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Istituto Romeno’s Publications
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Annuario 2004-2005
p. 83
Gianluca Masi,
Università degli Studi di Firenze
Per avere un’ulteriore testimonianza del modo in cui, al
tempo di Stefano il Grande o pochi anni dopo il suo principato, venivano
recepite in Italia le vicende che riguardavano lui ed il suo paese, vorrei
segnalare in questa sede due fonti abbastanza note, almeno nel campo degli
studi relativi alla storia dell’Impero Ottomano, e tuttavia, ritengo, poco conosciute
per quella delle terre romene. Inizio dal Commentario
de Andrea Cambini fiorentino della origine de Turchi, et impero della casa
ottomana, del cui autore appongo di seguito una doverosa presentazione[1].
1. Breve profilo biografico di Andrea Cambini
Andrea nacque a Firenze da Antonio Cambini, probabilmente
intorno agli anni 1455-1460, ed ebbe come maestro Cristoforo Landino. Questi,
nel commento alla Divina Commedia,
cita il discepolo come traduttore in volgare delle sue Disputationes Camaldulenses: “Danthe fu el primo che
investigò gli alti sensi di Virgilio de’ quali perché molto prolixo
sarebbe qui riferire, lo quanto portò el mio ingegno nel terzo et nel
quarto libro delle nostre Disputationi
Chamaldulesi expressi et dichiarai; el quale volume Andrea Cambini nostro
discepolo traduxe in lingua fiorentina”[2].
Grazie al maestro, il Cambini entrò in contatto con l’Accademia
Platonica fiorentina[3]
e con lo stesso Marsilio Ficino, che in una lettera lo disse “prudens
moderatusque”[4], quindi
lavorò alle traduzioni dei
p. 84
dialoghi
ciceroniani Cato maior de senectute,
dedicato a Lorenzo di Bernardo de’ Medici, e Laelius de amicizia, con dedica ad Antonio de’ Medici, nessuna
delle due mai data alle stampe.
Come uomo politico e diplomatico, il Cambini ebbe
più volte incarichi da parte di Lorenzo il Magnifico[5].
Negli anni 1482-1483 fu in missione diplomatica a Ferrara, dove, su invito del
duca Ercole d’Este[6],
iniziò la traduzione in volgare dei trenta libri delle Historiarum ab inclinatione Romani imperii
decades di Biondo Flavio, che si sarebbe conclusa solamente nel 1491[7].
Dopo essere stato Priore a Firenze (maggio 1485-aprile 1486), il Cambini fu
inviato a Siena con lettere credenziali per la famiglia Piccolomini,
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quindi,
cresciuto nella stima di Lorenzo, fu nominato economo ufficiale e procuratore
del Card. Giovanni[8], ottenendo
nel 1488 l’amministrazione dell’Abbazia di Montecassino. Dimostratosi
eccessivamente zelante, fu sostituito l’anno successivo ed inviato nel gennaio
a Bologna, presso Giovanni Bentivoglio[9],
con lo scopo di trovare un accordo circa il problema dei fuoriusciti e per
porre un termine alle discordie sorte dopo l’uccisione di Galeotto Manfredi[10].
Nel novembre 1494, durante i tumulti scoppiati a Firenze contro i Medici, il
Cambini non abbandonò il Card. Giovanni: rimase ferito nel tentativo di
difenderlo ed ottemperò, così, alla promessa fatta a Lorenzo
quando questi gli aveva raccomandato, in punto di morte: “l’età del
figlio e la dignità della città”[11].
Poi però, quando Piero[12]
fu costretto all’esilio, il nostro scrittore, che dissentiva dalle scelte
politiche del nuovo signore di Firenze, divenne seguace di Girolamo Savonarola
e referendario di Francesco Valori, gonfaloniere di Giustizia, di cui condivise
in parte le sorti. Mentre infatti, l’8 aprile 1498, il frate domenicano si
arrendeva ai mazzieri della Signoria, per finir poi bruciato sul rogo il 23
maggio, e lo stesso Valori consegnatosi ad un mazziere era assalito ed ucciso
per strada, il Cambini prima vide la casa saccheggiata e data alle fiamme,
quindi il 9 mattina fu imprigionato, ma durante il processo si difese tanto
abilmente da ottenere una pena piuttosto lieve (26 aprile): un’ammenda di
centocinquanta giorni ed un’ammonizione per cinque anni. Comunque, presso
molti, rimase di lui un giudizio simile a quello che Francesco Tranchedino[13]
aveva formulato in una lettera indirizzata da Bologna, il 12 aprile dello
stesso anno, a Ludovico il Moro, duca di Milano[14]:
“Le case poste ad
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saccho
sonno solum quella di Francesco Valore,
dove erano molti armati, quali non defesero la casa, né la roba, né luy,
un’altra casa d’un suo nepote; et la casa di quello Andrea Cambyni, facto richo
per manegiare la roba de’ Medici bon tempo, ma discognoscente de chi li haveva
facto beneficio, fu anche missa ad sacho”[15].
Nei trent’anni successivi fino alla morte, avvenuta a
Firenze il 5 marzo 1527, durante un’epidemia, il Cambini pensò bene di
abbandonare l’attività politica, dedicandosi solamente, a quanto ci
è dato sapere, alla stesura dell’opera in quattro libri: Della origine de Turchi et imperio delli
Ottomani[16], rimasta
incompiuta e pubblicata postuma a Firenze, per gli eredi di Filippo di Giunta,
nel mese di giugno 1529. Quest’opera, per l’attualità dell’argomento
trattato, ebbe nel XVI secolo una certa fortuna: nel 1541, ad esempio, videro
la luce a Venezia, per i figli di Aldo Manuzio, i Commentarii delle cose de Turchi, di Paulo Giovio et Andrea Gambini,
con gli fatti et la vita di Scanderbeg[17].
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2. Stefano il Grande, principe di Moldavia,
nell’opera di Andrea Cambini
Nel Commentario
del Cambini il nome di Stefano il Grande (1457-1504) non compare mai
espressamente, mentre con il termine Valacchia s’intende naturalmente la
Moldavia. Inoltre, nelle parti riservate a Mehmet II (1444-1481) e a Bayezid II
(1481-1512), quindi per quanto concerne l’ambito storico in cui Stefano si
trovò ad agire, l’analisi dell’espansione ottomana ruota, com’è
naturale, intorno alle potenze operanti sul teatro dell’Europa centro e sud
orientale, ma nei confronti di Stefano il Grande il Cambini pratica una sorta
di “censura” che cercheremo di motivare più avanti, non ritenendo che
essa debba addebitarsi unicamente alla scarsa conoscenza della Moldavia da
parte del fiorentino[18].
Nel Secondo
libro del suo Commentario[19],
il Cambini tratta, fra l’altro, della crociata contro gli Ottomani iniziata nel
1463, per la quale Pio II[20]
patrocinò un’alleanza fra la città di Venezia, l’Ungheria e il
regno di Napoli, che portò sostegno all’Albania di Skanderbeg[21].
In quest’occasione furono presi accordi con alcune potenze dell’Anatolia
avverse agli Ottomani, ossia i Turcomanni Aqqoyunlu[22]
di Uzun Hasan (1433-1478) e
p. 88
il
regno turco del Caramanide. Prima vengono elencate dal Cambini le conquiste di
Venezia a partire dal settembre 1463, quando la Serenissima occupò gran
parte della Morea ed alcune isole dell’Egeo. Donde la controffensiva ottomana[23]
volta a stornare la minaccia portata dai Veneziani, alla stessa Costantinopoli,
con la conquista delle isole di Lemno e Tenedo, e il consequenziale blocco dei
Dardanelli. Poi, entra in scena per la prima volta quella che il Cambini chiama
Valacchia, intendendo naturalmente la Moldavia[24].
I Genovesi temono che gli Ottomani vogliano attaccare
Caffa[25],
in Crimea, ed infatti Mehmet II rivolge la flotta verso il Mar Nero ed invia in
Valacchia un contingente di cavalieri che poi indirizza su Caffa (estate 1475).
Il sultano, infatti: “rivolto ad un tratto l’armata verso il mare maggiore, et
fattovi cavalcare buon numero di genti erano ite ad soccorrere in Valacchia, ad
uno tanto medesimo ordino [sic] che si dovessimo appresentare alla città
di Capha, dove condotti, et assediatola per mare et per terra, piantatovi
subito l’artiglierie la cominciò ad tormentare […]”. Caffa cade “sotto
la iurisditione de’ Turchi, et Maumeth andando drieto al proposito fatto di
scacciare in tutto li Christiani di Grecia, messo insieme uno esercito di cento
mila huomini li mandò in Albania ad assediare la terra di Scutri [sc.
Scutari] in quel tempo posseduta da’ Vinitiani”[26].
Venezia, però, non può indurre Sisto IV[27]
a por fine alla guerra contro Firenze, nella quale anch’essa è coinvolta
con gran dispendio di uomini e di mezzi; quindi addiviene ad una pace con gli
Ottomani[28]. Mehmet II,
da parte sua, sospesa ogni attività bellica contro Venezia, invia il suo
esercito in Ungheria, egli infatti: “fe’ scorrere parte delle genti di terra in
Ungheria […]”[29]; e
probabilmente, con questa laconica citazione, il Cambini allude anche alla
campagna che gli Ottomani intrapresero nel 1476, in Moldavia, con un’azione a
tenaglia che prevedeva la penetrazione della cavalleria tartara da nord:
un’imponente azione di forza, durante la quale Stefano il Grande inizialmente
non poté fare altro che ritirarsi, evitando lo scontro frontale, e che infine
culminò nella sconfitta di Valea Albã (luglio 1476). Niente si dice,
nelle pagine precedenti, della vittoria sugli Ottomani guidati dal Beylerbey della Romelia, Solimano Hadâmbul,
conseguita da Stefano a Podul Înalt (Ponte Alto), presso Vaslui, il 10 gennaio
1475[30].
Dopo una lunga digressione sull’assedio condotto dagli Ottomani a Rodi[31],
la trattazione passa all’assedio di Otranto (luglio-agosto 1480), poiché fin
qui si
p. 89
è
spinta una flotta ottomana che pure, scrive il Cambini, era stata inviata alla
conquista delle isole Ionie. Durante l’assedio Ferdinando I d’Aragona, re di
Napoli (1458-1494), abbandonata la guerra contro Firenze, che era condotta dal
figlio, duca di Calabria[32],
trasferisce la corte a Barletta ed ottiene aiuti dagli altri principi
cristiani: in particolare ottocento cavalieri dall’Ungheria di Mattia Corvino[33]
ed alcune navi da Spagna e Portogallo[34].
Piuttosto scarsi, dunque, nel secondo libro del Cambini
gli accenni alla Moldavia e ai suoi rapporti con Mehmet II. La morte di
quest’ultimo, avvenuta il 3 maggio 1481, dà inizio al Terzo libro[35].
Dalla lotta che oppone i due fratelli: Bayezid, appoggiato dai Giannizzeri, e
Ğem alleato dei Turcomanni, di parte della nobiltà anatolica
avversa ai devºirme e, in un secondo
tempo, dei Mamelucchi d’Egitto, risulta vittorioso il primo. Bayezid II,
infatti, dopo aver fatto togliere l’assedio ad Otranto, debella il fratello in
Asia e si volge alla guerra col Caromanno,
quindi, ucciso il Caramanide detto Abraham,
nell’assedio di Tarso, e conquistata la Cilicia, l’Armenia inferiore e parte
della Cappadocia, se ne torna in Adrianopoli, giungendo alla pace anche con il
Sultano d’Egitto e di Siria[36].
Bayezid II, a questo punto, e qui si apre una larga parte
dedicata alle lotte con la Moldavia, pur avendo l’intenzione di dedicarsi al
consolidamento pacifico dei possedimenti ereditati dal padre, vuol cogliere
l’occasione di impadronirsi dell’isola di Corcira. Ma, scrive il Cambini, per
non insospettire i Veneziani, finge di rivolgersi in direzione contraria,
inviando l’esercito contro la Moldavia e la flotta alla conquista di Moncastro, colonia genovese: “[…] data
fama, per non mettere sospetto ne’ Vinitiani, di volere fare l’impresa contro
a’ Valacchi, et Amoncastro [sic], cominciò con grande fretta ad
preparare l’armata di mare […]”[37].
Tuttavia, essendo sull’avviso i
p. 90
Veneziani[38],
gli Ottomani si decidono senz’altro per la guerra contro Stefano il Grande;
Bayezid II infatti, circa l’armata di mare: “determinò seguitare come
haveva dato opinione di condurla nel mare maggiore, et inviatola ad quella
volta, impersona con le genti terrestri sadviò per la via della Burgaria
alla volta del Valaccho il quale habita nella parte inferiore verso il Ponto
Eusino […]”[39]. Qui il
Cambini allude certamente all’attacco portato dagli Ottomani nell’estate del
1484 ai porti di Città Bianca[40],
importanti centri commerciali e strategici della Moldavia. Vi è chi ha
ritenuto, erroneamente, che in questo caso Bayezid II intendesse risolvere il
problema dei corsari che occupavano il delta del Danubio e rendevano difficile
il controllo delle coste del Mar Nero da parte della flotta ottomana. Si pensa
anche che Stefano il Grande, approfittando del conflitto fra Bayezid e
Ğem, attraversasse il Danubio per scorrere la Valacchia e costringesse
Bayezid II ad un’invasione della Moldavia. Scrive comunque il Cambini a questo
proposito:
“[…] il Signore del paese,
conosciuto le forze sue non essere abbastante ad difenderlo contro a uno tanto
impeto, determinò tentare se, per via dello accordo, si poteva salvar,
confidatosi assai nella clementia et bontà di Baiasith, della quale per
tutti li paesi vicini sendo sparta fama, haveva ripieno li animi de’ popoli ad
sperare di lui bene, et mandato suoi oratori con grande segno di humiltà
ad domandare la pace, et uditoli Baiasith, benignamente senza dificultà
s’indusse ad concedergnene, et fatto di patto che li dovessi pagare l’anno
certa quantità di danari in segno di tributo, lo ricevette nella
protetione sua, et sanza soprastare, passato il Danubio et messose innanci,
condusse lo essercito, sendovi in questi dì, comparita l’armata di mare,
nel cospetto della terra di Moncastro, la quale è posta su lito del mare
vicino alla foce dove il fiume Nester mette nel mare maggiore […]”[41].
Segue dunque, per quattro pagine, la descrizione
minuziosa dell’assedio e della conquista della città, presa di mira
dall’artiglieria ottomana, alternandosi i colonnelli al comando allo scopo di
non interrompere mai il bombardamento. Ma, a detta dell’autore fiorentino, i
cittadini resistono strenuamente, trincerandosi fra le macerie delle mura,
laddove si sono aperti dei varchi, e facendo grande strage fra le truppe degli
Ottomani. Tuttavia, scrive il Cambini, “li difensori venivano ad ricevere molto
maggiore detrimento de’ pochi che perdevano, che non davano di danno de’ molti
che facevano morire de’ nimici”[42],
giacché gli Ottomani sostituivano i molti che erano morti o feriti con truppe
fresche, mentre i pur pochi che cadevano fra gli assediati non si potevano
rimpiazzare. Comunque, prima di sferrare l’attacco finale Bayezid II, per non
logorare eccessivamente il proprio esercito, concede una notte di tregua,
quindi fa sapere che, col sorgere del sole, scatenerà l’esercito
p. 91
senza
posa, notte e giorno, fino alla conquista della città, avendo concesso
ai propri soldati il diritto di saccheggiarla, una volta che l’abbiano presa, e
di uccidere tutti gli abitanti superstiti senza rispettare né età, né sesso.
Se invece la città si consegnasse, Bayezid II concederebbe ai superstiti
la libertà di restare o di andarsene, cosa che gli assediati, dopo una
lunga consultazione, decidono di fare. Bayezid II, dunque, mantiene la parola,
curando inviolabilmente che nessuno riceva danno e che quanti vogliano lasciare
la città possano “cavare tutte le cose loro”. Quindi, lasciata ben
presidiata la città e conquistati i restanti porti principali sul Mar
Nero, se ne torna ad Adrianopoli.
Ecco ciò che scrive il Cambini circa questo
episodio:
“[…] determinò [sc.
Bayezid II] seguitare come haveva dato opinione di condurla nel mare maggiore,
et inviatola ad quella volta, impersona [sic] con le genti terrestri
sadviò [sic] per la via della [p. 47] Burgaria alla volta del Valacho il
quale habita nella parte inferiore verso il Ponto Eusino, et intrato ne’ paesi
suoi scorsone, et depredato gran parte, il Signore del paese [sc. Stefano il
Grande], conosciuto le forze sue non essere abbastante ad difenderlo contro a
uno tanto impeto, determinò tentare se, per via dello accordo, si poteva
salvar, confidatosi assai nella clementia et bontà di Baiasith, della
quale per tutti li paesi vicini sendo sparta fama, haveva ripieno li animi de’
popoli ad sperare di lui bene, et mandato suoi oratori con grande segno di
humiltà ad domandare la pace, et uditoli Baiasith, benignamente senza
dificultà s’indusse ad concedergnene, et fatto di patto che li dovessi
pagare l’anno certa quantità di danari in segno di tributo, lo ricevette
nella protetione sua, et sanza soprastare, passato il Danubio et messose
innanci, condusse lo essercito, sendovi in questi dì, comparita l’armata
di mare, nel cospetto della terra di Moncastro, la quale è posta su lito
del mare vicino alla foce dove il fiume Nester[43]
mette nel mare maggiore; il luogo è molto forte di sito et di munitione
artificiale, et di grandissima importanza per le commodità del paese,
della fiumara et del mare, et per tutta la provincia d’intorno di grande stima
et reputatione, la quale acquistò a tempi massime che Sultan Maumeth
[sc. Mehmet II], il quale andatovi similmente ad campo, combattutolo per spatio
d’uno mese et non l’havendo potuto espugnare, cacciato dal rigore della
freddura, fu necessitato levarsene, fatto Baiasith scorrere et depredare tutta
la campagna, determinò, non si movendo quelli di drento, fare advicinare
l’armata di mare et ad un tratto per acqua et per terra lo circondò con
la obsidione, stringendolo in modo che non vi si poteva mettere o cavare cosa
alcuna, et veduto li terrazani obstinati ad volerlo difendere, preparate
l’artiglierie, cominciò da più bande ad battere le mura, [p. 47v]
et havendo continuato il tormentarlo per molti dì, ne haveva di
già messo in terra tante che iudicava le genti sue poter intrare drento
a loro posta, et però ordinato i colonnelli che nel combattere
succedessimo l’uno a l’altro, la mattina seguente, come apparì l’aurora,
s’appresentorono ordinate alle mura. Eransi li huomini di drento nella rovina
delle mura egregiamente riparati di argini et fossi profondissimi in modo che,
presentate nello intrare per la rottura le genti Turchesche, subito furono con
loro alle mani, et ributtandoli con grande impeto, usando in loro difesa
saetumi [sic], fuochi, dardi, et sassi, con tanto animo si portavano che, morti
et feriti di quelli di fuora grande numero, più volte gli rispinsono
fuora della terra, ma abbondando li inimici di huomini, facilmente si
rifacevano, venuto
p. 92
nuove genti nella battaglia,
non concedevano alcuno spatio di riposo alli assediati, de’ quali, sendone
morti et feriti, né havendo da supplire in luogo di quelli che mancavano,
diminuendo al continuo, li difensori venivano ad ricevere molto maggiore
detrimento de’ pochi che perdevano che non davano di danno de’ molti che
facevano morire de’ nimici. Et Baiasith havendo contenuto li suoi buono spatio
del dì ad combattere, fatto sonare ad raccolta et staccato la battaglia,
gli ricondusse in campo, con animo che la mattina seguente si ordinassi in modo
l’essercito che, partitolo in molti colonnelli, li quali nel combattere
succedessino in modo l’uno all’altro che potessino, rinfrescando al continuo
nuovi colonnelli, continuare sanza intermissione la battaglia, dì et
notte tanto havessino spianati ripari et consumato li difensori, et con questo
proposito licenziato le genti, fe’ intendere loro che, posati la notte, l’altro
giorno prima che il sole apparisse, si trovassino alli ordini loro per tornare
di nuova [sic] ad combattere con animo di lasciarvi la vita o guadagnare [p.
48] la terra prima se ne staccassno, veduto i terrazzani li preparamenti de’
nimici, non mancato loro animo, non obstante conoscessino il pericolo nel quale
si trovavano, sendo indeboliti molto per li feriti et morti, riparato i luoghi
che ne havevano di bisogno, si prepararono con tutte le forze che restavano
loro alla difesa. Venuto il dì seguente Baiasith, ricondotto tutte le
genti ordinate alla terra con strepito grandissimo, di suoni et di grida et
tumulto delle sue genti, le quali indubitatamente si promettevano la vittoria,
si appresentarono alle mura in maniera che non restava non dare drento,
Baiasith desiderando di salvare, potendo, li huomini et la terra,
determinò fare pruova se, conosciuto il pericolo, potessi d’accordo
indurli ad levarsi dalla obstinatione loro, et fatto cenno volere loro parlare,
mandò innanci uno suo mandato ad fare loro intendere come venivano con
proposito fermo di non staccare la battaglia dì et notte, fino non
havessino guadagnato la terra, et se aspettavano de essere forzati, denuntiava
loro come haveva conceduto la terra in preda, né perdonato, né a età né
a sesso, tutti vi sarebbano drento fatti morire, ma quando si volessino dare,
sarebbe per riceverli salvo l’havere et le persone, et messili in
libertà, sarebbe in loro arbitrio lo stare o il partirsene; udito quelli
di drento l’offerta del Signore, né veggendo via di potersi salvare, non sendo
restati tanti che fussino bastanti ad difendere li ripari, presono tempo per
uno piccolo spatio ad rispondere, et ristretti insieme li capi, dopo alcune
dispute determinorono accettare le conditioni sute offerte, confidando massime
per la buona opinione che havevano di Baiasith, che avessi ad essere osservato
loro la fede, fatto la deliberatione, mandorono loro mandati ad dare la terra,
et suti accettati con [p. 48v] buona gratia da Baiasith, curò
inviolabilmente che non fossino dannificati in cosa alcuna, dato licentia a
quelli che sene volessino partire che, sanza impedimento, ne potessino cavare
tutte le cose loro, et lasciato bene guardato Moncastro, sendo assicurato di
non potere da quella banda essere offeso, et havendo ridotto in potere suo
tutti i liti del Mare Pontico, assicurò in modo quello che contro alla
volontà sua non vi si poteva navigare, havendo in mano tutti li porti et
le foci delle fiumare che in quello mettono, et espedito l’impresa, dato volta
adrieto, ricondusse l’essercito in Romania, dove distribuitolo alle stanze, si
fermò con la corte in Andrinopoli”[44].
p. 93
Qui si conclude ogni accenno del Cambini alla Moldavia di
Stefano il Grande, e assai spazio è concesso alla presa dell’ex colonia
genovese di Moncastro, ossia ad un episodio attinente soprattutto alle gesta di
Bayezid II. Ma anche ammettendo la scarsa dimestichezza dello scrittore
fiorentino con la Moldavia ed il fatto che egli si occupa essenzialmente di
storia ottomana, per motivare quella che in modo provocatorio abbiamo chiamato
la “censura” del Cambini reputiamo che, da un lato, data anche la fede
ortodossa di Stefano il Grande, detto talvolta nelle fonti occidentali “scismatico”
o “greco”, giochi un ruolo fondamentale, in questo caso come in altri, la
volontà di mettere in primo piano le gesta del re d’Ungheria, Mattia
Corvino, oppure il ruolo svolto dai governanti della Polonia o dell’Albania.
D’altro canto, è possibile che il Cambini abbia scritto la sua opera,
almeno per quanto riguarda la parte in cui sono inclusi gli episodi moldavi[45],
al tempo in cui era uomo politico di primo piano e ben informato nella Firenze
di Lorenzo de’ Medici (probabilmente nel periodo delle sue prime missioni
diplomatiche, a partire dal 1482), e che dunque abbia avuto ben presenti,
scrivendo, le alleanze strette dalla città in quel periodo. Ovvero si
può ipotizzare che, almeno per quelle parti, il punto di vista politico
del “prudens moderatusque” Cambini, a causa del materiale e delle fonti di ogni
genere da lui usate per compilare il suo Commentario,
risentisse anche in seguito, quando visse ritirato dalla vita pubblica
(1498-1527), del contenzioso internazionale tipico degli anni in cui, a Firenze,
si tentava una difficile gestazione, e poi gestione, dell’asse politico con
Napoli e Milano.
Sebbene, già dopo la morte di Filippo Maria
Visconti, duca di Milano (agosto 1447)[46],
fosse evidente che il pericolo principale, anche per Firenze, era rappresentato
p. 94
dalla
politica espansionistica della Repubblica veneziana, e perciò Cosimo de’
Medici, da un lato, appoggiò Francesco Sforza, dall’altro,
rinunciò ad ingerirsi nella crisi della successione napoletana, la
politica di strutturazione della triplice Firenze–Milano–Napoli registrò
forti contrasti nella città toscana perfino da parte dell’oligarchia
filo-medicea, sia con Cosimo (fino al 1464), sia negli anni in cui si
trovò al potere Piero il Gottoso (fino al 1469), padre di Lorenzo. Del
resto, la stessa storia della penisola italiana, negli anni fra il 1454 e il
1494, mostra che la Lega italica, istituita dopo la pace di Lodi (1454), non
servì allo scopo, né quando Ferdinando d’Aragona dovette affrontare la
guerra contro Giovanni d’Angiò[47],
conclusasi vittoriosamente per Ferdinando, dopo alterne vicende, con la
battaglia di Troia in Puglia (1462), né quando Pio II emanò la bolla Vocavit me e bandì la crociata
nella dieta di Mantova (1459), né quando Firenze si trovò contrapposta a
Sisto IV in seguito alla congiura dei Pazzi (1478), né quando Mehmet II
attaccò Otranto (1480). E da questo punto di vista non funzionò
neppure l’asse politico fra Firenze, Milano e Napoli, se non nel senso di
preservare il territorio italiano da ogni tentativo espansionistico di Venezia,
oltre che il Regno di Napoli dalle pretese angioine.
Comunque, dopo la congiura dei Pazzi, Lorenzo si
trovò isolato rispetto alle potenze italiane che si erano alleate nella
crociata contro gli Ottomani voluta da Pio II, ossia il Papato, Venezia e il re
di Napoli, cui, naturalmente, si aggiungevano l’Ungheria e la stessa Moldavia.
Il pontefice aveva appoggiato la congiura e Ferdinando scese in campo contro
Firenze, mentre a Milano, alla fine del 1479, era prevalso con l’aiuto
aragonese Ludovico il Moro. Ma Lorenzo, con abile mossa, risolse la crisi nel
1480 accordandosi con Ferdinando; ed infatti la supremazia dei Medici, da
Cosimo a Lorenzo, si era basata e si basava principalmente sulle amicizie e
sulle relazioni che essi sapevano intrattenere con i principi italiani. Ed in
genere fu l’appoggio di Milano ad essere, anche per Lorenzo, di vitale
importanza. Ad ogni modo il prestigio del Magnifico si accrebbe notevolmente a
Firenze a seguito dei successi diplomatici da lui conseguiti e soprattutto, in
questo frangente, per come egli risolse la crisi scoppiata dopo la congiura dei
Pazzi[48].
D’altro canto gli stati coalizzati nella crociata antiottomana non erano certo
solidali fra loro, né quelli italiani, come già si è visto, né
quelli stranieri. Lorenzo, da parte sua, come testimonia
p. 95
anche
Theodoro Spandugino Cantacuzeno, intratteneva buoni rapporti sia con Mehmet II[49],
sia con l’Ungheria, la quale, pur aderendo alla crociata come Stefano il Grande,
spesso si trovava in contrasto con la Moldavia[50].
Quanto poi a Mattia Corvino e ai sui rapporti con la
potenze italiane, il re ungherese, dopo la morte di Caterina Podebrady,
essendosi risposato il 22 dicembre 1474 con Beatrice d’Aragona, figlia di Ferdinando,
si trovò allineato alla politica del re di Napoli
p. 96
e
dalla parte di Sisto IV; quindi, attraverso gli Aragonesi, venne in contatto
con altre città dell’Italia, ad esempio la Ferrara degli Estensi.
L’esercito di Mattia portò aiuto al suocero durante l’assedio di Otranto
e poi negli anni 1486 e 1488 contro il papa Innocenzo VIII[51]
e contro Venezia, giacché l’alleanza nata nel 1480 fra Firenze, Milano e Napoli
aveva avviato trattative anche con l’Ungheria, per ottenere l’appoggio di
Mattia contro il pontefice e la Serenissima. In precedenza, il re ungherese
aveva sempre mantenuto buoni rapporti con la Santa Sede, sfruttando al meglio
il desiderio dei Papi di intraprendere la lotta contro gli Ottomani, e dopo il
fallimento dell’imperatore Federico III[52]
fu Mattia ad essere ritenuto il defensor
ecclesiae. Ma Innocenzo VIII non volle accontentare il re ungherese nella
sua pretesa di impossessarsi di Ğem, lo sconfitto fratello di Bayezid II.
Ğem, con l’aiuto di Venezia, la quale temeva che Mattia potesse
servirsene, prima finì nelle mani del re di Francia, Carlo VIII[53],
poi fu riconsegnato al pontefice. Ma un motivo di screzio fra Mattia e
Innocenzo fu anche il caso del porto di Ancona, città che vide nel re
ungherese un mezzo per emanciparsi dal controllo politico dello stato
pontificio e da quello commerciale di Venezia.
Inizialmente i rapporti con Venezia erano stati per
Mattia strettissimi, a causa della comune lotta contro gli Ottomani e contro
l’imperatore Federico. Infatti, nel 1463, Venezia e il re ungherese avevano
attaccato gli Ottomani contemporaneamente, la prima nel Peloponneso, il secondo
in Bosnia; ma proprio i successi di Mattia in Bosnia furono motivo dei primi
screzi: Venezia temeva di perdere la Dalmazia e la situazione peggiorò
quando, intervenendo nella lotta di successione della famiglia Frangipane[54],
Mattia occupò il porto di Zengg, di cui Venezia richiese la
restituzione. Inoltre, nel 1474, il matrimonio con Beatrice d’Aragona rese
Mattia ancor più pericoloso agli occhi dei veneziani. Altri dissapori
sorsero, sempre a causa dei Frangipane, nel caso dell’isola di Veglia, quando
Giovanni Frangipane chiese, nel 1479, l’aiuto dei veneziani contro le truppe
ungheresi di Biago Magyar; inoltre Mattia fu messo in seria difficoltà a
causa del trattato di pace ottomano-veneziano, a seguito del quale Mehmet II,
nell’ottobre dello stesso anno, fu libero di invadere con le sue truppe i
territori ungheresi. Ma, nonostante i dissapori con la Serenissima e la
parentela col re di Napoli, Mattia non volle aderire alla lega contro il
pontefice e Venezia, e nel 1482, quando Venezia attaccò Ferrara, fu
sordo alle richieste del re di Napoli. In realtà la politica di Mattia
Corvino era essenzialmente orientata in
p. 97
direzione
dell’imperatore Federico, e gli aiuti che egli cercava in Italia, presso Napoli
e Milano, erano volti in questa direzione[55].
Se dunque tiriamo le fila del quadro fin qui delineato,
ci pare di poter sostenere che la politica di Firenze, con la continuità
espressa nel frustrare le mire espansionistiche di Venezia, almeno fin dai
tempi di Cosimo, ma soprattutto a seguito dei rapporti intessuti da Lorenzo
dopo la congiura dei Pazzi e per il consolidamento dell’asse
Firenze–Milano–Napoli, abbia influenzato il Cambini, fiero sostenitore del Magnifico
e della sua politica negli anni 1480-1492, per la composizione dell’opera
storiografica sugli Ottomani e fors’anche nella scelta di un simile soggetto.
Ed inoltre riteniamo che in quest’ottica, sul grande sfondo delle lotte fra
Venezia, Mattia Corvino e gli Ottomani, il punto di vista adottato dal Cambini
penalizzasse chi si trovava in disaccordo col re d’Ungheria, ossia quello
Stefano il Grande di Moldavia che negli anni ottanta del XV secolo, dopo la
presa di Chilia e Città Bianca da parte di Bayezid II (1484),
tentò di riconquistarle con l’aiuto del re polacco Casimiro, e che si
riavvicinò all’Ungheria solo con l’inasprirsi della rivalità
polacco-magiara e soprattutto, ormai dopo la morte di Mattia, a seguito della
guerra che la Moldavia dovette affrontare contro Giovanni Alberto, successore
di Casimiro[56].
Ma proviamo a prendere in considerazione un’altra fonte,
l’opera di Theodoro Spandugino Cantacuzeno[57],
il quale cita, in modo succinto, almeno una vittoria di Stefano
p. 98
il Grande,
da lui chiamato Valacco o Carabogdano[58],
e meglio delinea le ultime fasi della vicenda politico-militare del principe
moldavo, soprattutto nei rapporti intrattenuti con la Polonia di Giovanni
Alberto.
Ed iniziamo, anche in questo caso, con una breve
presentazione dell’autore.
3. Breve profilo biografico di Theodoro
Spandugino Cantacuzeno
La famiglia greca Spandounis, per quanto di origini molto
antiche, è menzionata per la prima volta nel corso del XV secolo,
periodo in cui esprime letterati e personaggi di rilievo dediti ad
attività politiche e militari. Il nostro Theodoro, figlio di Matteo
Spandounis, risulta imparentato con le famiglie dei Diplovatacis, dei Lascaris[59]
e dei Paleologi. Può vantare, inoltre, sia la discendenza dalla famiglia
dell’imperatore Giovanni Cantacuzeno[60],
che la parentela con la stessa famiglia imperiale degli Asburgo e con i
principi di Serbia e Bosnia.
Theodoro stesso si dice fanciullo intorno al 1465[61].
Dieci anni dopo la madre Eudocia, figlia di un Theodoro Cantacuzeno omonimo del
nostro, si stabilì a Venezia con
p. 99
la
parente Anna Notaras[62],
figlia del celebre ammiraglio Loucas, promessa per un certo periodo
all’imperatore Costantino XIII Paleologo[63]
e nipote di Demetrio Cantacuzeno, figlio dell’imperatore Giovanni. Anna, come
tanti altri fuoriusciti greci, era giunta in Italia dopo la caduta di
Costantinopoli e dallo stesso anno 1475 risiedeva a Venezia provenendo con
Eudocia da Roma. Negli anni 1472-1475, aveva tentato un accordo con la
Repubblica di Siena per ottenere in concessione il castello di Montacuto, in
quella Toscana in cui, come a Venezia, trovavano rifugio molti altri greci
scampati all’invasione ottomana. Con decreto del 18 giugno 1475, nel quale per
la prima volta Eudocia è detta moglie di Matteo: “[…] domine Eudochie
Cantacusini, uxoris egregii viri Mathei Spandonini […]”, il Consiglio dei Dieci
concesse eccezionalmente, ad Anna ed Eudocia, il permesso di celebrare messa in
lingua greca nella loro casa, a condizione che altri greci non assistessero al
rito. Il privilegio venne poi prorogato negli anni 1480 e 1489[64].
Ai finanziamenti e al favore delle due donne si deve anche la fondazione della
prima stamperia greca a Venezia, per merito del cretese Marco Musuro, la cui
prima prova, l’Etymologikon mega[65],
venne dedicata proprio ad Anna. Le due donne, inoltre, tenevano rapporti, anche
proficui per la diplomazia veneziana, con i parenti stabiliti presso la corte
ottomana, ed è probabile che in queste occasioni facessero da
intermediari proprio Matteo ed il figlio Theodoro. Questo stesso, nella sua
opera, ci ha lasciato notizie su Irene Cantacuzeno, moglie di Giorgio
Brankoviæ, despota di Serbia, e sorella di Giorgio Paleologo Cantacuzeno (†
1459), che si era distinto al servizio dell’ultimo imperatore di Bisanzio, Costantino
Paleologo, e che fu bisnonno di Theodoro per parte di madre[66].
Irene e Giorgio di Serbia ebbero due figlie, Caterina e Maria, quest’ultima
andata in sposa al sultano Murad II (1421-1451). È dunque probabile che
Matteo godesse della protezione della sultana quando, nel 1465, visitò
Gallipoli col figlio Theodoro, che in questa occasione poté vedere con i propri
occhi, ancora
p. 100
fanciullo,
i prigionieri peloponnesiaci catturati a seguito del disastro di
Kalàmata[67]. È
probabile anche che Theodoro apprendesse dalla zia sultana i primi rudimenti
della lingua turca e le tante notizie relative a Mehmet II. A Maria, Mehmet
aveva assicurato nel 1458 il possesso del monastero di S. Sophia a Tessaloniki,
città nella quale era assai in vista un uomo d’affari della famiglia
Spandounes, Loukas († 1481); per cui è probabile che anche Matteo
Spandounes e poi suo figlio Theodoro avessero proprietà e interessi da
amministrare in quella città[68].
Insieme con Maria era alla corte ottomana anche la sorella Caterina, vedova di
Ulrico, conte di Cilli[69]
e fratello dell’imperatore Federico III[70].
Nel 1472, Caterina si servì del giovane Theodoro per una missione presso
la Repubblica veneziana circa l’acquisizione della fortezza di Belgrado nel
Friuli. Il 9 dicembre 1488, la suddetta fortezza risulta ceduta da Caterina a
Matteo Spandounis e ai suoi eredi: “Matheo Spandonino equiti et comiti
palatino, ob amorem nepotis sue [sc. Eudocia, nipote di Caterina], uxoris
dicti Mathei”[71].
La donazione di Belgrado si ebbe certamente col permesso di Federico III
d’Asburgo. Matteo, infatti, dopo essere stato uno dei cavalieri greci detti a
Venezia stradioti, si era posto al
servizio dell’imperatore e per i suoi meriti aveva ottenuto nel 1454 il titolo
di cavaliere e conte palatino, con un feudo in Grecia, in partibus infidelium, non lontano da Naupatto, in cui erano
incluse la città di Loidoriki e l’isola di Trizonia
p. 101
(della
Tridogna, come la chiama Theodoro)[72].
Questa probabilmente era la zona d’origine della famiglia Spandounes, giacché
l’isola veniva anche detta Spandonìsi
(Σπανδωνησι) e il distretto,
dal 1446, aveva preso il nome di Cantacuzinopolis. Matteo morì nel 1511
lasciando due figli, Theodoro ed Alessandro, ed una figlia andata in moglie a
Michele Trevisan[73].
Prima del 1499 e dell’inizio della guerra intrapresa da
Bayezid II contro Venezia, Theodoro si trovava certamente in Occidente.
Tuttavia, dopo la pace del 1502, egli stesso ci informa[74]
di essere tornato a Costantinopoli per sostenere la domanda d’indennità
presentata dal fratello Alessandro, morto dopo essere andato incontro ad un
tracollo finanziario. A seguito di questi fatti, Theodoro decise di dedicarsi
alla composizione della sua opera storiografica, parte della quale è
andata perduta. Mentre componeva, il nostro Theodoro aveva sotto gli occhi i
libri di Leonico Calcocondila, da lui citati: “Laonico Atheniense, che fu
secretario di Amorath II [Mourad II]”[75];
libri che trattano degli anni 1298-1463, con digressioni che giungono fino al
periodo 1484-1487. Mentre, per quanto riguarda la storia di Critobulo, il
Sathas la ritiene una fonte determinante, ma il Nicol le nega questo ruolo. Di
altre fonti greche riguardanti la caduta di Costantinopoli (1453) e il regno di
Mehmet II non vi è traccia, secondo il Nicol, anche se il Cantacuzeno a
nostro avviso avrebbe potuto tener presente, oltre a Critobulo, anche Giorgio
Sphrantzes, almeno per l’episodio del fiorentino Bernardo Bandini[76].
Tuttavia, oltre alle testimonianze dirette,
p. 102
orali
o scritte, sue e dei suoi familiari, il Cantacuzeno più volte, e fin
dall’incipit della sua opera:
“Havendo io con ogni diligentia et sollecitudine fatto cercare li
hystoriographi de Turchi che trattano della origine dela potentissima casa de
Ottomani […]”, si appella anche agli hystoriographi
e scrittori turchi o hystorie
e annali de Turchi[77],
ma non possiamo stabilire se abbia letto gli annalisti turchi oggi
sopravvissuti: Mehmet Neshri, Tursun Beg e Ibn Kemal[78].
Per quanto riguarda le precedenti storie degli Ottomani già prodotte in Italia,
il Nicol si sofferma soprattutto su quelle di Nicola Sagundino e Gian Maria
Angiolello[79]. Da questi
autori, però, non è possibile stabilire una dipendenza del
Cantacuzeno, ed inoltre, per quanto riguarda il Sagundino, avendo egli scritto
la sua opera nel 1456, è inutile ricercarvi un qualsiasi accenno a
Stefano il Grande. L’opera dell’Angiolello, invece, che non fu inclusa dal
Sansovino nella sua Historia, risulta
di grande interesse per la storia della Moldavia, giacché l’autore
partecipò alla campagna ottomana del 1476 contro Stefano il Grande.
Dalle eventuali fonti del Cantacuzeno il Nicol esclude Paolo Giovio, che
cominciò a pubblicare a Roma dal 1531, per quanto non neghi che il
Cantacuzeno avrebbe avuto il tempo di conoscere l’opera del vescovo di Nocera,
mentre non fa parola del Cambini. Circa le fonti usate da quest’ultimo autore,
che, per inciso, potrebbe aver composto parti della sua opera già
qualche anno prima del 1498 e del ritiro dalla vita pubblica, non si possono
escludere in generale le opere sugli Ottomani prodotte in Italia prima di lui,
mentre riteniamo che vadano escluse senz’altro le fonti
p. 103
turche
e greche che, forse, il Cantacuzeno ebbe sotto gli occhi[80].
Tornando al Cantacuzeno, l’unico autore italiano di cui egli faccia espressa
menzione è Marino Scodrense, ossia Marinus Barletius, che scrisse una
vita di Skanderbeg e un resoconto dell’assedio di Scutari del 1474[81].
Infine il Nicol include nel novero delle possibili fonti del Cantacuzeno:
Costantino Mihailoviæ di Ostroviça, Giorgio di Ungheria e Felix Petanèiæ[82].
p. 104
Fino al 1509, Theodoro Cantacuzeno risedette a Venezia
per occuparsi della liquidazione dell’impresa commerciale del fratello. In
quell’anno poi, a detta del Sanudo, si trovò esposto all’ira del
Consiglio dei Dieci. Dopo il trattato di Cambrai, infatti, nonostante il
divieto di tenere relazioni col personale dell’ambasciata francese, Theodoro
aveva commesso l’imprudenza di continuare i rapporti con Giano Lascaris, suo
parente ed amico, che era stato nominato nel 1507, per la seconda volta,
ambasciatore di re Luigi XII presso la Serenissima Repubblica di Venezia[83].
Per questi motivi Theodoro, il 25 aprile 1509, fu condannato alla deportazione
nella fortezza di Arbe in Dalmazia (oggi Rab, in territorio croato), pena
commutata più tardi nell’esilio. In questa occasione è probabile
che il nostro autore si recasse in Francia, dove, su presentazione del
Lascaris, avrebbe potuto facilmente introdursi a corte[84].
Dopo la Francia, Theodoro si trasferì a Roma aderendo, come altri greci,
al progetto della crociata voluta da Leone X. Quindi, dopo un altro breve
soggiorno in Francia, nel 1516 fu di nuovo a Venezia, in compagnia
dell’ambasciatore francese De la Vernéde, con lettere di Luigi per reclamare il
castello di Belgrado, allora ambìto dai veneziani[85].
Da Venezia, dove non sappiamo quale fosse la risposta del Consiglio dei Dieci,
ma possiamo bene immaginarcela, Theodoro tornò a Roma per sostenere il
piano di Giano Lascaris e la crociata contro gli Ottomani. Tuttavia l’avvento
di Adriano VI[86]
mandò in fumo il progetto e le speranze dei fuoriusciti greci, per cui
pare che Theodoro prendesse la via di Vienna per trovare, in quella corte, chi
potesse aiutarlo a recuperare il castello di Belgrado. La descrizione
dettagliata della battaglia di Mohács (1526) fa ritenere al Sathas[87]
che il nostro Theodoro ne sia stato testimone oculare, se non addirittura
impegnato in prima persona nelle operazioni, così come potrebbe essere
accaduto nel caso dell’assedio di Vienna (1532). Dopo il 1538 si perdono le
tracce del nostro scrittore, ma dal Sanudo[88]
sappiamo che Manuele, figlio di Alessandro, si stabilì definitivamente a
Costantinopoli, dove la dinastia degli Spandounis si è perpetuata fino
ai giorni nostri.
Per la sua opera, Theodoro attese a più redazioni[89].
Ma, a tutt’oggi, non esiste uno studio che analizzi la storia della tradizione
del testo di cui ci stiamo interessando. Al momento si può solo dire
che, dell’opera del Cantacuzeno, una prima redazione è quella conservata
nel manoscritto Italiano H 389 della Biblioteca Universitaria di Montpellier
(sezione medicina): una sorta di “promemoria” dedicato, poco dopo il 1513, al
pontefice Leone X. In questa occasione un secondo esemplare fu inviato dal
Cantacuzeno a Gian Matteo Giberti, poi segretario di Clemente VII[90]
e vescovo di Verona (1524). Un’altra
p. 105
redazione,
al momento la più lunga e la più completa, costituisce un chiaro
ed ampio sviluppo dei brevi cenni contenuti nella versione presentata a Leone
X. Questa seconda redazione è quella pubblicata dal Sathas e pervenuta
nel codice della Biblioteca Nazionale di Parigi (fonds italien 881): l’esemplare stesso offerto nel 1538 ad Enrico
II, allora Delfino di Francia[91].
Dell’opera del Cantacuzeno si ebbero anche traduzioni in francese riscontrabili
in quattro manoscritti: uno della Biblioteca del Museo Condé a Chantilly (XIV H
36), intitolato: Petit Traité de Theodore
[…] Cantacuzin, Constantinpolitain,
de l’origine des princes ou empereurs des Turcz, ordre de leur court et
coustumes de la Nation e datato probabilmente al 1512-1515, e tre della
Biblioteca Nazionale di Parigi (fonds
français 5588, 5640, 14681). La traduzione fu effettuata nel 1519, almeno
per il primo ed il terzo manoscritto parigino, dal signor Balarin de Raconis
per Galiot de Genouillac, gran maestro dell’artiglieria, e reca la dedica a
Luigi XII[92]. Dedica da
cui apprendiamo che l’originale italiano fu offerto al re dallo stesso
Theodoro, giunto in Francia dopo l’esilio comminatogli a Venezia nel 1509[93].
Infine, nella versione stampata nell’Historia
di F. Sansovino, Theodoro afferma di aver aggiunto alla sua opera
storiografica, su invito del Card. Farnese[94]
a Roma, una parte relativa alle guerre condotte da Šāh Ismā‛īl
contro gli Ottomani: a mia conoscenza, il solo cod. Parigino fonds italien 881 del 1538 presenta,
p. 106
ai
ff. 165-177 (in C. N. Sathas, op. cit.,
pp. 252-260), una terza parte dedicata a “Sach Ismael e Sach Tamas suo
figliolo, vulgarmente nomati Sophi”[95].
La redazione servita di base alle due edizioni a stampa,
di Lucca e di Firenze già citate, è probabilmente intermedia fra
quella primitiva, offerta a Leone X, e quella parigina del 1538, per quanto,
nello sviluppo dell’opera, le due edizioni a stampa siano assai più
vicine alla seconda. Tuttavia l’edizione a stampa di Firenze, benché testimoni
la medesima redazione seguita dall’edizione di Lucca, se ne discosta tanto da
costituire una revisione profonda dell’opera dal punto di vista della lingua e
dello stile, non senza implicazioni per il contenuto, come vedremo in seguito;
mentre, come si è detto, l’edizione lucchese, ponendosi in una fase
redazionale che manca delle stesse parti dell’edizione fiorentina, si avvicina
già a quella che sarà la lettera della redazione più
completa, testimoniata dal codice parigino del 1538. Pertanto è lecito
dire che l’edizione di Lucca conserva più di quella fiorentina il testo
composto in questa fase dall’autore, e che dunque qualcuno, a Firenze, è
intervenuto pesantemente, su un testo simile a quello lucchese, al fine di
rimediare alle mancanze del Cantacuzeno in fatto di stile[96].
Le tre edizioni a stampa, comunque, compresa quella del Sansovino, vennero alla
luce dopo la morte di Theodoro e mostrano in generale assai scarsa attenzione,
mentre il codice di Parigi fonds italien 881,
pubblicato dal Sathas, oltre ad offrire alcune parti sconosciute alle edizioni
a stampa, permette rispetto ad esse correzioni di errori grossolani e getta
luce sulle opere del Cantacuzeno ritenute in passato anonime[97].
p. 107
4. Stefano il Grande nell’opera di Theodoro
Spandugino Cantacuzeno
Il Cantacuzeno, nel Primo
libro della sua opera, dopo aver trattato della conquista della Bosnia da
parte degli Ottomani e dell’assedio di Belgrado, che si concluse con la rotta
dell’esercito turco e col ferimento dello stesso Mehmet II (1463-1464)[98],
passa a trattare della campagna che questi intraprese nel 1465 contro la
Valacchia e la Moldavia:
“[…] Non perterrito
però per questo Mehemet [sc. Mehmet II], lo anno seguente, andò a
campo alle fortissime città del Carabogdan, cioè Chieli et
Moncastro, et [f. 37] non possendole ottenere lassò lo assedio, perché
el Carabogdan se li fece tributario, et similmente el signor dell’altra
Valacchia[99] tolse a
pagare più del doppio che non pagava Carabogdan, et si obligò
anchora andar a basciare lo pede dello imperatore Turco ogni duoi [sic] anni,
una volta personalmente, et tener el più parente propinguo [sic] per
stagio [sic] in la corte del ditto signor Turco. Carabogdan sempre fu in grande
esistimatione [sic] apresso li Turchi, et questo
p. 108
perché andando Mehemet a
metter el campo a Chieli et Moncastro, bastò l’animo a Carabogdan con
manco di XX milia combattanti [sic] ad assaltare avanti giorno lo esercito di
Turchi, ove personalmente si trovava lo imperator Mehemet; nel qual esercito
fece uno incredibile macello de’ Turchi, et sopravenendo lo giorno, benché
havesse vittoria, per esser tanta infinità di Turchi, non possendo
sostenere tanto impeto, si mise in fuga et salvossi con la maggior parte delli
suoi. Questo ha grande exemptione [sic] imperoché non è tenuto dar
ostaggi, né andare personalmente a basare [sic] il piedi [sic] dello imperator
de’ Turchi”[100].
Dal confronto fra il testo dell’opera conservato nel cod.
Parigino fonds italien 881, le due
edizioni a stampa e la prima redazione dedicata a Leone X, emergono elementi
interessanti. Innanzitutto, il primo accenno del codice parigino alle
città di Chilia e Moncastro (Città Bianca) (il medesimo
nell’edizione lucchese con lievissime differenze): “Non perterrito però
per questo Mehemet, lo anno seguente, andò a campo alle fortissime
città del Carabogdan, cioè Chieli et Moncastro, et non possendole
ottenere lassò lo assedio, perché el Carabogdan se li fece tributario”,
nell’edizione fiorentina non compare, ma trova luogo una versione più
generica ed imperfetta: “Né per questo Maometto si spaventò punto, anzi
fatto più coraggioso, l’anno seguente se n’andò all’assedio della
fortissima città del Carabogdano, la qual prendendo la fece tributaria”,
in cui non si menziona il fallimento del sultano nell’assedio delle due
città ed è, addirittura, la capitale stessa della Moldavia ad
essere espugnata dall’esercito ottomano. Tale rielaborazione, dovuta forse ad
esigenze ideologiche, di semplificazione o di altro genere, fra cui si notano
anche miglioramenti
p. 109
stilistici,
non mi pare dovuta alla mano del Cantacuzeno, come dimostra il confronto, oltre
che con l’edizione di Lucca, anche con la prima redazione dell’opera, che
riporta nel manoscritto di Montpellier: “[Mehmet II] Fo a campo in persona a
Cheli et Moncastro, terre del principe de Valacchia, quale non potendo expugnar
abbandonò l’impresa”, in cui il fallimento di Mehmet II è
menzionato. Tale rielaborazione, quindi, è da ritenere successiva alla
morte del Cantacuzeno, ossia imputabile a chi in Toscana elaborò il
testo dell’edizione a stampa, evidentemente il piacentino Ludovico Domenichi:
almeno per l’edizione fiorentina, nella quale traspaiono tutte quelle
caratteristiche che hanno segnato la vita e l’attività di questo
personaggio. Il Domenichi infatti fu poligrafo, traduttore ed autore di
revisioni linguistiche, ma anche plagiario e spregiudicato rifacitore di opere
altrui, tanto che il fiorentino Anton Francesco Doni, in precedenza suo amico,
ne criticò poi acerbamente: “l’arroganza di metter mano nelle opere dei
Dotti, a titolo di volerle rassettare, correggere, accrescere e minuire […]
senza vergognarsi”[101].
Fu il Domenichi che probabilmente, come aveva fatto nel caso del Boiardo o del
Firenzuola, si ritenne in diritto, forse partendo dal testo dell’edizione di
Lucca, forse in accordo col Busdraghi, di porre rimedio alle insufficienze di
un’opera i cui limiti linguistici erano già presenti all’autore, stando
almeno a ciò che il Cantacuzeno stesso scrive nel congedare la redazione
del 1538, proprio all’ultimo capoverso: “Et perché qualcuno vederà
l’opera mia fallare in ortographia, dico […] non esser mia profession il
scriver, né componer, Vostra Serenità [sc. Enrico, Delfino di Francia]
veda il senso naturalmente della cosa star bene, et io […] haver descritto le
cose essentiale […]”. Grazie ad episodi come questo, e ne vedremo altri in
seguito, lo studioso che si limiti a consultare le edizioni a stampa dell’opera
del Cantacuzeno, di solito quella fiorentina del 1551, essendo quella di Lucca
più rara, deve fare i conti con diffusi fraintendimentti e con la
mancanza di parti non ancora composte dall’autore; ma, soprattutto, soggiace ad
una percezione distorta del modo in cui lo storico greco ha trattato i meriti
di Mehmet II ed attribuisce al Cantacuzeno, oppure la esagera, una
magnificazione tendenziosa che forse, in parte, è dovuta a chi, dopo la
morte dell’autore, curò il testo a stampa[102].
p. 110
In ogni caso, tornando al passo dedicato ai primi scontri
fra Stefano il Grande e Mehmet II, è possibile che il Cantacuzeno
concentri nella redazione del 1538, come
p. 111
spesso
fa, episodi svoltisi in più anni e riguardanti il tema generale dei
rapporti fra la Moldavia e l’Impero
Ottomano; e lo dimostra l’accenno in forma di “promemoria” inserito dall’autore
nella prima redazione e poi sviluppato nelle redazioni successive: “[Mehmet II]
poi che fece più guerre con Carabogdan principe de la Inferiore
Valacchia: tandem lo fece tributario sì esso come lo principe de l’altra
Valacchia”. Perciò ritengo che il Cantacuzeno abbia colto l’occasione di
inserire, nelle redazioni successive, un’allusione alla più celebre
vittoria di Stefano, quella di Vaslui (1475), giungendo a sovrapporre in
quest’unico passo della redazione del 1538 due tentativi distinti, compiuti da
Bayezid II, di conquistare Chilia e Città Bianca: quello del 1465, poco
dopo la sottomissione della Valacchia, e quello del 1475, andati ambedue a
vuoto; ma il secondo caso rientrerebbe nel piano più vasto concepito
dagli Ottomani di spingersi fino in Crimea per conquistare Caffa, stringendola
a tenaglia dalla terra e dal mare. Seguono, fra gli avvenimenti più
importanti citati dal Cantacuzeno, l’alleanza fra Venezia e i Turcomanni di
Uzun Hasan, che finirà sconfitto dall’esercito ottomano (Otluk Beli,
presso Erzurum, 11 agosto 1472), l’assedio di Rodi da parte di Messit[103],
della famiglia dei Paleologi, col soccorso
p. 112
all’isola
portato dalla Francia, la guerra in Albania e il ruolo svolto da Skanderbeg (†
1468)[104].
Quindi, nelle pagine seguenti, il Cantacuzeno accenna una
seconda volta alla Moldavia di Stefano il Grande:
“È da sapere che
subito che questo Baiazit [Bayezid II] hebbe cacciato et rotto il fratello [sc.
Ğem], mosse guerra a Carabogdan, prencipe di Valacchia, et tolse Cheli et
Moncastro, terre fortissime, alle quale [sic] Mehemet suo padre era stato a
campo et non le havea possute ottenere, et per tal impresa, vittoria et
expugnatione dé grandissimo timore universalmente a tutti li christiani. Questo
Baiasit [sic] mosse anchora guerra al Soldano, et appresso de Addena et di
Tarso[105] hebbe
detto Baiasit in tre anni tre grandissime rotte, in lequale [sic] secondo vien
existimato, furono morto più di cento venti mila Turchi. Et da poi
essendo altercatione tra il re di Polonia et Carabogdan, facilmente detto
Carabogdan dette il passo alli Turchi. Parvi che li [p. 172] peccati di
Christiani stroppava [sic] li occhi alli principi di Christiani, che quando
haveano differentia et guerra tra loro, sempre una delle parte [sic] conduceva
uno della casa de’ Ottomani per prevalersi contra lo inimico loro, et non si
avedeano i poveretti che questa era la ruina loro manifesta; e par’ che i cieli
dal principio che questa casa de’ Ottomani cominciò a signoreggiare alli
Turchi infino al giorno presente, per via di qualche discordia de’ principi
christiani li ha di continuo esaltati et ampliati.
Baiasit
adunque mandò uno capitano nomato Marco Zogli[106]
[sic] con grande essercito, et massimamente de’ Achinzi[107],
et corse per la Polonia [sc. i territori moldavi
p. 113
al confine con la Polonia],
et trovandola improvista, menorolo [sic] fuori di quella da quaranta milia
cristiani prigioni, et puoi l’anno seguente essendosi pacificati il re di
Polonia et il principe di Valacchia Carabogdan, Baiasit mandò un’altra
volta Marco Zogli con ben venti milia Achinzi, ma essendo avisati li Polachi si
trassero alle terre più forte [sic] con le vittoarie [sic], immodoché
entrando li Turchi dentro et non trovando che mangiar, discorrendo per la
campagna per fame et freddo grandissimo che in quel tempo era, quasi [f. 48]
tutti quelli Turchi morirono. Occupò di poi Baiasit il stato del signor
Vlatheo, figliolo del duca di San Saba [Vlatko, secondogenito di Stjepan Vukèiæ
(1435-1466)], qual Vlatheo morì poi nella città di Arbe in
Dalmatia, come di sopra dissi”[108].
p. 114
Il Cantacuzeno, dunque, dopo aver trattato delle lotte
fra Bayezid II ed il fratello Ğem, che abbiamo già menzionato e che
si conclusero nel 1482, allude alla presa delle città di Chilia e
Città Bianca (1484), cui il Cambini dedica largo spazio.
Incidentalmente, poi, lo scrittore greco accenna alle campagne intraprese da
Bayezid II sui confini orientali dell’Impero. Quindi, come in precedenza,
coglie l’occasione di svolgere nel contempo episodi riguardanti un medesimo
argomento, cioè i rapporti fra la Moldavia e l’Impero Ottomano, che
però si sono svolti in un arco più ampio di anni; passa
perciò a trattare dei contrasti sorti nel 1497 fra la Moldavia e il re
di Polonia, Giovanni Alberto, a seguito dei quali Stefano il Grande concesse
agli Ottomani il passaggio attraverso il suo paese, di modo che Bayezid II
potesse mettere a ferro e fuoco il territorio polacco (1497-1498). In
quest’occasione, Stefano si riavvicinò all’Ungheria e rinsaldò i
rapporti con il granduca di Mosca Ivan III e con il khan dei Tartari di Crimea,
Mengli Ghirai (1469-1475 e 1478-1515). L’anno seguente, ossia 1498-1499, avendo
Stefano conseguita la pace con la Polonia, Bayezid II inviò nuovamente
l’esercito in Moldavia non trovandovi resistenza, dal momento che i moldavi si
erano ritirati in fortezze inaccessibili.
Anche in questo passo, comunque, il confronto fra le tre
redazioni, quella testimoniata dal cod. Parigino fonds italien 881, pubblicato dal Sathas, quella servita di base
alle due edizioni a stampa, e quella inviata nella primitiva forma a Leone X,
autorizza interessanti osservazioni. Ad esempio, in questo punto il Cantacuzeno
(e le tre redazioni concordano) conferma il fallimento di Mehmet II
nell’assedio delle città di Chilia e Città Bianca, fallimento sul
quale l’edizione a stampa fiorentina in precedenza aveva sorvolato, forse per
eliminare una ripetizione. Quindi, dopo il fraintendimento mostrato
dall’edizione fiorentina: “appresso a Dolina et a Tarso” per la lezione
corretta di tutti gli altri testimoni (Addena
… Tarso), in entrambe le edizioni a
stampa e nella prima redazione manca il passo cui il Cantacuzeno, nel
manoscritto offerto al futuro re di Francia, affida le sue riflessioni circa le
discordie degli stati cristiani e i vantaggi che questi accordano
all’espansione dell’Impero Ottomano, ossia: “Parvi che li peccati di Christiani
stroppava li occhi alli principi di Christiani, che quando haveano differentia
et guerra tra loro, sempre una delle parte conduceva uno della casa de’
Ottomani per prevalersi contra lo inimico loro, et non si avedeano i poveretti
che questa era la ruina loro manifesta; e par’ che i cieli dal principio che
questa casa de’ Ottomani cominciò a signoreggiare alli Turchi infino al
giorno presente, per via di qualche discordia de’ principi christiani li ha di
continuo esaltati et ampliati”. Un’omissione che potrebbe essersi verificata
per volontà di chi ha elaborato l’edizione a stampa, e non solamente per
semplificare o abbellire il testo; oppure, più verosimilmente,
un’aggiunta inserita dal Cantacuzeno in seguito, forse al momento di offrire il
suo esemplare al Delfino di Francia, come dimostrerebbe la mancanza di quel
passo nella prima redazione e nell’edizione a stampa di Lucca. Ad ogni modo,
è interessante notare, qui, come il Cantacuzeno abbia sentito l’esigenza
di inserire questo passo subito dopo il punto in cui aveva ricordato la
decisione di Stefano di concedere, per inimicizia verso i Polacchi, il
passaggio agli Ottomani. Ancora, l’edizione fiorentina fraintende il
p. 115
nome
del capitano inviato da Bayezid II in Moldavia, da “Marco Zogli” dei
manoscritti e “Marchossogli” dell’edizione a stampa di Lucca, in “Marcofodi”,
anche se poi lo nomina una seconda volta come “Marcosogli” e dà l’idea
di considerarlo una persona diversa[109];
quindi la sola edizione fiorentina una prima volta omette l’accenno agli
“Achinzi” (presente fin dalla prima redazione), probabilmente per eliminare una
parola sconosciuta e per di più ininfluente, mentre poi banalizza
l’ennesimo accenno a quella categoria di cavalieri col più generico:
“soldati”. Infine l’edizione di Firenze appone una chiusa a questo passo che
può essere fuorviante circa l’attendibilità del Cantacuzeno:
“Nondimeno Baiazete oppresse poi lo stato del Signor Valacheo [sic; il corsivo è mio] figliuolo del Duca di Santa
Sabba. Costui non andò molto tempo che si morì nella città
d’Arbe”. Il confronto col testo del codice parigino, giacché il passo manca
nella prima redazione, scioglie ogni dubbio: “Occupò di poi Baiasit il
stato del signor Vlatheo [sc. Vlatko
Vukèiæ, duca di Erzegovina; il corsivo è mio], figliolo del duca di San
Saba, qual Vlatheo morì poi nella città di Arbe in Dalmatia, come
di sopra dissi”. Ed anche nell’edizione a stampa di Lucca (p. [62]) il nome del
duca è “Vlatcho”.In realtà il Cantacuzeno appone a questo punto
l’epilogo delle vicende di cui già si era occupato nelle pagine
precedenti a proposito del Ducato di Bosnia[110].
Arbe, dunque, è l’odierna città di Rab, in Croazia, che Theodoro
p. 116
Spandugino
Cantacuzeno conosceva bene per esservi stato deportato dai veneziani, prima che
la pena gli fosse commutata in quella dell’esilio; così come conosceva
bene le vicende del Ducato di Bosnia, giacché l’Anna, che egli cita a questo
proposito, era figlia di quel Giorgio Paleologo Cantacuzeno di cui abbiamo
già parlato, e pertanto sorella del padre di Eudocia. Anna, insieme col
duca Ladislao sposato nel 1454 e con i figli, era fuggita a Venezia presso i
parenti quando Mehmet II aveva invaso la Bosnia nel 1463. Da Venezia, poi, la
famiglia del Duca si era spostata in Ungheria, dove Ladislao era morto nel
1489. Tirando le somme, dunque, la versione in più punti brevior dell’edizione fiorentina non
presenta passi che accennano alla vita privata dello scrittore, assenti, oltre
che nell’edizione di Lucca, anche nella prima redazione, e quindi probabilmente
aggiunti in seguito dall’autore, oppure elimina volontariamente ripetizioni
che, nel testo del codice parigino, rimandano da un passo all’altro, omissioni
che rendono senz’altro più oscura l’esposizione dei fatti, in un punto
in cui, per giunta, l’edizione a stampa di Firenze confonde un nome proprio: Vlatheo – Vlatcho (Vlatko), con un etnonimo: Valacheo (Valacco)[111].
Se dunque consideriamo comparativamente le fonti fin qui
analizzate, vediamo che il Cantacuzeno, almeno per quanto riguarda le vicende
della Moldavia e soprattutto
p. 117
quelle
verificatesi all’epoca di Bayezid II, pare meglio informato del Cambini. Questi
in definitiva, come si è detto, tace su gran parte delle imprese di
Stefano il Grande, per i motivi che abbiamo cercato di chiarire, e destina largo
spazio solo alla presa della Città Bianca, un episodio riguardante in
ispecial modo le gesta di Bayezid II. Il Cantacuzeno, da parte sua, fornisce
più notizie riguardanti la Moldavia di Stefano il Grande, ed appare
quindi meglio documentato anche grazie ai suoi rapporti di parentela, taciuti
nelle versioni a stampa e da noi messi in evidenza, e grazie all’occasione che
questi rapporti gli fornivano di assistere in prima persona agli eventi
narrati, avendo la possibilità, in subordine, di sentir parlare di quei
fatti direttamente dai protagonisti. Questa circostanza e le vicende
biografiche dell’autore spiegano lo spirito di osservazione e la moderazione
che gli sono stati riconosciuti[112],
oltre alla scelta stessa del soggetto da lui affrontato: la storia e i costumi
di quelli Ottomani presso i quali egli aveva, impiegati in ruoli essenziali,
alcuni parenti anche stretti[113].
E ciò, del resto, può far ritenere che il Cantacuzeno,
destreggiandosi, non sempre senza danno, fra Venezia e le corti di Francia,
Vienna e Costantinopoli, fosse indotto per diversi motivi a ricercare un
equilibrio nel disegno generale dell’opera, inquadrandovi i giudizi, anche
sbilanciati, che di volta in volta faceva trasparire circa gli attori dei fatti
narrati, ossia l’Impero Ottomano e le potenze cristiane. Emblematico è
il caso delle vicende del Ducato di Bosnia, in cui appare evidente che lo
scrittore rispecchia il punto di vista espresso da Anna Cantacuzena, quand’ella
si trovò rifugiata a Venezia col marito ed i figli. E così
sarà pure in altre circostanze. Comunque, anche a detta del Nicol: “Theodore’s patriotism is not in doubt, but it was a
patriotism for the whole Christian world […] His
religious persuasion inclined him more to the Roman church than to the
Orthodoxy”[114].
Ossia, non si può certo accusare il Cantacuzeno di inclinare per gli
Ottomani, sebbene, aggiungiamo, la sua opera dimostri per essi una certa
ammirazione, ma è anche vero che egli non guardò neppure alla
sola Grecia ed aspirò ad una difesa per così dire globale del
mondo cristiano, sia occidentale che orientale, anche se poi in concreto, come
accadde
p. 118
ad
altri greci fuoriusciti, da un lato ebbe rapporti molto stretti soprattutto con
i Papi di Roma (in particolare Leone X, Clemente VII e Paolo III, escluso Adriano
VI che tradì il progetto della crociata), dall’altro nutrì assai
simpatia per l’umanesimo italiano, cui tanti greci come il Lascaris davano il
loro prezioso apporto. E la sua amicizia col Lascaris lo portò in
Francia e gli determinò l’accusa a Venezia di simpatizzare per quella
corte[115]. Ma i suoi
ammonimenti ai principi cristiani, che mancano, come abbiamo visto, nelle due
edizioni a stampa e che stigmatizzano la divisione del mondo cristiano con
l’indubbio vantaggio concesso agli Ottomani, dovevano piacere soprattutto alle
gerarchie della Chiesa di Roma. In ogni caso, per quanto riguarda Stefano il
Grande, il Cantacuzeno pare piuttosto onesto nel giudizio generale che esprime
su di lui, e tuttavia, poiché probabilmente aggiunge questa parte in una tarda
redazione apprendendola da fonti ottomane, resta alquanto nel vago e si
dimostra impreciso sui particolari della vittoria moldava: “Carabogdan sempre
fu in grande esistimatione apresso li Turchi, et questo perché andando Mehemet
[II] a metter el campo a Chieli et Moncastro, bastò l’animo a Carabogdan
con manco di XX milia combattanti ad assaltare avanti giorno lo esercito di
Turchi, ove personalmente si trovava lo imperator Mehemet; nel qual esercito
fece uno incredibile macello de’ Turchi, et sopravenendo lo giorno, benché
havesse vittoria, per esser tanta infinità di Turchi, non possendo
sostenere tanto impeto, si mise in fuga et salvossi con la maggior parte delli
suoi. Questo ha grande exemptione imperoché non è tenuto dar ostaggi, né
andare personalmente a basare il piedi dello imperator de’ Turchi”[116].
Se, dunque, teniamo in giusta considerazione anche il fatto che, a Vaslui,
l’esercito moldavo ricevette l’aiuto del transilvano Biagio Magyar, e che
Stefano il Grande non mancò certo di ringraziare per questo Mattia
Corvino[117], senza
voler togliere nulla all’impresa in sé del principe moldavo, riteniamo che,
almeno nella percezione della storiografia italiana, per così dire di
più ampio consumo[118],
e stando alle testimonianze che abbiamo analizzato, il merito delle vittorie
p. 119
sugli
Ottomani venisse attribuito, tout court,
al defensor ecclesiae per eccellenza,
ossia a Mattia Corvino, e che probabilmente le vittorie di Stefano per vari
motivi non giungessero ad avere, o comunque non avessero più nella penisola
italiana, a cavallo fra XV e XVI secolo, quella risonanza che alcuni in passato
hanno voluto, ed escludo naturalmente da questo giudizio gli ambienti ben
informati, almeno in età contemporanea al principato di Stefano, delle
cancellerie e della diplomazia internazionale. E quella indubbia conoscenza
della Moldavia che si cominciò ad avere, per merito delle gesta di
Stefano, presso i governi e le cancellerie italiane non ebbe né tempo né modo
per avere maggiore diffusione, come dimostrano le nostre testimonianze.
Tale assunto è dimostrato da un’altra delle opere
storiografiche sugli Ottomani che, dagli anni Trenta del XVI secolo, goderono
di una grande fortuna, vale a dire quell’ennesimo Commentario dedicato dal vescovo di Nocera, Paolo Giovio, all’imperatore
Carlo V, nel quale manca ogni accenno, pur minimo, alle gesta di Stefano il
Grande, mentre il paese da lui governato è menzionato di sfuggita, due o
tre volte, senza che il Giovio ritenga di doversi soffermare sull’argomento[119].
E se un’eccezione senz’altro vi fu, pochissimo dopo Vaslui, ed alludo a
quell’operetta di Martino Segono che ho già citato, essa non produsse
quella risonanza che meritava presso un pubblico relativamente più
vasto. Il Segono infatti, fra il 1479 e il 1480, nell’imminenza della spedizione
navale di Kedük Ahmed Pascià contro Otranto, scrive: “Hic [apud
Vasillum; ossia “presso Vaslui”], quadriennio iam elapso, Stephanus Moldaviae
dominus Solimanum bassa et romaniae ducem sic prostravit ut ex triginta milibus
Turcorum pauci admodum, qui forte velocioribus equis insederant, evaserint”[120],
una chiara menzione di Stefano il Grande e della sua vittoria a Vaslui; e
secondo A. Pertusi[121]
il Segono, che scrisse probabilmente nella sua sede vescovile di Dulcigno,
rimasta alla Serenissima anche dopo il trattato ottomano-veneziano del 25
gennaio 1479: “è da porre tra i migliori storiografi occidentali
dell’origine e della potenza dei Turchi perché […] la sua memoria giunse
certamente non soltanto sul tavolo del papa Sisto IV, ma anche su quello di Mattia
Corvino. Ed è certo nell’archivio o nella biblioteca di Mattia che la
trovò il Petanèiæ […]”. Fu un ventennio dopo, infatti, di ritorno da
Rodi dov’era in missione per il re d’Ungheria Vladislao VII (1490-1516), che
Felix Petanèiæ (Felix Ragusinus) inviò il suo trattattello, intitolato: Quibus itineribus Turci aggrediendi sunt,
al successore di Mattia Corvino, saccheggiando letteralmente la memoria del
Segono. L’opera del Petanèiæ, secondo il Pertusi, è da ritenersi
certamente un “furtarello letterario” come dimostra, fra l’altro, il fatto che
il Petanèiæ riprenda letteralmente dal Segono quella menzione della vittoria di
Stefano il Grande a Vaslui or’ora citata. Tuttavia, se nel Segono si trovava
specificato “quadriennio iam elapso” (giacché la vittoria di Stefano
p. 120
era
stata conseguita nella seconda metà del mese di gennaio del 1475, mentre
il Segono scriveva appunto circa quattro anni dopo), il Petanèiæ da parte sua,
copiando il Segono a distanza di due decenni, rese vaga l’indicazione cronologica
della fonte sostituendola con “denique”[122].
L’opera del Segono rimase circoscritta ad un ambito piuttosto ristretto, per
così dire degli addetti ai lavori, mentre quella del Ragusino ebbe
notevole fortuna, essendo ripubblicata sedici volte, fra il 1522 e il 1793, e
tradotta in diverse lingue: tedesco, italiano, serbo e croato. Nel nostro caso,
però, notiamo che quell’indicazione del Segono riguardante la vittoria
di Stefano il Grande a Vaslui, forse perché il Petanèiæ ricalcandola la poneva
in un’epoca recente ma imprecisata, non fu ripresa in seguito da altri e, senza
voler ripercorrere le tappe dei primi studi in Occidente sull’origine e la
potenza degli Ottomani, già così ben delineate dal Pertusi, anche
in quelle prime opere gli autori si soffermarono più volentieri su
personaggi come Giorgio Castriota Skanderbeg, il voivoda di Transilvania
Giovanni Húnyadi (Ioan/Iancu di Hunedoara) (1439-1456) e suo figlio Mattia
Corvino, e se anche in qualche opera si fece mai menzione più o meno
precisa di Stefano e delle sue vittorie contro gli Ottomani, ne rimase poi una
lontana eco nel Cantacuzeno[123].
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[1] Cfr. Anton Francesco Doni, La Libraria del Doni fiorentino …, Vinegia 1580, p. 65v;
Bibliotheca Instituta et Collecta, primum
a Conrado Gesnero …, Tiguri 1583, s. v. Andreas
Cambinus, p. 42; Michele Poccianti, Catalogus
Scriptorum Florentinorum omnis generis …, Florentiae 1589, p. 110; Giulio
Negri, Istoria degli scrittori fiorentini
…, Ferrara 1722, s. v. Andrea Cambini,
pp. 33-34; Giovanni Cinelli Calvoli, Biblioteca
Volante …, 4 tt., Vinegia 1734-1747, s. v. Cambini Andrea, t. II, p. 35 (Scanzia XII); Angelo Maria Bandini, Specimen Literaturae Florentinae saeculi XV
…, vol. I, Florentiae 1747, p. 201; Mirella Giansante, Cambini Andrea, in Dizionario
Biografico degli Italiani, vol. XVII, Roma 1974, pp. 132-134.
[2] Cfr. Cristoforo Landino, Comento sopra la Comedia (Edizione Nazionale dei Commenti
Danteschi), a cura di Paolo Procaccioli, 4 tt., Roma 2001, t. I, pp. 310-311 (Inferno I, 61-63).
[3] Cfr. Arnaldo della Torre, Storia dell’Accademia Platonica di Firenze, Firenze 1902.
[4] Cfr. Marsilio Ficino, Opera Omnia (“Monumenta Politica et Philosophica rariora” ex optimis
editionibus phototypice espressa, curante Luigi Firpo, Series I, Numerus 7-8),
2 voll., Torino 1983, vol. I, p. 680 (Marsilio Ficino, Opera, Basileae 1576, p. 650): “Marsilius Ficinus Andreae Cambino
suo, S. D. Sunt Andrea multi mortalium usque adeo cupidi, ut multa diversaque
quotidie, immo et innumerabilia tanquam insatiabiles cupiant. Cambinus meus,
utpote qui prudens moderatusque [il
corsivo è mio] est nihil, ut arbitror, aliud optat praeter salutem
animi, ac bonam corporis valetudinem. Salve igitur simul et Vale”. Rimangono
almeno altre tre lettere indirizzate dal Ficino al Cambini (M. Ficino, Opera Omnia cit., p. 701, p. 773, p.
928; M. Ficino, Opera cit., p. 671,
p. 743, pp. 898-899): la prima testimonia un rapporto epistolare e di
confidenza fra i due personaggi: “Cum in foro una cum praeclaro viro Francesco
Casato nostro deambularem, reddita mihi est elegans Epistola tua […]. Igitur
Cambinus noster, utpote qui iam abunde religiosus evaserit, librum nostrum
divina tractantem, quasi speculum appetit, in quo religionem suam tanquam
speciem propriam speculetur. Mittam hoc meum cum primum potero speculum […]”.
La seconda sviluppa brevemente il tema: Gravis
quidem videtur iactura pecuniarum, hominum vero gravissima. La terza,
datata giugno 1489, ha per oggetto il parto letterario di un amico del Cambini:
tre orazioni che quest’ultimo ha passato al Ficino perché il filosofo le legga
e che per il Ficino son state fonte di grande diletto: “[…] Dedisti enim tres
nobis orationes Francisci Puccij necessarij tui legendas, quarum lectio me adeo
delectavit, ut vix […] voluptatem hanc exprimere valeam”.
[5] Lorenzo de’ Medici (1449-1492), figlio di Piero detto il
Gottoso (1414 o 1416 – settembre 1469) e di Lucrezia Tornabuoni (1425-1482),
nonché nipote di Cosimo il Vecchio (1389-1464) che aveva fondato nel 1434 la
signoria dei Medici in Firenze, alla morte del padre venne proclamato “principe
dello Stato” insieme col fratello Giuliano (1453-1478). Questi venne ucciso,
nel corso di una congiura, da Francesco de’ Pazzi e Bernardo Bandini, il 26
aprile 1478 in Santa Maria del Fiore. Cfr. Niccolò Valori, Vita del Magnifico Lorenzo de’ Medici il
Vecchio, Firenze 1568; Alfred von Reumont, Lorenzo de’ Medici il Magnifico, vol. II, Londra 1876, p. 455;
Nicolai Rubinstein, Il governo di Firenze
sotto i Medici (1434-1494), Firenze 1971 (trad. ital. di Idem, The Government of Florence under the Medici,
1434 to 1494, Oxford 1966), pp. 213-276.
[6] Ercole I d’Este (1431-1505) resse il ducato di Ferrara,
Modena e Reggio a partire dall’anno 1471.
[7] Cfr. Iacobi Gaddii, De
Scriptoribus non Ecclesiasticis, Graecis, Latinis, Italicis …, Florentiae
1648, p. 69: il Cambini aggiunse un XXXI libro, usufruendo forse del materiale
raccolto da Gaspare Biondi. Anche questa traduzione rimase inedita ed è
conservata a Firenze nelle Biblioteche Nazionale Centrale (cod. II, III, 59) e
Laurenziana (cod. Laur. Ashbur. 541). Nell’opera di Biondo Flavio il Cambini
poteva leggere una delle prime esortazioni (1453-1454) ad arginare la
straripante espansione dei Turchi; una delle prime di una serie che nell’arco
di settant’anni produsse anche progetti di crociate e che parte dal primo
tentativo di Francesco Filelfo (1444), passa per Poggio Bracciolini (1455), il
Card. Bessarione (1470), Giovanni Gemisto (1516), Marco Musuro (1517) e giunge
a Giano Lascaris (1516, 1525), amico e parente di Theodoro Spandugino
Cantacuzeno. Cfr. Agostino Pertusi, I
primi studi in Occidente sull’origine e la potenza dei Turchi, in “Studi
Veneziani”, XII, 1970, pp. 465-552, in part. p. 466.
[8] Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo e Clarice Orsini
(1475-1521), papa Leone X dall’11 marzo 1513 al 1° dicembre 1521.
[9] Giovanni II Bentivoglio (1443-1508) prese il potere nel
1462.
[10] Galeotto Manfredi nel 1468 successe al padre Astorre II
nella signoria di Faenza. Fu assassinato con la complicità della moglie
Francesca Bentivoglio e del suocero Giovanni II. Il figlio di Galeotto, Astorre
III, finì strozzato a Roma nel 1502 per volontà di Cesare Borgia,
che così inglobò Faenza nel nascente ducato di Romagna. Cfr.
Antonio Messeri, Galeotto Manfredi
signore di Faenza, Faenza 1904.
[11] Cfr. Angelo Fabroni, Laurentii
Medicis Magnifici Vita, vol. I, Pisa 1784, p. 197.
[12] Piero de’ Medici (1472-1503), figlio di Lorenzo e Clarice
Orsini, quindi fratello del Card. Giovanni, subentrò al padre ne1492, ma
fu cacciato dalla cittadinanza il 9 novembre 1494; tentò di rientrare a
Firenze negli anni successivi, con colpi di mano che risultarono sempre vani
(1497, 1498, 1501, 1502).
[13] Teorico della
crittografia e collaboratore di Cicco Simonetta, capo della cancelleria
milanese, il Tranchedino vergò parte del cod. Vind. 2398 (databile alla
fine degli anni Settanta del XV secolo), una collezione di scritture cifrate
appartenute a Philip Edward Fugger. Cfr. Francesco Tranchedino, Diplomatische Geheimschriften (Codex
Vindobonensis 2398), commenti di W. Höflechner, Graz 1970.
[14] Ludovico Maria Sforza, detto il Moro (Vigevano, 1452 –
Loches, Francia, 1508), figlio quartogenito di Francesco I Sforza e di Bianca
Maria Visconti, fratello di Ippolita andata in sposa al duca di Calabria,
divenne nel 1479 duca di Bari, quindi ottenne la reggenza su Milano al posto
della cognata, duchessa Bona di Savoia. Nello stesso mese di aprile 1498, in
cui a Firenze cadeva il governo del Savonarola, in Francia Luigi XII succedeva
a Carlo VIII, assumendo anche i titoli di duca di Milano e re delle Due
Sicilie, quindi nell’agosto dell’anno successivo dava inizio all’offensiva
contro Ludovico il Moro. Questi, dapprima fuggito in Germania e poi tornato per
breve tempo a Milano, finì i suoi giorni prigioniero in Francia.
[15] Cfr. Pasquale Villari, La storia di Girolamo Savonarola e de’ suoi tempi, 2 voll., Firenze
1930, vol. II, passim, in particolare
p. 169 e pp. CII-CIII; si vedano anche: Giovanni Cambi, Istorie, in Delizie degli
Eruditi Toscani, vol. XXI, Firenze 1785, p. 32, pp. 119-121, pp. 130 ss.;
Jacopo Nardi, Istoria della città
di Firenze, vol. I, Firenze 1842, p. 152; Attilio Portioli, Nuovi documenti su Girolamo Savonarola,
in “Archivio Storico Lombardo”, I, 1874, p. 341; Luca Landucci, Diario fiorentino dal 1450 al 1516,
Firenze 1883, p. 171; Ricordanze di
Bartolomeo Masi, calderaio fiorentino, dal 1478 al 1526, per la prima volta
pubblicate da Giuseppe Odoardo Corazzini, Firenze 1906, p. 39; Giovanni
Battista Picotti, La giovinezza di Leone
X, Milano 1928, ad indicem;
Giuseppe Schnitzer, Savonarola,
Milano 1931, ad indicem.
[16] L’opera ebbe almeno altre due edizioni: Libro d’Andrea Cambini della origine de Turchi,
et imperio delli Ottomani, Firenze, per Benedetto di Gionta, 1537; e Commentario de Andrea Cambini fiorentino,
della origine de Turchi, et imperio della Casa ottomana, s. l. [Firenze]
1538, da me consultato.
[17] Il Commentario de
le cose de Turchi di Paulo Iovio, Vescovo di Nocera, a Carlo Quinto Imperadore
Augusto, era uscito a Venezia in prima edizione nel 1531, e poi in
traduzione latina col titolo: De rebus
gestis et vitiis imperatorum Turcarum, Wittemberg 1537. Nel 1560-1561,
Francesco Sansovino utilizzò parte dell’opera del Cambini per la sua Historia Universale dell’origine, guerre, et
imperio de Turchi …, Venezia 1554, pp. 141-181. In ambito romeno il Cambini
fu conosciuto, inizialmente, tramite l’Historia
del Sansovino, che fu consultata da Nicolae Bãlcescu, Puterea armatã ºi arta militarã la români, in “Magazinulŭ
istoricu pentru Daciia”, II, 1846, pp. 60-63 (per la parte riguardante Bayezid
II). Bãlcescu fu ripreso da Bogdan Petriceicu Haºdeu, Libro della origine de’ Turchi et imperio delli Ottomani, in
“Arhiva istoricã a României”, I, no. 2, 1865, pp. 55-59, che però,
avendo consultato l’opera del Cambini
nell’edizione del 1537, aggiunse altri passi in traduzione romena. Cfr. Stephen the Great prince of Moldavia
(1457-1504). Historical Bibliography, a cura di ªtefan Andreescu, Tatiana
Cojocaru, Ovidiu Cristea, Mariana Mihãilescu, Anca Popescu e Adrian Tertecel,
Bucarest 2004, p. 32. Dal canto suo, Nicolae Iorga, Studii istorice asupra Chiliei ºi Cetãþii Albe, Bucarest 1899, pp.
156-157, ignorò l’apporto di Haºdeu e si rifece solo all’opera del
Sansovino. Infine, Ionel Cândea, Cucerirea
Cetãþii Albe de cãtre turci la 1484 într-un izvor italian mai puþin cunoscut,
in “Studii ºi materiale de istorie medie”, XVII, 1999, pp. 27-31, che qui
ringrazio insieme con l’amico Cristian Luca, riprende i lavori dei tre studiosi
precedenti, inquadrando nel contesto geopolitico dell’epoca l’episodio della
caduta della Città Bianca, che trasformò il Mar Nero in un “lago”
ottomano.
[18] Per gli avvenimenti storici di cui ci occuperemo di qui
in avanti, sia nel caso del Cambini, sia per il Cantacuzeno si vedano: Joseph
von Hammer–Purgstall, Histoire de
l’Empire ottoman. Depuis son origine
jusqu’à nos jours, tome troisième: Depuis la prise de Constantinople par Mohammed II jusqu’à la
mort du prince Djem, frère de Bayezid II, 1453-1494; tome
quatrième: Depuis la mort du
prince Djem, frère de Bayezid II, jusqu’à la mort de Sélim I,
1494-1520, traduzione dal tedesco di J. J. Hellert, Parigi–Londra–S.
Pietroburgo 1836; Philips M. Price, Storia
della Turchia. Dall’Impero alla Repubblica, Bologna 1958 (trad. ital. di
Idem, A History of Turkey. From Empire to
Republic, Londra s. d.); Halil İnalcık, The Ottoman Empire. The Classical Age, 1300-1600, Londra 1973;
Paolo Preto, Venezia e i Turchi,
Firenze 1975; Peter Frygies Sugar, Southeastern
Europe under Ottoman rule, London 1977; Alessio Bombaci, Stanford J. Shaw, L’Impero Ottomano (Nuova Storia
Universale dei Popoli e delle Civiltà, vol. VI, parte II), Torino 1981; Storia del popolo romeno, a cura di
Andrei Oþetea, Roma 1981; Dimitri Kitsikis, L’Empire
ottoman, Parigi 1985; Franco Gaeta, Il
Rinascimento e la riforma (1378-1598), parte prima: Il nuovo assetto dell’Europa (Nuova Storia Universale dei Popoli e
delle Civiltà, vol. IX, parte I), Torino 1986; Klára Hegyi, Vera
Zimanyi, The Ottoman Empire, Budapest
1986; Giacomo E. Carretto, I Turchi del
Mediterraneo. Dall’ultimo impero islamico alla nuova Turchia, Roma 1989;
Bernard Lewis, Istanbul et la
civilisation ottomane, Parigi 1990; Marie F. Viallon, Venise et la Porte Ottomane (1453-1566). Un siècle de relations
vénéto-ottomanes de la prise de Constantinople à la mort de Soliman,
Parigi 1995; A History of Romania, a
cura di Kurt W. Treptow (The Center for Romanian Studies. The Romanian Cultural
Foundation), Iaºi 1996; E.
Kováks Péter, Mattia Corvino, Cosenza
2000.
[19] A. Cambini, Commentario
… cit., pp. 32v-34.
[20] Enea Silvio Piccolomini (Corsignano, Siena, 1405 –
Ancona, 1464), pontefice dal 19 agosto 1458 al 15 agosto 1464.
[21] Giorgio Castriota Skanderbeg (Gjergj Kastrioti
Skenderbeu) nacque a Croia (Krujë) nel 1405 e morì ad Alessio (Lezha)
nel 1468.
[22] Ossia: “quelli dalle pecore bianche”.
[23] Che il fiorentino fa iniziare solamente nel 1470, mentre
gli Ottomani ricacciarono il nemico dall’Egeo fin dal 1464, anno in cui, nel
mese di agosto, venne a mancare Pio II.
[24] A. Cambini, Commentario
… cit., pp. 34-34v.
[25] L’antica colonia greca di
Θεοδοσία (VII secolo a. C.), divenuta
colonia genovese nel 1266. Oggi Feodosija in Ucraina.
[26] A. Cambini, Commentario
… cit., p. 34v.
[27] Francesco della Rovere (Celle Ligure, Savona, 1414 –
Roma, 1484), papa dal 9 agosto 1471 al 12 agosto 1484.
[28] A. Cambini, Commentario
… cit., p. 35.
[29] Ibidem, p. 35v.
[30] Cfr. Eugen Denize, Românii
între Leu ºi Semilunã: relaþiile turco-veneþiene ºi influenþa lor asupra
spaþiului românesc (secolele XV-XVI), Târgoviºte 2004, pp. 105-107; Idem, ªtefan cel Mare. Dimensiunea internaþionalã
a domniei, Târgoviºte 2004, pp. 68-71.
[31] A. Cambini, Commentario
… cit., pp. 35v-36v; l’assedio, di solito, è
posto alla fine del 1479, ma il Cambini lo fa iniziare: “adì XXI di
maggio 1474”.
[32] Alfonso II, che successe al padre nel 1494, ma
abdicò nello stesso anno in favore del figlio Ferdinando II, più
benvoluto dalla popolazione.
[33] Mattia I Corvino (Kolozsvár/Cluj, 1440 – Vienna, 1490)
regnò sull’Ungheria a partire dal 1458; nel settembre 1474 si
sposò in seconde nozze con Beatrice d’Aragona, figlia del re di Napoli,
divenendo perciò genero di Ferdinando.
[34] A. Cambini, Commentario
… cit., pp. 37-38v; ambedue le spedizioni, comunque, quella
contro Rodi e quella contro Otranto, si conclusero in un nulla di fatto quando
giunse notizia della morte di Mehmet II.
[35] Ibidem, p. 39v.
[36] Ibidem, pp. 39v
e ss. Il regno del Caramanide era già stato sottomesso dal padre di
Bayezid, Mehmet II, nel 1471. Quanto a Ğem, dopo essersi dichiarato
Sultano dell’Anatolia e dell’Oriente (28 maggio 1481), offrì a Bayezid
II di regnare sull’Europa, ma questi, rifiutatosi di spartire l’Impero, sconfisse
il fratello presso Yeniºehir (20 giugno 1481). Ğem tentò una
seconda volta di spodestare Bayezid, e questa volta fu appoggiato dai
Mamelucchi d’Egitto e dal loro sultano Kaitbey (1468-1496). La marcia del suo
esercito iniziò dalla città di Aleppo (aprile 1482) e si concluse
ad Ankara (8 giugno 1482) quando fu chiaro che l’aristocrazia turca
dell’Anatolia si era riconciliata con Bayezid II, senza che questi però
si inimicasse i devºirme, e che
nessun appoggio sarebbe stato offerto a Ğem. Questi preferì
fuggire, prima a Rodi, poi in Francia (1 settembre 1482), infine a Roma, presso
Innocenzo VIII (1486). Quando poi Carlo VIII conquistò gran parte
dell’Italia, compresa Roma (1495), Ğem fu catturato e destinato ancora
alla Francia, ma prima di giungervi morì a Napoli (25 febbraio 1495)
apparentemente di morte naturale.
[37] A. Cambini, Commentario
… cit., p. 46v.
[38] Cfr. O. Cristea, Acest
domn de la miazãnoapte…: ªtefan cel Mare în documente inedite veneþiene,
premessa di ªerban Papacostea, Bucarest 2004, pp. 110-112 ss.
[39] A. Cambini, Commentario
… cit., pp. 46v-47.
[40] Città Bianca, oggi Belgorod in Ucraina. Cfr.
anche Nicoarã Beldiceanu, La
conquête des cités marchandes de Kilia et de Cetatea Albã par Bayezid II,
in “Süd-Ost Forschungen”, no. 23, 1964, pp. 36-90.
[41] A. Cambini, Commentario
… cit., p. 47.
[42] Ibidem, p. 47v.
[43] Si tratta naturalmente del fiume Dnestr, che oggi sfocia
nel Mar Nero in territorio ucraino.
[44] A. Cambini, Commentario
… cit., pp. 46v-48v. In seguito ai fatti suddetti,
Stefano il Grande fu costretto a riconoscere di nuovo la sovranità
ottomana e a riprendere il pagamento del tributo, mentre i Tartari, alleati di
Bayezid II, avevano saccheggiato la Bessarabia meridionale e conquistato
l’intera costa nord-occidentale del Mar Nero, togliendola agli Jagelloni. L’opera
del Cambini, dopo l’assedio di Città Bianca, passa a trattare della
guerra contro Venezia iniziata da Bayezid II, quando, nel 1498, attaccò
la Morea entrando nel Golfo di Patrasso e ponendo il campo nell’antica Naupatto
(Lepanto).
[45] Compresi nella narrazione degli anni 1475-1484, pp. 34r-48v,
cioè più di un quinto, anche se di poco, dell’intero Commentario; e ricordiamo che l’opera va
dalle origini dell’Impero (fine del XIII secolo) ai primi anni del regno di
Solimano il Magnifico (1520-1566, ma il Cambini è morto nel 1527).
Questo lo schema dell’opera: I libro: pp. 2r-16v (dalle
origini fino alla morte di Murad II, nel 1451); II l.: pp. 17r-39r
(dedicato a Mehmet II, 1451-1481); III l.: pp. 39v-55v (dedicato
a Bayezid II, 1481-1512); IV l.: pp. 56r-72r (dedicato a
Selim I, 1512-1520, ma le pp. 71r-72r trattano dei primi
anni del Solimano). E notiamo che il libro II riserva le pp. 34r-39r
agli anni 1475-1481 e le pp. 17r-33v agli anni 1451-1470;
mentre il l. III riserva ben diciassette pagine (pp. 39v-48v)
ai soli anni 1481-1484 e le restanti quattordici (pp. 49r-55r)
a tutti gli anni successivi, fino al 1512, e non si può dire che non
fossero anni ricchi di eventi da prendere in considerazione. Inoltre, nella
stessa p. 48v, il Cambini passa dall’anno 1484 all’anno 1498, ai
prodromi della guerra veneto-ottomana, tralasciando gli episodi intermedi,
ossia le campagne di Bayezid II in Moldavia e Polonia e alcuni episodi che
preparavano la guerra suddetta già a partire dal 1496. Forse questa
cesura testimonia una ripresa dell’opera, lasciata ferma negli anni in cui il
Cambini si era dedicato alla traduzione delle Historiae di Biondo Flavio (conclusasi nel 1491), era stato Priore
a Firenze (1485-1486) e quindi, dal 1488, era divenuto procuratore del futuro papa
Leone X, ossia nel periodo compreso fra le prime missioni diplomatiche
(1482-1483) e la disgrazia politica sua e del Savonarola (1498).
[46] Filippo Maria Visconti (Milano, 1392 – ivi, 1447),
figlio di Gian Galeazzo e Caterina, duca dal 1412, fu l’ultimo dei Visconti a
Milano; gli successe Francesco Sforza (S. Miniato, 1401 – Milano, 1466), figlio
di Muzio Attendolo e di Lucia. Lo Sforza, che aveva ricevuto un’educazione
prettamente militare, a Ferrara e a Napoli, e che aveva sposato Bianca Maria,
figlia naturale di Filippo Maria Visconti, entrò il 27 febbraio 1450 in
Milano, dopo l’instaurazione della repubblica ambrosiana appoggiata da Venezia,
e si fece proclamare duca alleandosi subito dopo con Carlo VII, re di Francia,
e con Cosimo de’ Medici.
[47] Giovanni d’Angiò (Toul, 1427 – Barcellona, 1470),
figlio di Renato I d’Angiò, re di Napoli, fu Duca di Calabria e si
recò col padre, nel 1438, a prendere possesso del Regno di Napoli.
Divenuto governatore di Genova nel 1458 per conto della Francia, intraprese nel
1459, su invito dei baroni napoletani, una spedizione contro Ferdinando,
presentandosi come erede legittimo di quel regno.
[48] Del resto la fuga da Firenze di Piero, figlio di
Lorenzo, sarà la conseguenza della sua ostinata ed unilaterale adesione
alla politica del re di Napoli a scapito di Milano e della Francia.
[49] Dopo la congiura dei Pazzi, Lorenzo aveva fatto
giustiziare i congiurati, raggiungendo anche chi era riuscito a rifugiarsi
all’estero. Fu il caso di Bernardo Bandini, giunto a Costantinopoli su una nave
napoletana, di cui scrive Theodoro Spandugino Cantacuzeno (che cito secondo il
testo del codice di Parigi, fonds italien
881, f. 39, pubblicato in Constantin N. Sathas, Documents inédits relatifs à l’histoire de la Grèce au
Moyen âge, vol. IX, Parigi
1890, p. 165): “[…] tutti li homicida furono morti et justitiati, et nullo
scampò eccetto uno che andò a Mehemet imperator de’ Turchi, quale
si fece un salvacondutto, et stavasi in Costantinopoli, nomato Bernardo
Bandini; ma dopo alquanti giorni fu mandato dal magnifico Lorenzo un huomo a
Costantinopoli a Mehemet che li desse l’homicida nelle mani, et intendendo
Mehemet il nephando [sic] et iniquo tradimento, fece pigliar lo homicida et
assignollo in podestà del messo del magnifico Lorenzo, et così fu
condotto detto Bernardo a Fiorenza, ove fu acerbissimamente justitiato
[dicembre 1479], et restò il magnifico Lorenzo grandissimo amico et in
grandissima esistimatione di Mehemet”. E Lorenzo, per celebrare l’amicizia con
Mehmet II, commissionò a Bertoldo di Giovanni una medaglia con l’effigie
del Gran Signore. Inoltre il Cantacuzeno (cod. Parigino fonds italien 881, f. 42, in C. N. Sathas, op. cit., p. 167) avvalora l’ipotesi che l’attacco portato ad
Otranto da Mehmet II fosse suggerito da chi, in quel momento (estate 1480), era
in guerra contro Ferdinando e Sisto IV: “In quel tempo essendo lo re di Napoli
in controversie con lo magnifico Lorenzo di Medici et alcuni altri potentati
trovò occasione Mehemet, persuaso
da alcuni di loro [il corsivo è mio], et mandò il
sopranominato Gidi Cadmath bassà [sc. Kedük Ahmed Pascià, che era
stato staffiere di Mehmet II] con una armata maritima et assaltorono la
città di Otranto in Italia […]”. In questo periodo Ferdinando,
nonostante la pace firmata con Lorenzo (19 marzo 1480), invadeva alla fine di
giugno il territorio di Siena, giungendo fino a Forlì. Naturalmente fu a
causa dello sbarco ottomano che, come scrive anche il Cambini, il Duca di
Calabria Alfonso, figlio di Ferdinando, venne richiamato dalla guerra contro
Firenze e dirottato su Otranto. Poi, alla morte di Mehmet II, Kedük Ahmed
Pascià se ne tornò a Costantinopoli lasciando Otranto ben munita;
ma Lorenzo si era ormai riconciliato con Ferdinando. È possibile che, in
quell’anno 1480, le città di Firenze e di Venezia si fossero
riavvicinate temporaneamente ed avessero raggiunto un accordo segreto con
l’Impero Ottomano per contrastare l’espansione del re di Napoli, come
dimostrerebbe il fatto che il bailo veneziano a Costantinopoli, Battista
Gritti, avrebbe comunicato al sultano il parere favorevole della città
veneta circa il diritto degli Ottomani di occupare Brindisi, Taranto e Otranto,
in quanto territori una volta appartenuti all’Impero bizantino. Si veda a
questo proposito: Franz Babinger, Mahomet
II le Conquérant et sous temps (1432-1491), tr. franc. di H. E. del Medico,
Parigi 1954, p. 477; e Idem, Lorenzo de’
Medici e la Corte ottomana, in “Archivio Storico Italiano”, no. 121, 1963,
pp. 305-361. Anche lo storico bizantino G. Sphrantzes, Chronicon minus (Cfr. Vasile Grecu, Georgios Sphrantzes. Memorii, 1401-1477 …, Bucarest 1966), si
dilunga sulla questione di Bernardo Bandini per spiegare l’amicizia fra Lorenzo
e Mehmet II.
[50] Un esempio è la spedizione ungherese contro la
Moldavia conclusasi, nel dicembre 1467, con la vittoria di Stefano il Grande a
Baia.
[51] Gian Battista Cybo, nato a Genova nel 1432, fu sommo
pontefice dal 29 agosto 1484 al 25 luglio 1492. Per consolidare i rapporti con
Firenze fece sposare il figlio Franceschetto con Maddalena de’ Medici.
[52] Federico III di Asburgo, detto il Pacifico (Innsbruck,
1415 – Linz, 1493), divenne imperatore nel 1440, fu incoronato a Roma nel 1452
ed aspirò invano alla corona d’Ungheria.
[53] Carlo VIII (Amboise 1470-1498), figlio di Luigi XI e
Carlotta di Savoia, successe al padre a tredici anni, nel 1483, per cui il
governo fu retto dalla sorella maggiore, Anna di Beaujeu, fino al 1491, anno in
cui Carlo sposò Anna, duchessa di Bretagna, e iniziò il suo
governo personale.
[54] La famiglia Frangipane di Veglia (Dalmazia) e del Friuli
si voleva, erroneamente, che derivasse da un ramo dei Frangipane di Roma, che
animarono la politica di quella città nei secoli XI-XIII e con Giovanni,
signore di Astura (seconda metà del XIII secolo), fondarono un nuovo
ramo a Napoli.
[55] Il Mattia mecenate intratteneva rapporti stretti in
particolare con Firenze. Il fiorentino Chiementi Camicia arrivò a Buda
dopo il matrimonio di Mattia con Beatrice, fu primo architetto nei lavori del
palazzo reale e lasciò l’Ungheria solo dopo la morte del re; mentre, nel
1488, la gestione dei libri contabili veniva affidata a Bernardo Vespucci,
mercante fiorentino. Mattia, poi, che pure non poté contare sui più
grandi maestri del Rinascimento, avrebbe commissionato opere anche a Leonardo e
a Filippo Lippi; comunque è vero che, per la costituzione della
Biblioteca Corviniana, Mattia si servì dell’amicizia che lo legava
all’umanista Francesco Bandini. Questi segnalava al re d’Ungheria i volumi
più interessanti, e nel 1480 fondò un circolo neoplatonico alla
corte di Buda. Tra gli umanisti ungheresi, il vescovo Nicola Báthori, che aveva
studiato in Italia, fondò a Vác una scuola, invitandovi come professore
Marsilio Ficino. Il Ficino, fra l’altro, scrisse il trattato: De vita coelitus comparanda ad Matthiam
Corvinum, pubblicato nel 1489.
[56] Giovanni Alberto I, Jan Olbrecht (Cracovia, 1459 –
Torún, 1501), figlio di Casimiro IV Iagellone, successe al padre nel 1492, ma
prima, morto Mattia Corvino nell’aprile 1490, era stato eletto re d’Ungheria
dalla nobiltà di quel paese.
[57] Cfr. C. N. Sathas, op.
cit., Préface e pp. 138-261, che
pubblica il testo del codice della Biblioteca Nazionale di Parigi fonds italien 881, intitolato: Theodoro Spandugnino, Patritio
Constantinopolitano, de la origine deli Imperatori Ottomani, ordini dela corte,
forma del guerreggiare loro, religione, rito et costumi dela natione,
versione che di recente è stata tradotta in inglese da Donald Mac
Gillivray Nicol, On the origins of the
Ottoman emperors. Theodore Spandounes, Cambridge–Melbourne 1997 (segnalato
in Stephen the Great cit., p. 46); N.
Iorga, Despre Cantacuzini. Studii
istorice basate în parte pe documentele inedite din Archiva d-lui G. Gr.
Cantacuzino, Bucarest 1902; Idem, Byzance
après Byzance, Bucarest 1971. Per la questione delle redazioni dell’opera
del Cantacuzeno, si veda soprattutto Christiane Villain–Gandossi, La cronaca italiana di Teodoro Spandugino,
in “Il Veltro. Rivista della civiltà italiana”, XXIII, nos. 2-4, 1979,
pp. 151-171, ristampa in Eadem, La
Méditerranée aux XIIe-XVIe siècles. Relations
maritimes, diplomatiques et commerciales, Londra 1983, III, che pubblica il
testo del ms. Italiano H 389 della Biblioteca Universitaria (sezione medicina)
di Montpellier (solo 38 ff. su 96), intitolato: Del origine de Principi de Turchi, Ordine de la corte loro et Costumi
de la Natione. A Leone X Papa (citato in M. F. Viallon, op. cit., p. 35, n. 4); Gianluca Masi, Cairo (24 agosto 1556), la carovana diretta
alla Mecca e il “Mahmal” nel reportage di Pellegrino Brocardo. Elementi
dell’esercito ottomano e loro schieramenti nelle fonti del XVI secolo, in
“Quaderni della Casa Romena di Venezia”, no. 3, 2004, pp. 225-290. L’opera del
Cantacuzeno ebbe, oltre a diverse redazioni manoscritte, due edizioni a stampa:
Theodoro Spandugnino della casa regale de
Cantacusini Patritio Constantinopolitano, delle historie, et origine de
Principi de Turchi, ordine della corte, loro rito, et costumi. Opera nuovamente
stampata, né fin qui missa in luce, In Lucca per Vincentio Busdrago a
dì 17 di settembre MDL, cc. [VI+97], in 8°; e I Commentari di Theodoro Spandugino Cantacuscino Gentilhuomo
Constantinopolitano, dell’origine de Principi Turchi, et de costumi di quella
natione, Fiorenza appresso Lorenzo Torrentino impressor ducale MDLI, pp.
[16] 202 [2], in 8°. Ma esiste anche la versione pubblicata nell’Historia di Francesco Sansovino. Per
quanto mi riguarda, ho confrontato i testi dell’edizione fiorentina del 1551
(ma ho consultato anche l’edizione di Lucca, più rara, presso la
Biblioteca Comunale “Renato Fucini” di Empoli, coll. 2-O-15-8203), e dei codd.
Parigino fonds italien 881 e Ital. H
389 della Biblioteca Universitaria di Montpellier (da me consultato anche su
microfilm).
[58] La Moldavia, secondo l’uso ottomano, era detta Bogdania
Nera dal fondatore del principato, Bogdan I.
[59] La parentela con Giano Lascaris è confermata da
Marino Sanudo nei suoi Diarii. Cfr.
Idem, I Diarii di Marin Sanudo
(MCCCCXCVI-MDXXXIII) dall’autografo Marciano Ital. Cl. VII. 228-286
(=9215-9273), 58 voll., edizione a cura di Rinaldo Fulin, Federico Stefani,
Nicolò Barozzi, Guglielmo Berchet e Marco Allegri, Venezia 1879-1902,
vol. VIII, p. 126.
[60] Giovanni VI Cantacuzeno (ca. 1292-1383) nel 1341 si fece
proclamare imperatore e collega di Giovanni V Paleologo (1332-1391); deposto
nel 1354, si ritirò sul Monte Athos.
[61] Cfr. f. 34 del cod. Parigino fonds italien 881, in C. N. Sathas, op. cit., p. 161; e Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., p. 52. L’edizione a stampa di Lucca, con
differenze più o meno evidenti, è più vicina, nei punti in
comune, alla lettera del codice parigino, anche se testimonia la medesima fase
redazionale della stampa fiorentina. Quest’ultima si discosta da ambedue a
causa di una revisione della lingua e dello stile di cui riparleremo. Nel
manoscritto di Montpellier mancano tutte quelle indicazioni di tipo biografico,
relative allo stesso Theodoro e ai suoi parenti, di cui daremo conto via via in
questo capitolo.
[62] Cfr. M. Sanudo, Diarii
… cit., vol. VII, col. 115.
[63] Ultimo dei Paleologi ed ultimo imperatore d’Oriente (1404-1453)
a partire dal 1449. Morì in combattimento durante la difesa di
Costantinopoli dagli Ottomani di Mehmet II.
[64] Il decreto del 1475 (Archivio di Stato di Venezia, Consiglio dei Dieci. Misti, XVIII, f.
113v; in C. N. Sathas, op.
cit., pp. XXXVIII-XXXIX) fu annullato tre anni dopo, mentre, con decreto
del 28 luglio 1479, il Consiglio dei Dieci estese la concessione a tutti i
greci residenti a Venezia, ma il provvedimento non vide mai attuazione a causa
dei pericoli che taluni vi scorsero per la religione cattolica. Il privilegio,
dunque, rimase per le sole Anna e Eudocia, finché esse rimasero in vita (Anna
Notaras morì ultracentenaria l’8 luglio 1507, mentre Eudocia era morta
già prima del 1490) e finché, nell’anno 1511, fu concessa la costruzione
della chiesa di S. Giorgio. Cfr. C. N. Sathas, op. cit., pp. XXXIV-XXXVII, XXXIX-XL.
[65] Cfr. Etymologicum
magnum Graecum …, ed. Marcus Musurus, Venezia, Zacharias Caglierges, per
Nicolaus Blastus e Anna Notaras, 8 luglio 1499.
[66] Un’altra sorella di Giorgio fu Elena, moglie di David
Comneno (1458-1463), ultimo imperatore greco di Trebisonda, morta tragicamente
nel 1463, insieme col marito, alla caduta della città sotto gli
Ottomani.
[67] Cfr. cod. Parigino fonds
italien 881, f. 34, in C. N. Sathas, op.
cit., p. 161; e l’edizione fiorentina del 1551: Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., p. 52.
[68] Per Loukas Spandounes si veda Charalampos Bouras, Το
επιτύμβιο του
Λουκα
Σπανδούνη στη‑
βασιλικη‑ του
‛Αγίου
Δημητρίου
Θεσσαλονίκης,
in “’Επιστημονικη
‘Επετηρις της
Πολυτεχνικης
Σχολης”, VI, 1973, pp. 1-63.
[69] Ulrico II, conte di Cilli (Slovacchia, 1406 – Belgrado,
1456) e figlio di Federico II, ingrandì i suoi possedimenti in Slavonia
e Croazia, entrando in conflitto con Giovanni Hunyadi (Giovanni di Hunedoara),
reggente d’Ungheria per conto di Ladislao, ancora minorenne. Ulrico, nel 1452,
si fece consegnare da Federico III il tredicenne Ladislao, divenendo di fatto
reggente di Boemia ed Ungheria. Quattro anni dopo, durante la guerra contro gli
Ottomani, Ulrico fu ucciso a Belgrado da Ladislao Hunyadi. Ulrico aveva sposato
Caterina nel 1434, avendone una figlia, Elisabetta, andata in sposa a Mattia
Corvino.
[70] Cfr. cod. Parigino fonds
italien 881, f. 21, f. 23, f. 30, f. 40, in C. N. Sathas, op. cit., p. 151 (per Elena, moglie di
David Comneno, e per Irene, moglie di Giorgio di Serbia), pp. 152-153 (per
Irene, Maria e Giorgio di Serbia), p. 158 (per Maria, Caterina e il conte di
Cilli) e pp. 165-166 (per Maria); e Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., p. 29, p. 33, p. 45, p. 54 (l’accenno a Maria
presente nel f. 40 del codice parigino, pp. 165-166 del Sathas, è omesso
in ambedue le edizioni a stampa). Per la sultana Maria, si veda: D. M. Nicol, The Byzantine Lady, Cambridge 1994, pp.
110-119. Per tutte queste notizie sui parenti di Theodoro, ed altri ne citeremo
in seguito, si veda: Idem, The Byzantine
Family of Kantakouzenos (Cantacuzenus), ca. 1100-1460. A Genealogical and
Prosopographical Study (“Dumbarton Oaks Studies”, XI), Washington D. C.
1968, n. 89, n. 94, n. 102 e p. 212.
[71] Cfr. Iosephi Valentinelli, Regesta documentorum Germaniae historiam illustrantium, Monaco di
Baviera 1864, p. 258, Sitzungsberichte
der Bayerische Akademie der Wissenschaften, III, cl. IX Bd. II, p. 714.
[72] Cfr. cod. Parigino fonds
italien 881, f. 40, in C. N. Sathas, op.
cit., p. 166; e l’edizione fiorentina: Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., p. 61.
[73] Cfr. Deno John Geanakoplos, Greek Scholars in Venice. Studies in the Dissemination of Greek
Learning from Byzanthium to Western Europe, Cambridge 1962, pp. 55-56, in
cui l’autore tratta del corpo dei cosiddetti estradioti o stratioti (dal
greco stratiotes, soldati), una
cavalleria leggera al soldo della Repubblica veneziana che veniva reclutata fra
i Greci, mentre il comando supremo era affidato ad un nobile veneziano; Idem, Byzantine East and Latin West. Two Worlds of
Christendom in Middle Ages and Renaissance. Studies in Ecclesiastical and
Cultural History, Oxford 1966, pp. 119-123; D. M. Nicol, Venezia e Bisanzio, Milano 1990 (trad.
ital. di Idem, Byzanthium and Venice. A
Study in Diplomatic and Cultural Relations, Cambridge 1988), pp. 534-535 e
n. 9, che cita, a sua volta, Idem, The
Byzantine Family of Kantakouzenos cit., pp. XV-XVII e 230-233. C. N.
Sathas, op. cit., pp. 1-131, pubblica
numerosi documenti relativi al reclutamento, alla provvigione ed all’impiego di
alcuni stratioti in Dalmazia e nelle
isole di Zante, Corfù, Cefalonia e Candia, negli anni 1548-1570. Uno di
essi era Iakobos Diassorinos, che scrisse a Filippo Melantone e a Filippo II,
re di Spagna, per incitarli ad una crociata destinata a liberare la Grecia
dagli Ottomani, e che era parente e compagno d’armi di Iakobos Basilikos,
principe di Moldavia (Despot Vodã, Ioan Iacob Eraclid, 1561-1563), Cfr. Ibidem, p. XXVII.
[74] Nelle lettere
dedicatorie: a Leone X (ms. Ital. H 389 della Biblioteca Universitaria di
Montpellier, f. 1r, in C.–V. Gandossi, op. cit., p. 157); a Enrico II (cod. Parigino fonds italien 881, f. 1, in C. N. Sathas, op. cit., p. 135).
[75] Cfr. cod. Parigino fonds
italien 881, f. 177, in C. N. Sathas, op.
cit., p. 261; la citazione manca sia nelle edizioni a stampa, sia nel
codice di Montpellier.
[76] Cfr. C. N. Sathas, op.
cit., pp. XVII-XVIII; D. M. Nicol, On
the origins cit., p. XX; e per l’edizione di G. Sphrantzes, il già
citato V. Grecu, op. cit., passim; si vedano anche: Din domnia lui Mahomed al 2-lea: anii
1451-1467. Critobul din Imbros, edizone a cura di V. Grecu, Bucarest 1963;
Critobuli Imbriotae, Historiae,
recensuit Diether Roderich Reinsch, Berolini, Novi Eboraci 1983 (Corpus Fontium
Historiae Byzantinae, 22); Laonici Chalcocondylae Atheniensis, De origine et rebus gestis Turcorum libri
decem, nuper e Graeco in Latinum conversi: Conrado Clausero Tigurino
interprete …, Basileae 1556; e l’edizione più recente, Laonici Chalcocondylae Historiarum
Demonstrationes, ad fidem codicum emendavit annotationibusque criticis
instruxit Eugenius Darko, 3 voll., Budapest 1922-1927; ma esistono anche
l’edizione di Immanuel Bekker, in “Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae”,
1843; la trad. inglese con commento (ll. I-III) di Nicolaos Nicoloudis, in
“Historical Monographs”, 16, 1996; e Idem, ‘Επιδράσεις
των
“’Αποδείξεων
‛Ιστορίων” του
Λαονίκου
Χαλκοκονδύλη
στο εργο του Θ.
Σπανδούνη, in Hellenic Historical Society: 14th
Panhellenic Historical Conference, Tessaloniki 1994, pp. 135-142.
[77] Cfr. cod. Parigino fonds italien 881, ff. 4-6, ff. 11-12,
f. 17, f. 23, f. 25, ff. 177-178, in C. N. Sathas, op. cit., pp. 138-139, p. 143, p. 145, p. 148, pp. 153-154, pp.
260-261; e passim nelle due edizioni
a stampa. Anche nel ms. Ital. H 389 della Biblioteca Universitaria di
Montpellier, f. 11r (in C.–V. Gandossi, op. cit., p. 161), compaiono citati gli historiographi de Turchi.
[78] Cfr. A. Bombaci, Storia della letteratura turca, Milano
1956.
[79] Cfr. D. M. Nicol, On the origins cit., pp. XXI-XXII, che
si basa su A. Pertusi, I primi studi
cit., pp. 480-482 (per l’Angiolello) e p. 471 (per il Sagundino). Ma per il Liber de familia Autumanorum id est
Turchorum, o anche De origine et
gestis Turcorum liber, che Nicola Sagundino scrisse nel 1456 per Enea
Silvio Piccolomini e che fu pubblicato per la prima volta a Vienna nel 1551, si
veda anche A. Pertusi, La caduta di
Costantinopoli, 2 voll., Verona 1976, II, pp. 126-141; per l’Historia Turchesca dell’Angiolello,
ripresa da Donato di Lezze (c. 1490-1514): Ion Ursu, Donado da Lezze, Historia Turchesca (1300-1514), Bucarest 1909;
Idem, Uno sconosciuto storico veneziano
del secolo XVI (Donato da Lezze), in “Nuovo Archivio Veneto”, no. 19, 1910,
pp. 5-25.
[80] Quando il Cambini scrive (Idem, Commentario … cit., p. 1r): “La natione de Turchi, sono
suti alcuni scrittori massime moderni, che per haverli veduti dominare i paesi,
dove fu l’antica Troia, et alludendo etiandio al nome, hanno detto esser
discesa da Theucri” e poi confuta questa teoria, si inserisce in un dibattito
nel quale, da un lato, Bartolomeo di Giano, nella Epistula de crudelitate Turcarum in Christianos (P. G. 158, 1056 C,
1057 D, 1062 C), e Leonardo di Chio, nella Historia
Constantinopolitanae urbis a Mehumete II captae (P. G. 159, 923 A, 925 D),
avevano avvalorato l’origine dei Turchi dai Teucri, mentre dall’altro l’avevano
negata Poggio Bracciolini (in Angelo Mai, Spicilegium
Romanum, IX, Roma 1843, p. 642), Enea Silvio Piccolomini (Aeneae Sylvii
Piccolominei Senensis, Opera …,
Basileae 1571, p. 350, p. 384, p. 394) e Martino Segono (Tractatus de provisione Hydronti et de ordine militum Turci et eius
origine, in cod. Ambr. Q. 116 sup., ff. 157v-159v),
di cui riparleremo. Cfr. A. Pertusi, I
primi studi cit., p. 478, pp. 480-482, p. 492, p. 497. Il Cambini e il
Cantacuzeno potrebbero aver conosciuto anche la Recollecta di Jacopo de Promontorio, olim de Campis, del 1475 (Recollecta
nella quale è annotata tutta la entrata del gran Turco, el suo
nascimento, sue magnificentie, suo governo, suoi ordini et gesti, etc., che
tratta degli anni 1345-1475 ed è pubblicata da F. Babinger, Die Aufzeichnungen des Genuesen Iacopo de
Promontorio-de Campis über den Osmanenstaat um 1475, in “Sitzungsberichte
des Bayerische Akademie der Wissenschaft. Philologie-historische Klasse”,
Monaco di Baviera 1957, pp. 29-95; si veda anche: Idem, Maometto il Conquistatore e gli Umanisti d’Italia, in Venezia e l’Oriente fra tardo Medioevo e
Rinascimento, Firenze 1966, pp. 438-439), le Enneades di Marco Antonio Coccio detto Sabellico, storico ufficiale
della Repubblica veneziana dal 1488 al 1506, anno della morte, o almeno la
parte dedicata ai Turchi (Enneades Marci
Antonii Sabellici ab orbe condito ad inclinationem Romani Imperii, Venetiis
1498; Secunda pars Enneadum Marci Antonii
Sabellici ab inclinatione Romani Imperii uspue ad annum MDIIII, Venetiis
1504, pp. LXVIIIIv-LXXr), e Giovan Battista Cipelli
(Egnatius), che inserì nella sua opera, scritta probabilmente fra il
1510 e il 1515, il De origine Turcarum (Ioannis
Baptistae Egnati Veneti, De Caesaribus
libri III a dictatore Caesare ad Constantinum Palaeologum, hinc a Carolo Magno
ad Maximilianum Caesarem, Venetiis 1516, ff. non numerati; il De origine Turcarum è alle pp.
715-717 in Vitae Caesarum quarum
scriptores hi: C. Svetonius Tranquillus …, Basileae 1545).
[81] Cfr. cod. Parigino fonds
italien 881, f. 38, in C. N. Sathas, op.
cit., p. 164; Marini Barletii, Historia
de Vita et Gestis Scanderbegi Epirotarum Principis, Roma 1509 o 1510; e
Marini Barletii, De obsidione Scodrensi
ad Serenissimum Leonardum Laurentanum Aristocratiae Venetae principem,
Venetiis 1504 (nell’Historia del
Sansovino, pp. 300-321). La menzione del Barletius manca in ambedue le edizioni
a stampa e nel codice di Montpellier.
[82] Cfr. Constantine of Ostroviça, Memoirs of a Janissary, traduzione a cura di B. Stolz, commenti
storici e note a cura di S. Soucek, Ann Arbor 1975 (A. Pertusi, I primi studi cit., pp. 482-484);
Giorgio di Ungheria, Tractatus de moribus
condicionibus et nequicia Turcorum, Roma 1480. Le opere di questi due
autori, come scrive il Pertusi, trattano per lo più di vicende
personali, come nel genere del diario, e non in modo specifico dell’origine e
della potenza degli Ottomani. Sul Petanèiæ ritorneremo alla fine del nostro
contributo.
[83] Cfr. M. Sanudo, Diarii
… cit., vol. VII, col. 175; Ibidem,
vol. VIII, col. 126; Ibidem, vol.
XXI, col. 514.
[84] Cfr. Gulielmi Budaei, Epistulae, Parigi 1575, p. 152.
[85] Cfr. M. Sanudo, Diarii
… cit., vol. XXI, col. 514.
[86] Florensz Dedel di Utrecht, precettore di Carlo V, fu
papa fra il 1522 e il 1523.
[87] Cfr. C. N. Sathas, op.
cit., pp. XXII-XXIII.
[88] Cfr. M. Sanudo, Diarii
… cit., XVII, p. 66; Ibidem, vol.
XXIV, col. 1337.
[89] Cfr. C.–V. Gandossi, op.
cit., pp. 152-155.
[90] Giulio de’ Medici (Firenze, 1478 – Roma, 1534), figlio
illegittimo di Giuliano e cugino di Giovanni (Leone X), divenne papa il 19 novembre
1523. In un documento del gennaio 1537, Clemente VII definisce Theodoro:
“dilecto filio, patritio Constantinopolitano, familiari et commissario nostro”.
Cfr. Kenneth M. Setton, The Papacy and
the Levant (1204-1571), 4 voll., Philadelphia 1976-1984, III vol., p. 411,
n. 57.
[91] Enrico II di Valois (St. Germain-en-Laye, 1519 – Parigi,
1559), figlio di Francesco I, gli successe nel 1547. Per il cod. Parigino fonds italien 881 (olim 10266), membr., in 4°, ff. 360, si veda: Antonio Marsand, I Manoscritti italiani della Regia
Biblioteca Parigina, Parigi 1835, pp. 461-462. Redazioni successive a
quella del 1538 potrebbero essere testimoniate da due codici della Biblioteca
del Civico Museo Correr di Venezia: Cic. 848 e Cic. 853.
[92] Luigi XII (Blois, 1462 – Parigi, 1515), figlio di Carlo
di Orléan e di Maria di Cléves, ed erede al trono in quanto a capo del ramo
collaterale dei Valois–Orléan, successe al cugino Carlo VIII il 7 aprile 1498.
[93] La traduzione francese fu pubblicata da Charles H. A.
Schefer, Petit Traicté de l’origine des
Turcqz par Théodore Spandouyn Cantacasin (sic), Parigi 1896, ma nel 1519
era già uscita anonima a Parigi la prima edizione a stampa: La généalogie du grant turc a present
regnant … pour François Regnault. In seguito vi furono traduzioni in altre
lingue, in spagnolo: Historia del
originen de los emperadores turcos, por Teodoro Espanduino, traducida del
toscano al castellano por Diego de Torremocha, Comendador de la Camara de los
Privillegios de la Horden de Santiago, eseguita verso il 1520 e dedicata a
Carlo V (manoscritto 789 della Biblioteca Nazionale di Madrid); in tedesco
(probabilmente dalla redazione offerta a Leone X): Spanduinus Cantacusinus, Der Türkenheymligkeyt: ein New nutzlich
büchlein von den Türcken Ursprung pollicey hofsytten und gebreuchen in und
ausser den Zeitten des Kriegs mit vil andern warhafftigen lustigen anzeygenn …
durch Casper vonn Ausses in eingemein teutsch gezogen, Bamberg 1523, di cui
un esemplare è conservato a Bucarest, nella Biblioteca dell’Accademia
Romena (coll. I 143, 105).
[94] Alessandro Farnese (Canino, Viterbo, 1468 – Roma, 1549)
fu papa Paolo III a partire dal 13 ottobre 1534 e fino al 10 novembre 1549.
[95] Cfr. F. Sansovino, Historia … cit., pp. 107-131, pp.
132-140, pp. 182-207, in part. p. 140, in cui il Cantacuzeno scrive: “[…] quando a Dio piaccia di darmi quell’otio
ch’io desidero, vedrà il mondo una compiuta historia delle cose di
Persiani e del Soldano, che sarà meno utile che cara”. Il Safavide
Ismā‛īl (1487-1524, Scià di Persia dal 1502), fuggito in
Iran sotto la pressione degli Ottomani e dei Turcomanni di Uzun Hasan, potendo
contare sull’appoggio di sette tribù turcomanne (che, a causa del loro
copricapo, presero il nome di Kizilbaš, teste rosse), riuscì a
conquistare tutto l’Iran, a far capitolare la città di Bagdad (1509) e
ad annettersi gran parte dell’Iraq, nel quale favorì la diffusione dello
Sciismo. In seguito cercò di estendere l’influenza safavide anche
sull’Anatolia ottomana, inviando predicatori a diffondere fra i nomadi l’antico
messaggio Sūfī. Bayezid II sottovalutò il pericolo, tanto che
un tal Šāh-qulu, messosi a capo di una rivolta, giunse a conquistare gran
parte dell’Anatolia centrale, sconfiggendo l’esercito ottomano presso Kayseri
(agosto 1511), ma poi i ribelli si dispersero a causa della morte del loro
capo.
[96] In seguito uscirono due edizioni a stampa anche a Lione,
nel 1569-1570 e nel 1590-1591.
[97] In ambedue le
edizioni a stampa, oltre a quelle parti che abbiamo già segnalato,
mancano naturalmente le lettere dedicatorie: a Leone X (ms. Ital. H 389 della
Biblioteca Universitaria di Montpellier, ff. 1r-2v, in
C.–V. Gandossi, op. cit., pp.
157-158) e ad Enrico II (cod. Parigino fonds
italien 881, ff. 1-3, in C. N. Sathas, op.
cit., pp. 135-137). L’edizione di Lucca è dedicata dallo stampatore
ad un non meglio identificato Luca Grilli, mentre l’edizione fiorentina reca la
dedica di Ludovico Domenichi (1515-1564): “A dì primo di Settembre MDLI
in Fiorenza”, a Camillo Vitelli, conte di Montone (Perugia) e condottiero, che
nel 1554, dopo aver servito Francesco I in Francia, giunse in Toscana per
militare sotto Cosimo I nella guerra contro Siena. Passato ai Senesi, il
Vitelli, giacché la guerra volgeva al peggio, decise nel 1557 di tornare in
Francia, ma durante il viaggio morì a soli ventinove anni. Cfr. Corrado
Argegni, Enciclopedia Biografica e
Bibliografica “Italiana”. Serie XIX. Condottieri, Capitani, Tribuni, vol.
III, Milano 1937, p. 381, s. v. Vitelli
Camillo. Ma soprattutto, nelle due edizioni a stampa, mancano completamente
alcune parti che si possono leggere nel solo manoscritto parigino del 1538: ad
esempio la parte finale (cod. Parigino fonds
italien 881, ff. 177-178, in C. N. Sathas, op. cit., pp. 260-261) in cui il Cantacuzeno dà conto del suo
modo di procedere nella composizione, tanto per lo stile, per il quale si
scusa, quanto per le scelte metodologiche e di merito (ma nell’edizione di
Lucca, al termine dell’opera, compare una breve nota: “L’autore alli lettori”,
in cui il Cantacuzeno si scusa soprattutto per la brevità e per
l’omissione di alcuni episodi della storia ottomana che il lettore può
ritenere determinanti; ma niente si dice nella nota circa lo stile e la lingua,
come invece accade nella redazione del 1538, da cui, perciò, questa nota
assai si discosta). Inoltre, ed è ciò che più conta, non
vi è traccia, in ambedue le edizioni a stampa, di tutta quella sezione
che inizia dal f. 72 del cod. Parigino fonds
italien 881 (in C. N. Sathas, op. cit.,
pp. 189 e ss.) e che riguarda gli anni di regno del Solimano a partire dal
1526. È probabile dunque che le due edizioni a stampa, pur con le loro
differenze, testimonino una redazione da collocare fra il 1523 e il 1526,
giacché in ambedue è menzionato Clemente VII, che divenne papa proprio nel
novembre del 1523. Per l’edizione fiorentina, però, è bene tener
conto della personalità del dedicante, quel Ludovico Domenichi su cui
ritorneremo. Cfr. Domenico Moreni, Annali
della tipografia fiorentina di Lorenzo Torrentino, Firenze 1819, s. v. Domenichi Ludovico; Francesco
Bonaini, Dell’imprigionamento per
opinioni religiose di Renata d’Este e di Lodovico Domenichi, e degli uffici da
essa fatti per la liberazione di lui, secondo i documenti dell’Archivio
Centrale di Stato, in “Archivio Storico Italiano”, n. s., X, no. 20, 1859,
III, IV, 2, pp. 268-282; Annali
di Gabriel Giolito, Roma 1890-1895, s. v. Domenichi Ludovico; Abdelkader Salza, Intorno a Ludovico Domenichi, in “Rassegna bibliografica della
letteratura italiana”, VII, 1899, pp. 204-209; Alessandro d’Alessandro, Prime ricerche su Ludovico Domenichi, in
Le corti farnesiane di Parma e Piacenza
(1545-1622), vol. II, Forme e
istituzioni della produzione culturale, Roma 1978, pp. 171-208; Angela
Piscini, Domenichi Ludovico, in Dizionario Biografico degli Italiani,
vol. 40, Roma 1991, pp. 595-600; Rudolph M. Bell, How to Do It: Guides to Good Living for Renaissance Italians,
Chicago 1999, passim.
[98] Cfr. cod. Parigino fonds
italien 881, ff. 35-36, in C. N. Sathas, op. cit., pp. 162-163; e l’edizione fiorentina del 1551: Th. S.
Cantacuzeno, I Commentari … cit., pp.
53-56 (nell’edizione di Lucca, pp. [44-47]).
[99] Si tratta, naturalmente, del figlio di Vlad Dracul, Radu
il Bello, succeduto al fratello Vlad l’Impalatore dal novembre 1462 al gennaio
1475.
[100] Cfr. cod. Parigino fonds italien 881, ff. 36-37, in C. N.
Sathas, op. cit., p. 163 (un testo
quasi identico è testimoniato nell’edizione di Lucca, p. [47]); questo
il testo dell’edizione fiorentina, Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., p. 56: “[…] Né per questo Maometto si
spaventò punto, anzi fatto più coraggioso, l’anno seguente se
n’andò all’assedio della fortissima città del Carabogdano, la
qual prendendo la fece tributaria. Similmente il principe dell’altra Valacchea
tolse a pagare il doppio più che non pagava il Carabogdano, oltre
ch’egli s’obligò d’andare a baciare il pié all’Imperador Maometto ogni
due anni una volta in persona. Onde egli pose per ostaggio nella corte del
Turco il più stretto parente ch’egli havesse. Fu sempre Carabogdano in
gran riputatione appresso i Turchi, il che accadde percioché andando Maometto a
mettere il campo a Chieli, et Moncastro, egli diede il cuore a Carabogdano, con
manco di venti mila combattenti, di assaltare avanti che fusse venuto il giorno
l’essercito de’ Turchi, nel quale si ritrovava il Turco proprio in persona.
Carabogdano quantunque tagliasse a pezzi gran moltitudine de’ Turchi, nondimeno
sopraggiunto il dì non poté seguir la vittoria incominciata; percioché
tanta era la turba de’ Turchi, che non potendo regger l’impeto loro, gli diede
le spalle, et si fuggì salvando la più parte de’ sua soldati.
Costui è asente dalle gravezze, percioché egli non è tenuto dare
ostaggi al Turco, né tenuto d’andare a baciare personalmente il pié all’Imperadore,
come sono tenuti a far gli altri suoi vassalli”. Nel ms. Ital. H 389 della
Biblioteca Universitaria di Montpellier, ff. 11v -12r e
f. 12v (in C.–V. Gandossi, op.
cit., p. 161), mentre è assente l’assedio di Belgrado e la Bosnia
è appena nominata, per la Moldavia compaiono solo le seguenti note:
“[Mehmet II] poi che fece più guerre con Carabogdan principe de la
Inferiore Valacchia: tandem lo fece tributario sì esso come lo principe
de [f. 12r] l’altra Valacchia [f. 12v] […] Fo a campo in
persona a Cheli et Moncastro, terre del principe de Valacchia, quale non
potendo expugnar abbandonò l’impresa”.
[101] Cfr. La
libreria di Anton Francesco Doni, a cura di Vanni Bramanti, Milano 1972, p.
308.
[102] Il Domenichi, compiuti i primi studi a Piacenza
dov’era nato nel 1515, si recò a Pavia e a Padova, per frequentarvi,
negli anni 1530-1537, maestri come Celio Secondo Curione, Andrea Alciati e
Lelio Sozzini, tutti in qualche modo vicini all’eterodossia religiosa. Inoltre
il giovane Ludovico teneva rapporti epistolari con Francesco Berni e Pietro
Aretino (Lettere scritte a Pietro Aretino
da molti signori, comunità, donne di valore …, Bologna 1873, pp.
252-255). Laureatosi in legge a Padova, il Domenichi rimase a Piacenza fino al
1543 e qui conobbe il Doni, frequentando con lui l’Accademia degli Ortolani.
Lasciata Piacenza per Venezia, si legò alla stamperia di Gabriel Giolito
de’ Ferrari curando le Rime, che
testimoniano, con la loro ispirazione petrarchesca, un interesse per le regole
di lingua e di stile impostesi dopo il Bembo. Nel 1545 uscirono due classici
volgari: il Laberinto d’amore del
Boccaccio e Il Petrarca …; inoltre il
Domenichi curò il primo libro delle Rime
diverse di molti eccellentissimi autori. Ma soprattutto nello stesso anno,
dopo il Morgante maggiore del Pulci,
uscì l’Orlando innamorato del Boiardo, nel quale il
piacentino non si contentò di emendare gli errori delle stampe
precedenti, ma provvide ad adeguare la lingua regionale del Boiardo alle regole
dettate da Pietro Bembo (Elissa Weaver, “Riformare”
l’Orlando innamorato, in AA. VV., I
libri di Orlando innamorato, Modena 1987, pp. 117-144, in part. pp.
137-139). Il Domenichi, già dal 1545, manifestò
interessi storici con le traduzioni di Polibio, Delle imprese de Greci, e con l’Historia
di M. Bernardo Giustiniano … dell’origine
di Vinegia. Il Polibio era già stato dedicato a Cosimo I e, nel
marzo 1546, il Domenichi giunse a Firenze preannunciato dall’Aretino, che lo
incaricò di presentare alla corte medicea il suo Terzo libro delle lettere (Parigi 1609, p. 161, p. 271, p. 284, p.
304), e dal Doni, che aveva una piccola stamperia a Firenze. Il Domenichi,
ricercando la protezione di Cosimo, gli dedicò anche le Opere Morali di Xenophonte (1547),
quindi cominciò a collaborare con la tipografia fiorentina dei Giunti. Già dal
periodo veneziano il piacentino aveva dimostrato un’inclinazione, confermata
anche a Firenze, verso le tesi religiose eterodosse: ne sono un esempio le
traduzioni di Erasmo, Cornelio Agrippa, Della
vanità delle scienze (Venezia 1547, dedicata a Cosimo I), Luciano, Due dialoghi (Firenze 1548), e quelle
anonime di Calvino, Nicomediana, e
Johann Sleidan, Commentarii (Firenze
1557). Ma continua a manifestarsi nel Domenichi anche la tendenza al plagio e
ai pastiches letterari, come
evidenziano La nobiltà delle donne
(Venezia 1549), l’Historia de detti et
fatti notabili … (Venezia 1556),
la commedia Le due cortigiane (1563,
un plagio delle Bacchides di Plauto),
e La donna di corte (1564). Per quanto riguarda
le Facezie e motti arguti di alcuni
eccellentissimi ingegni (1548), si trattava della pubblicazione di un
manoscritto in cui erano stati annotati da Giovanni Mazzuoli, detto lo
Stradino, alcuni motti e facezie del Poliziano, opera di cui il Domenichi si
ascrisse il merito (Gianfranco Folena, Sulla
tradizione dei “Detti piacevoli” attribuiti al Poliziano, in “Studi di
filologia italiana”, XI, 1953, pp. 431-448). Con Bernardo di Giunta, dopo il
fallimento della stamperia del Doni, il Domenichi pubblicò le opere di
Agnolo Firenzuola intervenendo pesantemente sui manoscritti: colmò
lacune, modernizzò il lessico, eliminò i passi sconvenienti o
incomprensibili (Giuseppe Fatini, Per
un’edizione critica del Firenzuola, in “Studi di filologia italiana”, XIV,
1956, pp. 21-175). Si inaugurò, quindi, dopo la traduzione del X libro
dell’Eneide di Virgilio, la
collaborazione con Lorenzo Torrentino (Laurens Lenaerts van der Beke), un
fiammingo giunto a Firenze nel 1547 e divenuto tipografo ufficiale della corte
medicea, per il quale il Domenichi tradusse Luciano, Curzio Rufo, ma
soprattutto alcune opere di Paolo Giovio: La
vita di Ferrando d’Avalo Marchese di Pescara … (1551), Delle istorie del suo tempo … (1553), Gli elogi … (1554) e le Lettere
volgari (postume, 1560). Il Torrentino, inoltre, aveva interessi religiosi
poco ortodossi, per cui il Domenichi si trovò a stampare opere di
riformatori cattolici come il fiorentino Piero Carnesecchi, Juan de Valdes e i
cardinali Gaspare Contarini e Giovanni Morone. Sono di questo periodo le
pubblicazioni dei Commentari del
Cantacuzeno e del Trattato de costumi et
vita de Turchi … di Giovanni Antonio Menavino (1548). Nel febbraio 1552,
per le sue pubblicazioni compromettenti, il Domenichi fu condannato al carcere
perpetuo nella fortezza di Pisa, ma per l’intercessione di Renata di Francia,
duchessa d’Este, dell’amico Paolo Giovio e dello stesso Cosimo, la condanna fu
commutata nel confino di un anno presso il convento di S. Maria Novella a
Firenze, da cui il Domenichi poteva uscire a piacimento. A seguito di questa
traversia, il favore del piacentino andò crescendo, tanto che egli ebbe,
nel 1559, l’incarico di storico ufficiale di Cosimo con la composizione della Storia delle guerre di Siena; inoltre
iniziò una collaborazione con Vincenzo Busdraghi, stampatore in Lucca,
per cui pubblicò le Rime diverse
d’alcune nobilissime donne. Ma, nel 1550, il Busdraghi aveva già
pubblicato la prima edizione a stampa del Cantacuzeno, sostenendo nella dedica
a Luca Grilli che l’autore: “non come eloquente Oratore, ma come fedele
Interprete et raccontator del vero, et de le cose da lui viste et imparate, ha
dato opera più tosto al effetto, che a l’apparenza: Perché dove egli ha
conosciuto la eleganza esser per mancare, ha voluto supplire con la
verità”. A Firenze uscirono traduzioni di Plutarco, Plinio e Boezio;
prima si erano avute quelle di S. Agostino e Leon Battista Alberti. Di ritorno
a Piacenza, per regolare alcuni affari di famiglia, il Domenichi seguì
la pubblicazione del suo Ragionamento nel
quale si parla d’imprese d’armi, et d’amore … (Milano 1559); ma a Venezia,
nel 1556, era già uscito il Dialogo
de l’imprese militari et amorose, di Mons. Giovio … con un ragionamento di M.
Lodovico Domenichi nel medesimo soggetto. Nel 1562, a Venezia, il Domenichi
stampò i suoi Dialoghi e due
anni dopo, a Pisa, nell’agosto 1564 lo coglieva la morte.
[103] Messit secondo
il codice parigino e l’edizione di Lucca, Mescit
secondo l’edizione fiorentina, ma l’episodio manca nella prima redazione:
si tratta di Mezīd Pascià, figlio di Tommaso Paleologo Gidos, che
poi diverrà Beylerbey della Romelia, secondo Visir e Gran Visir (Cfr.
cod. Parigino fonds italien 881, ff.
37-38, in C. N. Sathas, op. cit., p.
164; D. M. Nicol, On the origins
cit., pp. 95-96, n. 91): “Mandò etiam Mehemet alla obsidione di Rhodi
uno di casa Paleologa che si chiamava Messit Bassà; questo era fratello
della madre de mio padre, et essendo preso Costantinopoli da’ Turchi fu preso,
che era fanciullo di età di anni X, con doi altri fratelli, li quali
furono fatti tutti Turchi, et asceseno al grado de Bassà”, mentre
nell’edizione fiorentina e in quella di Lucca, dopo la prima menzione di questo
personaggio, manca tutta la parte, per così dire, autobiografica. Uno
dei fratelli di Mezīd era Hass Murad Pascià Paleologo, favorito di
Mehmet II. Al f. 53 del codice parigino, in C. N. Sathas, op. cit., p. 176, giunge all’epilogo la vicenda biografica di
questo parente turco del Cantacuzeno, e questa parte è assente nelle due
edizioni a stampa e nella prima redazione. Durante l’assedio di Mitilene da
parte dei Francesi e dei Veneziani (1499): “[…] aprendo una boca dove era le
munitioni, il bassà Mesit [sic], che di sopra parlassimo, che
andò in tempo di Maumeth all’impresa di Rodi, benché fusse fratello
della madre de mio padre fu acerrimo nemico et esecutor de christiani, et
travasando in quelle munitioni, cascò uno travo et ruppeli il collo”.
[104] Cfr. cod. Parigino fonds
italien 881, ff. 37-39, in C. N. Sathas, op. cit., pp. 163-165; e Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., pp. 56-59 (nell’edizione di Lucca, pp. [47-50]).
Questa parte manca nella prima redazione. Si ha l’impressione che qui il
Cantacuzeno retrodati l’assedio di Rodi (1479-1480) ad un periodo contemporaneo
o di poco successivo alla campagne contro i Turcomanni e contro l’Albania
(1474), così come accade nel caso del Cambini, che lo fa iniziare dal
maggio 1474. Ciò confermerebbe l’ipotesi che in queste pagine lo
scrittore greco, trattando di episodi verificatisi fra la seconda metà
degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta del XV secolo,
comprenda la storia della Moldavia fino a Vaslui. Del resto, la genesi
dell’opera del Cantacuzeno, che si è accresciuta di volta in volta nelle
redazioni successive e si è aggiornata col registrare le notizie
più recenti, ma senza badare a mimetizzare le suture, autorizza a
supporre che l’autore sia tornato anni dopo sui medesimi passi per aggiungervi
episodi successivi, eppur legati al medesimo tema.
[105] Naturalmente le città di Adana e Tarsus,
nell’odierna Turchia, conquistate nel 1486 da Kaitbey, sultano dei Mamelucchi.
Non ha senso il fraintendimento “Dolina” per “Addena” dell’edizione fiorentina.
[106] Marco Zogli,
ossia Balibeg Malkoğoglu, governatore della città bulgara di
Silistra, sede di un distretto amministrativo e militare ottomano, ritorna al
f. 56 del cod. Parigino fonds italien 881
(in C. N. Sathas, op. cit., p. 178) e
in Th. S. Cantacuzeno, I Commentari …
cit., p. 86 (chiamato Marcosogli;
nell’edizione di Lucca, p. [73]: Marchossogli),
dove è detto “capitano famosissimo” e sembra appoggiare Selim, figlio di
Bayezid II, contro quest’ultimo e l’altro figlio Ahmed, favorito nella
successione.
[107] Si tratta dei cavalieri detti Aqïnğï. Nel
Tractatus de provisione Hydronti et de
ordine militum Turci et eius origine, che Martino Segono (o Segonio),
Vescovo di Dulcigno (Ulcinij), inviò a papa Sisto IV nei primi mesi del
1480, gli “Acanzii, idest fatales” sono 40.000 cavalieri senza stipendio che
devono cedere la quinta parte del bottino al Gran Signore (Cfr. A. Pertusi, I primi studi cit., pp. 523-524); mentre
P. Giovio, Commentario de le cose de’
Turchi …, Venezia 1540, p. 33, riferisce che gli Alcanzi sono cavalieri “quali son di natura gran ladroni”. Quindi,
nella Relazione di Matteo Zane, letta
in Senato nel 1594 (in Eugenio Albèri, Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, III serie, vol. III,
Firenze 1855, p. 394), i cosiddetti Achingi
sono 30.000 uomini di stanza in Grecia, “avvezzi ad ogni patimento, che non
hanno per fine il combattere, ma il rubare solamente, e servono a cavallo e a
piedi come possono […]”.
[108] Cfr. cod. Parigino fonds
italien 881, ff. 47-48, in C. N. Sathas, op. cit., pp. 171-172 (un testo assai simile a quello del codice parigino,
con piccole differenze linguistiche, è testimoniato dall’edizione di
Lucca, pp. [61-62], in cui però manca il passo “Parvi che li peccati […]
esaltati et ampliati”, come nell’edizione di Firenze). Questo il testo dell’edizione fiorentina, Th. S.
Cantacuzeno, I Commentari … cit., pp.
72-73: “[…] Baiazete mosse guerra a Carabogdano, principe della Valacchia, nella
quale gli tolse Cheli, et Moncastro, terre fortissime: alle quali, quantunque
Maometto suo padre havesse tenuto l’assedio, non le poté però mai
occupare. Perché questa vittoriosa impresa mise tanto spavento agli altri, che
tutti i Christiani cominciarono a temer forte di Baiazete. Fatto questo egli si
rivoltò a muover l’armi al Soldano appresso a Dolina et a Tarso,
là dove egli hebbe tre grandissime rotte; et sì come è
l’openione [sic] di molti, egli si stima, che quivi fossero ammazzati
più di cento venti mila Turchi. Dopo, essendo nata contesa fra il Re di
Polonia, et il Carabogdano, egli diede senza difficultà veruna il passo
a’ Turchi. Et così Baiazete mandò un suo gran capitano chiamato
Marcofodi [sic] con bellissimo esercito, et trascorse la Polonia, et ne
menò fuori di quella quasi quaranta mila Christiani prigioni. L’anno
seguente havendo fatta la pace il Re di Polonia col Carabogdano, Baiazete
mandò da capo il detto Marcofodi con venti mila soldati, per fare il
simile di quello che l’anno innanzi havea fatto. La qual cosa intendendo i
Polachi [sic] si ritirarono alle terre più forti, in quelle menando le
lor vittovaglie. La onde scorrendo i Turchi per que’ paesi, et non trovando che
mangiare, tra per la fame che pativano, tra per lo gran freddo che alhora
faceva, quasi tutti si morivano. Nondimeno [p. 73] Baiazete oppresse poi lo
stato del Signor Valacheo figliuolo del Duca di Santa Sabba. Costui non
andò molto tempo che si morì nella città d’Arbe”. Mentre,
nel ms. Ital. H 389 della Biblioteca Universitaria di Montpellier, f. 14v
(in C.–V. Gandossi, op. cit., p.
162), il Cantacuzeno scrive: “Questo Baiazit subito che hebbe cacciato et rotto
lo fratello, mosse guerra ad Carabogdan principe de Valacchia et tolseli Cheli
et Moncastro terre fortissime, alle quale Mehemet suo padre era stato a campo
et non le haveva ossuto havere et per tal presa et expugnatione dete timor
universalmente a tuti Christiani. Questo mosse guerra al soldan et appresso de
Adena et Tharso el campo de dicto Baiazit hebbe tre grandissime rotte che se
extima moresse [sic] più de cento vinti milia Turchi. Dapo [sic] questo
mandò uno capitaneo chiamato Marco Zogli, qual cose con certi Achinzi in
Pollonia et meno ben quaranta milia Christiani presoni”. Da cui risulta che il
Cantacuzeno, essendo a Costantinopoli prima del 1509, sembra avere notizie
più fresche soprattutto sul regno di Bayezid.
[109] Ma è veramente singolare che il nome Marko Phonti (che in greco moderno si
pronuncia Fodi), attribuito ad un
principe di Valacchia, compaia in una cronaca greca anonima del XVI secolo (che
ricopre gli anni 1371-1512), per cui si vedano: Chronicle of the Turkish Sultans.
Χρονικον περι
των Τούρκων
Σουλτάνων, edizione a cura di
Georgios Th. Zoras, Atene 1958, p. 127; Elizabeth A. Zachariadou, Το Χρονικο
των Τούρκων
Σουλτάνων (του
Βαρβερινου
‛Ελληνικου
κώδικα III) και το
‘Ιταλικο του
πρότυπο, in “Hellenika”, suppl. 14,
1960; Sydney N. Fisher, The Foreign
Relations of Turkey 1481-1512 (Illinois Studies in the Social Sciences,
vol. 30, n. 1), Urbana 1948. Cfr. D. M. Nicol, On the origins cit., p. 100, n. 112. Forse quella cronaca era
conosciuta in Italia dal Domenichi, oppure l’una e l’altro attinsero ad una
fonte comune, ma più probabilmente fu l’edizione a stampa del
Cantacuzeno ad influenzare la cronaca greca. E del resto, stando a quel che
scrive la Zachariadou, la cronaca fu scritta probabilmente da un greco che
abitava a Venezia e si basa per buona parte sulla seconda edizione de Gl’Annali Turcheschi overo Vite de principi
della casa Othomana (Venezia 1560, 15732) del Sansovino. Per
quel che ci riguarda, dunque, constatiamo che la cronaca greca è
posteriore al 1551 e all’uscita dell’edizione a stampa del Cantacuzeno, per cui
quest’ultimo, a nostro avviso, è possibile che sia stato presente,
insieme col Sansovino, all’anonimo autore della cronaca.
[110] Il Cantacuzeno infatti, trattando delle vicende del
Ducato di Bosnia, scrive nella versione del codice parigino, mentre nella prima
redazione tutta questa parte manca: “Mehemet deliberò poi occupare il
ducato et regno di Bossina nel quale era un duca de S. Saba [sc. Stjepan
Vukèiæ, (1435-1466)], chiamato da’ vulgari paesani el Cerzecho [sc.
Herzog=Duca], che confina con Ragusei, et era loro emulo; el primogenito loro
era chiamato Ladislao che havea per moglie una sorella de mio avo nomata Anna
[sorella di Theodoro, nonno per parte di madre dell’autore]. El prefatto duca,
essendo vecchio et havendo poco rispetto al figliolo et alla nora, prese una
meretrice per concubina et menossela in palazzo; essendo questo noto a Ladislao
suo figliolo et alla donna Anna molto se dolseno di tal cosa, ma il padre facea
di mal in peggio, dicendo, che lui era signore et volea far a suo modo. Unde
indignato Ladislao intesosi con alcuni della terra, cacciarono il padre fuori; qual
duca per questo essendo molto irato, mandò a Mehemet per ajuto, et délli
il figliol minore per ostaggio, il qual fo [sic] fatto Turco da Mehemet, et
dapoi creato bassà che si chiama Sinan bassà Cherzecogli [sc.
Ahmet Sinan Pascià Herzegoglu, Beylerbey dell’Anatolia]. Et venendo
Mehemet intrò nel ducato de Bossina, che ‘l duca vecchio era già
morto; et Ladislao non volse aspettarlo, ma se ne fuggì, et venne a
Venetia con la moglie et figlioli, et stette a casa nostra alcuni giorni, et de
lì passò in Ungheria, ove morse. Et Mehemet li occupò lo
stato, lasciando solamente all’altro figliolo del duca vecchio, che si chiamava
Vlatheo [sc. Vlatko], Castel Novo [sc. Herzegnovi in Montenegro] con alcuni
altri luoghi per suo vivere, et riconoscea Mehemet per signore et pagava ogni
anno uno certo tributo, fino che Baiasit figliolo di Mehemet lo cacciò
di signoria, et morse in Arbe città di Dalmatia”. Cfr. cod. Parigino fonds italien 881, f. 35, in C. N.
Sathas, op. cit., p. 162
(nell’edizione di Lucca, pp. 44-45). Questo, invece, il testo dell’edizione
fiorentina, Th. S. Cantacuzeno, I
Commentari … cit., p. 53: “[…] Maometto si mise in animo di occupare il
ducato di Bossina, il quale era un Duca di Santa Sabba chiamato dal vulgo
Chezzeco [sic], il qual confinava con Ragusei, et era loro emulo. Costui havea
tre figliuoli, de’ quali il primo si chiamava Ladislao, c’havea per moglie una
chiamata Anna Cantacuscina, donna oltre ch’ella era di gentil sangue, virtuosa
molto. Ora essendo il Duca hoggimai attempato, et portando poco rispetto al
figliuolo, et manco alla nuora, prese per concubina una donna del mondo, et ne
la menò dentro in palagio. Il che sapendo il figliuolo, e la nuora di
ciò si rammaricarono forte col padre. Ma egli ch’era disposto al tutto di
fare a suo modo, non curando le lor parole, faceva ogn’hora peggio. Perché
sdegnato Ladislao fece un trattato con alcuni della città, et cacciarono
fuor il Duca, il qual per ciò molto adirato mandò uno
ambasciatore a Maometto quello in aiuto chiamando; in segno di cui gli diede il
figliuol minor per ostaggio il qual fu poi fatto Turco da Maometto. Il quale
entrando nel Ducato [p. 54] di Bossina, trovò, ch’il Duca vecchio era
già morto. Laonde Ladislao non volle aspettare, ma si fuggì et ne
venne a Vinegia con la moglie, et co’ figliuoli; et quindi passò in
Ungheria, là dove si morì. Ora havendo occupato Maometto quel
paese tutto, solamente lasciò all’altro figliuol del Duca un luogo che
si chiamava Vlaccho, et Castel nuovo con certi altri luoghi per lo viver suo.
Costui riconosceva per Signore Maometto, et ogni anno gli pagava il tributo
infino che fu cacciato fuori dello stato”.
[111] Cfr. O. Cristea, op.
cit., p. 75.
[112] Cfr. C.–V. Gandossi, op.
cit., pp. 156-157. L’opera del Cantacuzeno è importante anche per il
fatto che testimonia la prima comparsa di alcuni prestiti linguistici dal turco
alle lingue italiana e francese.
[113] Scrive il
Cantacuzeno nella dedica a Leone X, conservata nel ms. Ital. H 389 della
Biblioteca Universitaria di Montpellier, ff. 1r--1v (in
C.–V. Gandossi, op. cit., p. 157):
“[…] posime ad investigare et volere intendere li gesti de la casa di Ottomani
[…] et reusciendomi ben la cosa per havere longa pratica del paese et
conversatione de duoi gentilhomeni, molto intimi del Imperatore [sc. Bayezid
II], mei amici et parenti homeni de peregrino ingenio et grande noticia de
simile cose, non mi contentai alla breve historia de li facti dela predicta
casa ennaratami [sic] più volte da loro; ma volsi investigare più
oltre ponendovi et tempo et diligentia maiore ad explicare et cognoscere […]
oltra quello vedevo io presente havendone rincontro et affirmatione da diverse
persone […]”. Forse, citando i due gentiluomini, il Cantacuzeno allude ad Hass
Murad Pascià Paleologo, uno dei fratelli di Mezīd Pascià (†
1499), e ad Ahmet Sinan Pascià Herzegoglu, Beylerbey dell’Anatolia e
fratello minore di Ladislao di Bosnia, ambedue da noi già menzionati. I
“dui gentilhuomini molto intimi dello Imperatore de Turchi, miei grandissimi
amici e parenti” tornano anche nella dedica ad Enrico di Francia (cod. Parigino
fonds italien 881, f. 1, in C. N.
Sathas, op. cit., p. 135).
[114] Cfr. D. M. Nicol, On
the origins cit., p. XI.
[115] Cfr. N. Iorga, Byzance
cit., pp. 30-31.
[116] Cfr. cod. Parigino fonds
italien 881, f. 37, in C. N. Sathas, op.
cit., p. 163, e l’edizione fiorentina, Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., p. 56
(nell’edizione di Lucca p. [47]). Questo giudizio manca del tutto nella prima
redazione, la qual cosa dimostra che probabilmente il Cantacuzeno ebbe notizia
della rotta di Mehmet II solo più tardi.
[117] Come dimostra la lettera di risposta del re ungherese,
che cito nella traduzione italiana pubblicata in E. Kováks Péter, op. cit., pp. 112-113: “Il tuo legato e
uomo di fiducia, giunto presso di noi con la tua lettera, ci ha informati della
tua generosità e del tuo nobile intento; avendo riconquistato la maggior
parte dei tuoi possedimenti e della tua eredità sottratti dal tiranno
turco, offri volentieri i tuoi servigi, come scrivi, alla nostra Sacra Corona.
Li accettiamo e siamo grati per i tuoi sacrifici […] ben presto un nostro
ambasciatore si recherà da te chiarendo meglio le nostre intenzioni e
desideri nei tuoi confronti […]”.
[118] Di cui l’attività del Domenichi con il Giolito, a
Venezia, e con la Giuntina o il Torrentino, a Firenze, è un esempio. Cfr. Paul F. Grendler, Critics of the Italian World, London 1969, pp. 50-52 e pp. 65-69;
Claudia di Filippo Bareggi, Giunta, Doni,
Torrentino: tre tipografie fiorentine fra Repubblica e Principato, in
“Nuova Rivista Storica”, LVIII, 1974, pp. 318-348; Robert Klein, La forma e l’intelligibile, Torino 1975,
pp. 125 e ss.; Amedeo Quondam, Mercanzia
d’onore – mercanzia d’utile. Produzione libraria e lavoro intellettuale a
Venezia nel ‘500, in Libri, editori e
pubblico nell’Europa moderna, Bari 1977, pp. 96 e ss. Per l’Historia del
Sansovino si veda: P. F. Grendler, Francesco Sansovino and Italian Popular
History. 1560-1600, in “Studies in the Renaissance”, XVI, 1969, pp.
139-180.
[119] Cfr. P. Giovio, Commentario
… cit., passim.
[120] Cfr. A. Pertusi, I
primi studi cit., p. 540, n. 69, sulla scorta dei codd. Ambr. Q. 116 sup.,
f. 155r, e Ambr. I. 204 inf., ff. 21r-21v.
[121] Cfr. Ibidem,
p. 486.
[122] Cfr. Felix Petanèiæ,
Quibus itineribus Turci sint aggrediendi,
p. 482, in I Cuspiniani, de Caesaribus
atque Imperatoribus romanis, Francofurti 1601, pp. 479-484; Peter Matkoviæ,
Felix Petanèiæ i niegov opis puteva u
Tursku, in “Rad Jugoslavenske Akademije znanosti i umjetnosti”, no. 49,
1879, pp. 106-164, in part. p. 144; F. Babinger, Mahomet II cit., p. 412; A. Pertusi, I primi studi cit., pp. 485-492 e Appendice I, pp. 516-546. Felix
Petanèiæ fu, dal 1487 al 1490, amanuense a Buda e probabilmente miniatore nella
biblioteca di Mattia Corvino. Passò poi a Dubrovnik nel 1496, come
notaio e giudice, quindi di nuovo a Buda, verso la fine del 1501, alla corte
del successore di Mattia, Vladislao VII, che se ne servì in alcune
missioni diplomatiche: a Rodi (1502), a Venezia (1504), in Spagna, in Francia e
a Costantinopoli (1513). Prima del 1512, il Petanèiæ scrisse per Vladislao una Historia turcica (rimasta inedita nel
cod. Norimberg. Lat. Ms. Solger 31, 2); e poco prima del 1516 un’opera di cui
sono rimaste due redazioni, la prima intitolata: De imperatoribus Turcarum et de militari Turcarum disciplina (I ed.
di Conrad Adelman: Felix Ragusinus, De
origine et militari disciplina magni Turce domi forisque habitata libellus,
s. l. 1530); la seconda: Genealogia
imperatorum Turcorum (nel cod. Budapest. Bibl. Nat. Lat. 378, riprodotto
interamente da Elena Berkovits, Magyar
Kódexek a XI-XVI Században, Budapest 1965, tavole fuori testo). Il Segono,
da parte sua, dimostra di essere ben informato anche nel caso della vittoria
sugli Ottomani conseguita nel 1462 da Vlad l’Impalatore, principe di Valacchia
(1456-1462), così descritta: “Dracula enim cum paucis sed electis
militibus Mahumetum Turcorum dominum, potitum iam Maiori Valacchia et ad
Minorem occupandam maturantem, hic ad secundam noctis vigiliam aggressus in
fugam conversum ad Danubium cum magna suorum caede et ignominia regredi coegit”
(si vedano: A. Pertusi, I primi studi
cit., p. 540, n. 66, i mss. Ambr. succitati e il F. Petanèiæ, Quibus itineribus cit., p. 482, oltre al
F. Babinger, Mahomet II cit., pp. 248
e ss., e al P. Matkoviæ, Felix Petanèiæ
cit., p. 144).
[123] Ad esempio, nell’Historia
Turchesca l’Angiolello, per aver partecipato direttamente alle campagne di
Mehmet II in Moldavia, si sofferma su: “Il Conte Stefano, detto da Turchi Carabogdan”,
Cfr. I. Ursu, Donado da Lezze cit.,
pp. 82-93.