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La lettera di Antonio Pandolfi a Piero Machiavelli sulle vicende del principato di Moldavia negli anni 1547-1563

(cod. Pal. 815 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze)

 

 

Gianluca  Masi,

Università degli Studi di Firenze

 

Il codice Palatino 815 (olim 692-21,2), conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e copiato negli anni Venti del XVIII secolo, è certamente meglio conosciuto per la storia della trasmissione dell’epistolario e delle opere di Niccolò Machiavelli (1469-1527)[1]. Tuttavia, nelle ultime pagine del codice (893-906), aggiunta al corpus machiavelliano si trova la lettera che un certo Antonio Pandolfi indirizzò da Perugia, in data 4 febbraio 1564, a Petrum de Machiavellis Luogotenente delle Galere di Sua Eccellenza a Liorno [sic][2], nella quale il mittente traccia una breve storia del

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principato di Moldavia negli anni che vanno dai mesi immediatamente successivi alla morte di Pietro Rareº (1546) fino all’autunno del 1563[3].

Il destinatario della lettera, Piero Machiavelli, è certamente uno dei figli del più celebre Niccolò. Quest’ultimo sposò, nell’autunno del 1501, Marietta di Ludovico Corsini da cui ebbe, in ordine: Primerana (o Primavera, non sopravvissuta), Bernardo (8 novembre 1503-1565), Lodovico (circa 1504-1530), Guido (1512 o 1513-15 ottobre 1567), Piero (4 settembre 1514-29 ottobre 1564), Bartolomea (Baccia o Baccina, che andò in sposa a Giovanni Ricci) e Totto, morto in tenera età. Il resoconto delle ultime ore della vita di Niccolò Machiavelli ci è pervenuto proprio in una lettera del figlio Piero, datata 22 giugno 1527 e spedita da Firenze a Francesco Nelli, professore dello Studio pisano. Queste le parole di Piero, che insieme col fratello maggiore Bernardo aveva assistito il padre, per tredici anni, nel ritiro di S. Andrea in Percussina: “Spectabili viro Francisco Nellio avocato florentino. In Pisa. Carissimo Francesco. Non posso far di meno di piangere in dovervi dire come è morto il dì 22 di questo mese Niccolò, nostro padre, di dolori di ventre, cagionati da uno medicamento preso il dì 20. Lasciossi confessare le sue peccata da frate Matteo, che gl’a [sic] tenuto compagnia fino a morte. Il padre nostro ci à lasciato in somma povertà, come sapete. Quando farete ritorno qua su vi dirò molto a bocca. Ò fretta e non vi dirò altro, salvo che a voi mi raccomando. 22 di Giugno 1527. Vostro parente[4]. Piero Machiavelli”[5]. Inoltre, nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, fra le Carte Machiavelli, sopravvivono una notizia biografica su Piero scritta dallo stesso Guido, che fu sacerdote e letterato, e varie lettere e carte riguardanti i figli di Niccolò Machiavelli; da queste fonti si possono desumere notizie interessanti, in particolare, su Piero[6]. Questi, scrive Guido nella sua Vita, anzi Cenni sulla vita di Pier Machiavelli compilati dal

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Sacerdote Guido suo fratello (c. 188): “nacque in Firenze l’anno 1514 a dì 4 di 7bre dum sol oriebatur”, e non fu avviato dal padre agli studi letterari, giacché sembrava più portato per la vita attiva. Le vicende nella Vita immediatamente seguenti, che Guido attribuisce a Piero e che riguardano il suo coinvolgimento nell’assedio di Firenze (1530), probabilmente vanno attribuite a Lodovico, che infatti perì in quell’occasione. Successivamente Piero se ne andò a Vienna “con quello esercito che ne cacciò il Turco [anni 1529 e 1532]. Da quel tempo in qua è sempre vissuto in remotissimi paesi, cercando tutta l’Europa e i suoi mari sino al fiume Tanaj [sc. il Don], sì come ancora gran parte dell’Asia e dell’Africa […]”, e in questi viaggi naufragò quattro volte, tre volte fu catturato dai corsari musulmani e cinque volte dagli Ottomani. Dal 1556, Piero passò al servizio del duca Cosimo[7], che in questo periodo gran cura riservava alla marineria, scalando le gerarchie militari fino a Commissario e poi a Luogotenente generale della flotta. Dalle lettere abbiamo conferma delle notizie contenute nella Vita e possiamo ricavarne di nuove: Piero, nel 1544, prese gli ordini minori a Roma, giacché Guido, a causa di una grave malattia che lo portò quasi alla morte, aveva rinunciato ai suoi benefici in favore del fratello (c. 122). In data 2 dicembre 1555 “di Kush-Adassi [?]”, Piero, “minor fratello”, scrive una lettera a Guido e Bernardo per ragguagliarli sulle vicende della sua cattura da parte di alcune navi ottomane e per chieder loro di essere riscattato (c. 52). L’anno dopo, da una lettera datata 9 dicembre 1556 ed inviata ad Agnolo Biffoli (1504-1573), funzionario della segreteria medicea, Guido risulta impegnato nel difficile compito di cercare fondi per il riscatto del fratello, già ufficiale della flotta di Cosimo e per la terza volta prigioniero degli Ottomani (c. 122). Nella stessa lettera viene nominato anche Bernardo (“mio fratello in Perugia” scrive Guido, “annoso e infermo”) che svolse, fra il 1551 il 1565, con una pausa negli anni 1553-1554, il suo ufficio di Questore pontificio nella città umbra[8]; ed anche in una lettera a lui indirizzata da Giuliano de’ Ricci, in data 9 dicembre 1561, Bernardo è detto Tesoriere dell’Umbria (c. 58bis)[9]. A partire dall’ottobre 1559 è testimoniata, nel fondo della Biblioteca Nazionale

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Centrale, una corrispondenza personale di Piero col duca Cosimo (cc. 54-60), dalla quale apprendiamo la data di nomina del Machiavelli, il 3 agosto 1560, a “Capitano Generale delle Galere Toscane” (c. 57). Poco tempo prima, il nostro Piero aveva partecipato alla cosiddetta impresa delle Gerbe (Jerba, Tunisia), conclusasi con la sconfitta di una flotta cristiana per opera del corsaro ottomano Draghut (maggio 1560), di cui resta una testimonianza in una lettera inviata da Piero a Marco Plinio Thomacello (c. 188). E sempre nello stesso anno usciva a Firenze un trattatello del nuovo Capitano generale della flotta toscana, intitolato: Disegno al duca Cosimo de’ Medici per cacciar di Toscana francesi e spagnuoli e per instituire una Armata Toscana[10]. Nel 1562, Piero divenne anche cavaliere di Santo Stefano, il nuovo ordine fondato da Cosimo, e in una lettera datata 12 aprile 1563, Guido chiede che il fratello si interessi da Livorno della carriera del giovane Girolamo Machiavelli, che infatti, nel maggio dello stesso anno, fu fatto cavaliere a sua volta (c. 117). Dal carteggio fra Piero e Cosimo risulta poi una lettera del 25 settembre 1563, nella quale vi sono postille marginali di mano dello stesso duca (c. 59); mentre l’ultima lettera di Piero a Cosimo (c. 60), almeno nel carteggio della Biblioteca Nazionale Centrale, è in data 20 luglio 1564, ossia pochi mesi dopo quella del Pandolfi, che costituisce l’oggetto del nostro studio. Inoltre un gruppo di carte contenente alcuni epitaffi, una lettera e un’ode di autore ignoto: Ad Vidum Maclavellium in Petri fratris obitum (c. 118, cc. 169-177), è dedicato alla morte di Piero. Questi dai suddetti epitaffi risulta morto, il 29 ottobre 1564, di ritorno da una spedizione contro gli Ottomani, quella del Pignone (Peñón) in Africa: “ad Abylam […], morbo tandem quo fuit ad Calpem graviter affectus”[11]. Anche nella Vita, Guido ricalca nella sostanza queste notizie e precisa che Piero si ammalò nei pressi di Gibilterra giungendo a morte dopo trenta giorni. Ma Guido tace, oltre alle sconfitte patite dal fratello, fra cui quella dell’Argentale (1560), anche un episodio aggiunto nella

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c. 188 da una mano successiva, secondo cui Piero: “Fu fatto avvelenare dal Signore di Piombino col quale gareggiava al governo delle galere […] l’avvelenò un suo paggio nel darli bere”. E questi fatti accadevano ad otto mesi circa dalla data della nostra lettera. Da quest’ultima (p. 893), infine, a conferma dei viaggi citati nella Vita scritta da Guido, ricaviamo, più in particolare, che Piero si recò anche in Polonia e in Moldavia: “dove”, scrive il Pandolfi, testimoniandoci un collegamento assai interessante fra il figlio di Niccolò Machiavelli e questi paesi, “la Signoria Vostra è stata già tempo fa più volte”.

Per quanto riguarda il mittente della nostra lettera, del quale al momento non sono note le ragioni del viaggio in Polonia e Moldavia[12], è probabile che vada identificato con Giovanni Antonio Pandolfi, pittore marchigiano (Pesaro, 1540 circa – Perugia, 1581/1582), di cui si hanno notizie documentate per gli anni 1561-1581 e che fu padre del più noto pittore Giovanni Giacomo Pandolfi. Giovanni Antonio lavorò prevalentemente in Umbria, in particolare a Perugia, e da questa città risulta spedita la nostra lettera, un documento che si rivela, così, di una certa importanza anche per la vita di questo pittore. Già le prime righe della lettera, infatti, contribuiscono a chiarire alcuni aspetti della biografia del Pandolfi. Lo stesso incipit: “Questa sarà per fare avisata la Signoria Vostra qualmente io arrivai in Italia la Pasqua di Natività prossima passata venendo del regno di Polonia, e subito andai a Fiorenza, dove non ero stato 22 anni fa [il corsivo è mio], e son stato lì una settimana”, permette di stabilire con certezza, al 1541, la data di nascita del pittore marchigiano, essendo il Pandolfi tornato in Italia dalla Polonia per il Natale del 1563. Inoltre le parole che seguono (pp. 893-894): “[…] così mi partii di Firenze, e preso il camino d’Ancona per via di Perugia, dove mi trovo al presente in casa il Signoria Vostra Tesauriere vostro fratello che per sua grazia mi ha fatto, e fammi assai carezze, e così penso star qui sin a Carnovale prossimo al più lungo, poi mi partirò per seguire il mio viaggio, dove a Dio piaccia indirizzarmi prosperamente”, chiariscono il tempo e il modo in cui il Pandolfi, ospite fra il 1563 e il 1564 del Tesoriere pontificio dell’Umbria, fratello

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di Piero, ossia di Bernardo Machiavelli (m. 1565), si trovò in quella città in cui, pur pensando di proseguire per Ancona, avrebbe svolto gran parte della sua attività fino alla morte. Nel 1566, infatti, il Pandolfi si trovava ancora a Perugia e in quella città dipinse una Madonna e Santi per il Palazzo del Popolo; mentre, fra il 1573 e il 1575, lavorò alla sacrestia del Duomo della medesima città, realizzando gli affreschi del Martirio di S. Lorenzo, dei Dottori della Chiesa, dei Santi Ercolano e Costanzo e delle Storie bibliche. Rimangono anche un’Adorazione dei Magi, a Foligno, e gli affreschi a lui attribuiti nel Palazzo della Cornia a Castiglion del Lago (Perugia); mentre sono andate perdute le opere realizzate in collaborazione con Federico Zuccari per gli apparati delle nozze di Francesco Maria II della Rovere (1571)[13].

Circa il contenuto della lettera scritta dal Pandolfi[14], ci troviamo di fronte ad un documento di un certo interesse, che, per un periodo della storia della Moldavia assai importante, ma anche per certi aspetti poco conosciuto, traccia una galleria di principi a partire dall’erede al trono di Pietro Rareº, Elias, ossia Iliaº (morto fra il 1552 e il 1554, secondo il Pandolfi, ma in effetti nel 1555[15]). Questi, a detta della nostra lettera (pp. 894-895): “di età d’anni 20”[16] salì al trono il 3 settembre 1546 e vi rimase fino alla metà di maggio del 1551[17], succedendo al padre “vecchio di età circa 90 anni [sic]”. Pietro Rareº, oltre a Iliaº, lasciava altri due figli maschi: Stefano (m. 1552) e Costantino (m. fra il 1552 e il 1554, secondo il Pandolfi, ma la data del decesso è precedente al marzo 1554)[18],

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quindi una moglie e due figlie, di cui il Pandolfi tace i nomi; ma, nel caso della moglie, si tratta naturalmente di Jelena (Elena) Katarina (Caterina) Brankoviæ (m. 1553), mentre le due figlie sono quasi certamente Chiajna (andata in moglie nel 1546 a Mircea III il Pecoraio di Valacchia) e Ruxandra (m. 1570 e moglie di Alessandro Lãpuºneanu dal 1552)[19]. Iliaº: “il quale era stato circa 4 anni a Costantinopoli per ostaggio al tempo del Padre”[20], è caratterizzato dal Pandolfi come un principe “usato molto a’ costumi turcheschi”. Non meraviglia molto dunque che egli, “il terzo anno [sic] di sua Signoria[21] fingendo esserli necessario d’andare a baciare le mani al Gran Turco”, andasse a Costantinopoli, con un tesoro – a detta del Pandolfi – di settecento mila ducati e in compagnia di alcuni nobili a lui fedeli, per sposare la figlia di un Pascià e per esser fatto sanjak bey a Silistra.

In realtà questo ritratto sommario rispecchia, probabilmente, il punto di vista delle fonti locali da cui il Pandolfi attinse le sue notizie; fonti che, in modo semplicistico, dovevano attribuire tout court, alle simpatie di Iliaº per i costumi degli Ottomani, la crisi vissuta dalla Moldavia in un momento in cui essa, già dopo la prima fase del regno di Pietro Rareº (1527-1538), aveva di fatto perso la propria indipendenza a seguito della politica espansionistica perseguita dall’Impero Ottomano. Il principe moldavo infatti, all’inizio del suo regno, aveva seguito le orme dei predecessori Bogdan III il Cieco (1504-1517) e ªtefãniþã (Stefano il Giovane) (1517-1527), i quali avevano fatto sì che la Moldavia conservasse quel prestigio e quella indipendenza, pur sempre relativa nella condizione formale di stato vassallo degli Ottomani, che Stefano il Grande (1457-1504) era riuscito a garantirle. Perciò il figlio illegittimo di Stefano, una volta salito al trono, si era prefisso principalmente due obiettivi fra loro complementari: perseguire il consolidamento del potere centrale, a scapito della grande nobiltà, e difendere l’autonomia del paese dalle mire espansionistiche delle potenze confinanti, e specialmente dell’Impero Ottomano. Ma poi, negli anni successivi, il principe moldavo si era interessato soprattutto alle potenze cristiane confinanti col suo paese: aveva conteso la regione della Pocuþia alla Polonia, venendo sconfitto ad Obertyn (1531), e si era intromesso nella contesa per la Transilvania che era sorta fra Ferdinando I d’Asburgo (1503-1564), ancora re dell’Austria, e Giovanni Zápolya, voivoda transilvano e poi re d’Ungheria (1529-1540), appoggiando ora il primo, ora il secondo, e riuscendo a controllare alcune regioni oltre i Carpazi. Ma il tracollo dell’Ungheria, e conseguentemente della Transilvania, verificatosi in diverse fasi a partire da Mohács (26 agosto 1526) fino al 1541 e alla creazione del pasciallato di Buda da parte di Solimano il Magnifico (1520-1566), fece sì che le frontiere dei due imperi, quello asburgico e quello ottomano, si fronteggiassero direttamente; ma

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vide anche, su quel fronte, un progressivo allentamento della pressione asburgica, a causa dei problemi interni dovuti alla Riforma e al conflitto esterno con la Francia, che anche in passato aveva incoraggiato gli Ottomani ad avanzare in Ungheria. In queste condizioni la stessa Moldavia, nel 1538, stretta fra gli Asburgo, gli Ottomani e la Polonia, era andata incontro al tracollo. Infatti, pur avendo sconfitto i Tartari a ªtefãneºti e respinto i Polacchi, Pietro Rareº era stato tradito proprio dai suoi boiardi, che avevano accettato da parte del Solimano l’imposizione di Stefano Lãcustã (1538-1540). Pietro Rareº era stato riammesso al trono, negli anni 1541-1546, dopo un interregno di Alessandro Cornea (1540-1541), ma l’indipendenza del paese era ormai persa, dopo che con Radu di Afumaþi (1521-1529) anche la Valacchia aveva accettato la dominazione ottomana, pur ottenendo garanzie di piena autonomia politica[22].

La perdita dell’indipendenza da parte dei Principati Romeni aveva, fra le sue cause determinanti, anche il continuo ed esiziale contrasto fra potere centrale e grande nobiltà, che rendeva vano ogni sforzo sia di opposizione, sia di aggregazione delle forze. In questo clima va situata la testimonianza dell’autore della nostra lettera, il quale sembra riflettere una visione politica assai vicina a quella espressa dalla grande nobiltà moldava, avversa all’accentramento del potere nelle mani del principe. In quest’ottica sembra di dover inscrivere il giudizio del Pandolfi sul regno di Stefano Rareº (1551-1552), figlio di Pietro Rareº e successore del fratello Iliaº (pp. 895-897). L’autore della lettera fa iniziare il regno di Stefano, anch’egli “di età d’anni 20”[23], a cavallo fra il 1550 e il 1551, quand’era chiaro che il fratello si sarebbe trattenuto a Costantinopoli, e caratterizza in modo assai negativo il nuovo principe, descrivendolo: “di persona membruto, et robustissimo, crudele, e bestiale a maraviglia”; mentre il punto di vista dei boiardi pare esprimersi nel seguente giudizio (p. 895): Alessandro, “il primo anno di sua Signoria lo anno 50 venendo il 51 fece armare tutto il Paese, perché in Ungheria si sentiva certi romori d’arme, e vi era venuto un esercito del Serenissimo Re de’ Romani Ferdinando e la fama era di aspettazione di grande imprese contra li Turchi, talmente che detto Signore Stefano [Rareº] volonteroso, et coraggioso a meraviglia, per non essere l’ultimo ad assaltare la Turchia voleva passare con le sue genti il Danubio, li Baroni visto la sua temerarietà non restavano di pregarlo [il corsivo è mio], che si dovessi intrattenere l’impresa 2 o 3 mesi aspettando la primavera per avere pastura per li cavalli et così il suasono ad aspettare del che avanti che venisse il tempo opportuno li romori di Ungheria raffredorno, talché detto Signore Stefano si risolvette lasciare l’impresa”. Ma Stefano Rareº (p. 896), “per essere lui di natura inquieta”, se la prese con i mercanti ottomani e le loro carovane, facendo distruggere per giunta le chiese degli Armeni. Inoltre: “volse fare ammazzare la Madre per torli il tesoro, et per qualche

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altra causa, ma li Baroni con assai preghiere lo distolsono da tale fantasia [il corsivo è mio], fece tagliare la testa a gran parte de’ suoi baroni, pigliava tutto quello li bisognava con superchieria di ciascheduna persona per il suo paese”. Adducendo a pretesto queste intemperanze, dunque, il Pandolfi sembra giustificare la congiura di una parte della nobiltà moldava che portò all’uccisione di Stefano, con la complicità di “circa altri 22 Baroni ribelli pure del loro sangue, quali si trovavano essere fuggiti in Polonia” e che richiesero l’intervento del re di quel paese, Sigismondo II Augusto (1548-1572). Lo sviluppo della congiura, almeno nel racconto del Pandolfi, sembra testimoniare una breve fase in cui i nobili moldavi cercarono l’aiuto della Polonia, probabilmente, per prevenire l’avvicinamento del principe a Ferdinando I d’Asburgo, e meno verosimilmente per emanciparsi dal controllo ottomano, in un momento in cui il re polacco ricercava l’amicizia del Solimano in funzione antirussa[24]. Scrive il Pandolfi (pp. 896-897): “Dovevano li detti Ribelli eleggere in fra di loro il nuovo Signore, et condurlo in Moldavia e così feciono col favore del Serenissimo Re di Polonia, che li fece accompagnare da un suo esercito, subito che li altri Baroni ammazzorno il detto Stefano non avendo ancora nuova, che quelli di Polonia fussino entrati in Paese, feciono un Cortigiano Signore per forza […], il quale Signore regnò 4 giorni, perché venendo l’altro di Polonia fu necessario deporlo, ma furon tanto galanti che non lo ammazzorno, ma bene li tagliorno il naso, e li orecchi, e lassornolo andare atteso che uomo così segnato non vogliono che possa essere lor Signore. Il 3zo figlio di Pietro Vaivoda minore di tutti chiamato Costantino si trovava a Constantinopoli col fratello Turco, a la Madre loro in Moldavia, la quale sen’andò in Monasterio, e si misse l’abito monacale, e fu lassata di così per allora”. Da un lato, dunque, il terzo figlio di Pietro Rareº, Costantino, si trova a Costantinopoli in compagnia del rinnegato Iliaº, mentre la vedova di Pietro, rimasta in Moldavia, decide prudentemente di ritirarsi in convento; dall’altro i nobili ribelli, dopo un interregno affidato a Giovanni Joldea (settembre 1552), accettano l’imposizione sul trono del boiardo Pietro, già al servizio della corte moldava ma adesso in esilio volontario in Polonia, che assume il nome di Alessandro Lãpuºneanu[25] (1552-1561 e 1564-1568) e si trova a regnare col favore di Sigismondo II Augusto e con il consenso ottomano, come accadrà più tardi a Geremia Movilã.

Il nuovo principe (p. 897): “per allora [1552-1554, un momento fatale per la dinastia di Pietro Rareº] cominciò a regnare molto benignamente, ma forzato dalli baroni bisognò consentissi a fare strangolare la monaca già moglie di Pietro Vaivoda, alla quale trovò tesoro per 300 mila ducati”, quindi tolta di mezzo la vedova, Jelena (Elena) Katarina (Caterina) Brankoviæ, Alessandro all’inizio del suo regno pare assistere, forse non incolpevole, alla provvidenziale estinzione per malattia della casata di Pietro Rareº, di cui pensa bene di prendere in moglie la seconda figlia, che sappiamo essere Ruxandra, essendo l’altra (Chiajna) già sposa del voivoda di Valacchia (Mircea III il Pecoraio)[26].

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Ma anche Alessandro Lãpuºneanu sembra volersi emancipare dal controllo dei boiardi ricercando l’appoggio del Solimano: anch’egli, dunque, viene caratterizzato in modo assai negativo nel rapporto che instaura con la grande nobiltà finché, essendo cacciato dal paese, non decide di rifugiarsi definitivamente a Costantinopoli, come a suo tempo aveva fatto Iliaº[27]. Comunque, la cacciata di Alessandro Lãpuºneanu pare causata più propriamente, scrive il Pandolfi, da una vicenda che apre il capitolo forse più interessante della nostra lettera (pp. 898-902). Durante il principato di Alessandro, infatti, si presentò alla corte moldava un greco, naturalmente Iakobos Basilikos, poi Despot Vodã (Giovanni Iacob Eraclid, 1561-1563), il cui ritratto nella lettera è delineato fin dall’inizio in senso fortemente negativo, certo a causa della cattiva fama che questo principe riscosse poi presso i boiardi e che dovette influenzare il resoconto del Pandolfi[28]. In realtà il greco tentò, seppur

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debolmente e senza effetto, di strappare la Moldavia al controllo ottomano, anche se dietro di lui operavano l’Impero asburgico, alcuni principi protestanti tedeschi e parte della nobiltà polacca[29], che gli determinavano, appunto, l’ostilità dei boiardi moldavi. Assai ingenua dunque, o apparentemente tale, risulta la versione del Pandolfi, quando accredita, anche qui per influenza delle sue fonti, la tesi della malattia di Iakobos Basilikos come causa della sua partenza dalla corte moldava, da dove il greco prima raggiunse Braºov, poi si recò presso Isabella, reggente per il figlio Giovanni II Sigismondo Zápolya del principato di Transilvania, ed infine se ne andò in Polonia[30]. Probabilmente il greco, che proveniva in Moldavia, dalla corte di Vienna, forte dell’appoggio di Ferdinando I d’Asburgo e dei principi protestanti tedeschi, cercava di intessere un’alleanza, la più vasta possibile, in funzione antiottomana, e perciò si recò presso Isabella e in Polonia. In seguito il Lãpuºneanu, resosi conto della situazione (p. 900): “secondo il suo costume di perseguitare le persone, cominciò a perseguitarlo con farli taglia di 4 mila ducati, et con mill’altri aguati, et tradimenti senza dare mai posa, tanto che quanto più il perseguitava, gli accresceva ogni giorno la reputazione e per ultimo detto Alessandro inconsideratamente si risolvette a pigliare uno sciocco partito per ingannare detto Greco, quale si facieva chiamare despota”. Ma anche il resoconto delle vicende successive, per come è svolto dal Pandolfi, tradisce la verità di una congiura ordita da alcuni nobili moldavi per detronizzare Alessandro con l’aiuto dei Polacchi, degli Asburgo e dei principi tedeschi. È davvero improbabile, infatti, che la lettera sottoscritta dai boiardi in appoggio al greco, fosse “finta” come scrive il Pandolfi[31]; e lo dimostra il fatto che Ferdinando I d’Asburgo dette l’aiuto logistico previsto

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al Despota e soprattutto che, giunti a battaglia presso il fiume Prut, su territorio moldavo, i nobili tradirono il Lãpuºneanu costretto, come al solito, a riparare in territorio ottomano, a Chilia sul Mar Nero e poi a Costantinopoli. Troppo esigue, inoltre, le forze di cui fu provvisto il Basilikos per non ritenere che Ferdinando I d’Asburgo, i principi tedeschi e la nobiltà polacca non fidassero già in anticipo nella defezione dei Moldavi[32]. Infatti (p. 902): “il Signore Alessandro fece comandare alli sua 14 mila Cavalli del Paese, che affrontassino li nimici, li quali Paesani non si volsano muovere, anzi risposano non volere combattere dicendo, combatta il Re S. con li sua Baroni, che hanno fatte tante ingiustizie, il Signore inteso questo fecie comandare loro che si ritirassino, e che sen’andassino via dubitando, che non si unissino con li nimici loro se n’andorno ritirandosi circa 20 miglia lontano abbandonando il Signore Alessandro, il quale con la sua Corte di 5 mila Cavalli, et Archibusieri, e Turchi, appiccorno la zuffa con li inimici Despota, et Signore Laschi, et in breve spazio il detto Alessandro fu rotto, perché in fatti li sua uomini del Paese non lo amavano, tamen lui fuggendo con alquanti sua amici fedeli si salvò, e andossene Alchilli [sic] terra turchesca, dove per parecchi giorni avanti aveva fatto inviare la sua moglie, et li figliuoli con il tesoro bene accompagnato, e di lì se ne andorno poi a Costantinopoli”.

Fuggito il Lãpuºneanu e salito sul trono il Despota[33], si comprende come la nobiltà moldava intendesse emanciparsi dal controllo straniero. Infatti, già poche settimane più tardi, si scopriva una congiura di boiardi, in seguito giustiziati, mentre il nuovo principe si circondava di guardie scelte, per lo più di provenienza ungherese, italiana e tedesca. Ma è pur vero che l’alleanza fra nobiltà polacca e Asburgo era destinata a venir meno, giacché i Polacchi, con l’appoggio della nobiltà moldava, cercarono di spodestare il Despota, il quale, da parte sua, faceva il gioco degli Asburgo[34]. Venuto dunque a battaglia con i

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suoi avversari, il nuovo principe fu convinto dai suoi boiardi ad impiegarvi anche la guardia scelta, la quale, giunta al campo, fu trucidata dai Moldavi. Avvertito del tradimento, il Despota si arroccò nel castello di Suceava, dove resistette fino al novembre del 1563, quando egli stesso fu ucciso e con lui molti dei soldati imperiali. Ma anche i Polacchi, come testimonia il Pandolfi, non riuscirono a porre, neppur parzialmente, la loro egemonia sul paese, che continuò a rimanere sotto il controllo dell’Impero Ottomano; infatti (p. 905): “Un Barone Polacco[35] ebbe audacia di entrare in tal Paese con circa 4 mila Cavalli per cimentare di farsi Signore, il quale è capitato male, et li hanno ammazzato tutte le genti ancora, che avessino fama d’essere gente eletta e pochi ne sono campati”. Certamente il computo degli anni che il Pandolfi attribuisce al regno del Despota è piuttosto preciso, se si tien conto delle indicazioni cronologiche da lui date per i principi precedenti. Infatti, se ai venti mesi già conteggiati dal Pandolfi (p. 903): “Et dal principio di Sua Signoria [sc. del Despota] al termine di 20 mesi venne occasione di guerra [il corsivo è mio]”, si aggiungono, a partire dal novembre del 1561, i tre mesi fra estate e autunno nei quali il Despota resistette a Suceava[36], giungiamo esattamente al novembre 1563 e ai giorni in cui il principe greco fu ucciso. Questa precisione, il numero delle pagine dedicate nella lettera al Despota (pp. 898-905) ed il tono generale di questa parte, mi fanno ritenere che il Pandolfi fosse nel paese in quegli anni (1561-dicembre 1563), forse proprio quando ormai la parabola del principe greco era al suo termine, e forse, per ragioni politiche, commerciali o di altra natura, entrando in contatto, oltre che con i moldavi vicini ai congiurati, anche con alcuni personaggi del contingente polacco.

Con queste vicende si conclude, almeno per la parte destinata alla Moldavia (pp. 893-905), la lettera che il Pandolfi inviò da Perugia nel febbraio del 1564. Il Pandolfi comunque dà ancora conto della nomina di un nuovo principe nell’autunno del 1563, un

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tale Ioanni da porre a cavallo del principato di Stefano Tomºa I (agosto 1563-marzo 1564); e qui la nostra fonte allude forse a Giovanni il Terribile, futuro principe di Moldavia (1572-1574), di cui sembra testimoniare un tentativo, finora ignoto, di raggiungere in questo periodo quel trono al quale, del resto, già dal 1551 aspirava[37]. A questo punto la lettera passa a trattare, assai brevemente, della guerra in Lituania fra il re di Polonia, Sigismondo II Augusto (1548-1572), e Ivan IV detto il Terribile (1533-1584).

In Polonia[38], infatti, in maniera non dissimile dai Paesi Romeni, l’autorità centrale si trovava assediata dalla Szlachta, la nobiltà terriera, e dai magnati, che ostacolavano fieramente i tentativi di accentramento del potere regio; e tale lotta caratterizzò i regni di Giovanni Alberto (1492-1501) e Alessandro (1501-1506). Ma anche all’esterno la Polonia doveva fare i conti col principato di Moscovia e con l’Ordine dei cavalieri teutonici. Il terzo figlio di Casimiro IV (1440-1492), Sigismondo I il Vecchio (1506-1548), riuscì almeno a rendere più stabili i rapporti con l’Ordine teutonico e col gran maestro Alberto di Hohenzollern, alleato della Moscovia, che nel 1525 secolarizzò l’ordine, passò al Luteranesimo e si riconobbe vassallo della corona polacca assumendo il titolo di duca di Prussia. Ma le direttive della politica estera polacca, ossia l’espansione verso est, a scapito della Lituania, e le alterne alleanze con gli Asburgo in funzione antiottomana e con gli Ottomani contro gli Asburgo, si intrecciavano con l’opposizione interna della Szlachta, che si appoggiava soprattutto agli Ottomani. Così, nel 1533, era stata stipulata con questi ultimi la cosiddetta “pace perpetua”, mentre il re, consigliato dalla moglie, Bona Sforza, cercava un’alleanza con parte dei magnati: una strategia che venne frustrata dalla rivolta del 1537, a seguito della quale la nobiltà si assicurò il diritto di riconoscere la successione al trono del figlio Sigismondo II Augusto. Questi dovette fronteggiare, fin dall’inizio, il cosiddetto “movimento esecutivo”, intorno al quale si raccoglieva la piccola e media nobiltà terriera, avversa ai magnati alleati della corona. Con questo movimento, che proponeva una razionalizzazione dell’apparato fiscale, giudiziario e amministrativo, pur restando fedele alle tradizionali costituzioni, dovette scendere a patti il re polacco, anche a causa dei problemi cui doveva far fronte sul confine orientale. Nel 1569, infatti, Sigismondo II Augusto riuscì a realizzare la fusione del regno polacco col granducato di Lituania, poggiando sull’aiuto della Svezia, della Francia e dell’Impero Ottomano contro Ivan IV. La guerra con i Russi era scoppiata a causa della Livonia, dominio dei cavalieri dell’Ordine dei Portaspada, che avrebbe assicurato alla Moscovia uno sbocco sul mare. Alla Livonia, stretta fra Svezia, Polonia e Moscovia, Sigismondo concesse una certa autonomia territoriale e la libertà di professare il Protestantesimo, ma poi, nel 1562, occupò il paese provocando l’intervento russo. Così la Livonia fu assegnata al principe Magnus di Danimarca, che però era favorevole alla Polonia, mentre Sigismondo, per consolidare la sua posizione,

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ricercava l’appoggio di Alberto di Hohenzollern concedendogli la linea di successione al ducato di Prussia, che quindi si sottrasse alla fusione col regno di Polonia[39].

A questi avvenimenti alludono, in coda alla lettera (pp. 905-906), le poche righe destinate dal Pandolfi ai fatti di Polonia, che testimoniano il momento della penetrazione russa nella Livonia dopo l’occupazione polacca del 1562. Ed il renderne conto nella nostra esposizione contribuisce a chiarire anche le vicende riguardanti la Moldavia e l’appoggio dato al Despota da Ferdinando I d’Asburgo, dalla nobiltà polacca e dai principi protestanti tedeschi. Infatti fin dal 1526 la Szlachta, avendo ottenuto l’appoggio di Alberto, duca di Prussia, da poco divenuto seguace di Lutero, favoriva la penetrazione in Polonia del Protestantesimo e della cultura umanistica, incoraggiata anche a corte dalla moglie italiana di Sigismondo, Bona Sforza. Tuttavia, alla borghesia cittadina e alla piccola nobiltà, sembrava più congeniale il Calvinismo, cui aderirono alcune personalità quali il magnate Mikolaj Radziwill, Felix Krzyak (Cruciger) e Jan £aski il Giovane (Jan a Lasco: £ask, 1499 – Piòczów, 1560). Quest’ultimo, figlio del voivoda di Sieradia, Jaroslaw £aski (m. 1523), divenne sacerdote nel 1521, avendo studiato a Gniezno in Polonia e poi all’Università di Bologna, e conobbe nei suoi viaggi Erasmo da Rotterdam e Ulrich Zwingli, di cui apprese le dottrine riformistiche. In seguito ottenne varie cariche, ecclesiastiche e non, con l’aiuto dello zio omonimo, cardinale primate di Polonia. Fu segretario della cancelleria del re, ottenne nel 1530 la sede vescovile di Veszprem, senza la conferma papale, e divenne segretario di Giovanni Zápolya. Quindi, dopo una permanenza più che decennale in Germania e Belgio, presso le chiese riformate di Francoforte e Lovanio, e in Inghilterra, dove esercitò la sua attività riformatrice fondando l’Ecclesia peregrinorum, tornò in Polonia nel 1556, dove ebbe maggiori contrasti con gli antitrinitari che con la chiesa cattolica. È probabile, dunque, che a questa figura di riformatore calvinista sia da accostare quell’Alberto Laschi, ossia Alberto £aski, che il Pandolfi dice essere a capo del contingente polacco penetrato in Moldavia a fianco del Despota greco, con l’appoggio logistico di Ferdinando I d’Asburgo e dei principi protestanti tedeschi, in un momento in cui le direttive di politica estera polacca, e la relativa scelta delle alleanze, ancora ondeggiavano fra l’appoggio dato agli Asburgo e il mantenimento dei buoni rapporti con l’Impero Ottomano.

Di Alberto £aski (Albertus a Lasco, 1536-1603), conte palatino e pretendente al trono di Polonia, sono documentabili i rapporti con l’Inghilterra e con gli ambienti riformati tedeschi e boemi[40]. Nel 1569 il £aski finanziò la traduzione in latino e la pubblicazione a Cracovia di alcuni trattati di Paracelso (Philipp Theophrast von Hohenheim), cioè di un medico, alchimista e filosofo che aveva studiato a Basilea e con Tritemio, avvicinandosi molto all’agostinismo luterano e al platonismo rinascimentale italiano, pur essendo di fede cattolica. Il £aski fu anche protettore di un gruppo di studiosi dell’Università di Cracovia, fra cui Michael Sendivogius, che erano interessati alla filosofia

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ermetica e alle opere di Paracelso; quindi, nei primi anni Ottanta del XVI secolo, si recò in Inghilterra, dove fu accolto al Christ Church College di Oxford (fondato nel 1524), seguì le lezioni di Giordano Bruno e conobbe George Peele, drammaturgo inglese la cui produzione influenzò lo stesso Shakespeare. Ma, nel 1583, l’incontro più importante fu con John Dee (1527-1608). Questi, medico, matematico, astrologo e alchimista, tra gli studiosi più eruditi del suo tempo, si era laureato al Trinity College di Cambridge e, nel 1582, aveva stretto legami d’amicizia con l’occultista Edward Kelly (m. 1593 o 1597). Il £aski invitò Dee e Kelly a seguirlo in Polonia e i due lasciarono l’Inghilterra in sua compagnia nel settembre 1583. In realtà il nobile polacco era finanziariamente rovinato e sperava, a causa dei suoi interessi ermetici, di ricavar denaro dall’alchimista. Ma soprattutto il £aski svolse l’attività di informatore della corona inglese in Polonia, mettendo al corrente il Dee dei progetti politici della corte polacca[41]. Furono frequenti, infatti, le visite del nobile polacco in Boemia, a Tøeboò, dove Dee e Kelly risultano ospiti di Vilém Rožmberk fino al 1589, e a Praga, dove i due inglesi si recarono presso Rodolfo II (1552-1612, imperatore dal 1576). John Dee, come risulta dagli studi di Frances A. Yeats[42], influenzò notevolmente, dalla Boemia, anche la Germania, e nel 1589 compì un viaggio che lo portò in Assia, nel Palatinato e nel Württemberg, ossia nei luoghi in cui, alcuni anni più tardi si sarebbe diffuso, intorno all’elettore palatino Federico V, il movimento rosacrociano[43]. A Praga è probabile che fosse anche il Sendivogius, protetto del £aski e

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anche di Vilém Rožmberk, presso il quale il Dee soggiornava a Tøeboò, in Boemia. In una lettera del re di Polonia Sigismondo III Vasa (1587-1632), datata Varsavia 13 giugno 1600, si cita il Sendivogius come uomo di fiducia che il re polacco invia all’imperatore Rodolfo II per risolvere i problemi della Moldavia[44]. Ed è assai interessante che Alberto £aski, alcuni decenni prima, avesse già intrapreso in prima persona quell’avventura in Moldavia di cui la nostra lettera è un altro testimone; tanto più se si aggiunge che, in un’opera dello stesso Dee[45], si trova un accenno proprio al persistere, ancora negli anni Ottanta e forse fino alla fine del secolo, delle mire del nobile polacco su quel paese.

Di seguito appongo un’appendice con la riproduzione integrale della lettera del Pandolfi, nella quale ho sciolto le abbreviazioni e adottato le pochissime correzioni, di natura esclusivamente linguistica, apportate da una seconda mano.

 

 

 

Appendice

 

[Cod. Palatino 815 (olim 692–21,2) della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, intitolato: Lettere e altre opere di Niccolò Macchiavelli [sic], pp. 893-906]

 

 

Mag(nific)um Dominum Petrum de Machiavellis

Luogotenente delle Galere di S(ua) E(ccellenza) a Liorno [sic]

 

Questa sarà per fare avisata la S(ignoria) V(ostra) qualmente io arrivai in Italia la Pasqua di Natività [sc. 25 dicembre 1563] prossima passata venendo del regno di Polonia, e subito andai a Fiorenza, dove non ero stato 22 anni fa, e son stato lì una settimana. Colà pensavo trovarvi la S(ignoria) V(ostra), et Dio sa con quanto desiderio, e quanto volentieri le avrei baciato le mani,

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fummi detto come eravate in Pisa, overo a Liorno[46] a le galere, e dubitando io, che talvolta non vi fussi messo a qualche viaggio, e di andarmi aggirando invano non mi risolvetti venire a quella volta, e così mi partii di Firenze, e preso il [p. 894] camino d’Ancona per via di Perugia[47], dove mi trovo al presente in casa il S(ignoria) V(ostra) Tesauriere vostro fratello[48] che per sua grazia mi ha fatto, e fammi assai carezze, e così penso star qui sin a Carnovale prossimo al più lungo, poi mi partirò per seguire il mio viaggio, dove a Dio piaccia indirizzarmi prosperamente.

Aggio auto di molte aversità, e le ho comportate, e comporto al meglio che posso, et non ho mai usato d’infastidire li amici con il condolermi de’ mia mali per non dare loro quel dispiacere, e mi son confortato sempre, cercando di rimediare con le mie forze proprie mediante l’aiuto di Dio, da poich’io non mi son possuto aboccare con la S(ignoria) V(ostra) per darle qualche ragguaglio de’ Paesi di Moldavia, et Polonia, dove la Sig(no)ria V(ostra) è stata già tempo fa più volte, il farò con questa lettera, perché penso che li sarà grato intendere qualche particolare.

L’anno 47 morse Pietro Vaivoda di Moldavia[49] vecchio di età circa 90 anni [sic] e restò la Mogliera[50] e 3 figli masti[51] [sic] e 2 femmine[52], et subito il suo primogenito di età d’anni 20 nome Elias[53] fu fatto sig(no)re, il quale era stato circa 4 anni a Gostantinopoli [sic] per ostaggio al tempo del Padre, e per essersi usato molto a’ costumi turcheschi, subito che fu Sig(no)re fece ogni opera con forza di danari per avere donzelle turche, et in breve tempo gliene fu condotte circa 8 bellissime, le quali con la loro lascivia in breve [p. 895] tempo li voltorno il cervello di sorta, che il persuasono a farsi Turco, e così lui il terzo anno di sua Sig(no)ria fingendo esserli necessario

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d’andare a baciare le mani al Gran Turco[54], si partì del paese col tesoro circa 700 m(ila) duc(at)i acompagnato da assai baroni et amalò a Costantinopoli, dove arrivato il 3zo [terzo] giorno si fece Turco, e li fu dato moglie figlia di Bascicà [sc. Pascià], e fatto Governatore d’una Provincia cioè S. Giago [sc. sanjak bey di Silistra].

Venne la nuova in Moldavia, e subito feciono S(igno)re Stefano[55] suo 2do [secondo] fratello di età d’anni 20 quale era di persona membruto, et robustissimo, crudele, e bestiale a maraviglia, et il p(ri)mo anno di sua Sig(nor)ia lo anno 50 venendo il 51 fece armare tutto il Paese, perché in Ungheria si sentiva certi romori d’arme, e vi era venuto un esercito del Se(renissi)mo Re de’ Romani Ferdinando[56] e la fama era di aspettazione di grande imprese [sic] contra li Turchi, talmente che detto Sig(no)re Stefano volonteroso, et coraggioso a meraviglia, per non essere l’ultimo ad assaltare la Turchia voleva passare con le sue genti il Danubio, li Baroni visto la sua temerarietà non restavano di pregarlo, che si dovessi intrattenere l’impresa 2 o 3 mesi aspettando la primavera per avere pastura per li cavalli et così il suasono ad aspettare del che avanti che venisse il tempo opportuno li romori di Ungheria raffredorno, talché detto Sig(no)re Stefano si risolvette lasciare l’impresa.

[p. 896] Ma per essere lui di natura inquieta comandò, che quanti Mercanti turchi passava per il suo Paese fussino ammazzati, e predati insieme con quanti altri Mercanti si trovavano in tali carovane di Turchi, e durò questo assassinamento circa 8 mesi, in detto tempo fece ruinare tutte le chiese de li Armeni fece forzatamente ribattezzare all’usanza Valacca, volse fare ammazzare la Madre per torli il tesoro, et per qualche altra causa, ma li Baroni con assai preghiere lo distolsono da tale fantasia, fece tagliare la testa a gran parte de’ suoi baroni, pigliava tutto quello li bisognava con superchieria di ciascheduna persona per il suo paese, e minacciava tutti li Sig(no)ri vicini al suo Paese talmente, che pure considerato da li principali sua Baroni le sue bestialità, feciono congiura d’ammazzarlo, e si concordorno segretamente con circa altri 22 Baroni ribelli pure del loro sangue, quali si trovavano essere fuggiti in Polonia, et la congiura fu, che quelli Baroni ch’erano in paese appresso alla persona del S(igno)re un tal giorno da loro deputato, dal qual giorno feciono consapevoli quelli di Polonia dovevano ammazzare detto S(igno)re, e così seguì l’effetto. Dovevano li detti Ribelli eleggere in fra di loro il nuovo Sig(no)re, et condurlo in Moldavia e così feciono col favore del Se(renissi)mo Re di Polonia[57], che li fece accompagnare [p. 897] da un suo esercito, subito che li altri Baroni ammazzorno il detto Stefano non avendo ancora nuova, che quelli di Polonia fussino entrati in Paese, feciono un Cortigiano Sig(no)re per forza[58], perché tali popoli, come sa V(ostra) S(ignoria), hanno in uso di non stare un sol giorno senza Sig(no)re, il quale Sig(no)re regnò 4 giorni, perché venendo l’altro di Polonia fu necessario deporlo, ma furon tanto galanti che non lo ammazzorno, ma bene li tagliorno il naso, e li orecchi, e lassornolo andare atteso che uomo così

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segnato non vogliono che possa essere lor Sig(no)re. Il 3zo [sc. terzo] figlio di Pietro Vaivoda minore di tutti chiamato Constantino si trovava a Constantinopoli col fratello Turco, a la Madre loro in Moldavia, la quale sen’andò in Monasterio, e si misse l’abito monacale, e fu lassata di così per allora. Il Nuovo Sig(no)re chiamato Alessandro[59] per allora cominciò a regnare molto benignamente, ma forzato dalli baroni bisognò consentissi a fare strangolare la monaca già moglie di Pietro Vaivoda, alla quale trovò tesoro per 300 m(ila) d(uca)ti o da vantaggio. La ventura di detto Aless(and)ro fu che il p(ri)mo anno di sua S(ignori)a morse li dua fratelli Elias [m. post 10 agosto 1555] e Costantino [m. ante 30 marzo 1554] di morbo in Turchia, et fu spenta la Casa e progenie di Pietro Vaivoda, salvo che le femine, che una era maritata al Vaivoda della Valacchia bassa[60] et l’altra che restava in paese la prese per moglie d(et)to Sig(no)re Aless(and)ro, il quale regnando non attendeva [p. 898] ad altro, che acumulare tesoro, e fare ammazzare di mano in mano li Baroni vecchi, et mettere in quelli ufizii e gradi li sua parenti. Et mercantilmente quante incette erano da farsi nel suo paese, le faceva fare per suo conto proprio proibendo alli altri Mercanti, talché al suo tempo si sono rovinati quanti Mercanti usavano negoziare in suo Paese, e così signoreggiando vicino al Xmo [sc. decimo] anno si crede, che avessi congregato meglio, che dua milioni d’oro compreso le gioie che ne aveva assai, et in capo di X anni fu cacciato di S(igno)ria et la potente causa è stato per essere lui tanto avido a perseguitare li ribelli, che alla giornata fuggivano del suo Paese non sapendo in tal perseguitazione procedere con prudenza, e così come ha proceduto ignorantemente, è stato da ignorante e goffo cacciato di S(igno)ria, tamen fu pure tanto accorto che a tempo cavò il tesoro di quel Paese e lo condusse seco in Turchia, sì che possette considerare la miseria delli Regni Cristiani, che per loro discordie arricchiscano la Turchia di tutte le dovizie continuamente. Non voglio mancare di dirvi la causa, per la quale il detto Sig(nor)e Aless(and)ro perdé la Sig(no)ria quale fu, come è detto, per perseguitare li Ribelli ignorantissimamente. Pare, che 5 anni fa capitò in Polonia un certo Greco[61], quale veniva di Spagna dalla Corte della Cattolica M(aes)tà di Carlo V quale Greco da putto avea servito un Gentilomo della stirpe [p. 899] de li Despoti di Servia[62], quale serviva in la

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Corte di Cesare, et venendo tal Gentilomo a morte restò il detto Greco da lui allevato, quale come astutissimo subito morto il Padrone si attribuì la patente Imperiale del d(ett)o Gentilomo, quali Patente [sic] testificavano la sua nobiltà, et con tali Patenti si misse in via, et passò per la Francia e per l’Alemagna capitando in Polonia, come è detto, e per tutto si faceva avanti a’ Sig(no)ri e Gentilomini , raccomandandosi, che lo aiutassino da potersi intrattenere da Gentilomo, e perché lui era persona eloquente, e dotato di parecchi linguaggi, e molto astuto, li era creduto da molti Sig(no)ri, et altre persone alla giornata tanto che si andava trattenendo con parecchi servitori onoratamente, ma finalmente avendo stracco [sic] le persone da per tutto si condusse in Moldavia, e appresentossi alla Corte del soprad(ett)o Aless(and)ro Vaivoda dandosi a conoscere per Greco, dicendole sua discensione essere da li li [sic] despoti di Samo in su la Isola dell’Arcipelago e che era restato andare in Turchia per ottenere qualche servizio, o preminenza alla Corte del Gran Turco, della qualcosa il S(igno)re Aless(and)ro lo sconsigliò assai, e più li disse, che a patto alcuno non vi dovessi andare, perché capiterebbe male, e che li rincresceva di lui, e appresso lo confortò a restare in Moldavia a suo servizio, offerendoli alla giornata di darli qualche buono [p. 900] ufizio alla sua Corte, tanto che lui si risolvette a restare e intrattenersi ad essa Corte di Moldavia, dove fu ben trattato parecchi mesi, et occorse che lui si amalò, e per farsi medicare dimandò licenza al S(igno)re Aless(and)ro di andare sino in Brasciovia Città nella Provincia de’ Sciuli[63] [sic] quivi vicina 5 o 6 giornate, la qualcosa Aless(and)ro gli concesse graziosamente, e li fece dare cavalli e servitori, e danari per la spesa. Del che lui andato in tal terra et in breve fattosi sano non volse più tornare in Moldavia, anzi se n’andò alla Regina d’Ungheria[64] ciercando [sic] servizio, et non trovando grazia, se ne tornò in Polonia assai povero, e male avviato. Il detto Sig(nor)e Aless(and)ro secondo il suo costume di perseguitare le persone, cominciò a perseguitarlo con farli taglia di 4 m(ila) d(uca)ti, et con mill’altri aguati, et tradimenti senza dare mai posa, tanto che quanto più il perseguitava, gli accresceva ogni giorno la reputazione e per ultimo d(ett)o Aless(and)ro inconsideratamente si risolvette a pigliare uno sciocco partito per ingannare detto Greco, quale si facieva chiamare despota, et il partito fu che chiamati a sé tutti li Principali Baroni di Moldavia, fece che scrivessino una lettera come coniurati, e nemici in secreto di Aless(and)ro chiamassino detto Despota con prometterli sotto loro giuramento di farlo S(igno)re et ammazzare Aless(and)ro, e questa lettera si soscrissono [sic] e posono [sic] il loro sigillo circa 22 delli Principali Baroni, e mandorono detta lettera [p. 901] finta segretamente al detto Despota, pure come è detto con il consenso del S(igno)re Aless(and)ro credendosi ingannarlo

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e condurlo alla maza [sic], del che sendo il detto Despota astutissimo conobbe il tratto [sic], ma fingendo di credere loro, fecie risposta a detti Baroni ringraziandoli, e avisandoli, che si andrebbe preparando quando li parrebbe tempo si rappresenterebbe alli confini, et li farebbe avisati, et perché tal lettera finta testificava detto Despota essere il vero erede di Moldavia, del che lui considerato di quanto favore tal lettera gli fussi si partì di Polonia segretamente con tal lettera, et andossene a trovare la C(esare)a M(aes)tà di Ferdinando, et la M(aes)tà del Re de’ Romani raccomandandosi a loro con mostrare detta lettera allegando di aver ritrovata la sua Patria et il suo Regno, ma per essere povero non aveva il modo a mettersi a ordine onoratamente per pigliare il possesso del suo Stato.

Credendo la M(aes)tà dello Imperatore, e del Re che quella lettera fussi vera e non finta lo aiutorno di danari, e gente per circa mille soldati, et con altanti [sic] uomini lo accompagnorno S(igno)re Pollacco, il Sig(nor)e Alberto Laschi[65], qual gente in tutto furono circa 2.200 Cavalli, e 600 pedoni mettendosi in via fra li Monti di Ungaria et il confino del Paese di Polonia, et si condussono in Moldavia, dove il Sig(no)re Aless(and)ro aveva preparato uno esercito di giente del Paese Miemizi [sc. nemeºi], cioè Nobili di circa 24 m(ila) Cavalli, et il S(igno)re Alessandro con la [p. 902] sua persona aveva tutti li Baroni, e la sua Corte circa 5 mila Cavalli, et 700 Archibusieri a piedi, et 800 Cavalli di Turchi, e Tartari da lui soldati. Entrò il Desposta [sic], et il Sig(no)re Laschi drento nel Paese con li loro circa 2.800 omini, come è detto, e condotti a fronte gli eserciti lungo il fiume del Bruto[66] [sic] per esso andati a 8 leghe, il Sig(no)re Aless(and)ro fece comandare alli sua 14 m(ila) Cavalli del Paese, che affrontassino li nimici, li quali Paesani non si volsano muovere, anzi risposano non volere combattere dicendo, combatta il Re S. con li sua Baroni, che hanno fatte tante ingiustizie, il S(igno)re inteso questo fecie comandare loro che si ritirassino, e che sen’andassino via dubitando, che non si unissino con li nimici loro se n’andorno ritirandosi circa 20 miglia lontano abbandonando il S(igno)re Aless(and)ro, il quale con la sua Corte di 5 m(ila) Cavalli, et Archibusieri, e Turchi, appiccorno la zuffa con li inimici Despota, et Sig(nor)e Laschi, et in breve spazio il detto Aless(and)ro fu rotto, perché in fatti li sua uomini del Paese non lo amavano, tamen lui fuggendo con alquanti sua amici fedeli si salvò, e andossene Alchilli[67] [sic] terra turchesca, dove per parecchi giorni avanti aveva fatto inviare la sua moglie, et li figliuoli con il tesoro bene accompagnato, e di lì se ne andorno poi a Costantinopoli; fuggitosi Aless(and)ro il detto Despota Greco fu accettato per S(igno)re e rimase parte delli Baroni, e parte ne fuggirno [p. 903] con Aless(and)ro, poche settimane da poi congiurorno parecchi Baroni per ammazzare detto Despota, scopersesi il tradimento, e fecie a tali Baroni tagliare la testa, detto nuovo Sig(no)re Despota riserbò alla sua guardia soldati forestieri circa 860 la metà a Cavallo, e la metà pedoni di diverse nazioni, ma la più parte Unghari.

Et dal principio di S(ua) S(igno)ria al termine di 20 mesi venne occasione di guerra, perché detto Despota si era inimicato dua gran Baroni Polachi cioè il detto Sig(nor)e Laschi, che lo aveva accompagnato a metterlo in S(igno)ria, et un altro gran Barone, li quali il minacciavano di cacciarlo di tale Paese, ma il Sig(no)re Despota si era fatto tanto superbo, che non stimava più persona fidandosi nella sua prospera fortuna, et ne la sua astuzia Grechesca, qual poco gli ha giovato con li Valacchi, li quali sempre stavano attenti aspettando qualche occasione di tradirlo secondo l’uso loro, occorse

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che venne nuova la detto Sig(no)re Despota come li dua Sig(no)ri Polachi preparavano esercito contro di lui, et da altra parte veniva ancora altro esercito di Tartari per assaltarli il Paese, del che lui fu necessitato a mandare esercito a opporsi alli suoi nimici, e così mandò giente del suo Paese circa 8 m(ila) Cavalli.

Parve ad alcuni delli sua Principali Baroni Valacchi essere venuta l’occasione del tradimento detto Sig(no)re Despota, et congiuratisi in [p. 904] tra di loro cominciorno con bello modo quando l’uno e quando l’altro a consigliare detto Despota, che sarebbe bene, che S(ua) S(ignor)ia mandassi la più parte di quelli soldati, che teneva alla sua guardia per soccorso, et ammaestramento del suo esercito Valacco dandoli ad intendere li inimici essere molto potenti allegando ancora, che a S(ua) S(ignor)ia non era necessario tanta guardia perché di già era stabilito, et assicuratosi nello Stato, e perciò era il meglio a mandare tali valent’uomini contra li inimici.

Lui ancora che astuto si lasciò inzampognare, e mandò tutta la Cavalleria della sua guardia e qualche 100 pedoni con circa 15 pezzi d’Artiglieria da campo, et riserbossi per guardia della sua persona solo 300 uomini a piedi. Arrivati al campo delli Valacchi detto soccorso fu fatto loro grata raccoglienza [sic] tanto che loro senza alcuno sospetto si disarmorno lassando i Cavalli alla pastura, impiedicati [sic], et così riposandosi, e parte di loro dormendo per le praterie allora li Valacchi ammaestrati del tradimento, li assaltorno improvisamente ammazzandoli a più potere, alcuni pure così disarmati saltorno sopra li Cavalli nudi fuggendo, ma non riuscì salvo che a dua di loro a salvarsi, quali corsano tanto, che il presente giorno si rappresentorno avanti al S(igno)re Despota avisando del tradimento. Allora S(u)a S(igno)ria si trovava essere a un luogo d(ett)o Sociava[68], e si fece forte [p. 905] in tal Castello, e vettovagliossi per parecchi mesi, et dì seguente li Valacchi il vennono a sediare [sic] con lo esercito, dove lui si è difeso circa 3 mesi[69], et sono seguiti assai disordini in tale Paese, perché inimicatosi quelli populi contro li forestieri hanno ammazzato assaissimi Unghari e Taliani [sic] e Todeschi, che si trovavano forestieri in quel Paese, e son seguite crudeltà grand(issi)me, et poi per ultimo il detto Desposta [sic] è stato ammazzato, e perché lui si era indebitato assai, ha ruinato di molti mercanti. Un Barone Pollacco[70] ebbe audacia di entrare in tal Paese con circa 4 m(ila) Cavalli per cimentare di farsi Sig(no)re, il quale è capitato male, et li hanno ammazzato tutte le genti ancora, che avessino fama d’essere gente eletta e pochi ne sono campati, a’ quali hanno tagliato il naso e gli orecchi, perché si ricordino del dare impaccio a Valacchia, questi romori son seguiti la state e l’autunno passato e non hanno fatto altro Sig(no)re pure di loro generalmente nominato Ioanni[71], quale regna al presente.

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Questo è quanto ragguaglio vi posso dare sin al presente delli affari di Moldavia, et venendo al fatto di Polonia, fanno al presente guerra con Granduca di Moscovia[72], e cominciò l’anno passato, e va seguitando, ma li Polachi hanno il peggiore, perché il Moscovita sin l’anno passato ha pigliato circa 40 leghe di [p. 906] Paese in la Provincia di Lituania di detto Re di Polonia, quel che segue al presente si intenderà al suo tempo, credo che si faccia gran fatto, perché il tempo di guerreggiare in quelli Paesi è al presente, quando sono li Ghiacci forti, che sendo quelli Paesi molto Padulosi [sic] al tempo di state è difficilissimo. Detto Moscovita è un bravo Principe quanto possa essere secondo la fama, che di lui si intende, e di età d’anni 36 et sin’oggi ha guerreggiato circa 25 anni con tutti e suoi vicini, et ha pigliato tre gran paesi di Tartari, tal che arriva con il confine del suo Regno da Tramontana con il mare Ocieano schiazzale [sic], et ½ giorno [sc. mezzogiorno] il Mare Caspio in sul Lito del quale mare possiede 5 Porti, tal che li Tartari Orientali non possono passare in Europa senza far motto a lui, e si può sperare che un tal Potente Principe vivendo abbia a far gran fatti e senza altro faccio fine pregando l’Onnipotente Iddio, che salvi, e mantenga, e prosperi la Sig(nor)ia V(ostr)a sempre.

 

Di Perugia il dì 4 fevrario [sic] anno 1564

 

Desideroso far sempre serv(izio) alla S(igno)ria V(ostr)a

Antonio Pandolfi

 

 

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[1] Si tratta di un codice cartaceo, con legatura realizzata in cartone ricoperto da cartapecora, mm. 290x203, pp. I + 924 + III numerate dalla stessa mano. Alle ultime righe il copista ha scritto: “Il presente volume da me Marco Martini in quest’anno 1726 è stato copiato dall’esemplare del sig. Abate Corso de’ Ricci; quale esemplare fu copiato da Giuliano de’ Ricci dagli originali di Niccolò Machiavelli; e questa copia da Rosso Antonio Martini mio fratello è stata dipoi collazionata coll’esemplare suddetto di Giuliano de’ Ricci”. Giuliano de’ Ricci (1532-1606) era uno dei nipoti di Niccolò Machiavelli; in seguito il codice dovette appartenere alla Libreria dei Guadagni e quindi a Gaetano Poggiali, Cfr. Luigi Gentile, I codici palatini, vol. II, Roma 1890, pp. 339-340. Si vedano anche i seguenti lavori nei quali il codice è menzionato: Pasquale Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi illustrati con nuovi documenti, 2a edizione rivista e corretta dall’autore, 3 voll., Milano 1895-1897, in particolare vol. I, pp. 311-312, n. 1, p. 314, n. 2; Ibidem, vol. III, p. 128, n. 1, p. 185, n. 2, p. 287, n. 2, p. 416, n. 1; Sergio Bertelli, Appunti e osservazioni in margine all’edizione di un nuovo epistolario machiavelliano, Firenze 1970, estratto da “Il pensiero politico”, II, 1970, pp. 536-579, in particolare p. 550, n. 36; Cecil Grayson, Machiavelli e Dante. Per la data e l’attribuzione del “Dialogo intorno alla lingua”, in “Studi e problemi di critica testuale”, II, 1971, pp. 5-28, in particolare p. 11, n. 14 (traduzione italiana di Idem, Machiavelli and Dante, in Renaissance studies in Honor of Hans Baron, a cura di Anthony Molho e John A. Tedeschi, Firenze 1971, pp. 361-384, in particolare p. 368, n. 14), segnalato in “Scriptorium”, XXVI, 1972, p. 175, BC no. 239; Rosetta Migliorini Fissi, Per la fortuna del “De vulgari eloquentia” un nuovo codice del “Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua”. Approcci per una edizione critica, in “Studi danteschi”, XLIX, 1972, pp. 135-214, in particolare pp. 135-156; Giorgio Inglese, Niccolò Machiavelli. Opere, vol. III, Lettere (“Classici italiani”), a cura di Franco Gaeta, Torino 1984, p. 679, in “La bibliofilia”, LXXXVI, III, 1984, pp. 271-280, in particolare p. 279; si segnala la menzione della nostra lettera in Riszard Kazimiers Lewanski, Polonica rêkopiœmienne w archiwach i w bibliotekach woskich, Varsavia 1978, p. 67.

[2] Nell’indice del manoscritto, a p. 922, compare il seguente titolo: “Lettera di Antonio Pandolfi a Pietro Macchiavelli [sic] Luogotenente delle galere del duca Cosimo a Livorno, in cui lo ragguaglia di molte turbolenze e mutazioni seguite nel Regno di Moldavia nel tempo che egli vi era stato”.

[3] Nel febbraio 1564, data in cui risulta spedita la lettera, era sul trono di Moldavia Stefano Tomºa I (almeno fino all’inizio del mese successivo).

[4] I Machiavelli erano imparentati con la famiglia Nelli attraverso la madre di Niccolò, Bartolomea de’ Nelli.

[5] Cfr. Niccolò Machiavelli, Opere (La Letteratura Italiana. Storia e Testi, vol. 29), a cura di Mario Bonfantini, Milano–Napoli 1963, p. 1140; si vedano inoltre: Gaspare Amico, La vita di Niccolò Machiavelli, Firenze 1875, pp. 612-615; Ettore Janni, Machiavelli, Milano 1927; Corrado Argegni, Enciclopedia biografica e bibliografica italiana, serie 19: Condottieri, capitani, tribuni, vol. II, Milano 1937, p. 113; Riccardo Bruscagli, Niccolò Machiavelli, Firenze 1975; Letteratura Italiana. Gli Autori. Dizionario bio-bibliografico e Indici, vol. II, Torino 1991, s. v. Machiavelli Niccolò, pp. 1096-1100; Guido di Niccolò Machiavelli, Tizia, edizione critica, commento e introduzione a cura di Paolo Caserta, Roma 1996, pp. 15-27.

[6] Cfr. Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Autografi Palatini. Carte Machiavelli, cass. V, cc. 52-60, cc. 117-119, c. 122, cc. 169-188, per cui si vedano G. Amico, op. cit., pp. 661-664, e Giuseppe Lesca, Piero di Niccolò Machiavelli. Gloria d’una marineria italiana, in “La Rinascita”, IV, no. 20, 1941, pp. 583-602, ambedue per la notizia biografica su Piero scritta da Guido (c. 188); G. Machiavelli, Tizia cit., in particolare pp. 26-27, in cui è pubblicata la commedia composta da Guido (cc. 178-187); infine, per l’indice delle lettere inviate da Piero a Cosimo, negli anni 1556-1559, e conservate nell’Archivio di Stato di Firenze Mediceo del Principato: Carteggio Universale di Cosimo de’ Medici. Inventario, IX, a cura di Marcella Morviducci, Firenze 1990, p. 448.

[7] Cosimo I de’ Medici (1519-1574), figlio di Giovanni dalle Bande Nere e di Maria di Jacopo Salviati, fu dal 1537 secondo duca di Firenze dopo Alessandro; nel 1539 sposò Eleonora di Toledo, figlia del viceré di Napoli, don Pedro, e poi, a partire dal 1569, fu primo granduca di Toscana.

[8] Cfr. Gian Biagio Furiozzi, Notizie sulla famiglia di Machiavelli, in Machiavellismo e antimachiavellismo nel ‘500. Atti del Convegno di Perugia, 1969, Firenze 1969, pp. 145-147.

[9] Giuliano de’ Ricci, che abbiamo già nominato a proposito del codice in cui è conservata la nostra lettera, era nipote di Bernardo, Guido e Piero, in quanto figlio della loro sorella Bartolomea. Giuliano si adoperò senza successo presso le autorità ecclesiastiche affinché fossero tolte dall’Indice le opere del celebre nonno, una condanna che però non aveva certo nuociuto né alla carriera di Bernardo, Questore pontificio in Umbria, né al sacerdozio di Guido, piovano di Lucardo, né all’ascesa di Piero al grado più alto della marina di Cosimo. I libri di Niccolò Machiavelli, negli anni 1549-1554 a Venezia, nel 1552 a Firenze, nel 1554 a Milano e nel 1559 a Roma, erano finiti nell’Index librorum prohibitorum, e la condanna era stata ribadita nel 1564, anche se Cosimo stesso si era adoperato affinché vi fossero tolte. Insieme con Giuliano de’ Ricci, si prodigò a questo fine anche suo cugino Niccolò, figlio del Bernardo che abitava a Perugia. Questo Niccolò (4 settembre 1549-1597) fu canonico nel Duomo di Firenze e consigliere dell’Accademia della Crusca dal 12 marzo 1586 al 4 settembre 1588, ma poi, nell’agosto del 1590, venne condannato dall’Accademia per “gravi errori”. Inoltre, come testimoniano le cc. 118-119, collaborò con lo zio Guido, così come accadde anche a Giuliano. Questi, alla morte di Guido, divenne possessore delle carte appartenute alla famiglia, Cfr. G. Machiavelli, Tizia cit., pp. 22-24; Giuliano de’ Ricci, Cronaca, 1532-1606, a cura di Giuliana Sapori, Milano–Napoli 1972, pp. IX-XXVI.

[10] Riedito a Firenze nel 1894; poi ancora, come Progetto di Piero di Niccolò Machiavelli al duca Cosimo de’ Medici per cacciare di Toscana francesi e spagnoli e per instituire una armata toscana, 1560, [prefazione di G. Amico] Firenze 1907; ed infine, dal manoscritto conservato nelle Carte Machiavelli della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e intitolato: Disegno al Duca Cosimo l’anno 1560 in circa (c. 188), in G. Lesca, Piero di Niccolò Machiavelli cit., pp. 586-596.

[11] Il promontorio di Abila o Abyla, nella Mauretania Tingitana (Marocco), e quello opposto di Kalpe, in Spagna, denominavano fin dall’Antichità le colonne d’Ercole delimitanti il fretum Gaditanum. Già nel perduto Περι ‘Οκεανου del viaggiatore greco Pitea di Marsiglia (IV secolo a. C.), di cui sopravvivono alcuni frammenti in autori successivi, sia greci che latini, compare il toponimo Κάλπη, stando almeno a Strabone, Γεωγραφικά, III, 2,11 (in Pytheas von Massalia, collegit Hans Joachim Mette, Berlino 1952, p. 28) e fra le prime fonti abbiamo anche Eratostene, Plinio il Vecchio ed altri, Cfr. Dictionary of Greek and Roman Geography, a cura di William Smith, Londra 1854, s. vv. Abyla e Calpe; Ferdinand Lallemand, Journal de bord de Pythéas, Parigi 1956 (Parigi 1974 e Marsilia 1989), Glossaire, p. 253.

[12] Ma non è improbabile che il viaggio del Pandolfi in Moldavia e in Polonia rispondesse, fra le altre cause, all’esigenza del nascente Granducato di Toscana di informarsi circa la dinamica geopolitica di quella parte dell’Europa, pur con una particolare attenzione per la Moldavia, stando allo spazio che il Pandolfi riserva a questo paese. In quest’ottica vanno sicuramente inseriti i viaggi, in ambedue i paesi, di Piero Machiavelli, uomo di fiducia di Cosimo. In ogni caso è possibile che l’occasione del viaggio del Pandolfi, pur dovuto ad altre ragioni, forse anche di natura commerciale, fosse colta dal Machiavelli, o da altri al di sopra di lui, per avere notizie che potessero essere utili alla politica estera del duca di Firenze. Per l’acquisizione delle notizie da parte delle cancellerie e delle ambasciate in ambito italiano, ma soprattutto per la diffusione della stampa periodica, si vedano in generale: Marco Infelise, Prima dei giornali. Alle origini della pubblica informazione (secoli XVI e XVII), Roma–Bari 2002; e più in particolare, per le notizie che giungevano dalla Transilvania a Firenze nel XVII secolo: Gianluca Masi, La Transilvania nella seconda metà del XVII secolo (febbraio-ottobre 1661), fra Impero Asburgico e Impero Ottomano, secondo la testimonianza inedita del Codice Magliabechiano XXV, 740 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, in L’Italia e l’Europa Centro–Orientale attraverso i secoli. Miscellanea di studi di storia politico-diplomatica, economica e dei rapporti culturali, a cura di Cristian Luca, G. Masi e Andrea Piccardi, Brãila–Venezia 2004, pp. 231-276.

[13] Cfr. Umberto Gnoli, Pittori e miniatori nell’Umbria, Foligno 1980, s. v. Pandolfi Giovanni Antonio, pp. 232-233; Dizionario Biografico dei Marchigiani, a cura di Giovanni Maria Claudi e Liana Catri, Ancona 2002, s. v. Pandolfi Giovanni Antonio, p. 383.

[14] Per gli avvenimenti storici cui la nostra lettera si riferisce, si vedano: Philips M. Price, Storia della Turchia. Dall’Impero alla Repubblica, Bologna 1958 (traduzione italiana di Idem, A History of Turkey. From Empire to Republic, Londra s. d.); Halil İnalcık, The Ottoman Empire. The Classical Age, 1300-1600, Londra 1973; Peter Frygies Sugar, Southeastern Europe under Ottoman rule, Londra 1977; Alessio Bombaci, Stanford J. Shaw, L’Impero Ottomano (Nuova Storia Universale dei Popoli e delle Civiltà, vol. VI, parte II), Torino 1981; Dimitri Kitsikis, L’Empire ottoman, Parigi 1985; Klára Hegyi, Vera Zimanyi, The Ottoman Empire, Budapest 1986; Giacomo E. Carretto, I Turchi del Mediterraneo. Dall’ultimo impero islamico alla nuova Turchia, Roma 1989; Bernard Lewis, Istanbul et la civilisation ottomane, Parigi 1990; Jean Bérenger, A History of the Habsburg Empire (1273-1700), Londra 1994; Charles W. Ingrao, The Habsburg Monarchy, Cambridge 1994.

[15] Cfr. Constantin Rezachevici, Cronologia criticã a domnilor din Þara Româneascã ºi Moldova, a. 1324-1881, vol. I, Secolele XIV-XVI, Bucarest 2001, p. 598.

[16] In realtà Iliaº Rareº era nato all’inizio del 1531, quindi aveva 16 anni al momento dell’avvento al principato, Cfr. ªtefan S. Gorovei, Familia lui Petru Rareº, in Petru Rareº, a cura di Leon ªimanschi, Bucarest 1978, p. 268.

[17] Di solito si cita un intervallo che va dal 1546 al 1551, Cfr. C. Rezachevici, op. cit., vol. I, p. 588.

[18] Ma sono conosciuti anche due figli illegittimi, il futuro principe Iancu il Sassone (1579-1582) e il pretendente al trono Bogdan–Costantino (m. 1573), Cfr. ªt. S. Gorovei, op. cit., p. 268.

[19] Sono conosciute almeno altre due figlie, una naturale, Maria (andata in sposa a Giovanni Movilã), e Ana, moglie del voivoda di Valacchia Vlad l’Annegato (1530-1532), che tuttavia era morta prima del 1546, e perciò non è citata dal Pandolfi.

[20] In realtà Iliaº Rareº rimase a Costantinopoli per non più di un anno e quattro mesi, Cfr. C. Rezachevici, op. cit., vol. I, p. 589.

[21] Il Pandolfi, in merito al computo degli anni attribuiti al regno di Iliaº, è più chiaro nei righi successivi, quando a proposito di Stefano scrive: “il primo anno di sua Signoria lo anno 50 venendo il 51”.

[22] Cfr. Storia del popolo romeno, a cura di Andrei Oþetea, Roma 1981; Franco Gaeta, Il Rinascimento e la riforma (1378-1598), parte prima: Il nuovo assetto dell’Europa (Nuova Storia Universale dei Popoli e delle Civiltà, vol. IX, parte I), Torino 1986; A History of Romania, a cura di Kurt W. Treptow (The Center for Romanian Studies. The Romanian Cultural Foundation), Iaºi 1996.

[23] Cfr. anche Andrei Veress, Documente privitoare la istoria Ardealului, Moldovei ºi Þãrii Româneºti, vol. I, Bucarest 1929, p. 54; ªt. S. Gorovei, op. cit., p. 268, n. 25.

[24] Per tale questione si vedano le pagine successive.

[25] Per il periodo del principato di Alessandro Lãpuºneanu in Moldavia, il saggio più documentato ed aggiornato dal punto di vista bibliografico è quello del compianto ricercatore di Iaºi, Gheorghe Pungã, Þara Moldovei în vremea lui Alexandru Lãpuºneanu, Iaºi 1994.

[26] Infatti (p. 897): “La ventura di detto Alessandro fu che il primo anno di sua Signoria [il corsivo è mio] morse li dua fratelli Elias e Costantino di morbo in Turchia, et fu spenta la Casa e progenie di Pietro Vaivoda, salvo che le femine, che una era maritata al Vaivoda della Valacchia bassa et l’altra che restava in paese la prese per moglie detto Signore Alessandro”. Ma rimanevano anche la figlia Maria, madre di Geremia Movilã (1595-1600, 1600-1606), e i figli illegittimi Iancu, che diverrà principe di Moldavia nel 1579, e Bogdan–Costantino.

[27]Alessandro […] regnando non attendeva ad altro, che acumulare tesoro, e fare ammazzare di mano in mano li Baroni vecchi, et mettere in quelli ufizii e gradi li sua parenti. Et mercantilmente quante incette erano da farsi nel suo paese, le faceva fare per suo conto proprio proibendo alli altri Mercanti, talché al suo tempo si sono rovinati quanti Mercanti usavano negoziare in suo Paese, e così signoreggiando vicino al Xmo anno si crede, che avessi congregato meglio, che dua milioni d’oro compreso le gioie che ne aveva assai, et in capo di X anni fu cacciato di Signoria et la potente causa è stato per essere lui tanto avido a perseguitare li ribelli, che alla giornata fuggivano del suo Paese non sapendo in tal perseguitazione procedere con prudenza, e così come ha proceduto ignorantemente, è stato da ignorante e goffo cacciato di Signoria, tamen fu pure tanto accorto che a tempo cavò il tesoro di quel Paese e lo condusse seco in Turchia” (pp. 897-898). Forse, fra le fonti del Pandolfi, vi furono anche alcuni mercanti che quelle vicende avevano vissuto e coi quali il Pandolfi si accompagnava.

[28]Non voglio mancare di dirvi la causa, per la quale il detto Signore Alessandro perdé la Signoria quale fu, come è detto, per perseguitare li Ribelli ignorantissimamente. Pare, che 5 anni fa capitò in Polonia un certo Greco, quale veniva di Spagna dalla Corte della Cattolica Maestà di Carlo V quale Greco da putto avea servito un Gentilomo della stirpe de li Despoti di Servia, quale serviva in la Corte di Cesare, et venendo tal Gentilomo a morte restò il detto Greco da lui allevato, quale come astutissimo subito morto il Padrone si attribuì la patente Imperiale del detto Gentilomo, quali Patente testificavano la sua nobiltà, et con tali Patenti si misse in via, et passò per la Francia e per l’Alemagna capitando in Polonia, come è detto, e per tutto si faceva avanti a’ Signori e Gentilomini, raccomandandosi, che lo aiutassino da potersi intrattenere da Gentilomo, e perché lui era persona eloquente, e dotato di parecchi linguaggi, e molto astuto, li era creduto da molti Signori, et altre persone alla giornata tanto che si andava trattenendo con parecchi servitori onoratamente, ma finalmente avendo stracco le persone da per tutto si condusse in Moldavia, e appresentossi alla Corte del sopradetto Alessandro Vaivoda dandosi a conoscere per Greco, dicendole sua discensione essere da li despoti di Samo in su la Isola dell’Arcipelago e che era restato andare in Turchia per ottenere qualche servizio, o preminenza alla Corte del Gran Turco, della qualcosa il Signore Alessandro lo sconsigliò assai, e più li disse, che a patto alcuno non vi dovessi andare, perché capiterebbe male, e che li rincresceva di lui, e appresso lo confortò a restare in Moldavia a suo servizio” (pp. 898-899). Si noti come il Basilikos si presenti ad Alessandro, palesando l’intenzione di recarsi presso il sultano.

[29] In realtà, nella lettera, viene fatto il nome del solo Alberto Laschi [sc. Alberto £aski], nobile polacco su cui ritorneremo più avanti.

[30]Occorse che lui [sc. Iakobos Basilikos] si amalò, e per farsi medicare dimandò licenza al Signore Alessandro di andare sino in Brasciovia Città nella Provincia de’ Sciuli quivi vicina 5 o 6 giornate, la qualcosa Alessandro gli concesse graziosamente, e li fece dare cavalli e servitori, e danari per la spesa. Del che lui andato in tal terra et in breve fattosi sano non volse più tornare in Moldavia, anzi se n’andò alla Regina d’Ungheria ciercando servizio, et non trovando grazia, se ne tornò in Polonia assai povero, e male avviato” (p. 900).

[31] Ritengo poi che il principe moldavo ne fosse all’oscuro e che il supposto consenso, da lui dato ai nobili per l’invio della lettera, fosse un pretesto di questi ultimi per giustificare un atto col quale essi si consegnavano nelle mani di Ferdinando I. Non è credibile, infatti, che Alessandro fosse tanto ingenuo da ritenere che i boiardi fingessero il tradimento e da non comprendere che la lettera sarebbe stata un’arma potente nelle mani del Basilikos, sia presso i Polacchi, sia presso Ferdinando I (pp. 900-901): “et il partito [sc. del Lãpuºneanu] fu che chiamati a sé tutti li Principali Baroni di Moldavia, fece che scrivessino una lettera come coniurati, e nemici in secreto di Alessandro chiamassino detto Despota con prometterli sotto loro giuramento di farlo Signore et ammazzare Alessandro, e questa lettera si soscrissono e posono il loro sigillo circa 22 delli Principali Baroni [il corsivo è mio], e mandorono detta lettera finta segretamente al detto Despota, pure come è detto con il consenso del Signore Alessandro credendosi ingannarlo e condurlo alla maza, del che sendo il detto Despota astutissimo conobbe il tratto, ma fingendo di credere loro, fecie risposta a detti Baroni ringraziandoli, e avisandoli, che si andrebbe preparando quando li parrebbe tempo si rappresenterebbe alli confini, et li farebbe avisati, et perché tal lettera finta testificava detto Despota essere il vero erede di Moldavia [il corsivo è mio], del che lui considerato di quanto favore tal lettera gli fussi si partì di Polonia segretamente con tal lettera, et andossene a trovare la Cesarea Maestà di Ferdinando, et la Maestà del Re de’ Romani raccomandandosi a loro con mostrare detta lettera allegando di aver ritrovata la sua Patria et il suo Regno, ma per essere povero non aveva il modo a mettersi a ordine onoratamente per pigliare il possesso del suo Stato. Si noti anche il numero dei nobili firmatari della lettera: è il medesimo di quelli che, a detta del Pandolfi, congiurarono contro Stefano Rareº dalla Polonia e che da lì rientrarono per porre sul trono il Lãpuºneanu.

[32] Questa l’entità dell’esercito affidato al Despota (p. 901): “Credendo la Maestà dello Imperatore, e del Re che quella lettera fussi vera e non finta lo aiutorno di danari, e gente per circa mille soldati, et con altanti uomini lo accompagnorno Signore Pollacco, il Signore Alberto Laschi, qual gente in tutto furono circa 2.200 Cavalli, e 600 pedoni mettendosi in via fra li Monti di Ungaria et il confino del Paese di Polonia, et si condussono in Moldavia. Mentre (pp. 901-902): “il Signore Alessandro aveva preparato uno esercito di giente del Paese Miemizi, cioè Nobili di circa 24 mila Cavalli, et il Signore Alessandro con la sua persona aveva tutti li Baroni, e la sua Corte circa 5 mila Cavalli, et 700 Archibusieri a piedi, et 800 Cavalli di Turchi, e Tartari da lui soldati”.

[33] Per la vita avventurosa di Iakobos Basilikos, Despot Vodã, si vedano le opere dei suoi biografi analizzate in Viaþa lui Despot Vodã. Istoriografia Renaºterii despre români, edizione bilingue, introduzione, cenni biografici, testo latino, traduzione, note, commento e indice a cura di Traian Diaconescu, Iaºi 1998, passim.

[34]Et dal principio di Sua Signoria al termine di 20 mesi [il corsivo è mio] venne occasione di guerra, perché detto Despota si era inimicato dua gran Baroni Polachi cioè il detto Signore Laschi, che lo aveva accompagnato a metterlo in Signoria, et un altro gran Barone, li quali il minacciavano di cacciarlo di tale Paese, ma il Signore Despota si era fatto tanto superbo, che non stimava più persona fidandosi nella sua prospera fortuna, et ne la sua astuzia Grechesca, qual poco gli ha giovato con li Valacchi, li quali sempre stavano attenti aspettando qualche occasione di tradirlo secondo l’uso loro, occorse che venne nuova la detto Signore Despota come li dua Signori Polachi preparavano esercito contro di lui, et da altra parte veniva ancora altro esercito di Tartari per assaltarli il Paese, del che lui fu necessitato a mandare esercito a opporsi alli suoi nimici, e così mandò giente del suo Paese circa 8 mila Cavalli” (p. 903).

[35] Il Pandolfi si riferisce al nobile lituano Demetrio Wiœniowiecki, che tentò d’impossessarsi del principato di Moldavia tra l’agosto e il settembre del 1563, andando incontro ad una disfatta; il Wiœniowiecki, insieme con molti dei suoi fedeli, fu catturato da Stefano Tomºa I e spedito in catene a Costantinopoli dove fu giustiziato, Cfr. C. Rezachevici, op. cit., vol. I, p. 674.

[36]Allora Sua Signoria si trovava essere a un luogo detto Sociava, e si fece forte in tal Castello, e vettovagliossi per parecchi mesi, et dì seguente li Valacchi il vennono a sediare con lo esercito, dove lui si è difeso circa 3 mesi [il corsivo è mio], et sono seguiti assai disordini in tale Paese, perché inimicatosi quelli populi contro li forestieri hanno ammazzato assaissimi Unghari e Taliani e Todeschi, che si trovavano forestieri in quel Paese, e son seguite crudeltà grandissime, et poi per ultimo il detto Desposta è stato ammazzato, e perché lui si era indebitato assai, ha ruinato di molti mercanti” (pp. 904-905).

[37] Cfr. C. Rezachevici, Prima încercare a lui Ion vodã cel Viteaz de a ocupa domnia Moldovei, ca urmare a “turcirii” lui Iliaº Rareº (iunie 1551), dupã un izvor polon inedit, in “Revista Arhivelor”, LII, no. 4, 1975, pp. 383-392.

[38] Per tutta questa parte si veda F. Gaeta, op. cit., pp. 731-734.

[39] Ivan il Terribile, in seguito, tentò nuovamente di penetrare in Livonia, ma i successi militari che Sigismondo riportò per contrastarlo lo indussero ad una pace che venne firmata nel 1582 e che decretò l’abbandono di quei territori da parte dei Russi.

[40] Per le notizie che seguono si veda: Rafael T. Prinke, Michael Sendivogius and Christian Rosenkreutz, in “The Hermetic Journal”, 1990, pp. 72-98.

[41] Cfr. Herman Zdzislaw Scheuring, Czy krolobojstwo? Krytyczne studium o smierci krola Stefana Wielkiego Batorego, Londra 1964.

[42] Cfr. Frances A. Yeats, L’illuminismo dei Rosa-Croce, Torino 1976, pp. 45-48 (traduzione italiana di Idem, The Rosicrucian Enlightenment, 1972), con la relativa bibliografia sull’argomento; ma anche Paul Arnold, Storia dei Rosa-Croce, Milano 1994 (traduzione italiana di Idem, Histoire des Rose-Croix, Parigi 1955).

[43] Federico V (1596-1632), succeduto al padre Federico IV nel 1610, sposò tre anni dopo Elisabetta, figlia del re d’Inghilterra Giacomo I, e divenne il campione della resistenza protestante contro gli Asburgo. Si pose, infatti, alla testa dell’Unione evangelica, accettando la corona di Boemia dopo la ribellione di questo paese all’imperatore Ferdinando II, ma fu sconfitto nel 1620, nella battaglia della Montagna Bianca presso Praga, dalla Lega cattolica. Perse così il regno, riparando in Olanda, quindi rientrò in Germania al seguito di Gustavo Adolfo di Svezia durante la guerra dei Trent’anni, ma morì senza essere riuscito a niente. Federico, da Heidelberg, governava uno Stato calvinista che intratteneva rapporti assai stretti col Ducato del Württemberg, che era stato retto, fino al 1610, da Federico I, anglofilo e luterano, in un momento in cui si ricercava una certa unità con i calvinisti. Nel Württemberg, inoltre, agli inizi del XVII secolo operava Johann Valentin Andreae, pastore luterano con interesse per il calvinismo, la cui opera, Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz, fu senz’altro in rapporto coi manifesti rosacrociani. In questi Stati, già dagli anni Ottanta del XVI secolo, si intrattenevano non solo rapporti culturali con l’Inghilterra, ma si perpetuava anche l’alleanza politica fra quel paese e i principi protestanti tedeschi. Alleanza cui si associava la Francia di Enrico di Navarra e che mirava alla creazione di una Confederatio militiae evangelicae da contrapporre alla Lega cattolica. Secondo la Yeats, l’influenza culturale e il ruolo politico di John Dee, negli anni Ottanta del XVI secolo, furono determinanti per la creazione di questi rapporti. E non è improbabile che il Dee, come già faceva in Boemia e in Germania, ricercasse, anche negli ambienti riformati polacchi, referenti come il £aski. In questo nobile polacco il Dee trovò chi, da tempo, aveva intessuto alleanze politiche presso i principi protestanti tedeschi, tentando, tanti anni prima, di acquistarsi per questo tramite il principato di Moldavia: inizialmente in accordo con Ferdinando I d’Asburgo, per portare sul trono il Despota greco, e poi in aperto contrasto con l’alleato, per destituire il nuovo principe e giocare il tutto per tutto in un tentativo andato a vuoto.

[44] Nell’agosto 1595, in Moldavia regnava Geremia Movilã, un esponente della nobiltà moldava legata alla Polonia. Geremia, che era nato da Giovanni e da Maria, figlia naturale di Pietro Rareº, aveva chiesto ed ottenuto, in accordo con Sigismondo III, la ratifica della propria elezione agli Ottomani; ma nel maggio 1600, ossia un mese prima della lettera inviata da Sigismondo III all’imperatore Rodolfo, Michele il Bravo (1593-1601), dopo aver sottomesso la Transilvania (ottobre 1599), era entrato vittorioso a Suceava cacciando Geremia, che si era rifugiato in Polonia, e divenendo principe della Valacchia, della Transilvania e della Moldavia. Tuttavia, nel settembre e nell’ottobre dello stesso anno, Michele perse i suoi possedimenti e ricercò l’appoggio imperiale, sia a Vienna che a Praga; ma quando sembrava che potesse tornare sul trono riunificato dei paesi romeni (agosto 1601), venne ucciso dagli uomini di Giorgio Basta, comandante generale delle truppe imperiali.

[45] Cfr. John Dee, Five Books of Mystical Exercises, Silian 1985, p. 232.

[46] Pisa passò sotto il dominio di Firenze nell’anno 1406, quando il commissario della Repubblica Fiorentina, Pier Capponi, prese possesso della città. Nel 1543 il duca Cosimo fece ristrutturare l’università, mentre, nel 1563, elesse Pisa a sede dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano da lui appena fondato. Quanto a Livorno, dopo il 1406, la città passò dai pisani ai genovesi, fin quando Firenze non l’occupò, nel 1421, per assicurarsi un porto efficiente sul Tirreno.

[47] La città era stata occupata dalle milizie di Paolo III (Alessandro Farnese, 1467-1549, sommo pontefice dal 1534) il 5 giugno 1540 e così annessa allo Stato della Chiesa.

[48] Bernardo di Niccolò Machiavelli (8 novembre 1503-1565), fratello del destinatario della lettera e Questore pontificio dell’Umbria dal 1551 al 1565 (esclusi gli anni 1553-1554).

[49] Si tratta naturalmente di Pietro Rareº, il cui nome spesso è stato associato a quello di Niccolò Machiavelli. Pietro Rareº fu figlio illegittimo di Stefano il Grande e di Maria, sposata in seconde nozze con un notabile di Hârlãu, e resse il principato, una prima volta, dal gennaio 1527 al settembre 1538, quindi per la seconda volta dal febbraio 1541 al settembre 1546, anno effettivo della morte. Fra il 1538 e il 1541 si susseguirono sul trono un altro figlio di Stefano il Grande, Stefano Lãcustã (settembre 1538-dicembre 1540), e suo nipote Alessandro Cornea (dicembre 1540-febbraio 1541), figlio di Bogdan III.

[50] Jelena (Elena) Katarina (Caterina) Brankoviæ, sposata in seconde nozze da Pietro Rareº nel 1530 (probabilmente dopo la morte della prima moglie Maria) e fatta strangolare da Alessandro Lãpuºneanu nel 1553.

[51] Iliaº, Stefano e Costantino.

[52] La principessa Chiajna, andata in sposa nel 1546 a Mircea III il Pecoraio di Valacchia, e Ruxandra, che fu presa in moglie nel 1552 da Alessandro Lãpuºneanu e che morì nel 1570.

[53] Iliaº (settembre 1546-giugno 1551), di circa sedici anni nel 1547, stando al prosieguo della lettera morì per malattia nel 1552 circa, in territorio ottomano, insieme col fratello minore Costantino. In realtà il primo morì nel 1555 mentre il secondo era già morto l’anno precedente.

[54] Solimano il Magnifico (1520-1566).

[55] Stefano (giugno 1551-settembre 1552).

[56] Ferdinando I di Asburgo (Alcalà di Henares, 1503 Vienna, 1564), figlio di Filippo il Bello d’Austria e di Giovanna la Pazza, fu fratello minore di Carlo V, che nel 1521 gli concesse il regno d’Austria. Ferdinando prese in moglie Anna Iagellone, sorella di Luigi II, re d’Ungheria e di Boemia negli anni 1516-1526, dal quale ereditò il regno di Boemia, ma dovette contendere l’Ungheria a Giovanni Zápolya (1487-1540), voivoda di Transilvania e poi re d’Ungheria. Dopo l’abdicazione di Carlo V (1556), Ferdinando divenne imperatore, mentre al nipote Filippo II (1527-1598) rimasero i possedimenti spagnoli.

[57] Sigismondo II Augusto (1548-1572).

[58] Giovanni Joldea (settembre 1552).

[59] Alessandro Lãpuºneanu (settembre 1552-novembre 1561, e poi nuovamente sul trono dal marzo 1564 al marzo 1568), figlio illegittimo di Bogdan III e dunque fratello di Stefano il Giovane e Alessandro Cornea.

[60] Mircea III il Pecoraio (marzo 1545-novembre 1552; maggio 1553-febbraio 1554; gennaio 1558-settembre 1559).

[61] Despot Vodã, Ioan Iacob Eraclid (novembre 1561-novembre 1563), ossia Iakobos Basilikos o Jacobus Basilicus Marchetus, che prese parte alla battaglia di Renty (1553), sotto le insegne di Emanuele Filiberto, e che scrisse il De Morini, quod Terouanam vocant, atque Hedini expugnatione deque proelio apud Rentiacum et omnibus ad hunc usque diem vario eventu inter Caesarianos et Gallos gestis, brevis et vera narratio, Iacobo Basilico Marcheto, Despota Sami authore, Antverpiae, apud Ioannem Bellerum, 1555, opera tradotta in francese nello stesso anno: Jaques–Basilic Marchet, Un brief et vray récit de la prinse de Térouane et Hédin, avec la bataille faitte à Renti et de tous les actes mémorables faits depuis deux ans en ça, entre les gens de l’Empereur et les François, par Jaques Basilic Marchet …, Anvers, Impr. de C. Plantin, 1555 (ristampa a Parigi, M. L. Techener, 1874), Cfr. Biblioteca Belgica sive virorum in Belgio vita scriptisque illustrium catalogus … cura et studio Joannis Francisci Foppens Bruxellensis …, 2 voll., Bruxellis 1739, s. v. Jacobus Basilicus Marchetus, t. I, p. 501; Constantin N. Sathas, Documents inédits relatifs à l’histoire de la Grèce au Moyen âge, vol. IX, Parigi 1890, p. XXVII.

[62] La Serbia, dopo la battaglia di Varna (1444), era caduta via via con Giorgio Brankoviæ (1427-1456) sotto il dominio ottomano, fino alla riduzione in provincia nel 1459. Forse la famiglia Brankoviæ, alla quale apparteneva Jelena (Elena) Katarina (Caterina), fatta strangolare dal Lapuºneanu perché vedova di Pietro Rareº, appoggiò da Vienna la missione del Basilikos. E questi, forse, fu scelto proprio per il fatto di aver “servito un Gentilomo della stirpe de li Despoti di Servia”.

[63] Naturalmente Braºov in Transilvania; gli Sciuli sono i Siculi o Szeklers.

[64] Isabella, figlia del re di Polonia Sigismondo I Iagellone (1506-1548) e di Bona Sforza, andò in sposa al re d’Ungheria, Giovanni Zápolya, che la lasciò vedova nel 1540. Con l’annessione dell’Ungheria all’Impero Ottomano, nel 1541, il figlio minorenne di Giovanni e Isabella, Giovanni II Sigismondo Zápolya (1541-1571), fu fatto principe della Transilvania con la madre come reggente; ma nel 1551 Isabella e il giovanissimo figlio dovettero rinunciare al principato transilvano, ricevendo in cambio due principati nella Slesia da Ferdinando I d’Asburgo. Nel 1556, però, con l’aiuto delle forze coalizzate di Alessandro Lãpuºneanu, principe di Moldavia, e di Patraºcu il Buono, principe di Valacchia, Isabella rientrò col figlio ad Alba Iulia da dove, insieme col tutore Péter Petrovics, resse il principato di Transilvania fino al 1559. A Giovanni II Sigismondo Zápolya successe, grazie alla fazione filo-ottomana, Stefano Báthory che, nel 1575, ottenne anche la corona di Polonia.

[65] Alberto £aski (1536-1603), conte palatino e pretendente al trono moldavo.

[66] Il fiume Prut che attualmente segna il confine fra la Romania e l’ex Repubblica sovietica di Moldavia.

[67] Probabilmente l’ex colonia genovese di Chilia, sul Mar Nero, che con Moncastro (Cetatea Albã) era stata conquistata da Bayezid II (1481-1512) nel 1484.

[68] Naturalmente Suceava, nell’odierna Romania.

[69] Come ho detto, il computo degli anni di regno del Despota è abbastanza preciso, giacché, se si sommano questi tre mesi, a cavallo fra l’estate e l’autunno del 1563, ai venti che il Pandolfi ha già menzionato, abbiamo all’incirca un intervallo che va dal novembre 1561 al novembre 1563. È probabile, a giudicare dal tono della lettera in questo punto, che il Pandolfi sia stato in Moldavia proprio in questo torno di tempo (essendo tornato in Italia nel dicembre di quell’anno), e forse, come abbiamo detto, fra i motivi che lo spinsero al viaggio, ve ne furono anche di natura politica e commerciale.

[70] Demetrio Wiœniowiecki.

[71] Si allude forse a Giovanni il Terribile (1572-1574), che aspirava al principato fin dal 1551. Stefano Tomºa I prese il potere a partire dall’agosto 1563 e lo tenne fino al marzo 1564, ossia circa un mese oltre la data della nostra lettera, mentre il Pandolfi dice di essere tornato in Italia per il Natale del 1563.

[72] In questo periodo Ivan IV il Terribile (1533-1584) fondava l’autocrazia russa, assumendo per primo il titolo di Zar, e perfezionava il processo di unificazione dei territori russi, iniziato dal nonno, Ivan III (1440-1505), e continuato sotto il padre, Vasilij III (1505-1533), facendo vassalli i cosacchi del Don, sconfiggendo i Tartari del Volga, spingendo i suoi domini fino agli Urali ed occupando la Siberia con l’aiuto dei Cosacchi assoldati da Grigorij Stroganov.