella romanza di un ruolo privilegiato, si riferisce alla vicenda della materia e del corpo umano: una problematica estremamente complessa sia nella prospettiva teologica sia in quella letteraria. Citiamo a tal proposito la fine di un carme di Gregorio di Nazianzo che contiene un doppio paradosso, come topos tanto che tropos:

 

«Io sono». Dimmi, che significa? Una parte di me è fuggita. Cosa diversa sono ora ed altra ancora sarò (se mai sarò!). Nulla di stabile sono io: corrente di un fiume fangoso, sempre in movimento, senza alcuna stabilità. A quale fra quelle cose mi riferirai? Che cosa sono io più per te? Insegnamelo! Ma, pur rimanendo qui fermo, attento a che io non ti sfugga. Né attraversai ancora la corrente del fiume che prima avevi varcato, né vedrai lo stesso uomo che prima vedesti[53].

 

Negli ultimi versi citati parla un Eraclito bizantino. Il suo paradosso più doloroso, quello generato dalla dualità materia/spirito, corpo/anima, è purtroppo intimamente caratteristico all’essere umano, creazione della divinità e, nello stesso tempo, erede del peccato originale. Nella poesia cristiana occidentale vi è stato derivato, per prendere un altro esempio, il tema della redenzione. Negando il suo essere di carne per amore di Dio, Maria Maddalena si esprime, in un paradosso “pieno” di effusione, in una Passione medievale francese:

 

Tous les membres dont ont pechié

Destraint pour l’amour Dieu avoir.

[…] De viande materielle,

De quoi nous uson volontiers,

p. 367

Ne tasta en trente ans entiers[54].

 

Pur rimanendo nel quadro della discussione sulla dualità materia/spirito proprio, ribadiamo che essa costituisce un topos fondamentale nella cultura dell’umanità e per il nostro tema ancor di più. Il corpo umano come oggetto della passione amorosa, il corpo umano come ricettacolo dell’Amore, l’Amore stesso fra materia e spirito: non si può trovare un ossimoro “ontologico” più prezioso per l’immaginazione dei poeti.

Fu molto fortunata in tutto l’Alto Medioevo romanico l’immagine del corpo come carcere dell’anima. Di origine platonica, tale immagine aveva avuto una importante rivisitazione nel neoplatonismo. La liturgia romano-occidentale offre nei secoli altomedievali testi significativi e illuminanti relativi al tema dell’uomo, del suo corpo e della sua anima, nei quali si assiste al progressivo mutamento del concetto di corpo come carcere dell’anima. Il corpo appare semmai come oggetto di redenzione (si vedano sopra le parole di Maria Maddalena) al pari dell’anima o della mente o dello spirito dell’uomo, e ancora della condizione umana, dell’intera esistenza terrena dell’uomo. Questa trasmutazione, questa “sensibilità” manifestata dalla letteratura liturgica romano-occidentale –negata invece, nella letteratura bizantina, da tutta una tradizione patristica– ha offerto anch’essa, secondo la nostra opinione, un ambiente favorevole alla comparsa dell’Amore trobadorico. “Il corpo dell’uomo –considera Ilario Tolomio– non si pone più in quella concezione dualistica che lo considerava l’eterno nemico dell’anima, il luogo dal quale l’anima doveva fuggire per essere finalmente libera […], ma il «buon compagno» dell’anima, pure esso oggetto di salvezza e di redenzione da parte di Cristo”[55]. Da questo atteggiamento culturale è stato derivato –benché, come già detto, gli argomenti furono assai diversi– un altro topos di grande frequenza in ambedue letterature: la castità. Non si può affermare però una opposizione certa fra amore e castità (importante generatrice di antitesi poetiche) ma piuttosto un ossimoro: l’amore casto, che viene da una parte dall’idea generale già notata, quella dell’Amore come principio da cui discende ogni ricchezza interiore, ogni progresso morale. L’amore è la Virtù, come diceva Guillem de Montaignagol nella strofa in cui si trova il famoso verso sull’amore che causa castità:

 

Quar amors non es peccatz,

Anz es vertutz que·ls malvatz

Fai bos, e·lh bo·n son melhor,

E met om en via

De ben far tota dia

E d’amor mou castitatz,

quar qui·n amor ben s’enten

No pot far que puies mal ren.

[L’amore non è peccato,

p. 368

Anzi è virtù che i malvagi

Rende buoni, e i buoni migliori,

E mette l’uomo sulla via

Di ben fare sempre;

E da amore viene castità,

Perché chi si impegna nell’amore

Non può agire male][56].

 

Sarebbe però troppo facile, e d’altronde un errore esegetico, assimilare la castitatz[57], virtù “amorosa” prevalentemente cavalleresca, all’agapè cristiana, l’amore che viene da Dio, appartiene a Dio e tende verso Dio e che si trova in una particolare compresenza con “la mollezza dei piaceri” secondo l’espressione di Romano il Melode. D’altronde, la lirica bizantina risuona di laude all’ideale cristiano della verginità (quanto diversa però della castitatz!), quella teoretizzata da San Paolo nelle sue epistole. La celebrazione più famosa è rimasta Exhortatio ad Virgines di Gregorio di Nazianzo, fondata sulla parabola biblica delle “vergini folli”, “spose di Cristo”. Vi troveremo però lo stesso linguaggio ossimoronico –si riveda la simbolistica erotica nel Cantico dei Cantici– e questo perché, afferma il poeta, l’Amore “muove” non soltanto il cielo e le stelle, ma soprattutto l’essenza dell’uomo stesso, concentrazione di “spirito e fuoco”:

 

O vergine sposa di Cristo, glorifica il tuo sposo

sempre: purifica te stessa, in ragione e sapienza,

affinché splendida, con lui splendido, viva tutta la vita;

questo invero è molto più bello di connubio mortale.

Nel corpo imitasti le virtù intellettuali,

angelica vita seguisti sulla terra.

Qui, legami e scioglimenti, e corpi nati da corpi:

in cielo, unità singola, mai soggetta a dissoluzione.

I primi ricevono il raggio della pura essenza,

spirito e fuoco, ministri dei comandi di Dio.

La materia invece trovò mescolanza, natura sempre fluente,

cui Dio stabili un termine, ponendo legge nuziale.

Ma tu, fuggendo l’opera della materia, ai celesti ti congiungesti,

come mente che si adatta a mente, per l’armonia divina:

e combattendo la carne, soccorri l’immagine[58].

 

Il desiderio di purità viene celebrato in un verso oscuramente erotico di Gregorio di Nazianzo così: θερμòν έρωτα χέεν όψις έμοì νυχίη [A nocturnal vision

p. 369

instilled in me a burning desire for purity][59], “una visione notturna mi ha inflitto un’ardente desiderio di purità”. È per ciò che nel linguaggio della letteratura teologica ortodossa la “legge nuziale” primordiale che ha unito la materia con lo spirito viene espressa in figure prevalentemente ossimoriche, nelle quali lo spirito scende nella carne e il corpo diventa pneuma, soffio divino[60], come nella seguente strofa di Romano il Melode:

 

Tutto quanto nel mio cuore

è fetido

profumalo tu con il miro

delle tue preghiere […][61].

 

o meglio nelle parole della Vergine nella scena della Crocifissione:

 

Perché mi dici, o figlio: «Non lasciarti trasportare

(dal dolore) con le altre donne»?

E infatti come queste in grembo figlio

ti portai, nel ventre, e col mio seno latte ti offrii.

 

Si può dunque affermare che la preferenza del discorso amoroso mistico va al paradosso e specialmente all’ossimoro poiché esso “è una figura che tende al vuoto, che dietro al brillare di un accostamento impossibile lascia più travedere il silenzio: è una figura della reticenza con cui, ancora paradossalmente in metafore della estrema forza erotica e carnale, il mistico nomina Dio, che è Innominabile”[62]. Sarebbe dunque il silenzio come paradosso di maggior importanza per gli innografi bizantini e i trovatori il tema di un altro studio.

 

 

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[1] Sin dall’inizio del XIX secolo, impropriamente intitolata amour courtois, Cfr. Jean–Charles Huchet, L’amour discourtois. La “Fin’Amors” chez les premiers troubadours, Privat Editions, Tolosa 1987.

[2] Diego Zorzi, Valori religiosi nella letteratura provenzale. La spiritualità trinitaria (Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, nuova serie, vol. XLIV), Società Editrice “Vita e Pensiero”, Milano 1954, p. 11.

[3] Cfr. Francesco Stella, Poesia e teologia. L’Occidente latino tra IV e VIII secolo (“Eredità medievale”, 18), Jaca Book, Milano 2001, p. 11.

[4] Da Elisabeth Pinto–Mathieu, Vision du corps et conscience du péché dans les Passions médiévales. Une approche, in AA. VV., Anima e corpo nella cultura medievale, Atti del V Convegno di Studi della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale, a cura di Carla Casagrande e Silvana Vecchio, SISMEL–Del Galluzzo Editori, Firenze 1999, p. 240.

[5] Leo Spitzer, L’amour lointain de Jaufré Raudel et le sens de la poésie des troubadours, in Idem, Romanische Literaturstudien, 1936-1956, Tübingen 1951; Peter Dronke, Medieval Latin and the Rise of European Love-Lyric, 2 voll., Oxford 1965; Mira Mocan, I pensieri del cuore. Per la semantica del provenzale ‘cossirar’, Bagatto Libri Editore, Roma 2004.

[6] Vedi E. H. Cousins, “Intravi in intima mea”: Augustine and the Neoplatonism, in AA. VV., Neoplatonismo e religione. Atti del Colloquio indetto dal Centro Internazionali di Studi Umanistici e dall’Istituto di Studi Filosofici “Enrico Castelli”, Roma 5-8 gennaio 1982, Roma 1983.

[7] M.–M. Davy, Initiation à la symbolique romane (XIIe siècle), Éditions Flammarion, Parigi 1964, traduzione italiana Il simbolismo medievale, a cura di Gianfranco de Turris, traduzione di Barbara Pavarotti, Edizioni Mediterranee, Roma 1988, p. 86.

[8] Ibidem, p. 89.

[9] “L’epiteto [mistico] è imparentato, come un aggettivo ad un sostantivo di identico ceppo e senso, alla parola mystêrion; l’una e l’altra risalgono per etimologia alla stessa radice greca: myô, chiudere gli occhi o la bocca; gli occhi per non vedere ciò che è segreto, la bocca per non rivelarne niente”, scriveva Ermanno Ancilli nel suo saggio La mistica: alla ricerca di una definizione in AA. VV, La mistica. Fenomenologia e riflessione teologica, vol. I, Città Nuova Editrice, Roma 1984, p. 17.

[10] Jacques Maritain, Distinguer pour unir ou les degrés du savoir, Parigi 1932, edizione italiana Idem, Distinguere per unire. I gradi del sapere, Marcelliana Editrice, Brescia 1974, p. 382.

[11] Cit. in Jean Bernardi, Gregorio di Nazianzo, teologa e poeta nell’età d’oro della Patristica, Città Nuova Editrice, Roma 1997, pp. 315-316.

[12] L. Spitzer, op. cit., p. 364.

[13] J.–C. Huchet, op. cit., p. 15. Per l’ipotesi della filiazione araba, si veda Henri–Irénée Marrou, Les troubadours, Editions du Seuil, Parigi 1971, edizione italiana Idem, I trovatori, Jaca Book, Milano 1994, pp. 117-129.

[14] Cit. in J.–C. Huchet, op. cit., p. 13.

[15] Cit. in M. Mocan, op. cit., pp. 111-112.

[16] H.–I. Marrou, op. cit., p. 157.

[17] Ibidem, p. 158.

[18] Roberto Antonelli, Le origini, Firenze 1973, p. 199.

[19] Chansons des trouvères. Chanter m’estuet, édition critique de 217 textes lyriques d’après les manuscrits, mélodies, traduction, présentation et notes de Samuel N. Rosenberg et Hans Tischler, avec la collaboration de Marie-Geneviève Grossel, “Lettres gothiques”, Le libre de poche Editions, Parigi 1995, pp. 136-137.

[20] Cit. in J. Bernardi, op. cit.

[21] Ibidem, p. 339.

[22] Cit. in Domenico Coppola, La poesia religiosa del secolo XV, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1963, p. 27.

[23] Sinassario [dal greco συναζάςιον, der. di σύναζις, riunione] – Nella liturgia greca, indice delle lezioni, bibliche o no, incluse nella liturgia; e anche il libro liturgico che raccoglieva queste lezioni per disteso, escluse le Epistole e i Vangeli, Cfr. Lessico universale italiano di lingua, lettere, arti, scienze e tecnica, vol. XXI, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1979, p. 112.

[24] La sinassi ha qui il senso usato prevalentemente come sinonime di celebrazione eucaristica nella liturgia cristiana dei primi secoli. Cit. in Romano il Melode, Inni, a cura di Rosario Scognamiglio, Centro Studi Nicolaiani, Bari 1985, p. 8.

[25] La “vida” de Jaufré Rudel: de l’«amor de lonh» à la quête du récit, in Jean–Charles Caluwé, Du chant à l’enchantement. Contribution à l’étude des rapports entre lyrique et narratif dans la littérature provençale du XIIIe siècle, Gent 1993, pp. 73-92.

[26] Ibidem, p. 78.

[27] Ibidem, p. 91.

[28] Cfr. Konstantinos Trypanis, La poesia bizantina. Dalla fondazione di Costantinopoli alla fine della Turcocrazia, edizione italiana a cura di Lucia M. Raffaelli, Guerini e Associati Editori, Milano 1990, p. 63.

[29] J. Maritain, op. cit.

[30] Paolo Canettieri, Il gioco delle forme nella lirica dei trovatori, Bagatto Libri Editore, Roma 1996, p. 17.

[31] Cfr. Roman Jakobson, Linguistica e poetica, in AA. VV., La metrica, a cura di Renzo Cremante e Mario Pazzaglia, Il Mulino, Bologna 1972, p. 51.

[32] P. Canettieri, op. cit., p. 14.

[33] Giuseppe Chiarini, Il canzoniere di Jaufre Rudel, L’Aquila Editrice, L’Aquila 1988, p. 57.

[34] La poesia dell’antica Provenza. Testi e storia dei trovatori, vol. I,. a cura di Giuseppe E. Sansone, Ugo Guanda Editore, Milano 1984, pp. 86-87.

[35] Cfr. Pierre Guiraud, Les structures étimologiques du ‘trobar’, in “Poétique”, no. 8, 1971, p. 419.

[36] Cfr. Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti (Il lessico PRE-Z), vol. IV, diretto da Alberto Basso, UTET, Torino 1984, pp. 604-605.

[37] Cit. in Massimo Baldini, Il linguaggio dei mistici, Editrice Queriniana, Brescia 1986, p. 94.

[38] L. Spitzer, op. cit., p. 364.

[39] Cit. in J.–C. Huchet, op. cit., p. 130.

[40] Ibidem, p. 172.

[41] Ibidem, p. 173.

[42] Arnault Daniel, Canzoni, edizione critica, studio introduttivo, commento e traduzione a cura di Gianluigi Toja, Sansoni, Firenze 1960, p. 257.

[43] Pons de Capdoill, En honor del Pair “en cui es”, cit. in D. Zorzi, op. cit., p. 192.

[44] Cit. in D. Coppola, op. cit., p. 87; per “dolcezza” come topos, si vedano anche le occorrenze “cristiche” come, ad esempio, nella lauda Miserere di me, Signore Iddio (CCCCLV) di Francesco D’Albizzo:

Gesú, Gesù, dolcezza pia,

Non mi lasciar perire ... ; oppure in quella citata sopra e scritta da Lorenzo de’ Medici:

Poi ch’io gustai, Gesù, la tua dolcezza,

l’anima più non prezza

del mondo cieco alcun altro diletto (Ibidem, p. 57 e p. 90).

[45] “Prions en chantant”: Devotional Songs of the Trouvères, edizione curata e traduzione di Marcia Jenneth Epstein, University of Toronto Press, Toronto 1997, pp. 146-147.

[46] Ibidem, pp. 122-123.

[47] Raffaele Cantarella, Poeti bizantini, a cura di Fabrizio Conca, 2 voll., Rizzoli, Milano 2000, p. 375.

[48] A questo argomento ha dedicato uno studio approfondito E. Kataphygiotou, Mary at the Cross: St. Romanos’Kontakion for Holy Friday, in “Byzantine Studies”, no. 4, 1977, pp. 18-37.

[49] R. Cantarella, op. cit., p. 375.

[50] Vedi Olivier Clément, La prière de l’Eglise d’Orient, Desclée de Brouwer Editions, Parigi 1985, e Tomás Špidlík, La preghiera secondo la tradizione dell’Oriente cristiano, Lipa Editore, Roma 2002.

[51] “Il termine esicasmo trae la sua origine dal vocabolo greco hesychìa che significa quiete, pace interiore; il suo equivalente latino potrebbe essere reso con tranquillitas animae, indicando la condizione vissuta dal cristiano perfetto quando si trova immerso nella luce increata da cui riceve l’illuminazione (photismòs) divina. […] Il cuore vivificante dell’esicasmo è la Preghiera di Gesù o Invocazione del Nome la cui formula più comune suona così: Kyrie Jesou Christè, Yie tou Theou elèison me tón amartolón! (Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore)”, Cfr. Dizionario di mistica, a cura di L. Borriello, E. Caruana, M. R. Del Genio, N. Suffi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, pp. 460-461.

[52] Cit. in J. Bernardi, op. cit.

[53] Ibidem, p. 314

[54] Cit. in E. Pinto–Mathieu, op. cit., p. 239.

[55] Ilario Tolomio, «Corpus carcer» nell’Alto Medioevo. Metamorfosi di un concetto, in AA. VV., Anima e corpo nella cultura medievale cit., pp. 10-11.

[56] Cit. in H.–I. Marrou, op. cit., p. 157.

[57] Per questo tema, è fondamentale il libro di René Nelli, L’érotique des troubadours, Tolosa 1963 (ma si vedano, in tal proposito, le riserve dell’autore stesso in “Cahiers de Civilisation Médiévale”, 1965, pp. 427-428) e il testo di Denis de Rougemont, L’amour et l’Occident, 2a edizione, Parigi 1956 (traduzione italiana L’Amore e l’Occidente, Rizzoli, Milano 1977).

[58] R. Cantarella, op. cit., pp. 139-141.

[59] Gregory of Nazianzus, Autobiographical Poems, traduzione ed edizione a cura di Carolinne White, Cambridge University Press, Cambridge 1986, p. 183.

[60] Questa rappresenta una teoria fondamentale nella teologia ortodossa, la teofania.

[61] Romano il Melode, Inni cit., p. 47.

[62] Giuseppe Conte, Mistica e retorica: a proposito di un sonetto di John Donne, apud M. Baldini, op. cit., p. 54.