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Istituto Romeno’s Publications
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Annuario 2004-2005
p. 363
Gianluca Masi,
Università degli Studi di Firenze
Il codice Palatino 815 (olim 692-21,2), conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di
Firenze e copiato negli anni Venti del XVIII secolo, è certamente meglio
conosciuto per la storia della trasmissione dell’epistolario e delle opere di
Niccolò Machiavelli (1469-1527)[1]. Tuttavia, nelle ultime pagine del codice (893-906),
aggiunta al corpus machiavelliano si
trova la lettera che un certo Antonio Pandolfi indirizzò da Perugia, in
data 4 febbraio 1564, a Petrum de Machiavellis Luogotenente
delle Galere di Sua Eccellenza a Liorno [sic][2], nella quale il mittente traccia una breve storia del
p.
364
principato
di Moldavia negli anni che vanno dai mesi immediatamente successivi alla morte
di Pietro Rareº (1546) fino all’autunno del 1563[3].
Il destinatario della lettera, Piero Machiavelli, è
certamente uno dei figli del più celebre Niccolò. Quest’ultimo
sposò, nell’autunno del 1501, Marietta di Ludovico Corsini da cui ebbe,
in ordine: Primerana (o Primavera, non sopravvissuta), Bernardo (8 novembre
1503-1565), Lodovico (circa 1504-1530), Guido (1512 o 1513-15 ottobre 1567),
Piero (4 settembre 1514-29 ottobre 1564), Bartolomea (Baccia o Baccina, che
andò in sposa a Giovanni Ricci) e Totto, morto in tenera età. Il
resoconto delle ultime ore della vita di Niccolò Machiavelli ci è
pervenuto proprio in una lettera del figlio Piero, datata 22 giugno 1527 e
spedita da Firenze a Francesco Nelli, professore dello Studio pisano. Queste le
parole di Piero, che insieme col fratello maggiore Bernardo aveva assistito il
padre, per tredici anni, nel ritiro di S. Andrea in Percussina: “Spectabili
viro Francisco Nellio avocato florentino. In Pisa. Carissimo Francesco. Non
posso far di meno di piangere in dovervi dire come è morto il dì
22 di questo mese Niccolò, nostro padre, di dolori di ventre, cagionati
da uno medicamento preso il dì 20. Lasciossi confessare le sue peccata
da frate Matteo, che gl’a [sic] tenuto compagnia fino a morte. Il padre nostro
ci à lasciato in somma povertà, come sapete. Quando farete
ritorno qua su vi dirò molto a bocca. Ò fretta e non vi
dirò altro, salvo che a voi mi raccomando. 22 di Giugno 1527. Vostro
parente[4]. Piero Machiavelli”[5]. Inoltre, nella Biblioteca Nazionale Centrale di
Firenze, fra le Carte Machiavelli, sopravvivono una notizia biografica su Piero
scritta dallo stesso Guido, che fu sacerdote e letterato, e varie lettere e
carte riguardanti i figli di Niccolò Machiavelli; da queste fonti si
possono desumere notizie interessanti, in particolare, su Piero[6]. Questi, scrive Guido nella sua Vita, anzi Cenni sulla vita di Pier Machiavelli compilati dal
p. 365
Sacerdote Guido suo fratello (c. 188): “nacque in Firenze l’anno 1514 a dì 4
di 7bre dum sol oriebatur”,
e non fu avviato dal padre agli studi letterari, giacché sembrava più
portato per la vita attiva. Le vicende nella Vita immediatamente seguenti, che Guido attribuisce a Piero e che
riguardano il suo coinvolgimento nell’assedio di Firenze (1530), probabilmente
vanno attribuite a Lodovico, che infatti perì in quell’occasione.
Successivamente Piero se ne andò a Vienna “con quello esercito che ne
cacciò il Turco [anni 1529 e 1532]. Da quel tempo in qua è sempre
vissuto in remotissimi paesi, cercando tutta l’Europa e i suoi mari sino al
fiume Tanaj [sc. il Don], sì come ancora gran parte dell’Asia e dell’Africa
[…]”, e in questi viaggi naufragò quattro volte, tre volte fu catturato
dai corsari musulmani e cinque volte dagli Ottomani. Dal 1556, Piero
passò al servizio del duca Cosimo[7], che in questo periodo gran cura riservava alla
marineria, scalando le gerarchie militari fino a Commissario e poi a
Luogotenente generale della flotta. Dalle lettere abbiamo conferma delle
notizie contenute nella Vita e
possiamo ricavarne di nuove: Piero, nel 1544, prese gli ordini minori a Roma,
giacché Guido, a causa di una grave malattia che lo portò quasi alla
morte, aveva rinunciato ai suoi benefici in favore del fratello (c. 122). In
data 2 dicembre 1555 “di Kush-Adassi [?]”, Piero, “minor fratello”, scrive una
lettera a Guido e Bernardo per ragguagliarli sulle vicende della sua cattura da
parte di alcune navi ottomane e per chieder loro di essere riscattato (c. 52).
L’anno dopo, da una lettera datata 9 dicembre 1556 ed inviata ad Agnolo Biffoli
(1504-1573), funzionario della segreteria medicea, Guido risulta impegnato nel
difficile compito di cercare fondi per il riscatto del fratello, già
ufficiale della flotta di Cosimo e per la terza volta prigioniero degli
Ottomani (c. 122). Nella stessa lettera viene nominato anche Bernardo (“mio
fratello in Perugia” scrive Guido, “annoso e infermo”) che svolse, fra il 1551
il 1565, con una pausa negli anni 1553-1554, il suo ufficio di Questore
pontificio nella città umbra[8]; ed anche in una lettera a lui indirizzata da Giuliano
de’ Ricci, in data 9 dicembre 1561, Bernardo è detto Tesoriere
dell’Umbria (c. 58bis)[9]. A partire dall’ottobre 1559 è testimoniata, nel
fondo della Biblioteca Nazionale
p.
366
Centrale,
una corrispondenza personale di Piero col duca Cosimo (cc. 54-60), dalla quale
apprendiamo la data di nomina del Machiavelli, il 3 agosto 1560, a “Capitano
Generale delle Galere Toscane” (c. 57). Poco tempo prima, il nostro Piero aveva
partecipato alla cosiddetta impresa delle Gerbe (Jerba, Tunisia), conclusasi
con la sconfitta di una flotta cristiana per opera del corsaro ottomano Draghut
(maggio 1560), di cui resta una testimonianza in una lettera inviata da Piero a
Marco Plinio Thomacello (c. 188). E sempre nello stesso anno usciva a Firenze
un trattatello del nuovo Capitano generale della flotta toscana, intitolato: Disegno al duca Cosimo de’ Medici per
cacciar di Toscana francesi e spagnuoli e per instituire una Armata Toscana[10]. Nel 1562, Piero divenne anche cavaliere di Santo
Stefano, il nuovo ordine fondato da Cosimo, e in una lettera datata 12 aprile
1563, Guido chiede che il fratello si interessi da Livorno della carriera del
giovane Girolamo Machiavelli, che infatti, nel maggio dello stesso anno, fu
fatto cavaliere a sua volta (c. 117). Dal carteggio fra Piero e Cosimo risulta
poi una lettera del 25 settembre 1563, nella quale vi sono postille marginali
di mano dello stesso duca (c. 59); mentre l’ultima lettera di Piero a Cosimo
(c. 60), almeno nel carteggio della Biblioteca Nazionale Centrale, è in
data 20 luglio 1564, ossia pochi mesi dopo quella del Pandolfi, che costituisce
l’oggetto del nostro studio. Inoltre un gruppo di carte contenente alcuni
epitaffi, una lettera e un’ode di autore ignoto: Ad Vidum Maclavellium in Petri fratris obitum (c. 118, cc.
169-177), è dedicato alla morte di Piero. Questi dai suddetti epitaffi
risulta morto, il 29 ottobre 1564, di ritorno da una spedizione contro gli
Ottomani, quella del Pignone (Peñón) in Africa: “ad Abylam […], morbo
tandem quo fuit ad Calpem graviter affectus”[11]. Anche nella Vita,
Guido ricalca nella sostanza queste notizie e precisa che Piero si ammalò
nei pressi di Gibilterra giungendo a morte dopo trenta giorni. Ma Guido tace,
oltre alle sconfitte patite dal fratello, fra cui quella dell’Argentale (1560),
anche un episodio aggiunto nella
p.
367
c.
188 da una mano successiva, secondo cui Piero: “Fu fatto avvelenare dal Signore
di Piombino col quale gareggiava al governo delle galere […] l’avvelenò
un suo paggio nel darli bere”. E questi fatti accadevano ad otto mesi circa
dalla data della nostra lettera. Da quest’ultima (p. 893), infine, a conferma dei
viaggi citati nella Vita scritta da
Guido, ricaviamo, più in particolare, che Piero si recò anche in
Polonia e in Moldavia: “dove”, scrive il Pandolfi, testimoniandoci un
collegamento assai interessante fra il figlio di Niccolò Machiavelli e
questi paesi, “la Signoria Vostra è stata già tempo fa più
volte”.
Per quanto riguarda il mittente della nostra lettera, del
quale al momento non sono note le ragioni del viaggio in Polonia e Moldavia[12], è probabile che vada identificato con Giovanni
Antonio Pandolfi, pittore marchigiano (Pesaro, 1540 circa – Perugia,
1581/1582), di cui si hanno notizie documentate per gli anni 1561-1581 e che fu
padre del più noto pittore Giovanni Giacomo Pandolfi. Giovanni Antonio
lavorò prevalentemente in Umbria, in particolare a Perugia, e da questa
città risulta spedita la nostra lettera, un documento che si rivela,
così, di una certa importanza anche per la vita di questo pittore.
Già le prime righe della lettera, infatti, contribuiscono a chiarire
alcuni aspetti della biografia del Pandolfi. Lo stesso incipit: “Questa sarà per fare avisata la Signoria Vostra
qualmente io arrivai in Italia la Pasqua di Natività prossima passata
venendo del regno di Polonia, e subito andai a Fiorenza, dove non ero stato 22 anni fa [il corsivo è mio], e son
stato lì una settimana”, permette di stabilire con certezza, al 1541, la
data di nascita del pittore marchigiano, essendo il Pandolfi tornato in Italia
dalla Polonia per il Natale del 1563. Inoltre le parole che seguono (pp.
893-894): “[…] così mi partii di Firenze, e preso il camino d’Ancona per
via di Perugia, dove mi trovo al presente in casa il Signoria Vostra Tesauriere
vostro fratello che per sua grazia mi ha fatto, e fammi assai carezze, e
così penso star qui sin a Carnovale prossimo al più lungo, poi mi
partirò per seguire il mio viaggio, dove a Dio piaccia indirizzarmi
prosperamente”, chiariscono il tempo e il modo in cui il Pandolfi, ospite fra
il 1563 e il 1564 del Tesoriere pontificio dell’Umbria, fratello
p.
368
di
Piero, ossia di Bernardo Machiavelli (m. 1565), si trovò in quella
città in cui, pur pensando di proseguire per Ancona, avrebbe svolto gran
parte della sua attività fino alla morte. Nel 1566, infatti, il Pandolfi
si trovava ancora a Perugia e in quella città dipinse una Madonna e Santi per il Palazzo del
Popolo; mentre, fra il 1573 e il 1575, lavorò alla sacrestia del Duomo
della medesima città, realizzando gli affreschi del Martirio di S. Lorenzo, dei Dottori
della Chiesa, dei Santi Ercolano e
Costanzo e delle Storie bibliche.
Rimangono anche un’Adorazione dei Magi,
a Foligno, e gli affreschi a lui attribuiti nel Palazzo della Cornia a
Castiglion del Lago (Perugia); mentre sono andate perdute le opere realizzate
in collaborazione con Federico Zuccari per gli apparati delle nozze di
Francesco Maria II della Rovere (1571)[13].
Circa il contenuto della lettera scritta dal Pandolfi[14], ci troviamo di fronte ad un documento di un certo
interesse, che, per un periodo della storia della Moldavia assai importante, ma
anche per certi aspetti poco conosciuto, traccia una galleria di principi a
partire dall’erede al trono di Pietro Rareº, Elias, ossia Iliaº (morto fra il 1552 e il 1554, secondo il
Pandolfi, ma in effetti nel 1555[15]).
Questi, a detta della nostra lettera (pp. 894-895): “di età d’anni 20”[16]
salì al trono il 3 settembre 1546 e vi rimase fino alla metà di
maggio del 1551[17], succedendo al padre “vecchio di età circa 90
anni [sic]”. Pietro Rareº, oltre a Iliaº, lasciava altri due figli maschi:
Stefano (m. 1552) e Costantino (m. fra il 1552 e il 1554, secondo il Pandolfi,
ma la data del decesso è precedente al marzo 1554)[18],
p.
369
quindi
una moglie e due figlie, di cui il Pandolfi tace i nomi; ma, nel caso della
moglie, si tratta naturalmente di Jelena (Elena) Katarina (Caterina) Brankoviæ
(m. 1553), mentre le due figlie sono
quasi certamente Chiajna (andata in moglie nel 1546 a Mircea III il Pecoraio di
Valacchia) e Ruxandra (m. 1570 e moglie di Alessandro Lãpuºneanu dal 1552)[19]. Iliaº: “il quale era stato circa 4 anni a
Costantinopoli per ostaggio al tempo del Padre”[20],
è caratterizzato dal Pandolfi come un principe “usato molto a’ costumi
turcheschi”. Non meraviglia molto dunque che egli, “il terzo anno [sic] di sua
Signoria[21] fingendo esserli necessario d’andare a baciare le mani
al Gran Turco”, andasse a Costantinopoli, con un tesoro – a detta del Pandolfi
– di settecento mila ducati e in compagnia di alcuni nobili a lui fedeli, per
sposare la figlia di un Pascià e per esser fatto sanjak bey a
Silistra.
In realtà questo ritratto sommario rispecchia,
probabilmente, il punto di vista delle fonti locali da cui il Pandolfi attinse
le sue notizie; fonti che, in modo semplicistico, dovevano attribuire tout court, alle simpatie di Iliaº per i
costumi degli Ottomani, la crisi vissuta dalla Moldavia in un momento in cui
essa, già dopo la prima fase del regno di Pietro Rareº (1527-1538),
aveva di fatto perso la propria indipendenza a seguito della politica
espansionistica perseguita dall’Impero Ottomano. Il principe moldavo infatti,
all’inizio del suo regno, aveva seguito le orme dei predecessori Bogdan III il
Cieco (1504-1517) e ªtefãniþã (Stefano il Giovane) (1517-1527), i quali avevano
fatto sì che la Moldavia conservasse quel prestigio e quella
indipendenza, pur sempre relativa nella condizione formale di stato vassallo
degli Ottomani, che Stefano il Grande (1457-1504) era riuscito a garantirle.
Perciò il figlio illegittimo di Stefano, una volta salito al trono, si
era prefisso principalmente due obiettivi fra loro complementari: perseguire il
consolidamento del potere centrale, a scapito della grande nobiltà, e
difendere l’autonomia del paese dalle mire espansionistiche delle potenze
confinanti, e specialmente dell’Impero Ottomano. Ma poi, negli anni successivi,
il principe moldavo si era interessato soprattutto alle potenze cristiane
confinanti col suo paese: aveva conteso la regione della Pocuþia alla Polonia,
venendo sconfitto ad Obertyn (1531), e si era intromesso nella contesa per la
Transilvania che era sorta fra Ferdinando I d’Asburgo (1503-1564), ancora re
dell’Austria, e Giovanni Zápolya, voivoda transilvano e poi re d’Ungheria
(1529-1540), appoggiando ora il primo, ora il secondo, e riuscendo a
controllare alcune regioni oltre i Carpazi. Ma il tracollo dell’Ungheria, e
conseguentemente della Transilvania, verificatosi in diverse fasi a partire da
Mohács (26 agosto 1526) fino al 1541 e alla creazione del pasciallato di Buda
da parte di Solimano il Magnifico (1520-1566), fece sì che le frontiere
dei due imperi, quello asburgico e quello ottomano, si fronteggiassero
direttamente; ma
p.
370
vide
anche, su quel fronte, un progressivo allentamento della pressione asburgica, a
causa dei problemi interni dovuti alla Riforma e al conflitto esterno con la
Francia, che anche in passato aveva incoraggiato gli Ottomani ad avanzare in
Ungheria. In queste condizioni la stessa Moldavia, nel 1538, stretta fra gli
Asburgo, gli Ottomani e la Polonia, era andata incontro al tracollo. Infatti,
pur avendo sconfitto i Tartari a ªtefãneºti e respinto i Polacchi, Pietro Rareº
era stato tradito proprio dai suoi boiardi, che avevano accettato da parte del
Solimano l’imposizione di Stefano Lãcustã (1538-1540). Pietro Rareº era stato
riammesso al trono, negli anni 1541-1546, dopo un interregno di Alessandro Cornea (1540-1541), ma
l’indipendenza del paese era ormai persa, dopo che con Radu di Afumaþi
(1521-1529) anche la Valacchia aveva accettato la dominazione ottomana, pur
ottenendo garanzie di piena autonomia politica[22].
La perdita dell’indipendenza da parte dei Principati
Romeni aveva, fra le sue cause determinanti, anche il continuo ed esiziale
contrasto fra potere centrale e grande nobiltà, che rendeva vano ogni
sforzo sia di opposizione, sia di aggregazione delle forze. In questo clima va
situata la testimonianza dell’autore della nostra lettera, il quale sembra
riflettere una visione politica assai vicina a quella espressa dalla grande
nobiltà moldava, avversa all’accentramento del potere nelle mani del
principe. In quest’ottica sembra di dover inscrivere il giudizio del Pandolfi
sul regno di Stefano Rareº (1551-1552), figlio di Pietro Rareº e successore del
fratello Iliaº (pp. 895-897). L’autore della lettera fa iniziare il regno di
Stefano, anch’egli “di età d’anni 20”[23],
a cavallo fra il 1550 e il 1551, quand’era chiaro che il fratello si sarebbe
trattenuto a Costantinopoli, e caratterizza in modo assai negativo il nuovo
principe, descrivendolo: “di persona membruto, et robustissimo, crudele, e
bestiale a maraviglia”; mentre il punto di vista dei boiardi pare esprimersi
nel seguente giudizio (p. 895): Alessandro, “il primo anno di sua Signoria lo
anno 50 venendo il 51 fece armare tutto il Paese, perché in Ungheria si sentiva
certi romori d’arme, e vi era venuto un esercito del Serenissimo Re de’ Romani
Ferdinando e la fama era di aspettazione di grande imprese contra li Turchi,
talmente che detto Signore Stefano [Rareº] volonteroso, et coraggioso a
meraviglia, per non essere l’ultimo ad assaltare la Turchia voleva passare con
le sue genti il Danubio, li Baroni visto
la sua temerarietà non restavano di pregarlo [il corsivo è
mio], che si dovessi intrattenere l’impresa 2 o 3 mesi aspettando la primavera
per avere pastura per li cavalli et così il suasono ad aspettare del che
avanti che venisse il tempo opportuno li romori di Ungheria raffredorno, talché
detto Signore Stefano si risolvette lasciare l’impresa”. Ma Stefano Rareº (p.
896), “per essere lui di natura inquieta”, se la prese con i mercanti ottomani
e le loro carovane, facendo distruggere per giunta le chiese degli Armeni.
Inoltre: “volse fare ammazzare la Madre per torli il tesoro, et per qualche
p.
371
altra
causa, ma li Baroni con assai preghiere
lo distolsono da tale fantasia [il corsivo è mio], fece tagliare la
testa a gran parte de’ suoi baroni, pigliava tutto quello li bisognava con
superchieria di ciascheduna persona per il suo paese”. Adducendo a pretesto
queste intemperanze, dunque, il Pandolfi sembra giustificare la congiura di una
parte della nobiltà moldava che portò all’uccisione di Stefano,
con la complicità di “circa altri 22 Baroni ribelli pure del loro
sangue, quali si trovavano essere fuggiti in Polonia” e che richiesero
l’intervento del re di quel paese, Sigismondo II Augusto (1548-1572). Lo
sviluppo della congiura, almeno nel racconto del Pandolfi, sembra testimoniare
una breve fase in cui i nobili moldavi cercarono l’aiuto della Polonia,
probabilmente, per prevenire l’avvicinamento del principe a Ferdinando I
d’Asburgo, e meno verosimilmente per emanciparsi dal controllo ottomano, in un
momento in cui il re polacco ricercava l’amicizia del Solimano in funzione
antirussa[24]. Scrive il Pandolfi (pp. 896-897): “Dovevano li detti
Ribelli eleggere in fra di loro il nuovo Signore, et condurlo in Moldavia e
così feciono col favore del Serenissimo Re di Polonia, che li fece
accompagnare da un suo esercito, subito che li altri Baroni ammazzorno il detto
Stefano non avendo ancora nuova, che quelli di Polonia fussino entrati in
Paese, feciono un Cortigiano Signore per forza […], il quale Signore
regnò 4 giorni, perché venendo l’altro di Polonia fu necessario deporlo,
ma furon tanto galanti che non lo ammazzorno, ma bene li tagliorno il naso, e
li orecchi, e lassornolo andare atteso che uomo così segnato non
vogliono che possa essere lor Signore. Il 3zo figlio di Pietro
Vaivoda minore di tutti chiamato Costantino si trovava a Constantinopoli col
fratello Turco, a la Madre loro in Moldavia, la quale sen’andò in
Monasterio, e si misse l’abito monacale, e fu lassata di così per
allora”. Da un lato, dunque, il terzo figlio di Pietro Rareº, Costantino, si
trova a Costantinopoli in compagnia del rinnegato Iliaº, mentre la vedova di
Pietro, rimasta in Moldavia, decide prudentemente di ritirarsi in convento;
dall’altro i nobili ribelli, dopo un interregno affidato a Giovanni Joldea
(settembre 1552), accettano l’imposizione sul trono del boiardo Pietro,
già al servizio della corte moldava ma adesso in esilio volontario in
Polonia, che assume il nome di Alessandro
Lãpuºneanu[25] (1552-1561
e 1564-1568) e si trova a regnare col favore di Sigismondo II Augusto e con il
consenso ottomano, come accadrà più tardi a Geremia Movilã.
Il nuovo principe (p. 897): “per allora [1552-1554, un momento fatale per la dinastia
di Pietro Rareº] cominciò a regnare molto benignamente, ma forzato dalli
baroni bisognò consentissi a fare strangolare la monaca già
moglie di Pietro Vaivoda, alla quale trovò tesoro per 300 mila ducati”, quindi tolta di mezzo la vedova, Jelena
(Elena) Katarina (Caterina) Brankoviæ, Alessandro all’inizio del suo regno pare
assistere, forse non incolpevole, alla provvidenziale estinzione per malattia
della casata di Pietro Rareº, di cui pensa bene di prendere in moglie la
seconda figlia, che sappiamo essere Ruxandra, essendo l’altra (Chiajna)
già sposa del voivoda di Valacchia (Mircea III il Pecoraio)[26].
p. 372
Ma anche Alessandro Lãpuºneanu sembra volersi
emancipare dal controllo dei boiardi ricercando l’appoggio del Solimano:
anch’egli, dunque, viene caratterizzato in modo assai negativo nel rapporto che
instaura con la grande nobiltà finché, essendo cacciato dal paese, non
decide di rifugiarsi definitivamente a Costantinopoli, come a suo tempo aveva
fatto Iliaº[27]. Comunque, la cacciata di
Alessandro Lãpuºneanu pare causata più propriamente, scrive il Pandolfi,
da una vicenda che apre il capitolo forse più interessante della nostra
lettera (pp. 898-902). Durante il principato di Alessandro, infatti, si
presentò alla corte moldava un greco, naturalmente Iakobos Basilikos,
poi Despot Vodã (Giovanni Iacob Eraclid, 1561-1563), il cui ritratto nella
lettera è delineato fin dall’inizio in senso fortemente negativo, certo
a causa della cattiva fama che questo principe riscosse poi presso i boiardi e
che dovette influenzare il resoconto del Pandolfi[28]. In realtà il greco
tentò, seppur
p. 373
debolmente e senza effetto, di strappare la Moldavia
al controllo ottomano, anche se dietro di lui operavano l’Impero asburgico,
alcuni principi protestanti tedeschi e parte della nobiltà polacca[29], che gli determinavano,
appunto, l’ostilità dei boiardi moldavi. Assai ingenua dunque, o
apparentemente tale, risulta la versione del Pandolfi, quando accredita, anche
qui per influenza delle sue fonti, la tesi della malattia di Iakobos Basilikos
come causa della sua partenza dalla corte moldava, da dove il greco prima
raggiunse Braºov, poi si recò presso Isabella, reggente per il figlio
Giovanni II Sigismondo Zápolya del principato di Transilvania, ed infine se ne
andò in Polonia[30]. Probabilmente
il greco, che proveniva in Moldavia, dalla corte di Vienna, forte dell’appoggio
di Ferdinando I d’Asburgo e dei principi protestanti tedeschi, cercava di
intessere un’alleanza, la più vasta possibile, in funzione antiottomana,
e perciò si recò presso Isabella e in Polonia. In seguito il
Lãpuºneanu, resosi conto della situazione (p. 900): “secondo il suo costume di
perseguitare le persone, cominciò a perseguitarlo con farli taglia di 4
mila ducati, et con mill’altri aguati, et tradimenti senza dare mai posa, tanto
che quanto più il perseguitava, gli accresceva ogni giorno la
reputazione e per ultimo detto Alessandro inconsideratamente si risolvette a
pigliare uno sciocco partito per ingannare detto Greco, quale si facieva
chiamare despota”. Ma anche il resoconto delle vicende successive, per come
è svolto dal Pandolfi, tradisce la verità di una congiura ordita
da alcuni nobili moldavi per detronizzare Alessandro con l’aiuto dei Polacchi,
degli Asburgo e dei principi tedeschi. È davvero improbabile, infatti,
che la lettera sottoscritta dai boiardi in appoggio al greco, fosse “finta”
come scrive il Pandolfi[31]; e lo dimostra il fatto che Ferdinando I d’Asburgo dette
l’aiuto logistico previsto
p.
374
al
Despota e soprattutto che, giunti a battaglia presso il fiume Prut, su
territorio moldavo, i nobili tradirono il Lãpuºneanu costretto, come al solito,
a riparare in territorio ottomano, a Chilia sul Mar Nero e poi a
Costantinopoli. Troppo esigue, inoltre, le forze di cui fu provvisto il
Basilikos per non ritenere che Ferdinando I d’Asburgo, i principi tedeschi e la
nobiltà polacca non fidassero già in anticipo nella defezione dei
Moldavi[32].
Infatti (p. 902): “il Signore Alessandro fece comandare alli sua 14 mila
Cavalli del Paese, che affrontassino li nimici, li quali Paesani non si volsano
muovere, anzi risposano non volere combattere dicendo, combatta il Re S. con li
sua Baroni, che hanno fatte tante ingiustizie, il Signore inteso questo fecie
comandare loro che si ritirassino, e che sen’andassino via dubitando, che non
si unissino con li nimici loro se n’andorno ritirandosi circa 20 miglia lontano
abbandonando il Signore Alessandro, il quale con la sua Corte di 5 mila
Cavalli, et Archibusieri, e Turchi, appiccorno la zuffa con li inimici Despota,
et Signore Laschi, et in breve spazio il detto Alessandro fu rotto, perché in
fatti li sua uomini del Paese non lo amavano, tamen lui fuggendo con alquanti
sua amici fedeli si salvò, e andossene Alchilli [sic] terra turchesca,
dove per parecchi giorni avanti aveva fatto inviare la sua moglie, et li
figliuoli con il tesoro bene accompagnato, e di lì se ne andorno poi a
Costantinopoli”.
Fuggito il Lãpuºneanu e salito sul trono il Despota[33],
si comprende come la nobiltà moldava intendesse emanciparsi dal
controllo straniero. Infatti, già poche settimane più tardi, si scopriva
una congiura di boiardi, in seguito giustiziati, mentre il nuovo principe si
circondava di guardie scelte, per lo più di provenienza ungherese,
italiana e tedesca. Ma è pur vero che l’alleanza fra nobiltà
polacca e Asburgo era destinata a venir meno, giacché i Polacchi, con
l’appoggio della nobiltà moldava, cercarono di spodestare il Despota, il
quale, da parte sua, faceva il gioco degli Asburgo[34].
Venuto dunque a battaglia con i
p.
375
suoi
avversari, il nuovo principe fu convinto dai suoi boiardi ad impiegarvi anche
la guardia scelta, la quale, giunta al campo, fu trucidata dai Moldavi.
Avvertito del tradimento, il Despota si arroccò nel castello di Suceava,
dove resistette fino al novembre del 1563, quando egli stesso fu ucciso e con
lui molti dei soldati imperiali. Ma anche i Polacchi, come testimonia il
Pandolfi, non riuscirono a porre, neppur parzialmente, la loro egemonia sul
paese, che continuò a rimanere sotto il controllo dell’Impero Ottomano;
infatti (p. 905): “Un Barone Polacco[35]
ebbe audacia di entrare in tal Paese con circa 4 mila Cavalli per cimentare di
farsi Signore, il quale è capitato male, et li hanno ammazzato tutte le
genti ancora, che avessino fama d’essere gente eletta e pochi ne sono campati”.
Certamente il computo degli anni che il Pandolfi attribuisce al regno del
Despota è piuttosto preciso, se si tien conto delle indicazioni
cronologiche da lui date per i principi precedenti. Infatti, se ai venti mesi
già conteggiati dal Pandolfi (p. 903): “Et dal principio di Sua Signoria [sc. del Despota] al termine di 20 mesi venne occasione di
guerra [il corsivo è mio]”, si aggiungono, a partire dal novembre
del 1561, i tre mesi fra estate e autunno nei quali il Despota resistette a
Suceava[36],
giungiamo esattamente al novembre 1563 e ai giorni in cui il principe greco fu
ucciso. Questa precisione, il numero delle pagine dedicate nella lettera al
Despota (pp. 898-905) ed il tono generale di questa parte, mi fanno ritenere
che il Pandolfi fosse nel paese in quegli anni (1561-dicembre 1563), forse
proprio quando ormai la parabola del principe greco era al suo termine, e
forse, per ragioni politiche, commerciali o di altra natura, entrando in
contatto, oltre che con i moldavi vicini ai congiurati, anche con alcuni
personaggi del contingente polacco.
Con queste vicende si conclude, almeno per la parte
destinata alla Moldavia (pp. 893-905), la lettera che il Pandolfi inviò
da Perugia nel febbraio del 1564. Il Pandolfi comunque dà ancora conto
della nomina di un nuovo principe nell’autunno del 1563, un
p.
376
tale
Ioanni da porre a cavallo del
principato di Stefano Tomºa I (agosto 1563-marzo 1564); e qui la nostra fonte
allude forse a Giovanni il Terribile, futuro principe di Moldavia (1572-1574),
di cui sembra testimoniare un tentativo, finora ignoto, di raggiungere in
questo periodo quel trono al quale, del resto, già dal 1551 aspirava[37].
A questo punto la lettera passa a trattare, assai brevemente, della guerra in
Lituania fra il re di Polonia, Sigismondo II Augusto (1548-1572), e Ivan IV
detto il Terribile (1533-1584).
In Polonia[38],
infatti, in maniera non dissimile dai Paesi Romeni, l’autorità centrale
si trovava assediata dalla Szlachta,
la nobiltà terriera, e dai magnati, che ostacolavano fieramente i
tentativi di accentramento del potere regio; e tale lotta caratterizzò i
regni di Giovanni Alberto (1492-1501) e Alessandro (1501-1506). Ma anche
all’esterno la Polonia doveva fare i conti col principato di Moscovia e con
l’Ordine dei cavalieri teutonici. Il terzo figlio di Casimiro IV (1440-1492),
Sigismondo I il Vecchio (1506-1548), riuscì almeno a rendere più
stabili i rapporti con l’Ordine teutonico e col gran maestro Alberto di
Hohenzollern, alleato della Moscovia, che nel 1525 secolarizzò l’ordine,
passò al Luteranesimo e si riconobbe vassallo della corona polacca
assumendo il titolo di duca di Prussia. Ma le direttive della politica estera
polacca, ossia l’espansione verso est, a scapito della Lituania, e le alterne
alleanze con gli Asburgo in funzione antiottomana e con gli Ottomani contro gli
Asburgo, si intrecciavano con l’opposizione interna della Szlachta, che si appoggiava soprattutto agli Ottomani. Così,
nel 1533, era stata stipulata con questi ultimi la cosiddetta “pace perpetua”,
mentre il re, consigliato dalla moglie, Bona Sforza, cercava un’alleanza con
parte dei magnati: una strategia che venne frustrata dalla rivolta del 1537, a
seguito della quale la nobiltà si assicurò il diritto di
riconoscere la successione al trono del figlio Sigismondo II Augusto. Questi
dovette fronteggiare, fin dall’inizio, il cosiddetto “movimento esecutivo”,
intorno al quale si raccoglieva la piccola e media nobiltà terriera,
avversa ai magnati alleati della corona. Con questo movimento, che proponeva
una razionalizzazione dell’apparato fiscale, giudiziario e amministrativo, pur
restando fedele alle tradizionali costituzioni, dovette scendere a patti il re
polacco, anche a causa dei problemi cui doveva far fronte sul confine
orientale. Nel 1569, infatti, Sigismondo II Augusto riuscì a realizzare
la fusione del regno polacco col granducato di Lituania, poggiando sull’aiuto
della Svezia, della Francia e dell’Impero Ottomano contro Ivan IV. La guerra
con i Russi era scoppiata a causa della Livonia, dominio dei cavalieri
dell’Ordine dei Portaspada, che avrebbe assicurato alla Moscovia uno sbocco sul
mare. Alla Livonia, stretta fra Svezia, Polonia e Moscovia, Sigismondo concesse
una certa autonomia territoriale e la libertà di professare il
Protestantesimo, ma poi, nel 1562, occupò il paese provocando l’intervento
russo. Così la Livonia fu assegnata al principe Magnus di Danimarca, che
però era favorevole alla Polonia, mentre Sigismondo, per consolidare la
sua posizione,
p.
377
ricercava
l’appoggio di Alberto di Hohenzollern concedendogli la linea di successione al
ducato di Prussia, che quindi si sottrasse alla fusione col regno di Polonia[39].
A questi avvenimenti alludono, in coda alla lettera (pp.
905-906), le poche righe destinate dal Pandolfi ai fatti di Polonia, che
testimoniano il momento della penetrazione russa nella Livonia dopo
l’occupazione polacca del 1562. Ed il renderne conto nella nostra esposizione
contribuisce a chiarire anche le vicende riguardanti la Moldavia e l’appoggio
dato al Despota da Ferdinando I d’Asburgo, dalla nobiltà polacca e dai
principi protestanti tedeschi. Infatti fin dal 1526 la Szlachta, avendo ottenuto l’appoggio di Alberto, duca di Prussia,
da poco divenuto seguace di Lutero, favoriva la penetrazione in Polonia del
Protestantesimo e della cultura umanistica, incoraggiata anche a corte dalla
moglie italiana di Sigismondo, Bona Sforza. Tuttavia, alla borghesia cittadina
e alla piccola nobiltà, sembrava più congeniale il Calvinismo,
cui aderirono alcune personalità quali il magnate Mikolaj Radziwill,
Felix Krzyak (Cruciger) e Jan £aski il Giovane (Jan a Lasco: £ask, 1499 –
Piòczów, 1560). Quest’ultimo, figlio del voivoda di Sieradia, Jaroslaw £aski
(m. 1523), divenne sacerdote nel 1521, avendo studiato a Gniezno in Polonia e
poi all’Università di Bologna, e conobbe nei suoi viaggi Erasmo da
Rotterdam e Ulrich Zwingli, di cui apprese le dottrine riformistiche. In
seguito ottenne varie cariche, ecclesiastiche e non, con l’aiuto dello zio
omonimo, cardinale primate di Polonia. Fu segretario della cancelleria del re,
ottenne nel 1530 la sede vescovile di Veszprem, senza la conferma papale, e
divenne segretario di Giovanni Zápolya. Quindi, dopo una permanenza più
che decennale in Germania e Belgio, presso le chiese riformate di Francoforte e
Lovanio, e in Inghilterra, dove esercitò la sua attività
riformatrice fondando l’Ecclesia
peregrinorum, tornò in Polonia nel 1556, dove ebbe maggiori
contrasti con gli antitrinitari che con la chiesa cattolica. È
probabile, dunque, che a questa figura di riformatore calvinista sia da
accostare quell’Alberto Laschi, ossia
Alberto £aski, che il Pandolfi dice essere a capo del contingente polacco
penetrato in Moldavia a fianco del Despota greco, con l’appoggio logistico di
Ferdinando I d’Asburgo e dei principi protestanti tedeschi, in un momento in
cui le direttive di politica estera polacca, e la relativa scelta delle
alleanze, ancora ondeggiavano fra l’appoggio dato agli Asburgo e il
mantenimento dei buoni rapporti con l’Impero Ottomano.
Di Alberto £aski (Albertus a Lasco, 1536-1603), conte
palatino e pretendente al trono di Polonia, sono documentabili i rapporti con
l’Inghilterra e con gli ambienti riformati tedeschi e boemi[40].
Nel 1569 il £aski finanziò la traduzione in latino e la pubblicazione a
Cracovia di alcuni trattati di Paracelso (Philipp Theophrast von Hohenheim),
cioè di un medico, alchimista e filosofo che aveva studiato a Basilea e
con Tritemio, avvicinandosi molto all’agostinismo luterano e al platonismo
rinascimentale italiano, pur essendo di fede cattolica. Il £aski fu anche
protettore di un gruppo di studiosi dell’Università di Cracovia, fra cui
Michael Sendivogius, che erano interessati alla filosofia
p.
378
ermetica
e alle opere di Paracelso; quindi, nei primi anni Ottanta del XVI secolo, si
recò in Inghilterra, dove fu accolto al Christ Church College di Oxford
(fondato nel 1524), seguì le lezioni di Giordano Bruno e conobbe George
Peele, drammaturgo inglese la cui produzione influenzò lo stesso
Shakespeare. Ma, nel 1583, l’incontro più importante fu con John Dee (1527-1608). Questi, medico, matematico,
astrologo e alchimista, tra gli studiosi più eruditi del suo tempo, si
era laureato al Trinity College di Cambridge e, nel 1582, aveva stretto legami
d’amicizia con l’occultista Edward Kelly (m. 1593 o 1597). Il £aski
invitò Dee e Kelly a seguirlo in Polonia e i due lasciarono
l’Inghilterra in sua compagnia nel settembre 1583. In realtà il nobile
polacco era finanziariamente rovinato e sperava, a causa dei suoi interessi
ermetici, di ricavar denaro dall’alchimista. Ma soprattutto il £aski svolse
l’attività di informatore della corona inglese in Polonia, mettendo al
corrente il Dee dei progetti politici della corte polacca[41].
Furono frequenti, infatti, le visite del nobile polacco in Boemia, a Tøeboò, dove
Dee e Kelly risultano ospiti di Vilém Rožmberk fino al 1589, e a Praga, dove i
due inglesi si recarono presso Rodolfo II (1552-1612, imperatore dal 1576). John Dee, come risulta dagli studi di
Frances A. Yeats[42], influenzò notevolmente, dalla
Boemia, anche la Germania, e nel 1589 compì un viaggio che lo
portò in Assia, nel Palatinato e nel Württemberg, ossia nei luoghi in
cui, alcuni anni più tardi si sarebbe diffuso, intorno all’elettore
palatino Federico V, il movimento rosacrociano[43]. A Praga è probabile che
fosse anche il Sendivogius, protetto del £aski e
p.
379
anche
di Vilém Rožmberk, presso il quale il Dee soggiornava a Tøeboò, in Boemia. In
una lettera del re di Polonia Sigismondo III Vasa (1587-1632), datata Varsavia
13 giugno 1600, si cita il Sendivogius come uomo di fiducia che il re polacco
invia all’imperatore Rodolfo II per risolvere i problemi della Moldavia[44].
Ed è assai interessante che Alberto £aski, alcuni decenni prima, avesse
già intrapreso in prima persona quell’avventura in Moldavia di cui la
nostra lettera è un altro testimone; tanto più se si aggiunge
che, in un’opera dello stesso Dee[45],
si trova un accenno proprio al persistere, ancora negli anni Ottanta e forse
fino alla fine del secolo, delle mire del nobile polacco su quel paese.
Di seguito appongo un’appendice con la riproduzione
integrale della lettera del Pandolfi, nella quale ho sciolto le abbreviazioni e
adottato le pochissime correzioni, di natura esclusivamente linguistica,
apportate da una seconda mano.
[Cod.
Palatino 815 (olim 692–21,2) della Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze, intitolato: Lettere
e altre opere di Niccolò Macchiavelli [sic], pp. 893-906]
Mag(nific)um Dominum Petrum
de Machiavellis
Luogotenente delle Galere di
S(ua) E(ccellenza) a Liorno [sic]
Questa
sarà per fare avisata la S(ignoria) V(ostra) qualmente io arrivai in
Italia la Pasqua di Natività [sc. 25 dicembre 1563] prossima passata
venendo del regno di Polonia, e subito andai a Fiorenza, dove non ero stato 22
anni fa, e son stato lì una settimana. Colà pensavo trovarvi la
S(ignoria) V(ostra), et Dio sa con quanto desiderio, e quanto volentieri le
avrei baciato le mani,
p.
380
fummi detto come eravate in
Pisa, overo a Liorno[46]
a le galere, e dubitando io, che talvolta non vi fussi messo a qualche viaggio,
e di andarmi aggirando invano non mi risolvetti venire a quella volta, e
così mi partii di Firenze, e preso il [p. 894] camino d’Ancona per via
di Perugia[47], dove mi
trovo al presente in casa il S(ignoria) V(ostra) Tesauriere vostro fratello[48]
che per sua grazia mi ha fatto, e fammi assai carezze, e così penso star
qui sin a Carnovale prossimo al più lungo, poi mi partirò per
seguire il mio viaggio, dove a Dio piaccia indirizzarmi prosperamente.
Aggio
auto di molte aversità, e le ho comportate, e comporto al meglio che
posso, et non ho mai usato d’infastidire li amici con il condolermi de’ mia
mali per non dare loro quel dispiacere, e mi son confortato sempre, cercando di
rimediare con le mie forze proprie mediante l’aiuto di Dio, da poich’io non mi
son possuto aboccare con la S(ignoria) V(ostra) per darle qualche ragguaglio
de’ Paesi di Moldavia, et Polonia, dove la Sig(no)ria V(ostra) è stata
già tempo fa più volte, il farò con questa lettera, perché
penso che li sarà grato intendere qualche particolare.
L’anno
47 morse Pietro Vaivoda di Moldavia[49]
vecchio di età circa 90 anni [sic] e restò la Mogliera[50]
e 3 figli masti[51] [sic] e 2
femmine[52],
et subito il suo primogenito di età d’anni 20 nome Elias[53]
fu fatto sig(no)re, il quale era stato circa 4 anni a Gostantinopoli [sic] per
ostaggio al tempo del Padre, e per essersi usato molto a’ costumi turcheschi,
subito che fu Sig(no)re fece ogni opera con forza di danari per avere donzelle
turche, et in breve tempo gliene fu condotte circa 8 bellissime, le quali con
la loro lascivia in breve [p. 895] tempo li voltorno il cervello di sorta, che
il persuasono a farsi Turco, e così lui il terzo anno di sua Sig(no)ria
fingendo esserli necessario
p.
381
d’andare a baciare le mani al
Gran Turco[54], si
partì del paese col tesoro circa 700 m(ila) duc(at)i acompagnato da
assai baroni et amalò a Costantinopoli, dove arrivato il 3zo
[terzo] giorno si fece Turco, e li fu dato moglie figlia di Bascicà [sc.
Pascià], e fatto Governatore d’una Provincia cioè S. Giago [sc. sanjak
bey di Silistra].
Venne
la nuova in Moldavia, e subito feciono S(igno)re Stefano[55]
suo 2do [secondo] fratello di età d’anni 20 quale era di
persona membruto, et robustissimo, crudele, e bestiale a maraviglia, et il
p(ri)mo anno di sua Sig(nor)ia lo anno 50 venendo il 51 fece armare tutto il
Paese, perché in Ungheria si sentiva certi romori d’arme, e vi era venuto un
esercito del Se(renissi)mo Re de’ Romani Ferdinando[56]
e la fama era di aspettazione di grande imprese [sic] contra li Turchi,
talmente che detto Sig(no)re Stefano volonteroso, et coraggioso a meraviglia,
per non essere l’ultimo ad assaltare la Turchia voleva passare con le sue genti
il Danubio, li Baroni visto la sua temerarietà non restavano di
pregarlo, che si dovessi intrattenere l’impresa 2 o 3 mesi aspettando la
primavera per avere pastura per li cavalli et così il suasono ad
aspettare del che avanti che venisse il tempo opportuno li romori di Ungheria
raffredorno, talché detto Sig(no)re Stefano si risolvette lasciare l’impresa.
[p.
896] Ma per essere lui di natura inquieta comandò, che quanti Mercanti
turchi passava per il suo Paese fussino ammazzati, e predati insieme con quanti
altri Mercanti si trovavano in tali carovane di Turchi, e durò questo
assassinamento circa 8 mesi, in detto tempo fece ruinare tutte le chiese de li
Armeni fece forzatamente ribattezzare all’usanza Valacca, volse fare ammazzare
la Madre per torli il tesoro, et per qualche altra causa, ma li Baroni con
assai preghiere lo distolsono da tale fantasia, fece tagliare la testa a gran
parte de’ suoi baroni, pigliava tutto quello li bisognava con superchieria di
ciascheduna persona per il suo paese, e minacciava tutti li Sig(no)ri vicini al
suo Paese talmente, che pure considerato da li principali sua Baroni le sue
bestialità, feciono congiura d’ammazzarlo, e si concordorno segretamente
con circa altri 22 Baroni ribelli pure del loro sangue, quali si trovavano
essere fuggiti in Polonia, et la congiura fu, che quelli Baroni ch’erano in
paese appresso alla persona del S(igno)re un tal giorno da loro deputato, dal
qual giorno feciono consapevoli quelli di Polonia dovevano ammazzare detto
S(igno)re, e così seguì l’effetto. Dovevano li detti Ribelli
eleggere in fra di loro il nuovo Sig(no)re, et condurlo in Moldavia e
così feciono col favore del Se(renissi)mo Re di Polonia[57],
che li fece accompagnare [p. 897] da un suo esercito, subito che li altri
Baroni ammazzorno il detto Stefano non avendo ancora nuova, che quelli di
Polonia fussino entrati in Paese, feciono un Cortigiano Sig(no)re per forza[58],
perché tali popoli, come sa V(ostra) S(ignoria), hanno in uso di non stare un
sol giorno senza Sig(no)re, il quale Sig(no)re regnò 4 giorni, perché
venendo l’altro di Polonia fu necessario deporlo, ma furon tanto galanti che
non lo ammazzorno, ma bene li tagliorno il naso, e li orecchi, e lassornolo
andare atteso che uomo così
p.
382
segnato non vogliono che
possa essere lor Sig(no)re. Il 3zo [sc. terzo] figlio di Pietro
Vaivoda minore di tutti chiamato Constantino si trovava a Constantinopoli col
fratello Turco, a la Madre loro in Moldavia, la quale sen’andò in
Monasterio, e si misse l’abito monacale, e fu lassata di così per
allora. Il Nuovo Sig(no)re chiamato Alessandro[59]
per allora cominciò a regnare molto benignamente, ma forzato dalli baroni
bisognò consentissi a fare strangolare la monaca già moglie di
Pietro Vaivoda, alla quale trovò tesoro per 300 m(ila) d(uca)ti o da
vantaggio. La ventura di detto Aless(and)ro fu che il p(ri)mo anno di sua
S(ignori)a morse li dua fratelli Elias [m. post 10 agosto 1555] e
Costantino [m. ante 30 marzo 1554] di morbo in Turchia, et fu spenta la
Casa e progenie di Pietro Vaivoda, salvo che le femine, che una era maritata al
Vaivoda della Valacchia bassa[60]
et l’altra che restava in paese la prese per moglie d(et)to Sig(no)re
Aless(and)ro, il quale regnando non attendeva [p. 898] ad altro, che acumulare
tesoro, e fare ammazzare di mano in mano li Baroni vecchi, et mettere in quelli
ufizii e gradi li sua parenti. Et mercantilmente quante incette erano da farsi
nel suo paese, le faceva fare per suo conto proprio proibendo alli altri
Mercanti, talché al suo tempo si sono rovinati quanti Mercanti usavano
negoziare in suo Paese, e così signoreggiando vicino al Xmo
[sc. decimo] anno si crede, che avessi congregato meglio, che dua milioni d’oro
compreso le gioie che ne aveva assai, et in capo di X anni fu cacciato di
S(igno)ria et la potente causa è stato per essere lui tanto avido a
perseguitare li ribelli, che alla giornata fuggivano del suo Paese non sapendo
in tal perseguitazione procedere con prudenza, e così come ha proceduto
ignorantemente, è stato da ignorante e goffo cacciato di S(igno)ria,
tamen fu pure tanto accorto che a tempo cavò il tesoro di quel Paese e
lo condusse seco in Turchia, sì che possette considerare la miseria
delli Regni Cristiani, che per loro discordie arricchiscano la Turchia di tutte
le dovizie continuamente. Non voglio mancare di dirvi la causa, per la quale il
detto Sig(nor)e Aless(and)ro perdé la Sig(no)ria quale fu, come è detto,
per perseguitare li Ribelli ignorantissimamente. Pare, che 5 anni fa
capitò in Polonia un certo Greco[61],
quale veniva di Spagna dalla Corte della Cattolica M(aes)tà di Carlo V
quale Greco da putto avea servito un Gentilomo della stirpe [p. 899] de li
Despoti di Servia[62],
quale serviva in la
p.
383
Corte di Cesare, et venendo
tal Gentilomo a morte restò il detto Greco da lui allevato, quale come
astutissimo subito morto il Padrone si attribuì la patente Imperiale del
d(ett)o Gentilomo, quali Patente [sic] testificavano la sua nobiltà, et
con tali Patenti si misse in via, et passò per la Francia e per
l’Alemagna capitando in Polonia, come è detto, e per tutto si faceva
avanti a’ Sig(no)ri e Gentilomini , raccomandandosi, che lo aiutassino da potersi
intrattenere da Gentilomo, e perché lui era persona eloquente, e dotato di
parecchi linguaggi, e molto astuto, li era creduto da molti Sig(no)ri, et altre
persone alla giornata tanto che si andava trattenendo con parecchi servitori
onoratamente, ma finalmente avendo stracco [sic] le persone da per tutto si
condusse in Moldavia, e appresentossi alla Corte del soprad(ett)o Aless(and)ro
Vaivoda dandosi a conoscere per Greco, dicendole sua discensione essere da li
li [sic] despoti di Samo in su la Isola dell’Arcipelago e che era restato
andare in Turchia per ottenere qualche servizio, o preminenza alla Corte del
Gran Turco, della qualcosa il S(igno)re Aless(and)ro lo sconsigliò
assai, e più li disse, che a patto alcuno non vi dovessi andare, perché
capiterebbe male, e che li rincresceva di lui, e appresso lo confortò a
restare in Moldavia a suo servizio, offerendoli alla giornata di darli qualche
buono [p. 900] ufizio alla sua Corte, tanto che lui si risolvette a restare e
intrattenersi ad essa Corte di Moldavia, dove fu ben trattato parecchi mesi, et
occorse che lui si amalò, e per farsi medicare dimandò licenza al
S(igno)re Aless(and)ro di andare sino in Brasciovia Città nella
Provincia de’ Sciuli[63]
[sic] quivi vicina 5 o 6 giornate, la qualcosa Aless(and)ro gli concesse
graziosamente, e li fece dare cavalli e servitori, e danari per la spesa. Del
che lui andato in tal terra et in breve fattosi sano non volse più
tornare in Moldavia, anzi se n’andò alla Regina d’Ungheria[64]
ciercando [sic] servizio, et non trovando grazia, se ne tornò in Polonia
assai povero, e male avviato. Il detto Sig(nor)e Aless(and)ro secondo il suo
costume di perseguitare le persone, cominciò a perseguitarlo con farli
taglia di 4 m(ila) d(uca)ti, et con mill’altri aguati, et tradimenti senza dare
mai posa, tanto che quanto più il perseguitava, gli accresceva ogni
giorno la reputazione e per ultimo d(ett)o Aless(and)ro inconsideratamente si
risolvette a pigliare uno sciocco partito per ingannare detto Greco, quale si
facieva chiamare despota, et il partito fu che chiamati a sé tutti li
Principali Baroni di Moldavia, fece che scrivessino una lettera come coniurati,
e nemici in secreto di Aless(and)ro chiamassino detto Despota con prometterli
sotto loro giuramento di farlo S(igno)re et ammazzare Aless(and)ro, e questa
lettera si soscrissono [sic] e posono [sic] il loro sigillo circa 22 delli
Principali Baroni, e mandorono detta lettera [p. 901] finta segretamente al
detto Despota, pure come è detto con il consenso del S(igno)re
Aless(and)ro credendosi ingannarlo
p. 384
e condurlo alla maza [sic],
del che sendo il detto Despota astutissimo conobbe il tratto [sic], ma fingendo
di credere loro, fecie risposta a detti Baroni ringraziandoli, e avisandoli,
che si andrebbe preparando quando li parrebbe tempo si rappresenterebbe alli
confini, et li farebbe avisati, et perché tal lettera finta testificava detto
Despota essere il vero erede di Moldavia, del che lui considerato di quanto
favore tal lettera gli fussi si partì di Polonia segretamente con tal
lettera, et andossene a trovare la C(esare)a M(aes)tà di Ferdinando, et
la M(aes)tà del Re de’ Romani raccomandandosi a loro con mostrare detta
lettera allegando di aver ritrovata la sua Patria et il suo Regno, ma per
essere povero non aveva il modo a mettersi a ordine onoratamente per pigliare
il possesso del suo Stato.
Credendo
la M(aes)tà dello Imperatore, e del Re che quella lettera fussi vera e
non finta lo aiutorno di danari, e gente per circa mille soldati, et con
altanti [sic] uomini lo accompagnorno S(igno)re Pollacco, il Sig(nor)e Alberto
Laschi[65],
qual gente in tutto furono circa 2.200 Cavalli, e 600 pedoni mettendosi in via
fra li Monti di Ungaria et il confino del Paese di Polonia, et si condussono in
Moldavia, dove il Sig(no)re Aless(and)ro aveva preparato uno esercito di giente
del Paese Miemizi [sc. nemeºi], cioè Nobili di circa 24 m(ila) Cavalli,
et il S(igno)re Alessandro con la [p. 902] sua persona aveva tutti li Baroni, e
la sua Corte circa 5 mila Cavalli, et 700 Archibusieri a piedi, et 800 Cavalli
di Turchi, e Tartari da lui soldati. Entrò il Desposta [sic], et il
Sig(no)re Laschi drento nel Paese con li loro circa 2.800 omini, come è
detto, e condotti a fronte gli eserciti lungo il fiume del Bruto[66]
[sic] per esso andati a 8 leghe, il Sig(no)re Aless(and)ro fece comandare alli
sua 14 m(ila) Cavalli del Paese, che affrontassino li nimici, li quali Paesani
non si volsano muovere, anzi risposano non volere combattere dicendo, combatta
il Re S. con li sua Baroni, che hanno fatte tante ingiustizie, il S(igno)re inteso
questo fecie comandare loro che si ritirassino, e che sen’andassino via
dubitando, che non si unissino con li nimici loro se n’andorno ritirandosi
circa 20 miglia lontano abbandonando il S(igno)re Aless(and)ro, il quale con la
sua Corte di 5 m(ila) Cavalli, et Archibusieri, e Turchi, appiccorno la zuffa
con li inimici Despota, et Sig(nor)e Laschi, et in breve spazio il detto
Aless(and)ro fu rotto, perché in fatti li sua uomini del Paese non lo amavano,
tamen lui fuggendo con alquanti sua amici fedeli si salvò, e andossene
Alchilli[67] [sic] terra
turchesca, dove per parecchi giorni avanti aveva fatto inviare la sua moglie,
et li figliuoli con il tesoro bene accompagnato, e di lì se ne andorno
poi a Costantinopoli; fuggitosi Aless(and)ro il detto Despota Greco fu
accettato per S(igno)re e rimase parte delli Baroni, e parte ne fuggirno [p.
903] con Aless(and)ro, poche settimane da poi congiurorno parecchi Baroni per
ammazzare detto Despota, scopersesi il tradimento, e fecie a tali Baroni
tagliare la testa, detto nuovo Sig(no)re Despota riserbò alla sua
guardia soldati forestieri circa 860 la metà a Cavallo, e la metà
pedoni di diverse nazioni, ma la più parte Unghari.
Et
dal principio di S(ua) S(igno)ria al termine di 20 mesi venne occasione di
guerra, perché detto Despota si era inimicato dua gran Baroni Polachi
cioè il detto Sig(nor)e Laschi, che lo aveva accompagnato a metterlo in
S(igno)ria, et un altro gran Barone, li quali il minacciavano di cacciarlo di
tale Paese, ma il Sig(no)re Despota si era fatto tanto superbo, che non stimava
più persona fidandosi nella sua prospera fortuna, et ne la sua astuzia
Grechesca, qual poco gli ha giovato con li Valacchi, li quali sempre stavano
attenti aspettando qualche occasione di tradirlo secondo l’uso loro, occorse
p.
385
che venne nuova la detto
Sig(no)re Despota come li dua Sig(no)ri Polachi preparavano esercito contro di
lui, et da altra parte veniva ancora altro esercito di Tartari per assaltarli
il Paese, del che lui fu necessitato a mandare esercito a opporsi alli suoi
nimici, e così mandò giente del suo Paese circa 8 m(ila) Cavalli.
Parve
ad alcuni delli sua Principali Baroni Valacchi essere venuta l’occasione del
tradimento detto Sig(no)re Despota, et congiuratisi in [p. 904] tra di loro
cominciorno con bello modo quando l’uno e quando l’altro a consigliare detto
Despota, che sarebbe bene, che S(ua) S(ignor)ia mandassi la più parte di
quelli soldati, che teneva alla sua guardia per soccorso, et ammaestramento del
suo esercito Valacco dandoli ad intendere li inimici essere molto potenti
allegando ancora, che a S(ua) S(ignor)ia non era necessario tanta guardia
perché di già era stabilito, et assicuratosi nello Stato, e
perciò era il meglio a mandare tali valent’uomini contra li inimici.
Lui
ancora che astuto si lasciò inzampognare, e mandò tutta la
Cavalleria della sua guardia e qualche 100 pedoni con circa 15 pezzi
d’Artiglieria da campo, et riserbossi per guardia della sua persona solo 300
uomini a piedi. Arrivati al campo delli Valacchi detto soccorso fu fatto loro grata
raccoglienza [sic] tanto che loro senza alcuno sospetto si disarmorno lassando
i Cavalli alla pastura, impiedicati [sic], et così riposandosi, e parte
di loro dormendo per le praterie allora li Valacchi ammaestrati del tradimento,
li assaltorno improvisamente ammazzandoli a più potere, alcuni pure
così disarmati saltorno sopra li Cavalli nudi fuggendo, ma non
riuscì salvo che a dua di loro a salvarsi, quali corsano tanto, che il
presente giorno si rappresentorno avanti al S(igno)re Despota avisando del
tradimento. Allora S(u)a S(igno)ria si trovava essere a un luogo d(ett)o
Sociava[68],
e si fece forte [p. 905] in tal Castello, e vettovagliossi per parecchi mesi,
et dì seguente li Valacchi il vennono a sediare [sic] con lo esercito,
dove lui si è difeso circa 3 mesi[69],
et sono seguiti assai disordini in tale Paese, perché inimicatosi quelli populi
contro li forestieri hanno ammazzato assaissimi Unghari e Taliani [sic] e
Todeschi, che si trovavano forestieri in quel Paese, e son seguite
crudeltà grand(issi)me, et poi per ultimo il detto Desposta [sic]
è stato ammazzato, e perché lui si era indebitato assai, ha ruinato di
molti mercanti. Un Barone Pollacco[70]
ebbe audacia di entrare in tal Paese con circa 4 m(ila) Cavalli per cimentare
di farsi Sig(no)re, il quale è capitato male, et li hanno ammazzato
tutte le genti ancora, che avessino fama d’essere gente eletta e pochi ne sono
campati, a’ quali hanno tagliato il naso e gli orecchi, perché si ricordino del
dare impaccio a Valacchia, questi romori son seguiti la state e l’autunno
passato e non hanno fatto altro Sig(no)re pure di loro generalmente nominato
Ioanni[71],
quale regna al presente.
p. 386
Questo
è quanto ragguaglio vi posso dare sin al presente delli affari di
Moldavia, et venendo al fatto di Polonia, fanno al presente guerra con Granduca
di Moscovia[72], e
cominciò l’anno passato, e va seguitando, ma li Polachi hanno il
peggiore, perché il Moscovita sin l’anno passato ha pigliato circa 40 leghe di
[p. 906] Paese in la Provincia di Lituania di detto Re di Polonia, quel che
segue al presente si intenderà al suo tempo, credo che si faccia gran
fatto, perché il tempo di guerreggiare in quelli Paesi è al presente,
quando sono li Ghiacci forti, che sendo quelli Paesi molto Padulosi [sic] al
tempo di state è difficilissimo. Detto Moscovita è un bravo
Principe quanto possa essere secondo la fama, che di lui si intende, e di
età d’anni 36 et sin’oggi ha guerreggiato circa 25 anni con tutti e suoi
vicini, et ha pigliato tre gran paesi di Tartari, tal che arriva con il confine
del suo Regno da Tramontana con il mare Ocieano schiazzale [sic], et ½
giorno [sc. mezzogiorno] il Mare Caspio in sul Lito del quale mare possiede 5
Porti, tal che li Tartari Orientali non possono passare in Europa senza far
motto a lui, e si può sperare che un tal Potente Principe vivendo abbia
a far gran fatti e senza altro faccio fine pregando l’Onnipotente Iddio, che
salvi, e mantenga, e prosperi la Sig(nor)ia V(ostr)a sempre.
Di
Perugia il dì 4 fevrario [sic] anno 1564
Desideroso
far sempre serv(izio) alla S(igno)ria V(ostr)a
Antonio
Pandolfi
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la Moldavia nei Commentari di Andrea Cambini e Theodoro Spandugino
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[1] Si tratta di un codice cartaceo, con legatura realizzata
in cartone ricoperto da cartapecora, mm. 290x203, pp. I + 924 + III numerate dalla
stessa mano. Alle ultime righe il copista ha scritto: “Il presente volume da me
Marco Martini in quest’anno 1726 è stato copiato dall’esemplare del sig.
Abate Corso de’ Ricci; quale esemplare fu copiato da Giuliano de’ Ricci dagli
originali di Niccolò Machiavelli; e questa copia da Rosso Antonio
Martini mio fratello è stata dipoi collazionata coll’esemplare suddetto
di Giuliano de’ Ricci”. Giuliano de’ Ricci (1532-1606) era uno dei nipoti di
Niccolò Machiavelli; in seguito il codice dovette appartenere alla
Libreria dei Guadagni e quindi a Gaetano Poggiali, Cfr. Luigi Gentile, I codici palatini, vol. II, Roma 1890,
pp. 339-340. Si vedano anche i seguenti lavori nei quali il codice è
menzionato: Pasquale Villari, Niccolò
Machiavelli e i suoi tempi illustrati con nuovi documenti, 2a edizione
rivista e corretta dall’autore, 3 voll., Milano 1895-1897, in particolare vol.
I, pp. 311-312, n. 1, p. 314, n. 2; Ibidem, vol. III, p. 128, n. 1, p.
185, n. 2, p. 287, n. 2, p. 416, n. 1; Sergio Bertelli, Appunti e osservazioni in margine all’edizione di un nuovo epistolario
machiavelliano, Firenze 1970, estratto da “Il pensiero politico”, II, 1970,
pp. 536-579, in particolare p. 550, n. 36; Cecil Grayson, Machiavelli e Dante. Per la data e l’attribuzione del “Dialogo intorno
alla lingua”, in “Studi e problemi di critica testuale”, II, 1971, pp.
5-28, in particolare p. 11, n. 14 (traduzione italiana di Idem, Machiavelli and Dante, in Renaissance
studies in Honor of Hans Baron, a cura di Anthony Molho e John A. Tedeschi,
Firenze 1971, pp. 361-384, in particolare p. 368, n. 14), segnalato in
“Scriptorium”, XXVI, 1972, p. 175, BC no. 239; Rosetta Migliorini Fissi, Per la fortuna del “De vulgari eloquentia”
un nuovo codice del “Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua”. Approcci
per una edizione critica, in “Studi danteschi”, XLIX, 1972, pp. 135-214, in
particolare pp. 135-156; Giorgio Inglese, Niccolò
Machiavelli. Opere, vol. III, Lettere (“Classici italiani”), a cura
di Franco Gaeta, Torino 1984, p. 679, in “La bibliofilia”, LXXXVI, III, 1984,
pp. 271-280, in particolare p. 279; si segnala la menzione della nostra lettera
in Riszard Kazimiers Lewanski, Polonica
rêkopiœmienne w archiwach i w bibliotekach woskich, Varsavia 1978, p. 67.
[2] Nell’indice del
manoscritto, a p. 922, compare il seguente titolo: “Lettera di Antonio Pandolfi
a Pietro Macchiavelli [sic] Luogotenente delle galere del duca Cosimo a
Livorno, in cui lo ragguaglia di molte turbolenze e mutazioni seguite nel Regno
di Moldavia nel tempo che egli vi era stato”.
[3] Nel febbraio 1564, data in cui risulta spedita la
lettera, era sul trono di Moldavia Stefano Tomºa I (almeno fino all’inizio del
mese successivo).
[4] I Machiavelli erano imparentati con la famiglia Nelli
attraverso la madre di Niccolò, Bartolomea de’ Nelli.
[5] Cfr. Niccolò Machiavelli, Opere (La Letteratura Italiana. Storia e Testi, vol. 29), a cura di
Mario Bonfantini, Milano–Napoli 1963, p. 1140; si vedano inoltre: Gaspare
Amico, La vita di Niccolò
Machiavelli, Firenze 1875, pp. 612-615; Ettore Janni, Machiavelli, Milano 1927; Corrado Argegni, Enciclopedia biografica e bibliografica italiana, serie 19:
Condottieri, capitani, tribuni, vol. II, Milano 1937, p. 113; Riccardo
Bruscagli, Niccolò Machiavelli,
Firenze 1975; Letteratura Italiana. Gli Autori. Dizionario
bio-bibliografico e Indici,
vol. II, Torino 1991, s. v. Machiavelli
Niccolò, pp. 1096-1100; Guido di Niccolò Machiavelli, Tizia, edizione critica, commento e
introduzione a cura di Paolo Caserta, Roma 1996, pp. 15-27.
[6] Cfr. Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Autografi
Palatini. Carte Machiavelli, cass. V, cc. 52-60, cc. 117-119, c. 122, cc.
169-188, per cui si vedano G. Amico, op.
cit., pp. 661-664, e Giuseppe Lesca, Piero
di Niccolò Machiavelli. Gloria d’una marineria italiana, in “La
Rinascita”, IV, no. 20, 1941, pp. 583-602, ambedue per la notizia biografica su
Piero scritta da Guido (c. 188); G. Machiavelli, Tizia cit., in particolare pp. 26-27, in cui è pubblicata la
commedia composta da Guido (cc. 178-187); infine, per l’indice delle lettere
inviate da Piero a Cosimo, negli anni 1556-1559, e conservate nell’Archivio di
Stato di Firenze Mediceo del Principato: Carteggio
Universale di Cosimo de’ Medici. Inventario, IX, a cura di Marcella
Morviducci, Firenze 1990, p. 448.
[7] Cosimo I de’ Medici
(1519-1574), figlio di Giovanni dalle Bande Nere e di Maria di Jacopo Salviati,
fu dal 1537 secondo duca di Firenze dopo Alessandro; nel 1539 sposò
Eleonora di Toledo, figlia del viceré di Napoli, don Pedro, e poi, a partire
dal 1569, fu primo granduca di Toscana.
[8] Cfr. Gian Biagio Furiozzi, Notizie sulla famiglia di Machiavelli, in Machiavellismo e
antimachiavellismo nel ‘500. Atti del Convegno di Perugia, 1969, Firenze
1969, pp. 145-147.
[9] Giuliano de’ Ricci,
che abbiamo già nominato a proposito del codice in cui è
conservata la nostra lettera, era nipote di Bernardo, Guido e Piero, in quanto
figlio della loro sorella Bartolomea. Giuliano si adoperò senza successo
presso le autorità ecclesiastiche affinché fossero tolte dall’Indice le
opere del celebre nonno, una condanna che però non aveva certo nuociuto
né alla carriera di Bernardo, Questore pontificio in Umbria, né al sacerdozio
di Guido, piovano di Lucardo, né all’ascesa di Piero al grado più alto
della marina di Cosimo. I libri di Niccolò Machiavelli, negli anni
1549-1554 a Venezia, nel 1552 a Firenze, nel 1554 a Milano e nel 1559 a Roma,
erano finiti nell’Index librorum
prohibitorum, e la condanna era stata ribadita nel 1564, anche se Cosimo
stesso si era adoperato affinché vi fossero tolte. Insieme con Giuliano de’
Ricci, si prodigò a questo fine anche suo cugino Niccolò, figlio
del Bernardo che abitava a Perugia. Questo Niccolò (4 settembre
1549-1597) fu canonico nel Duomo di Firenze e consigliere dell’Accademia della Crusca
dal 12 marzo 1586 al 4 settembre 1588, ma poi, nell’agosto del 1590, venne
condannato dall’Accademia per “gravi errori”. Inoltre, come testimoniano le cc.
118-119, collaborò con lo zio Guido, così come accadde anche a
Giuliano. Questi, alla morte di Guido, divenne possessore delle carte
appartenute alla famiglia, Cfr. G.
Machiavelli, Tizia cit., pp. 22-24;
Giuliano de’ Ricci, Cronaca, 1532-1606,
a cura di Giuliana Sapori, Milano–Napoli 1972, pp. IX-XXVI.
[10] Riedito a Firenze nel
1894; poi ancora, come Progetto di Piero
di Niccolò Machiavelli al duca Cosimo de’ Medici per cacciare di Toscana
francesi e spagnoli e per instituire una armata toscana, 1560, [prefazione
di G. Amico] Firenze 1907; ed infine, dal manoscritto conservato nelle Carte
Machiavelli della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e intitolato: Disegno al Duca Cosimo l’anno 1560 in circa (c.
188), in G. Lesca, Piero di Niccolò Machiavelli
cit., pp. 586-596.
[11] Il promontorio di Abila o Abyla, nella Mauretania
Tingitana (Marocco), e quello opposto di Kalpe, in Spagna, denominavano fin dall’Antichità le colonne
d’Ercole delimitanti il fretum Gaditanum.
Già nel perduto Περι
‘Οκεανου del viaggiatore greco Pitea di
Marsiglia (IV secolo a. C.), di cui sopravvivono alcuni frammenti in autori successivi,
sia greci che latini, compare il toponimo Κάλπη,
stando almeno a Strabone,
Γεωγραφικά, III, 2,11 (in Pytheas von Massalia, collegit Hans
Joachim Mette, Berlino 1952, p. 28) e fra le prime fonti abbiamo anche
Eratostene, Plinio il Vecchio ed altri, Cfr. Dictionary of Greek and Roman Geography, a cura di William Smith,
Londra 1854, s. vv. Abyla e Calpe; Ferdinand Lallemand, Journal de bord de Pythéas, Parigi 1956
(Parigi 1974 e Marsilia 1989), Glossaire,
p. 253.
[12] Ma non è improbabile che il viaggio del Pandolfi
in Moldavia e in Polonia rispondesse, fra le altre cause, all’esigenza del
nascente Granducato di Toscana di informarsi circa la dinamica geopolitica di
quella parte dell’Europa, pur con una particolare attenzione per la Moldavia,
stando allo spazio che il Pandolfi riserva a questo paese. In quest’ottica
vanno sicuramente inseriti i viaggi, in ambedue i paesi, di Piero Machiavelli,
uomo di fiducia di Cosimo. In ogni caso è possibile che l’occasione del
viaggio del Pandolfi, pur dovuto ad altre ragioni, forse anche di natura
commerciale, fosse colta dal Machiavelli, o da altri al di sopra di lui, per
avere notizie che potessero essere utili alla politica estera del duca di
Firenze. Per l’acquisizione delle notizie da parte delle cancellerie e delle
ambasciate in ambito italiano, ma soprattutto per la diffusione della stampa
periodica, si vedano in generale: Marco Infelise, Prima dei giornali. Alle origini della pubblica informazione (secoli
XVI e XVII), Roma–Bari 2002; e più in particolare, per le notizie
che giungevano dalla Transilvania a Firenze nel XVII secolo: Gianluca Masi, La
Transilvania nella seconda metà del XVII secolo (febbraio-ottobre 1661),
fra Impero Asburgico e Impero Ottomano, secondo la testimonianza inedita del
Codice Magliabechiano XXV, 740 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze,
in L’Italia e l’Europa Centro–Orientale attraverso i secoli. Miscellanea di
studi di storia politico-diplomatica, economica e dei rapporti culturali, a
cura di Cristian Luca, G. Masi e Andrea Piccardi, Brãila–Venezia 2004, pp.
231-276.
[13] Cfr. Umberto Gnoli, Pittori
e miniatori nell’Umbria, Foligno 1980, s. v. Pandolfi Giovanni Antonio,
pp. 232-233; Dizionario Biografico dei
Marchigiani, a cura di Giovanni Maria Claudi e Liana Catri, Ancona 2002, s.
v. Pandolfi Giovanni Antonio, p. 383.
[14] Per gli avvenimenti storici cui la nostra lettera si
riferisce, si vedano: Philips M. Price, Storia
della Turchia. Dall’Impero alla Repubblica, Bologna 1958 (traduzione
italiana di Idem, A History of Turkey.
From Empire to Republic, Londra s. d.); Halil İnalcık, The Ottoman Empire. The Classical Age,
1300-1600, Londra 1973; Peter Frygies Sugar, Southeastern Europe under Ottoman rule, Londra 1977; Alessio
Bombaci, Stanford J. Shaw, L’Impero
Ottomano (Nuova Storia Universale dei Popoli e delle Civiltà, vol.
VI, parte II), Torino 1981; Dimitri Kitsikis, L’Empire ottoman, Parigi 1985; Klára Hegyi, Vera Zimanyi, The Ottoman Empire, Budapest 1986;
Giacomo E. Carretto, I Turchi del
Mediterraneo. Dall’ultimo impero islamico alla nuova Turchia, Roma 1989;
Bernard Lewis, Istanbul et la
civilisation ottomane, Parigi 1990; Jean Bérenger, A History of the Habsburg Empire (1273-1700), Londra 1994; Charles
W. Ingrao, The Habsburg Monarchy,
Cambridge 1994.
[15] Cfr. Constantin Rezachevici, Cronologia criticã a domnilor din Þara Româneascã ºi Moldova, a.
1324-1881, vol. I, Secolele XIV-XVI,
Bucarest 2001, p. 598.
[16] In realtà Iliaº Rareº era nato all’inizio del
1531, quindi aveva 16 anni al momento dell’avvento al principato, Cfr. ªtefan
S. Gorovei, Familia lui Petru Rareº, in Petru Rareº, a cura di
Leon ªimanschi, Bucarest 1978, p. 268.
[17] Di solito si cita un intervallo che va dal 1546 al 1551,
Cfr. C. Rezachevici, op. cit., vol. I, p. 588.
[18] Ma sono conosciuti anche due figli illegittimi, il
futuro principe Iancu il Sassone (1579-1582) e il pretendente al trono
Bogdan–Costantino (m. 1573), Cfr. ªt. S. Gorovei, op. cit., p. 268.
[19] Sono conosciute almeno altre due figlie, una naturale, Maria
(andata in sposa a Giovanni Movilã), e Ana, moglie del voivoda di Valacchia
Vlad l’Annegato (1530-1532), che tuttavia era morta prima del 1546, e
perciò non è citata dal Pandolfi.
[20] In realtà Iliaº Rareº rimase a Costantinopoli per
non più di un anno e quattro mesi, Cfr. C. Rezachevici, op. cit.,
vol. I, p. 589.
[21] Il Pandolfi, in merito al computo degli anni attribuiti
al regno di Iliaº, è più chiaro nei righi successivi, quando a
proposito di Stefano scrive: “il primo anno di sua Signoria lo anno 50 venendo
il 51”.
[22] Cfr. Storia del
popolo romeno, a cura di Andrei Oþetea, Roma 1981; Franco Gaeta, Il Rinascimento e la riforma (1378-1598),
parte prima: Il nuovo assetto dell’Europa
(Nuova Storia Universale dei Popoli e delle Civiltà, vol. IX, parte I),
Torino 1986; A History of Romania, a
cura di Kurt W. Treptow (The Center for Romanian Studies. The Romanian Cultural
Foundation), Iaºi 1996.
[23] Cfr. anche Andrei Veress, Documente privitoare la
istoria Ardealului, Moldovei ºi Þãrii Româneºti, vol. I, Bucarest 1929, p.
54; ªt. S. Gorovei, op. cit., p. 268, n. 25.
[24] Per tale
questione si vedano le pagine successive.
[25] Per il periodo del principato di Alessandro Lãpuºneanu
in Moldavia, il saggio più documentato ed aggiornato dal punto di vista
bibliografico è quello del compianto ricercatore di Iaºi, Gheorghe
Pungã, Þara Moldovei în vremea lui
Alexandru Lãpuºneanu, Iaºi 1994.
[26] Infatti (p.
897): “La ventura di detto Alessandro fu che il primo anno di sua Signoria [il corsivo è mio] morse li
dua fratelli Elias e Costantino di morbo in Turchia, et fu spenta la Casa e
progenie di Pietro Vaivoda, salvo che le femine, che una era maritata al
Vaivoda della Valacchia bassa et l’altra che restava in paese la prese per
moglie detto Signore Alessandro”. Ma
rimanevano anche la figlia Maria, madre di Geremia Movilã (1595-1600,
1600-1606), e i figli illegittimi Iancu, che diverrà principe di
Moldavia nel 1579, e Bogdan–Costantino.
[27] “Alessandro […] regnando non attendeva ad altro, che
acumulare tesoro, e fare ammazzare di mano in mano li Baroni vecchi, et mettere
in quelli ufizii e gradi li sua parenti. Et mercantilmente quante incette erano
da farsi nel suo paese, le faceva fare per suo conto proprio proibendo alli
altri Mercanti, talché al suo tempo si sono rovinati quanti Mercanti usavano
negoziare in suo Paese, e così signoreggiando vicino al Xmo
anno si crede, che avessi congregato meglio, che dua milioni d’oro compreso le
gioie che ne aveva assai, et in capo di X anni fu cacciato di Signoria et la
potente causa è stato per essere lui tanto avido a perseguitare li
ribelli, che alla giornata fuggivano del suo Paese non sapendo in tal
perseguitazione procedere con prudenza, e così come ha proceduto
ignorantemente, è stato da ignorante e goffo cacciato di Signoria, tamen
fu pure tanto accorto che a tempo cavò il tesoro di quel Paese e lo
condusse seco in Turchia” (pp. 897-898).
Forse, fra le fonti del Pandolfi, vi furono anche alcuni mercanti che quelle
vicende avevano vissuto e coi quali il Pandolfi si accompagnava.
[28] “Non voglio mancare di dirvi la causa, per la quale il
detto Signore Alessandro perdé la Signoria quale fu, come è detto, per
perseguitare li Ribelli ignorantissimamente. Pare, che 5 anni fa capitò
in Polonia un certo Greco, quale veniva di Spagna dalla Corte della Cattolica
Maestà di Carlo V quale Greco da putto avea servito un Gentilomo della
stirpe de li Despoti di Servia, quale serviva in la Corte di Cesare, et venendo
tal Gentilomo a morte restò il detto Greco da lui allevato, quale come
astutissimo subito morto il Padrone si attribuì la patente Imperiale del
detto Gentilomo, quali Patente testificavano la sua nobiltà, et con tali
Patenti si misse in via, et passò per la Francia e per l’Alemagna
capitando in Polonia, come è detto, e per tutto si faceva avanti a’ Signori
e Gentilomini, raccomandandosi, che lo aiutassino da potersi intrattenere da
Gentilomo, e perché lui era persona eloquente, e dotato di parecchi linguaggi,
e molto astuto, li era creduto da molti Signori, et altre persone alla giornata
tanto che si andava trattenendo con parecchi servitori onoratamente, ma
finalmente avendo stracco le persone da per tutto si condusse in Moldavia, e
appresentossi alla Corte del sopradetto Alessandro Vaivoda dandosi a conoscere
per Greco, dicendole sua discensione essere da li despoti di Samo in su la
Isola dell’Arcipelago e che era restato andare in Turchia per ottenere qualche
servizio, o preminenza alla Corte del Gran Turco, della qualcosa il Signore
Alessandro lo sconsigliò assai, e più li disse, che a patto
alcuno non vi dovessi andare, perché capiterebbe male, e che li rincresceva di
lui, e appresso lo confortò a restare in Moldavia a suo servizio” (pp.
898-899). Si noti come il Basilikos si presenti ad Alessandro, palesando
l’intenzione di recarsi presso il sultano.
[29] In realtà, nella
lettera, viene fatto il nome del solo Alberto
Laschi [sc. Alberto £aski], nobile polacco su cui ritorneremo più avanti.
[30] “Occorse che lui [sc. Iakobos Basilikos] si amalò,
e per farsi medicare dimandò licenza al Signore Alessandro di andare
sino in Brasciovia Città nella Provincia de’ Sciuli quivi vicina 5 o 6
giornate, la qualcosa Alessandro gli concesse graziosamente, e li fece dare
cavalli e servitori, e danari per la spesa. Del che lui andato in tal terra et
in breve fattosi sano non volse più tornare in Moldavia, anzi se
n’andò alla Regina d’Ungheria ciercando servizio, et non trovando
grazia, se ne tornò in Polonia assai povero, e male avviato” (p. 900).
[31] Ritengo poi che il principe
moldavo ne fosse all’oscuro e che il supposto consenso, da lui dato ai nobili
per l’invio della lettera, fosse un pretesto di questi ultimi per giustificare
un atto col quale essi si consegnavano nelle mani di Ferdinando I. Non è
credibile, infatti, che Alessandro fosse tanto ingenuo da ritenere che i
boiardi fingessero il tradimento e da non comprendere che la lettera sarebbe
stata un’arma potente nelle mani del Basilikos, sia presso i Polacchi, sia
presso Ferdinando I (pp. 900-901): “et il
partito [sc. del Lãpuºneanu] fu che chiamati a sé tutti li Principali Baroni di
Moldavia, fece che scrivessino una lettera come coniurati, e nemici in secreto
di Alessandro chiamassino detto Despota con prometterli sotto loro giuramento
di farlo Signore et ammazzare Alessandro, e questa lettera si soscrissono e
posono il loro sigillo circa 22 delli Principali Baroni [il corsivo
è mio], e mandorono detta lettera finta segretamente al detto Despota,
pure come è detto con il consenso del Signore Alessandro credendosi
ingannarlo e condurlo alla maza, del che sendo il detto Despota astutissimo
conobbe il tratto, ma fingendo di credere loro, fecie risposta a detti Baroni
ringraziandoli, e avisandoli, che si andrebbe preparando quando li parrebbe
tempo si rappresenterebbe alli confini, et li farebbe avisati, et perché tal lettera finta testificava detto
Despota essere il vero erede di Moldavia [il corsivo è mio], del che
lui considerato di quanto favore tal lettera gli fussi si partì di
Polonia segretamente con tal lettera, et andossene a trovare la Cesarea
Maestà di Ferdinando, et la Maestà del Re de’ Romani
raccomandandosi a loro con mostrare detta lettera allegando di aver ritrovata
la sua Patria et il suo Regno, ma per essere povero non aveva il modo a
mettersi a ordine onoratamente per pigliare il possesso del suo Stato”. Si noti anche il numero dei nobili
firmatari della lettera: è il medesimo di quelli che, a detta del
Pandolfi, congiurarono contro Stefano Rareº dalla Polonia e che da lì
rientrarono per porre sul trono il Lãpuºneanu.
[32] Questa l’entità
dell’esercito affidato al Despota (p. 901): “Credendo la Maestà dello Imperatore, e del Re che
quella lettera fussi vera e non finta lo aiutorno di danari, e gente per circa
mille soldati, et con altanti uomini lo accompagnorno Signore Pollacco, il
Signore Alberto Laschi, qual gente in tutto furono circa 2.200 Cavalli, e 600
pedoni mettendosi in via fra li Monti di Ungaria et il confino del Paese di
Polonia, et si condussono in Moldavia”.
Mentre (pp. 901-902): “il Signore Alessandro aveva preparato uno esercito di
giente del Paese Miemizi, cioè Nobili di circa 24 mila Cavalli, et il
Signore Alessandro con la sua persona aveva tutti li Baroni, e la sua Corte
circa 5 mila Cavalli, et 700 Archibusieri a piedi, et 800 Cavalli di Turchi, e
Tartari da lui soldati”.
[33] Per la vita avventurosa di Iakobos Basilikos, Despot Vodã,
si vedano le opere dei suoi biografi analizzate in Viaþa lui Despot Vodã. Istoriografia Renaºterii despre
români, edizione bilingue, introduzione,
cenni biografici, testo latino, traduzione, note, commento e indice a cura di
Traian Diaconescu, Iaºi 1998, passim.
[34] “Et dal principio
di Sua Signoria al termine di 20 mesi [il corsivo è mio] venne
occasione di guerra, perché detto Despota si era inimicato dua gran Baroni
Polachi cioè il detto Signore Laschi, che lo aveva accompagnato a
metterlo in Signoria, et un altro gran Barone, li quali il minacciavano di
cacciarlo di tale Paese, ma il Signore Despota si era fatto tanto superbo, che
non stimava più persona fidandosi nella sua prospera fortuna, et ne la
sua astuzia Grechesca, qual poco gli ha giovato con li Valacchi, li quali
sempre stavano attenti aspettando qualche occasione di tradirlo secondo l’uso
loro, occorse che venne nuova la detto Signore Despota come li dua Signori
Polachi preparavano esercito contro di lui, et da altra parte veniva ancora
altro esercito di Tartari per assaltarli il Paese, del che lui fu necessitato a
mandare esercito a opporsi alli suoi nimici, e così mandò giente
del suo Paese circa 8 mila Cavalli” (p. 903).
[35] Il Pandolfi si riferisce al nobile lituano Demetrio
Wiœniowiecki, che tentò d’impossessarsi del principato di Moldavia tra
l’agosto e il settembre del 1563, andando incontro ad una disfatta; il
Wiœniowiecki, insieme con molti dei suoi fedeli, fu catturato da Stefano Tomºa
I e spedito in catene a Costantinopoli dove fu giustiziato, Cfr. C.
Rezachevici, op. cit., vol. I, p. 674.
[36] “Allora Sua Signoria si trovava essere a un luogo detto
Sociava, e si fece forte in tal Castello, e vettovagliossi per parecchi mesi,
et dì seguente li Valacchi il vennono a sediare con lo esercito, dove
lui si è difeso circa 3 mesi [il
corsivo è mio], et sono seguiti assai disordini in tale Paese, perché
inimicatosi quelli populi contro li forestieri hanno ammazzato assaissimi Unghari
e Taliani e Todeschi, che si trovavano forestieri in quel Paese, e son seguite
crudeltà grandissime, et poi per ultimo il detto Desposta è stato
ammazzato, e perché lui si era indebitato assai, ha ruinato di molti mercanti”
(pp. 904-905).
[37] Cfr. C. Rezachevici, Prima încercare a lui Ion vodã
cel Viteaz de a ocupa domnia Moldovei, ca urmare a “turcirii” lui Iliaº Rareº
(iunie 1551), dupã un izvor polon inedit, in “Revista Arhivelor”, LII, no.
4, 1975, pp. 383-392.
[38] Per tutta questa parte si veda
F. Gaeta, op. cit., pp.
731-734.
[39] Ivan il Terribile, in seguito, tentò nuovamente
di penetrare in Livonia, ma i successi militari che Sigismondo riportò
per contrastarlo lo indussero ad una pace che venne firmata nel 1582 e che
decretò l’abbandono di quei territori da parte dei Russi.
[40] Per le notizie che seguono si veda: Rafael T. Prinke, Michael Sendivogius and Christian Rosenkreutz, in “The Hermetic Journal”, 1990, pp.
72-98.
[41] Cfr. Herman
Zdzislaw Scheuring, Czy krolobojstwo? Krytyczne studium o smierci krola
Stefana Wielkiego Batorego, Londra 1964.
[42] Cfr. Frances A. Yeats, L’illuminismo dei Rosa-Croce,
Torino 1976, pp. 45-48 (traduzione italiana di Idem, The Rosicrucian Enlightenment, 1972), con la relativa bibliografia
sull’argomento; ma anche Paul Arnold, Storia
dei Rosa-Croce, Milano 1994 (traduzione italiana di Idem, Histoire des Rose-Croix, Parigi 1955).
[43] Federico V
(1596-1632), succeduto al padre Federico IV nel 1610, sposò tre anni
dopo Elisabetta, figlia del re d’Inghilterra Giacomo I, e divenne il campione
della resistenza protestante contro gli Asburgo. Si pose, infatti, alla testa
dell’Unione evangelica, accettando la corona di Boemia dopo la ribellione di
questo paese all’imperatore Ferdinando II, ma fu sconfitto nel 1620, nella
battaglia della Montagna Bianca presso Praga, dalla Lega cattolica. Perse
così il regno, riparando in Olanda, quindi rientrò in Germania al
seguito di Gustavo Adolfo di Svezia durante la guerra dei Trent’anni, ma
morì senza essere riuscito a niente. Federico, da Heidelberg, governava
uno Stato calvinista che intratteneva rapporti assai stretti col Ducato del
Württemberg, che era stato retto, fino al 1610, da Federico I, anglofilo e
luterano, in un momento in cui si ricercava una certa unità con i
calvinisti. Nel Württemberg, inoltre, agli inizi del XVII secolo operava Johann
Valentin Andreae, pastore luterano con interesse per il calvinismo, la cui
opera, Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz, fu senz’altro in
rapporto coi manifesti rosacrociani. In questi Stati, già dagli anni
Ottanta del XVI secolo, si intrattenevano non solo rapporti culturali con
l’Inghilterra, ma si perpetuava anche l’alleanza politica fra quel paese e i
principi protestanti tedeschi. Alleanza cui si associava la Francia di Enrico
di Navarra e che mirava alla creazione di una Confederatio militiae
evangelicae da contrapporre alla Lega cattolica. Secondo la Yeats,
l’influenza culturale e il ruolo politico di John Dee, negli anni Ottanta del
XVI secolo, furono determinanti per la creazione di questi rapporti. E non
è improbabile che il Dee, come già faceva in Boemia e in
Germania, ricercasse, anche negli ambienti riformati polacchi, referenti come
il £aski. In questo nobile polacco il Dee trovò chi, da tempo, aveva
intessuto alleanze politiche presso i principi protestanti tedeschi, tentando,
tanti anni prima, di acquistarsi per questo tramite il principato di Moldavia:
inizialmente in accordo con Ferdinando I d’Asburgo, per portare sul trono il
Despota greco, e poi in aperto contrasto con l’alleato, per destituire il nuovo
principe e giocare il tutto per tutto in un tentativo andato a vuoto.
[44] Nell’agosto 1595, in Moldavia regnava Geremia Movilã, un
esponente della nobiltà moldava legata alla Polonia. Geremia, che era
nato da Giovanni e da Maria, figlia naturale di Pietro Rareº, aveva chiesto ed
ottenuto, in accordo con Sigismondo III, la ratifica della propria elezione
agli Ottomani; ma nel maggio 1600, ossia un mese prima della lettera inviata da
Sigismondo III all’imperatore Rodolfo, Michele il Bravo (1593-1601), dopo aver
sottomesso la Transilvania (ottobre 1599), era entrato vittorioso a Suceava
cacciando Geremia, che si era rifugiato in Polonia, e divenendo principe della
Valacchia, della Transilvania e della Moldavia. Tuttavia, nel settembre e
nell’ottobre dello stesso anno, Michele perse i suoi possedimenti e
ricercò l’appoggio imperiale, sia a Vienna che a Praga; ma quando
sembrava che potesse tornare sul trono riunificato dei paesi romeni (agosto 1601),
venne ucciso dagli uomini di Giorgio Basta, comandante generale delle truppe
imperiali.
[45] Cfr. John Dee, Five Books of Mystical Exercises,
Silian 1985, p. 232.
[46] Pisa passò sotto il dominio di Firenze nell’anno
1406, quando il commissario della Repubblica Fiorentina, Pier Capponi, prese
possesso della città. Nel 1543 il duca Cosimo fece ristrutturare
l’università, mentre, nel 1563, elesse Pisa a sede dell’Ordine dei
Cavalieri di Santo Stefano da lui appena fondato. Quanto a Livorno, dopo il
1406, la città passò dai pisani ai genovesi, fin quando Firenze
non l’occupò, nel 1421, per assicurarsi un porto efficiente sul Tirreno.
[47] La città era stata occupata dalle milizie di
Paolo III (Alessandro Farnese, 1467-1549, sommo pontefice dal 1534) il 5 giugno
1540 e così annessa allo Stato della Chiesa.
[48] Bernardo di Niccolò Machiavelli (8 novembre
1503-1565), fratello del destinatario della lettera e Questore pontificio
dell’Umbria dal 1551 al 1565 (esclusi gli anni 1553-1554).
[49] Si tratta naturalmente di Pietro Rareº, il cui nome
spesso è stato associato a quello di Niccolò Machiavelli. Pietro
Rareº fu figlio illegittimo di Stefano il Grande e di Maria, sposata in seconde
nozze con un notabile di Hârlãu, e resse il principato, una prima volta, dal
gennaio 1527 al settembre 1538, quindi per la seconda volta dal febbraio 1541
al settembre 1546, anno effettivo della morte. Fra il 1538 e il 1541 si
susseguirono sul trono un altro figlio di Stefano il Grande, Stefano Lãcustã (settembre 1538-dicembre
1540), e suo nipote Alessandro
Cornea (dicembre 1540-febbraio 1541), figlio di Bogdan III.
[50] Jelena (Elena) Katarina (Caterina) Brankoviæ, sposata in
seconde nozze da Pietro Rareº nel 1530 (probabilmente dopo la morte della prima
moglie Maria) e fatta strangolare da Alessandro Lãpuºneanu nel 1553.
[51] Iliaº, Stefano e Costantino.
[52] La principessa Chiajna, andata in sposa nel 1546 a
Mircea III il Pecoraio di Valacchia, e Ruxandra, che fu presa in moglie nel
1552 da Alessandro Lãpuºneanu e che morì nel 1570.
[53] Iliaº (settembre 1546-giugno 1551), di circa sedici anni
nel 1547, stando al prosieguo della lettera morì per malattia nel 1552
circa, in territorio ottomano, insieme col fratello minore Costantino. In
realtà il primo morì nel 1555 mentre il secondo era già
morto l’anno precedente.
[54] Solimano il Magnifico (1520-1566).
[55] Stefano (giugno 1551-settembre 1552).
[56] Ferdinando I di Asburgo (Alcalà di Henares, 1503 – Vienna, 1564), figlio di
Filippo il Bello d’Austria e di Giovanna la Pazza, fu fratello minore di Carlo V,
che nel 1521 gli concesse il regno d’Austria. Ferdinando prese in moglie Anna
Iagellone, sorella di Luigi II, re d’Ungheria e di Boemia negli anni 1516-1526,
dal quale ereditò il regno di Boemia, ma dovette contendere l’Ungheria a
Giovanni Zápolya (1487-1540), voivoda di Transilvania e poi re d’Ungheria. Dopo
l’abdicazione di Carlo V (1556), Ferdinando divenne imperatore, mentre al
nipote Filippo II (1527-1598) rimasero i possedimenti spagnoli.
[57] Sigismondo II Augusto (1548-1572).
[58] Giovanni Joldea (settembre 1552).
[59] Alessandro
Lãpuºneanu (settembre 1552-novembre 1561, e poi nuovamente sul trono dal marzo
1564 al marzo 1568), figlio illegittimo di Bogdan III e dunque fratello di
Stefano il Giovane e Alessandro Cornea.
[60] Mircea III il
Pecoraio (marzo 1545-novembre 1552; maggio 1553-febbraio 1554; gennaio
1558-settembre 1559).
[61] Despot Vodã, Ioan
Iacob Eraclid (novembre 1561-novembre 1563), ossia Iakobos Basilikos o Jacobus
Basilicus Marchetus, che prese parte alla battaglia di Renty (1553), sotto le
insegne di Emanuele Filiberto, e che scrisse il De Morini, quod Terouanam vocant, atque Hedini
expugnatione deque proelio apud Rentiacum et omnibus ad hunc usque diem vario
eventu inter Caesarianos et Gallos gestis, brevis et vera narratio, Iacobo
Basilico Marcheto, Despota Sami authore, Antverpiae, apud
Ioannem Bellerum, 1555, opera tradotta in francese nello stesso anno:
Jaques–Basilic Marchet, Un brief et vray
récit de la prinse de Térouane et Hédin, avec la bataille faitte à Renti
et de tous les actes mémorables faits depuis deux ans en ça, entre les gens de
l’Empereur et les François, par Jaques Basilic Marchet …, Anvers, Impr. de
C. Plantin, 1555 (ristampa a Parigi, M. L. Techener, 1874), Cfr. Biblioteca Belgica sive virorum in Belgio
vita scriptisque illustrium catalogus … cura et studio Joannis Francisci
Foppens Bruxellensis …, 2 voll., Bruxellis 1739, s. v. Jacobus Basilicus Marchetus, t. I, p. 501; Constantin N. Sathas, Documents inédits relatifs à
l’histoire de la Grèce au Moyen âge,
vol. IX, Parigi 1890, p. XXVII.
[62] La Serbia, dopo la battaglia di Varna (1444), era
caduta via via con Giorgio Brankoviæ (1427-1456) sotto il dominio ottomano,
fino alla riduzione in provincia nel 1459. Forse la famiglia Brankoviæ, alla
quale apparteneva Jelena (Elena) Katarina (Caterina), fatta strangolare dal
Lapuºneanu perché vedova di Pietro Rareº, appoggiò da Vienna la missione
del Basilikos. E questi, forse, fu scelto proprio per il fatto di aver “servito
un Gentilomo della stirpe de li Despoti di Servia”.
[63] Naturalmente Braºov in Transilvania; gli Sciuli sono i Siculi o Szeklers.
[64] Isabella, figlia del re di Polonia Sigismondo I
Iagellone (1506-1548) e di Bona Sforza, andò in sposa al re d’Ungheria,
Giovanni Zápolya, che la lasciò vedova nel 1540. Con l’annessione dell’Ungheria
all’Impero Ottomano, nel 1541, il figlio minorenne di Giovanni e Isabella,
Giovanni II Sigismondo Zápolya (1541-1571), fu fatto principe della
Transilvania con la madre come reggente; ma nel 1551 Isabella e il giovanissimo
figlio dovettero rinunciare al principato transilvano, ricevendo in cambio due
principati nella Slesia da Ferdinando I d’Asburgo. Nel 1556, però, con
l’aiuto delle forze coalizzate di Alessandro Lãpuºneanu, principe di Moldavia,
e di Patraºcu il Buono, principe di Valacchia, Isabella rientrò col
figlio ad Alba Iulia da dove, insieme col tutore Péter Petrovics, resse il
principato di Transilvania fino al 1559. A Giovanni II Sigismondo Zápolya
successe, grazie alla fazione filo-ottomana, Stefano Báthory che, nel 1575,
ottenne anche la corona di Polonia.
[65] Alberto £aski (1536-1603), conte palatino e pretendente
al trono moldavo.
[66] Il fiume Prut che attualmente segna il confine fra la
Romania e l’ex Repubblica sovietica di Moldavia.
[67] Probabilmente l’ex colonia genovese di Chilia, sul Mar
Nero, che con Moncastro (Cetatea Albã) era stata conquistata da Bayezid II
(1481-1512) nel 1484.
[68] Naturalmente Suceava, nell’odierna Romania.
[69] Come ho detto, il computo degli anni di regno del Despota
è abbastanza preciso, giacché, se si sommano questi tre mesi, a cavallo
fra l’estate e l’autunno del 1563, ai venti che il Pandolfi ha già
menzionato, abbiamo all’incirca un intervallo che va dal novembre 1561 al
novembre 1563. È probabile, a giudicare dal tono della lettera in questo
punto, che il Pandolfi sia stato in Moldavia proprio in questo torno di tempo
(essendo tornato in Italia nel dicembre di quell’anno), e forse, come abbiamo
detto, fra i motivi che lo spinsero al viaggio, ve ne furono anche di natura
politica e commerciale.
[70] Demetrio Wiœniowiecki.
[71] Si allude forse a Giovanni il Terribile (1572-1574), che
aspirava al principato fin dal 1551. Stefano Tomºa I prese il potere a partire dall’agosto
1563 e lo tenne fino al marzo 1564, ossia circa un mese oltre la data della
nostra lettera, mentre il Pandolfi dice di essere tornato in Italia per il
Natale del 1563.
[72] In questo periodo Ivan IV il Terribile (1533-1584)
fondava l’autocrazia russa, assumendo per primo il titolo di Zar, e
perfezionava il processo di unificazione dei territori russi, iniziato dal
nonno, Ivan III (1440-1505), e continuato sotto il padre, Vasilij III
(1505-1533), facendo vassalli i
cosacchi del Don, sconfiggendo i Tartari del Volga, spingendo i suoi domini
fino agli Urali ed occupando la Siberia con l’aiuto dei Cosacchi assoldati da
Grigorij Stroganov.