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Istituto Romeno’s Publications
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Annuario 2004-2005
p. 605
RECENSIONI
Le mele dell’immmortalità. Fiabe armene, a cura di Sonya
Orfalian, Editori Guerini ed Associati (“Carte Armene”, collana
diretta da Boghos Levon Zekiyan), Milano 2000, pp. 156.
Il libro di Sonya
Orfalian, armena della Diaspora, ci accompagna nel fantastico mondo delle
favole armene, intrise di saggezza popolare. La raccolta assume il titolo dalla
prima delle diciotto favole, accompagnate da una serie di indispensabili note.
Il libro attinge da un’opera più vasta Fiabe popolari armene, edite ad Erevan, nel 1956, frutto del lavoro
del compianto Artashes Nazinian. Questa pubblicazione arricchisce lo studioso
italiano di favolistica e di armenistica e lo pone a contatto con antiche
creazioni popolari che sembrano, almeno per i non iniziati, portare con loro vetusti
echi, creazioni popolari, caratterizzate da personaggi semplici, descritti con
cura, in un armeno popolare e frizzante, spesso infarcito di termini ed
espressioni di lingue con cui la lingua dei figli di Haig era venuta a
contatto.
Le favole armene, come
quelle di altre nazioni, del resto, sono qualcosa di più di racconti che
le madri e le nonne narravano per far addormentare i bambini. Spesso esse hanno
un valore morale, per gli adulti stessi, perché è il bene che vince il
male. Sono creazioni d’altri tempi che riflettono un mondo reale intrecciato
con un mondo fantastico, abitato da animali parlanti che talora dimostrano un
amore tale per i padroncini che sa oltrepassare la morte, accettata con
saggezza e rassegnazione (La Mucca Rossa,
ad esempio). Il bene trionfa sempre sul male, si diceva, si osservi ad esempio
il protagonista della prima favola che, nonostante sia stato tradito dai
fratelli maggiori, intercede presso il genitore per ottenere che la loro vita
sia salva. Numerosi sono gli intrecci, che affascinano il lettore come le
creature fantastiche che popolano il mondo di queste favole, quali, ad esempio
le Hurí, creature stupende, una sorta
di fate presenti anche nelle favole del mondo islamico. In queste creazioni
popolari si insegnano le vie dell’ascesa, del coraggio, dimostrato sempre dal
protagonista, dall’eroe, persona positiva, che mozza i 7 capi ai mostri che gli
intralciano il cammino.
A volte si
riscontrano altri elementi favolistici, ad esempio l’idea secondo la quale se
il mostro fosse colpito più di una volta egli sarebbe rinato, altre
volte non è sottaciuto il mito della nascita, altre, infine, per
sottolineare la differenza tra il mondo della realtà e quello della
fantasia, si ricorre a formule quali “camminarono molto o poco”. Molto spesso
viene premiata la destrezza e l’abilità, come nella favola Il saggio tessitore. Non mancano in
queste favole apprezzamenti per il valore dell’arte, del lavoro. La figlia di
un contadino, invece d’accettare subito la corte del nobile rampollo, che di
lei si era innamorato, gli chiede che arte conoscesse. Solo quando questi
apprese quella di tessere i tappeti l’avrebbe accettato quale sposo.
L’esercizio dell’arte sarebbe servito al principe per comunicare, con messaggi
scritti sui tappeti, il luogo in cui era stato rapito dai banditi e gli avrebbe
permesso di farsi liberare e ritornare al focolare.
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Aram Kalantarian e
Sargis Harutiunian, rispettivamente direttore dell’Istituto di Archeologia ed
Etnografia dell’Accademia Nazionale delle Scienze della Repubblica Armena e
vicedirettore dell’Istituto di Archeologia e Etnografia dell’Accademia
Nazionale delle Scienze della stessa Repubblica, salutano così questo
lavoro: «La presente antologia italiana di fiabe armene è un piccolo
florilegio tratto da quel [popolare armeno] ricco patrimonio. Siamo comunque
sicuri che, al di là delle sue dimensioni, questa raccolta potrà
offrire ai lettori italiani almeno un’idea generale delle fiabe armene e dar
loro la possibilità di gustarne il tipico sapore e l’antico profumo» (S.
Orfalian, op. cit., p. 10). Grazie
alla Casa Editrice Guerini e Associati di Milano, specializzata nel
presentarci, nella Collana diretta dal professor Boghos Levon Zekiyan, tanti
aspetti di storia e di cultura amena, il lettore può avvicinarsi a
questo fantastico mondo armeno, per meglio conoscere un’altra dimensione
culturale di questo antico popolo cristiano.
Giuseppe Munarini
Simpozionul Istooric «Trei sute de ani de la Unirea
Bisericii Româneºti din Transilvania cu Biserica Romei», Lugoj 16 decembrie
2000 [Simposio Storico «Trecento anni
dall’Unione della Chiesa Romena di Transilvania con la Chiesa di Roma», Lugoj
16 dicembre 2000], Universitatea Europeanã Drãgan, Editura Dacia – Editura
Europa Nova, Lugoj 2001, pp. 257+14 illustrazioni fuori testo.
L’importante Simposio
di cui presento gli Atti si tenne a Lugoj, una delle sedi eparchiali della
Chiesa Greco-Cattolica romena. L’eparchia fu fondata il 26 novembre 1853 ed
estende la sua giurisdizione sul Banato romeno, la cui città più
importante è Timiºoara, ove risiede l’Arcivescovo Metropolita ortodosso,
attualmente Nicolae Corneanu, teologo insigne e, soprattutto, ecumenista aperto
e lungimirante. Al Simposio, oltre all’Arcivescovo Metropolita greco-cattolico,
Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Lucian Mureºan, erano presenti l’eparca
greco-cattolico di Lugoj, Monsignor Alexandru Mesian, l’Arcivescovo di
Cluj-Napoca – Gherla, Monsignor Gheorghe Guþiu, l’eparca ausiliare della stessa
Diocesi, Monsignor Florentin Crihãlmeanu, ed altri vescovi greco-cattolici. Il
simposio ha avuto come momento centrale la Liturgia solenne di S. Giovanni
Crisostomo. Graditissima fu la presenza di Sua Eminenza, Monsignor Nicolae
Corneanu del Banato che, con il metropolita greco-cattolico Lucian Mureºan, i vescovi
Florentin, Gheorghe, Alexandru, Martin, ed i sacerdoti Ioan Cerbu, Pál Támasko,
Marius–Petru Pop ad un Trisaghion (Parastas) per i testimoni della Fede e le
vittime della Rivoluzione del 1989 che liberò la Romania dal giogo
comunista. Significativo è il fatto che il Simposio si sia tenuto nel
2000, Anno Santo per la Chiesa Cattolica, che coincide con il 300 anniversario
della fondazione della Chiesa Greco-Cattolica di Romania, libera dal 1989 di
svolgere la sua missione fuori dalle catacombe cui era stata costretta dopo
l’iniquo decreto del 1948. Alla celebrazione eucaristica erano presenti pure i
rappresentanti dei fratelli romano-cattolici, il protopope ucraino ortodosso,
il protopope romeno ortodosso, il vicario delle parrocchie di rito latino. Il vescovo
latino di Timiºoara, Martin Roos,
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concelebròe; con i presuli ed i sacerdoti
greco-cattolici. Presenti pure i rappresentanti delle Chiese riformate e della
Comunità Israelitica. Significative sono state le parole pronunziate da
Sua Eminenza Nicolae Corneanu: «I Romeni si sono avviati per una nuova strada
300 anni fa ed hanno fatto grandi passi nel campo sociale e culturale, e i
greco-cattolici hanno costituito un esempio dimostrando che più forte
della prigione è il potere di Dio. Siamo riconoscenti a questa Chiesa
per lo spirito di fraternità nei confronti delle altre confessioni» (Trei sute de ani cit., p. 7). Sua
Eccellenza il Nunzio Apostolico Monsignor Jean–Claude Périsset ha pure inviato
un messaggio, letto dal vescovo di Lugoj Alexandru Mesian; il Nunzio ha, tra
l’altro, sottolineato la sua gioia, perché, durante la manifestazione era
presente il Metropolita Nicolae Corneanu ed alcuni membri della Sua Chiesa,
dimostrando così una vera fraternità.
I lavori del Convegno
iniziarono nel pomeriggio del 16 dicembre. Tra gli intervenuti, oltre
all’organizzatore Monsignor Alexandru Mesian, il professor Emil Poenaru,
rettore dell’Università che sottolineò l’importanza della “Scuola
di Transilvania” per la rinascita della coscienza nazionale, iniziata dal
vescovo Ioan Inochentie Micu–Klein, spentosi a Roma nel 1768. Fu letto un
messaggio del professor Josif Constantin Drãgan che elogiò i benefici
addotti alla Romania dall’Unione con Roma ed espresse la sua soddisfazione che
i lavori si svolgessero nell’Aula Magna dell’Università da lui fondata.
Dopo l’intervento del Sindaco, l’ingegnere Marius Martinescu, presero la parola
la dottoranda di ricerca Luminiþa Wallnner–Bãrbulescu, direttrice del Museo di
Storia ed Etnografia di Lugoj, con una comunicazione dal titolo La storiografia dell’Eparchia
Greco-cattolica di Lugoj, il professor p. Ioan Mitrofan, invece tenne una
comunicazione sulla storia dell’Unione, soffermandosi particolarmente sulla
Diocesi ospite. Il professor Cristian Barta, della Facoltà
greco-cattolica, collegata all’Università “Babeº-Bolyai” di Cluj-Napoca
tenne una comunicazione dal titolo L’unione
di Roma nella visione di Augustin Bunea. Il professor Simion Mesaroº, di
Baia Mare, parlò Sul mistero delle
sofferenze e della Risurrezione del Signore riflesso nella vita della Chiesa
Romena Unita con Roma greco-cattolica, mentre il padre Horia Ovidiu Pop,
già studente del Pontificio Collegio greco di Roma, su L’Ermeneutica dell’Unione del 1700. Il
professor Gheorghe Gorun, della Facoltà greco-cattolica, Dipartimento di
Oradea, si soffermò sull’interessante aspetto dell’Unione con Roma e la
formazione della nazione romena. Lo Jeromonaco dr. Silvestru Augustin Prunduº,
basiliano trattenne l’uditorio sull’Anniversario del primo Sinodo dell’Unione
con Roma, fatto a Lugoj da S. E. Ioan Bãlan (†1959) e il p. Ioan M. Bota
sottolineò il ruolo della Diocesi di Lugoj nella storia del popolo
romeno. Il volume comprende oltre ai contributi menzionati, altri studi o
discorsi significativi sulla Chiesa Greco-Cattolica e la sua importanza per la
vita della nazione romena. Si possono anche leggere il messaggio di Sua
Eminenza Achille Silvestrini, allora Prefetto della Sacra Congregazione per le
Chiese Orientali, in occasione del 300 anniversario della fondazione della
Chiesa Greco-Cattolica, l’omelia del Santo Padre, della Liturgia del 9 maggio
del 2000, il contributo del metropolita Lucian Mureºan ed alcune profonde
considerazioni di S. E. Monsignor Florentin Crihãlmeanu sulla Lettera apostolica del Santo Padre Giovanni
Paolo II. Il volume è quindi una raccolta di preziose testimonianze
che
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ci invitano a riileggere la storia dell’Unione in
una prospettiva d’apertura e di riconciliazione per una doviziosa e feconda
collaborazione fraterna.
Giuseppe Munarini
Marco Impagliazzo, Una finestra sul massacro.
Documenti inediti sulla strage degli armeni (1915-1916), Editori
Guerini e Associati, Milano 2000, pp. 254+3 foto nel testo.
L’autore è docente
di storia contemporanea presso la Pontificia Università Urbaniana. Tra
le sue pubblicazioni, vanno ricordate Duval
d’Algeria. Una Chiesa tra Europa e Mondo Arabo, Roma 1944; Algeria in ostaggio, risalente al 1997
(con Mario Giro) e, nello stesso anno, Leggi
razziali e occupazione nazista nella storia memoria degli ebrei di Roma,
per i tipi delle edizioni Guerini e Associati. Il professor Marco Impagliazzo,
autore anche di numerosi saggi sui rapporti tra Cristianesimo ed Islam,
presenta il manoscritto, in 21 capitoli, del padre domenicano Jacques Rhétoré, «Les Chrétiens aux bêtes!» Souvenirs
de la Guerre Sainte proclamée par les Turcs contre les Chrétiens, en 1915, una testimonianza sul massacro dei
Cristiani armeni e di altri riti nel Medio Oriente. Un lungo capitolo
introduttivo (pp. 12-93) lumeggia la situazione delle comunità cristiane
alla vigilia della I Guerra Mondiale. Da pagina 93 a pagina 250 è
presentato un manoscritto del padre domenicano Jacques Rhétoré. Questi svolse
il suo apostolato a Mardin, a Konia, ed infine a Costantinopoli, ove risiedette
sino all’armistizio del 1918. Quando scrisse queste memorie, pubblicate ora in
Italia dal professor Impagliazzo, padre Jacques Rhétoré, nato a Bruges in
Francia, era ormai settantatreenne. Profonde erano le sue conoscenze
linguistiche, egli conosceva, infatti, non solo l’armeno, ma anche il caldeo ed
era stato insegnante presso la celeberrima Scuola Biblica di Gerusalemme. Dal
1874, fu a Mossul, per cinque anni, ove ebbe modo di conoscere la comunità
dei cristiani siro-orientali, ossia di quei cristiani che sono più
conosciuti con il nome di “nestoriani”. Deportato con i confratelli M. D. Berré
e Hyacinthe Simon a Diyarbakir, nella provincia orientale dell’Anatolia, fece
tappa a Mardin, ove dovette risiedere per due anni. Poté così venire a
contatto con le comunità cattoliche di rito siro ed armeno. Lì fu
costretto ad assistere al triste spettacolo del passaggio di migliaia di
cristiani verso la loro ultima meta terrena, il loro Golgota. Il 10 giugno 1915,
l’arcivescovo armeno – cattolico, il Servo di Dio Ignace Maloyan (1869-1915) –
veniva trascinato in catene con numerosi dei suoi fedeli verso il luogo del
martirio. «La notte era chiara – si può leggere nelle memorie del padre
domenicano –, si poté dunque percepire, dalle finestre delle terrazze, il
corteo dei prigionieri» (M. Impagliazzo, op.
cit., p. 20). Lo studio introduttivo presenta in modo chiaro e preciso la
situazione delle comunità cristiane che vivevano in una società
musulmana, avendo però uno spazio proprio, come pure lo avevano gli
Ebrei che costituivano il 10% della popolazione dell’Impero Ottomano. Alla
guida di queste comunità etnico-religiose, vegliavano i Patriarchi che
adempivano pure funzioni civili, accanto al loro alto ruolo spirituale. A
Costantinopoli ne risiedevano due per gli Armeni, quello apostolico o
gregoriano e quello cattolico, ovviamente oltre al Patriarca Ecumenico. Il
Catholicos della Grande Casa di Cilicia, risiedeva pure in territorio Ottomano.
Il “millet” (la natio) armeno
p. 609
era stato riconoosciuto nel lontano 1461, meno di
dieci anni dopo la conquista ottomana di ciò che restava dell’Impero
bizantino. Si passa poi a presentare le altre grandi comunità o Chiese –
come quella siriaca, con sede a Mardin, quella dei Maroniti, dei
greco-melchiti, ortodossi e greco-cattolici, dei Latini ecc. Il patriarca
armeno apostolico, Zaven, si prodigò presso i ministri ottomani al fine
di fermare il massacro, il Genocidio che cominciò nel 1915. I cristiani,
una volta iniziata la guerra, nel 1914, non si trovarono più sotto la
protezione dell’Intesa, della Francia in special modo, e venivano accusati di
connivenza con le potenze appartenenti a quest’Alleanza, essendo la Turchia,
legata invece alla Triplice Alleanza, con gli Imperi Centrali.
In Turchia, ove il
sultano Habdul Amid fu spodestato, nel 1908, avevano preso il potere i “Giovani
Turchi” del “Comitato Unione e Progresso”. Talaat, uno di essi, si sarebbe
distinto nell’ordinare di sterminare tutti gli Armeni, compresi donne e
bambini. Si temeva il separatismo e che i “giauri”, come spregiativamente
venivano chiamati i cristiani, fossero spie dell’Intesa. La Francia aveva il
diritto di proteggere i cristiani in Medio Oriente, ma questo Paese era in
guerra con la Turchia. Mentre il sultano Mehmet V, califfo dell’Islam,
seguitava a sedere al trono, de facto
i nuovi padroni, il triunvirato dei Giovani Turchi, rappresentato da Talaat,
Enver e Djemal, consolidarono il loro potere. Il primo di essi aveva
dichiarato: “Voi sapete che, secondo la costituzione, l’uguaglianza tra
musulmani e giaur è assicurata, ma comprendete molto bene che questo
ideale è irrealizzabile. La sharia,
la nostra storia e i sentimenti di centinaia di migliaia di musulmani,
così come quelli degli stessi giaur, alzano una barriera insuperabile
contro lo stabilirsi di una reale uguaglianza […]. Dunque non potrà
esistere uguaglianza finché non avremo realizzato l’ottomanizzazione
dell’Impero” (M. Impagliazzo, op. cit.,
p. 24). Il Patriarca armeno Zaven si rivolse anche all’ambasciatore tedesco
Hans Freiherr von Wangenheim, ma invano. Non si disinteressò della sorte
degli Armeni e dei cristiani, invece la Santa Sede. Sia il Santo Padre
Benedetto XV, sia altri eminenti personaggi della diplomazia vaticana quali il
cardinale Gasparri, Segretario di Stato, monsignor Angelo Dolci, delegato
pontificio ed Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII, non rimasero insensibili ed
inattivi. Si deve ad Andrea Riccardi, presidente della Comunità di
Sant’Egidio, la pubblicazione della documentazione proveniente dall’Archivio
della Congregazione per gli affari Ecclesiastici Straordinari della Santa Sede.
Il Santo Padre intervenne di persona scrivendo una lettera a Mehmet V, da
questa missiva traspare che il Romano Pontefice si impegnò a fermare i
massacri presso il menzionato sultano.
Il manoscritto di
padre Jacques Rhéthoré, ora pubblicato, consta di 21 capitoli in cui possiamo
leggere le testimonianze del religioso sui massacri di Diyarbakir, Urfa,
Mardin, le deportazioni di Ras-el Ain, Derzor e Mossul, i massacri di Seer. Fu
dalla città di Mardin che fu trascinato l’arcivescovo degli Armeni
cattolici per nascere al cielo come martire di Cristo. Anche cristiani di altri
riti, non solo Armeni, furono trascinati, sradicati dalle loro dimore, invitati
ad apostatare la Fede di Cristo. Le donne venivano strappate agli uomini, molte
di esse dettero dimostrazione di coraggio e di nobiltà, davanti agli
aguzzini. «Alcune donne osarono dare lezioni vigorose ai loro aguzzini.
Così, ad esempio, fece la signora Chammé Djinandji. Quando i soldati la
vollero spogliare dei suoi vestiti, disse loro energicamente: “I vostri ordini
sono di farmi morire e non di denudarmi. Uccidetemi, ma mai mi lascerò
togliere da voi i vestiti. Siete miserabili! Vorreste che noi accettassimo la
vostra religione che vi permette di compiere simili crimini. No, la nostra
p. 610
religione &egravve; pura: è meglio morire per
la nostra che vivere per la vostra”. La nobile cristiana non ottenne niente da
quei mascalzoni che si gettarono su di lei, le tagliarono i seni e la
sgozzarono» (M. Impagliazzo, op. cit.,
p. 74). Anche vittime “fredde” davanti alla pratica religiosa, si dimostrarono
coraggiosi sino al martirio e non apostatarono il Salvatore. 287 furono le
famiglie che accettarono la fede islamica, anche se, talora, solo il
capofamiglia cedette, tuttavia donne e bambini furono iscritti all’Islam.
Impressionanti sono le cifre dei deportati, dei massacrati: interi distretti
furono, in poco tempo, svuotati dalla millenaria presenza cristiana. L’Anatolia
fu impoverita, con ciò, per sempre. Il manoscritto ci offre anche esempi
di solidarietà tra islamici e cristiani o gruppi di curdi detti
“adoratori del diavolo”. L’ultimo capitolo è dedicato a quello che il
padre domenicano chiama: La punizione del
crimine, molti aguzzini di cristiani finirono falciati dal tifo ad esempio
nella zona di Mardin, proprio quando credevano di potersi godere i beni dei
cristiani che avevano senza pietà sterminato (Cfr. M. Impagliazzo, op. cit., pp. 237-250).
La pubblicazione che
ho presentato si affianca accanto ad altre che concernono il Genocidio del
popolo armeno, ed è indispensabile per conoscere meglio la storia di
quel terribile e triste periodo, in quanto offre un’ulteriore testimonianza e
ci dà la possibilità, grazie all’inquadramento storico del
professor Marco Impagliazzo ed all’apparato di note, di conoscere anche la
sorte di altre comunità cristiane, vittime, come gli Armeni di questa
pulizia etnica anatolica.
Giuseppe Munarini
Cornel Sigmirean, Istoria formãrii
intelectualitãþii româneºti din Transilvania ºi Banat în epoca modernã
[Storia della formazione
dell’intellettualità romena della Transilvania e del Banato nell’epoca
moderna], Presa Universitarã Clujeanã, Cluj-Napoca 2000, pp. 808.
Questo monumentale
volume, che ha ottenuto il premio “George Bariþiu” dell’Accademia Romena,
è articolato in otto capitoli e si apre con la prefazione del professore
universitario Nicolae Bocºan; «La ricerca della storia della formazione
dell’intellettualità romena in epoca moderna – si sottolinea –
rappresenta uno dei più generosi e ragguardevoli soggetti per la
conoscenza del processo d’affermazione della cultura e della civiltà
romena moderna. Parafrasando lo storico francese G. Chaussinand–Nogaret, potremmo
dire che la storia della formazione dell’intellettualità romena è
la stessa storia della nazione romena, perché in essa si riflette la grande
storia sociale e politica, che è, nello stesso tempo, storia di
rappresentazioni e di simboli, “luogo della memoria” ove si riflette la
nazione; fenomeno generale romeno, più evidente nel caso della
società romena di Transilvania, cui si deve, in gran parte, la rinascita
nazionale delle generazioni d’intellettuali, formati, nel secolo XVIII e XIX,
nelle università dell’Europa centrale e ed Occidentale» (p. 5).
Gli otto capitoli del
volume s’intitolano, in traduzione italiana: Prime generazioni di intellettuali romeni di Transilvania; Trattative politiche per l’acquisizione di
un insegnamento superiore in lingua romena; Formazione dell’intellettualità romena di Transilvania nel
periodo 1867-1919; Formazione
pre-universitaria dell’intellettualità romena di Transilvania: ginnasi,
cronistoria, programmi, professori; Origine
geografica
p.
611
dell’intellettualità
romena; Origine sociale
dell’intellettualità romena; Fondi,
fondazioni ad altre fonti d’aiuto degli studenti romeni; Clima quotidiano, culturale e politico in
cui si formò l’intellettualità romena della Transilvania e del
Banato.
L’apertura alla cultura
internazionale della Transilvania propriamente detta avvenne, appunto, nel
XVIII secolo, con l’annessione di questo territorio detto “Principato”
all’Imperio Austriaco, ai tempi dell’imperatore Leopoldo I. Fece poi parte,
dopo il 1867, dell’Impero Austro-Ungarico sino al 1918, data in cui la
Transilvania, il Banato ed altri territori limitrofi, quali la Criºana, vennero
a far parte della Romania. Soprattutto nel XVIII secolo, la Transilvania,
grazie alla sua Scuola ardeleanã
(ªcoala ardeleanã) si abbeverò alle fonti classiche, anche se è
vero che si possono trovare numerosi studiosi e cultori del mondo classico
prima di tale data, basterebbe ricordare Gheorghe Bona, Gheorghe Buitul, Mihai
Halici che affrontarono viaggi e soggiorni in Occidente, per affrontare lo
studio e per vivere esperienze culturali importanti, ma solo il secolo XVIII
segna un’importante svolta culturale.
L’autore dell’opera,
docente nell’Università degli Studi “Petru Maior” di Târgu Mureº, ci
accompagna sin dai primi momenti dell’apertura della Transilvania alla cultura
occidentale, avvenuta anche grazie all’Unione dei Romeni con la Chiesa Romano-
Cattolica, ai tempi dei vescovi Teofil ed Atanasie Anghel, lungo un percorso
che arriva all’inizio del XX secolo. Senza soffermarsi sulle lotte fratricide,
che sconvolsero il paesaggio transilvano nel secolo XVIII, il professor Cornel
Sigmirean, presenta gli aspetti positivi dell’Unione, soprattutto ai tempi del
vescovo greco-cattolico Ioan Inochentie Micu–Klein (1700-1768), che dischiuse la
via dei seminaristi greco-cattolici, verso la Città Eterna, ossia Roma.
Grazie alle borse di studio, gli studenti, anche figli di persone di condizioni
economiche modeste, raggiunsero Roma, ma anche le altre città
dell’Impero, quali Budapest, Vienna, Leopoli, Bratislava ecc., ove ebbero modo
di studiare, con la guida di insegnanti religiosi (gesuiti o basiliani) o laici
e di venire a conoscere correnti letterarie nonché movimenti politici che
aspiravano al rinnovamento in Austria, Ungheria, Italia e nell’Europa in
generale.
Vengono percorsi i
vari itinerari culturali, che videro giovani romeni figli di contadini o di
piccoli nobili di campagna nelle varie città europee per apprendere, a
contatto con gli studenti stranieri, la cultura classica e contemporanea, per
acquisire metodologie nuove e rafforzare così il senso della propria
fede ed identità etnica. Non si dimentica che, grazie al ruolo di Blaj,
si dette vita al movimento politico-nazionale dei Romeni che, grazie ai
memoriali indirizzati alla corte viennese, rese possibile un ‘48 romeno.
L’Impero con il suo paternalismo, specialmente prima della sua trasformazione
in Impero Austro-Ungarico, nel 1867, favoriva la cultura e contribuì,
nonostante lo stato di soggezione cui erano sottoposti i Romeni, popolazione
maggioritaria in Transilvania e nei territori circostanti, alla formazione di
un ceto intellettuale, composto da sacerdoti sposati o celibi, ma anche da
maestri e professori. Centro di questo movimento fu Blaj, cittadina fondata dal
vescovo Ioan Inochentie Micu–Klein e rafforzata dal suo immediato successore
Petru Pavel Aron (o Aaron), nel secolo XVIII.
Data fondamentale per
l’apertura di queste scuole fu il 1764, sotto l’episcopato di quest’ultimo.
Esse sorgevano non lungi dalla cattedrale di rito bizantino, frutto del lavoro
p. 612
architettonico ee di alta ingegneria di un oriundo
italiano: Giovanni Martinelli. Ambedue i vescovi erano alieni alla
latinizzazione della propria Chiesa, rispettosi del rito bizantino e della
“Lege” ossia delle tradizioni, in cui si comprendeva anche il rigoroso digiuno.
Alle scuole greco-cattoliche si affiancarono anche quelle della Chiesa
Ortodossa quali il celebre Istituto Teologico Pedagogico Ortodosso di Sibiu.
Gli studenti residenti all’estero (Leopoli, Vienna, Budapest ecc.) si
organizzavano in associazioni nazionali romene, che permettevano una comunione
d’intenti ed uno scambio d’opinioni sui problemi principali dell’epoca. Ecco
allora apparire numerose di siffatte associazioni quali, la “Petru Maior”, che
prese il nome del protopope (1756-1821) di Reghin, uno dei maggiori “corifei”
della “Scuola di Transilvania”, la “Societatea Salba”, che dovette continuare,
le sua attività in modo clandestino, l’“Astra” o la società
“Patria”. Sarebbe nel loro seno nata e si sarebbe sviluppata una dialettica
politica che avrebbe portato alla creazione di partiti politici e di giornali
che difendevano e promuovevano la “romenità” ed affrettarono
l’unità politica.
Importante fu pure la
cura e salvaguardia della lingua romena, unica lingua neolatina sopravvissuta
nella Romània orientale. Nell’Università degli Studi di Budapest
funzionava una cattedra di romeno, da cui s’irradiava pure l’amore per la
storia e per la nazione romena vilipesa o minacciata. Naturalmente, nell’opera
del professor Corneliu Sigmirean non mancano ampi riferimenti alle
facoltà ed agli istituti superiori in sé, ai programmi di insegnamento
ed alle riforme di essi. Vengono esaminate le disposizioni, le norme che
concernevano la vita di tali istituzioni scolastiche e lo statuto del personale
docente, il numero degli studenti, dei quali si rammentano anche la confessione
religiosa ed il rito di appartenenza.
L’opera non si
sofferma solamente sulle istituzioni scolastiche delle città situate nel
territorio austriaco o Austro-Ungarico, ma anche sulla presenza di studenti e
di professori in Prussia, nei Paesi tedeschi ed addirittura nelle città
occidentali quali Montpelier, Bruxelles, Parigi ecc. Molto positivi, in
quest’opera, che contribuirà a far conoscere in modo organico ed
approfondito la mentalità della Romania dell’epoca moderna, sono i
riferimenti precisi alle città in cui i giovani romeni erano stati
inviati a studiare, città che stavano rapidamente cambiando il loro
tessuto urbano, anche perché attiravano molti abitanti dalle zone rurali. In
esse convivevano differenti gruppi etnici che, sovente, si conoscevano e quindi
le città potevano a buon diritto chiamarsi cosmopolite. Con il passare
del tempo, andò ad aumentare il numero dei laureati nelle diverse
discipline: non solo si distinsero teologi e filosofi, ma anche studenti di
diritto, ingegneri, medici, che dovevano preparare la Nazione ad essere
più consapevole del suo ruolo e conscia delle sue peculiarità.
Al termine degli otto
capitoli, dopo la bibliografia, frutto di lunghe ricerche su testi e documenti
romeni, ungheresi tedeschi e pontifici, seguono gli elenchi degli studenti che
frequentarono le diverse istituzioni scolastiche superiori, in cui si trova la
confessione religiosa professata, la data di nascita e il periodo di studi.
È quindi la volta di due indici analitici, uno con i nomi di
località e l’altro con i nomi di persona che permettono una facile
ricerca. L’opera del professor Cornel Sigmirean comprende pure riassunti in
inglese, francese, tedesco ed ungherese.
Giuseppe Munarini
p. 613
Franca Feslikenian, La roccia e il Melograno,
Mursia, Milano 2000, pp. 262+33 foto fuori testo.
Come palesa il suo
cognome, l’autrice è un’armena. Figlia della Diaspora, è nata a
Milano, da padre armeno, il dottor Aram e da madre italiana, Luisa Marzoli,
oriunda di un paesino tra i monti della Lombardia, Penasca. Ora Franca
Feslikenian esercita la professione di giornalista in Lombardia. La storia di
due famiglie, quelle del padre e della madre, rivive in queste pagine di
piacevole lettura: quella dei Feslikenian, appunto, e quella dei Marzoli. Le
vicende della prima parte del libro, articolato in otto capitoli, rivivono
grazie ai racconti dei suoi cari, altre parti sono frutto di ricordi, di
vicende vissute all’interno di una famiglia ragguardevole che aveva due radici:
una armena, l’altra italiana. L’autrice ricostruisce la storia delle due
famiglie, cominciando da quella del padre, discendente da un antico casato
dell’Armenia Orientale, fiero ed intelligente. Uno dei suoi antenati, Aram,
raggiunse San Pietroburgo, stringendo amicizia con lo zar Alessandro II,
passato alla storia soprattutto per aver abolito la servitù della gleba
ed aver favorito l’inizio del ceto dei kulakì, i piccoli proprietari
terrieri, eliminati poi brutalmente dai sovietici. Giacomo, invece fu il
capostipite della famiglia paterna, distintasi per aver costruito sia in
Lombardia, sia nella vicina Svizzera, ma anche nella lontana Parigi, nei
momenti di maggior fortuna, nel periodo napoleonico, persino in Inghilterra, in
Polonia, in Tirolo, numerose opere pubbliche. Ovviamente più dettagliata
e ricca di aneddoti e di dialoghi è la storia che illustra la vita della
nonna paterna. Il matrimonio dei nonni avvenne a Brussa e fu celebrato, secondo
il rito armeno, tra i fasti che si addicevano ad una famiglia ragguardevole. La
famiglia del nonno si trasferisce in Anatolia.
L’impresa dei nonni
materni provvede ad arricchire la città ambrosiana con nuove
costruzioni, quali il villaggio dei giornalisti, il tribunale e la Banca
Commerciale ecc. La famiglia del nonno paterno, intanto, è sorpresa dal
genocidio contro gli Armeni, scatenato dai “Giovani Turchi”, a Trebisonda, ove
il padre dell’autrice, Aram, completava gli studi di medicina. Seguono l’avventurosa
fuga della nonna Nevrig e di zia Herminé. Nonno Agop, invece, viene fermato e
condotto in una prigione di fortuna: «Attese a lungo, poi nel locale entrarono
numerosi giovanotti, armati e dall’aria fanatica. Uno di loro gettò un
Crocifisso per terra e urlò a mio nonno:
– Armeno, se vuoi
salvarti la pelle sputaci sopra! –
Mio nonno
guardò con coraggio il giovane fanatico e ribatté:
– Io ho sempre
rispettato la vostra religione. Voi dovete rispettare la mia. Non potete mai
costringermi a fare un simile gesto. A quel momento iniziò il massacro»
( p. 71).
Il padre dell’autrice
si sposò a Milano con Luisa, dopo aver riaffrontato tutti gli studi di
medicina – aveva lasciato il certificato di laurea a casa prima della fuga
nell’Anno del “Grande Male”, il Genocidio del 1915. Il matrimonio tra la madre
ed il padre di Franca, avvenne a Milano. Erano con i giovani sposi anche la
nonna e la zia Herminé che avrebbe sposato un grande armenista francese,
Frederic Feydit, autore di numerosi studi e di grammatiche di armeno classico e
moderno, allievo dei Padri Mechitaristi armeni di S. Lazzaro (Venezia).
Rivivono, nel libro i momenti spensierati della fanciullezza, i discorsi
assennati della nonna, la bontà dei genitori, l’attività
patriottica del Padre Aram, il buon dottor Aram, che era Console della
Repubblica Armena. Sono tratteggiate simpaticamente
p. 614
le figure dei coollaboratori domestici che vivono in
casa Feslikenian, e non meno vivaci ed efficaci appaiono le descrizioni dei
parenti. Non mancano le pagine soffuse di malinconia: la morte della nonna, che
porta con sé un po’ della sua armenità. A lei è da ascriversi il
merito di aver infuso alla nipote l’attaccamento per la patria e la cultura
avita, ricambiato da quest’ultima non solo da tanto amore, ma anche dal tentativo
di conversare un po’ in lingua armena. Toccante ed efficace è il ricordo
della dipartita del padre, colpito da un male incurabile, lucido e consapevole
della sua imminente fine, manifestandosi medico, generoso sino all’ultimo. Se
ne andò quando l’autrice non aveva che poco più di dieci anni.
Appaiono anche i difficili giorni della guerra, i giorni grigi delle morti,
alternati con quelli azzurri della serenità in cui fede e ricordi si
mescolano in un tutt’uno che avvince il lettore. Ogni tanto, la piccola storia,
le piccole storie, nella loro quotidianità, si intrecciano con la grande
storia, in cui anche i grandi scompaiono, si dissolvono, sembrano sparire nel
nulla. Rimangono i risultati delle loro azioni, buone e cattive, come quelle
dei piccoli uomini. Altri amici si avvicendano ed appaiono nelle scene del
racconto, condotto con serietà. Il lettore impara ad avvicinarsi ai
personaggi ed a cogliere, dai loro dialoghi, mentalità ed esempi di vita
che arricchiscono. Senza dubbio l’autrice ha contribuito, grazie al suo lavoro,
a farci amare e meglio conoscere la vita di una famiglia borghese per
metà armena e con essa i luoghi d’origine, lontani geograficamente, ma
sempre vivi nella narrazione. Le digressioni, presenti, per esempio quelle
della famiglia degli zii in Normandia, lungi dall’appesantire, conferiscono al
libro un maggior interesse, e ci ricordano le terribili vicende della Seconda
Guerra Mondiale. Si auspica che, nella seconda edizione, qualche errore
concernente la storia e la cultura armena venga corretto. Anche con essi, nulla
del suo valore si toglie a questa biografia, a questi momenti personali narrati
dalla penna di una lombarda, figlia anche della Diaspora armena.
Giuseppe Munarini
Dan Nicolae
Busuioc von Hasselbach, Þara Fãgãraºului în secolul al
XIII-lea. Mãnãstirea cistercianã Cârþa [La Terra di Fãgãraº nel secolo XIII. Il monastero cistercense di Cârþa],
vol. I-II, Editura Fundaþiei Culturale Române – Centrul de Studii Transilvane,
Cluj-Napoca 2000, pp. 363+39 immagini e due carte fuori testo.
Lo studio che
presento è il frutto di decennali ricerche fatte da parte dello storico
Dan Nicolae Busuioc von Hasselbach, dottore di ricerca dell’Università
degli Studi “Babeº-Bolyai” di Cluj-Napoca, autore di numerosi studi apparsi in
Romania ed all’estero. Esso ha come oggetto l’Abbazia di Cârta, di cui oggi non
rimangono che le rovine, abbazia che si trova in Transilvania, sulla riva
sinistra del fiume Olt, sul territorio delimitato dal fiume omonimo all’abbazia
ed all’Arpaºu.
Il primo capitolo, di
vasto respiro, dell’opera si sofferma sulla storia degli ordini monastici ed il
particolare su quello cistercense, cui apparteneva questa abbazia i cui ruderi,
ancora visibili, danno l’idea dell’ampiezza del monumento gotico. È ovvio
che i ruderi, tra i quali sembra di sentir riecheggiare il canto gregoriano e
il salmodiare latino, abbiano attirato l’attenzione degli studiosi che hanno
compiuto degli studi archeologici
p. 615
ragguardevoli. LLa presente opera invece si prefigge
di studiare, grazie alla toponimia, ai documenti rinvenuti, più aspetti
che hanno accompagnato la vita dell’istituzione sacra che decadde, ma che ebbe
un ruolo importante in un secolo in cui l’Ortodossia fu attaccata dal
cattolicesimo latino. Ogni abbazia cistercense possedeva delle abbazie «figlie»
con un abate padre, quello del monastero d’origine ed un abate figlio, a capo
del monastero originato da un’emigrazione di monaci.
Il secondo capitolo
si sofferma sulla fondazione del monastero di Cârþa, monastero di rito latino
in una zona completamente ortodossa della Transilvania, se si prescinde da
minoranze cattoliche di Sassoni, Ungheresi e di Secui (chiamati nei documenti
degli umanisti “ciculini” o “siculi di Transilvania”). In realtà il
complesso monastico era un centro importantissimo, uno dei più
importanti del Sud-Est europeo. I monaci che avrebbero officiato questo
monastero furono chiamati direttamente dalla Francia da re magiaro Béla III, ma
anche il successore di questo sovrano Emerico II si annovera tra i fondatori
del monastero.
Il terzo capitolo
esamina gli aspetti etno-demografici della regione di Fãgãraº, abitato da una
popolazione romena, parlante quindi una lingua neo-latina, ma di Fede
cristiana-ortodossa. Accanto ad essa vivevano anche i Peceneghi, poi vi
sarebbero insediati abitanti di altre etnie quali i Sassoni, gli Ungheresi, i
Secui ed addirittura i Valloni. Nei documenti, per esempio nell’Andreanum, nel 1223, i neo-latini
vengono chiamati «Blacci». I contatti tra i Romeni della Terra di Fãgãraº con
gli altri romeni, sarebbero stati sempre attestati.
Il quarto capitolo si
intitola Prolegomena la istoria Þarii
Fãgãraºului în secolele XI-XIII [Preliminari
sulla storia della Terra di Fãgãraº nei secoli XI-XIII] ed esamina
ampiamente la situazione etnica e storica del Paese, nel secolo rispettivo. Il
quinto, invece, è dedicato alla vita del monastero di Cârþa e delle
comunità circostanti, ad esempio di quella di Glâmboaca, di lingua
tedesca.
I due volumi si sono
soffermati non solo sugli studi pubblicati nelle varie lingue, ma anche su
quello dei toponimi. La località, oggi Cârtiºoara, ove sorse il
monastero, era divenuta un centro di potere importante, posta presso
insediamenti completamente romeni per fini espansionistici del Cattolicesimo
latino, nel secolo della IV Crociata. Significativo è il fatto che il
centro monastico sia stato lì posto dai sovrani ungheresi, gli Arpad.
Soltanto nel 1200-1215 il monastero e la Chiesa furono edificati in pietra,
prima ci sarebbero state delle costruzioni in legno, quasi ad indicare la loro
provvisorietà. Il tempio fu costruito in più fasi se si considera
il fatto che in una moneta emessa tra il 1270 ed il 1272 mancava il
contrafforte a forma di poligono del coro che poi nel tempio prese forma. Il
monastero deve aver avuto un ruolo importante anche per la popolazione romena
della zona, alla quale si assimilarono anche non-romanzi quali gli slavi e i
cumani. L’opera, che ha lasciato grande spazio all’interdisciplinarietà,
si conclude con un ampio riassunto in lingua inglese, con una bibliografia e
con una serie di foto dei ruderi del monastero stesso.
Giuseppe Munarini
p. 616
Ioan Bolovan, Transilvania între Revoluþia de
la 1848 ºi Unirea din 1918. Contribuþii demografice [La Transilvania tra il 1848 e l’Unione del
1918. Contributi demografici], premessa di Professor Nicolae Bocºan,
Editura Fundaþiei Culturale Române – Centrul de Studii Transilvane, Cluj-Napoca
2000, pp. 267.
Il redattore della
rivista del Centro di Studi Transilvani, “Transylvanian Review/ Revue de
Transylvanie”, dottore di ricerca e ricercatore principale presso l’Istituto di
Storia dell’Università degli Studi “Babeº-Bolyai” di Cluj-Napoca, autore
di numerosi studi specialmente sul secolo XIX, ci presenta questa nuova ricerca
che ci permette di conoscere meglio la situazione demografica della
Transilvania negli anni che vanno dalla Rivoluzione del 1848 sino al 1918, anno
in cui questo territorio ponte, in cui la cultura romena si incontra con quella
ungherese e sassone, ed in cui tre riti cattolici sono presenti accanto
all’ortodossia ed a tre confessioni uscite dalla Riforma.
«Dopo il 1989 –
osserva il professor Nicolae Bocºan – a Cluj-Napoca si sono delineati un
programma ed un gruppo di ricerca che hanno ripreso l’iniziativa iniziata
presso l’Istituto di Storia, interrotto negli anni ‘80, cui partecipano
storici, sociologi e specialisti di demografia. Il libro dello storico Ioan
Bolovan si registra nel programma di questo gruppo di ricerca, costituendo la prima
sintesi sull’evoluzione della popolazione della Transilvania tra il 1849 ed il
1914, ponendo un ulteriore accento sull’evoluzione della popolazione rurale.
Esso utilizza le statistiche ufficiali, i registri parrocchiali di stato
civile, le coscrizioni ecclesiastiche ed altre varie fonti archivistiche.
L’autore sintetizza i risultati di alcune ricerche sistematiche realizzate nel
corso degli anni, abbinando il metodo della demografia contemporanea a quello
della demografia storica, inaugurando nuove vie di ricerca, che possono
approfondire la conoscenza storica in un decennio essenziale per la
comprensione del processo di modernizzazione in Transilvania, nella seconda
metà del secolo XIX ed all’inizio del secolo XX» (N. Bocºan, Cuvânt înainte, in I. Bolovan, op. cit., p. X).
Lo studio del
professor Ioan Bolovan, che si apre con un ampio riassunto in lingua inglese,
si articola in 6 capitoli. Studia le emigrazioni interne ed esterne della
popolazione della Transilvania a partire dai primi censimenti che seguirono il
1848 e la ridivisione amministrativa dell’antico Principato. Un intero capitolo
è dedicato all’abitato rurale della Transilvania tra il 1850 ed il 1910,
quindi quasi alla vigilia dello scoppio della I Guerra Mondiale. Il successivo,
il quinto, molto vasto, considera anche il matrimonio e le caratteristiche
della famiglia nel villaggio transilvano, dando ampio spazio alla struttura
della popolazione di Transilvania dal punto di vista dello stato civile. Si
affronta il concetto di «transizione demografica», osservando che ciò
significa il passaggio da livelli alti di mortalità e di natalità
a livelli più bassi. Questo si collega con l’industrializzazione del
Paese e con l’urbanizzazione che portò ad un aumento considerevole della
popolazione anche nelle città transilvane. Si passa poi agli aspetti
concernenti lo stato civile e l’età media dei matrimoni nella seconda
metà del XIX secolo. Nell’ultimo capitolo, si fanno considerazioni
importanti sulla «magiarizzazione» di una parte della popolazione di
Transilvania, dovuto anche al fatto che, dal 1867, la Transilvania perdette la
sua autonomia,
p. 617
pur relativa auttonomia quando entrò a far
parte della parte ungherese dell’Impero divenuto ormai bi-cefalo (Poli: Vienna
e Budapest).
«Al tempo del dualismo
– si osserva – i censimenti effettuati dalle autorità magiare non
registrarono più la nazionalità degli abitanti, ma solamente la
loro madrelingua, intesa “lingua che la persona interpellata parla meglio e con
maggior piacere”. Questo criterio permise alle autorità di snaturare in
modo premeditato i dati statistici, e di far aumentare artificialmente il
numero di magiari, precisamente dei “parlanti” l’ungherese. Così si
spiega perché nelle rubriche del censimento dal 1880 al 1910 non appaiono
più gli ebrei, gli armeni, gli zingari ecc. perché erano stati inclusi
quasi in corpore nella rubrica dei
magiari. Conformemente ad una siffatta classificazione, il peso della
popolazione magiara crebbe nella Transilvania, tra il 1880 ed il 1910 dal 41,2%
al 48,1%, mentre la proporzione dei non-magiari diminuì in modo
corrispondente dal 58,85 % nel 1880, al 51,9%, nel 1910» (I. Bolovan, op. cit. p. 194). Negli anni che vanno
dal 1848 al 1910, dunque, si verificarono in Transilvania trasformazioni
importanti, che si possono notare se si considera che il peso di coloro che
erano occupati nell’agricoltura era del 25%.
L’agile volumetto
è corredato da numerosi schemi e grafici concernenti i vari aspetti
trattati e accompagnato da una bibliografia. Ecco ancora una nuova opera che
mette in luce la storia di questo importante periodo storico, prima che la
Transilvania entrasse a far parte della Romania. La scienza demografica
è stata d’ausilio alla storia affinché possiamo cogliere, con i grandi
cambiamenti, pure i mutamenti di mentalità che ad essi si accompagnano.
Giuseppe Munarini
Antonia Arslan, Laura Pisanello, Hushér: La memoria. Voci italiane
di sopravvissuti armeni, con la collaborazione di Avedis Ohanian., postfazioni
di Haikaz M. Grigorian e Antonia Arslan, Editori Guerini e Associati, Milano
2001, pp. 162+due immagini nel testo.
La peculiarità
di questo libro, scritto dalla professoressa Antonia Arslan e dalla giornalista
Laura Pisanello, consiste nell’avere raccolto 11 testimonianze di altrettanti
scampati al Genocidio degli Armeni, affinché le loro parole, i loro racconti e
la loro testimonianza di fede fossero affidate ai posteri. Per meglio capire la
particolarità di questo libro, bisognerebbe dapprima leggere il capitolo
Pellegrinaggio ai luoghi del Genocidio,
ossia una testimonianza di Haikaz M. Grigorian (Cfr. A. Arslan, L. Pisanello, op. cit., pp. 136-151, in cui
quest’armeno-americano ormai settantenne si reca, vincendo la riluttanza
iniziale, nell’Armenia Anatolica, con l’arcivescovo Mesrob Ashjian per visitare
il Paese dei padri, ma scopre con rammarico che quasi nessuno dei nuovi
abitanti, tutti islamici, sapeva niente degli Armeni.
Il primo dramma
è stato quindi quello del Negazionismo,
ossia quella tendenza che nega che sia stato mai perpetrato un genocidio contro
gli Armeni, l’altro dramma è l’oblio della storia, il raccapricciante
silenzio che è seguito alla pulizia etnica fatta dai
p. 618
Turchi e dai Currdi, loro manovalanza nel genocidio,
contro gli Armeni e gli altri cristiani (greco-ortodossi, siri cattolici e non
– calcedonesi, caldei – cattolici ed assiri).
Questo libro consegna
ai posteri le narrazioni di questi Armeni, passati, alcuni dei quali
recentemente, “nella Gerusalemme celeste”, dal Paese che li aveva accolti dopo
il massacro: l’Italia. «Willy Brandt – si osserva nell’introduzione – si mise
in ginocchio a Buchenwald per chiedere perdono agli ebrei, e non era certo fra
i responsabili dell’Olocausto, però il suo onore gli imponeva di
ricordare e ammettere le colpe a nome del suo popolo. E altrettanto hanno fatto
statisti e politici e persino il Pontefice per le colpe della Chiesa di Roma: e
tutti hanno compreso il pudore e la nobiltà di un simile gesto. Il
riconoscimento del genocidio servirebbe d’altronde sia al popolo turco sia a
quello armeno, perché non v’è dubbio che se è atroce essere la
vittima, lo è altrettanto essere il colpevole» (Giorgio Pisanello, Introduzione, in A. Arslan, L. Pisanello, op.
cit., pp.23-24).
Ecco appaiono allora
i racconti di Isabella Kuyumgian Sirinian, di Cesarea. Ella riferisce, in prima
persona dei suoi cari massacrati, delle peripezie, del suo rifugio di
Costantinopoli, lasciata nel 1922, con il “passaporto Nansen”. Ecco la figura
di Hripsimé Amrighian Condakgian, i cui nipoti e il cui genero vivono a Padova,
“donna minuta e dolcissima” spentasi in veneranda età a Padova, assidua
frequentatrice della Liturgia armena di padre Levon Zekiyan. Ella proveniva da
Erzurum, e termina la sua breve intervista con sorprendenti parole: «Siamo una
famiglia fortunata perché non ci hanno uccisi tutti». Segue poi Agop
Condakgian, farmacista, che aveva studiato a Padova ed a Venezia, marito della
signora Hripsimé, egli tenne un diario sui massacri, in parte messo a disposizione
per il libro che presento. Viene quindi Anaid Kojanian Bezdikian, detta per la
sua bella voce “la cantatrice del Mussa Dagh”, madre di padre Aruthiun, monaco
mechitarista di S. Lazzaro. Ella era appunto oriunda di un villaggio del Mussa
Dagh. Visse pure in Libano. È la volta poi di Karnik Nalbandian di
Kharpert, che svolse diversi lavori, qui in Italia. «Durante l’immane bufera
che sconvolse l’Armenia, persi, come più avanti spiegherò, mio
padre, mia madre e un fratello. Dei brevi cenni circa i miei congiunti mi
vennero dati da Suor Kainé, mia zia, sorella di mio padre, che ebbi la
combinazione di ritrovare a Costantinopoli durante il mio eterno peregrinare da
Paese a Paese, da valli a montagne, sempre braccato come una lepre in fuga,
sempre con l’incubo dell’incerto domani, seppure a quel domani, bene o male
sarei arrivato» (A. Arslan, L. Pisanello, op.
cit., p. 71). Appare poi Raffaele Gianighian, nato nel distretto di
Khodorciur, figlio di un fabbro, autore di un libro, Khodorciur, pubblicato a Venezia nel 1992. È quindi la volta
di padre Ignazio Adamian, mechitarista di S. Lazzaro; missionario in diversi
Paesi, tra cui la Siria, l’Egitto e l’Argentina. Segue poi Hrant Pambakian,
sopravvissuto alla distruzione di Smirne, che ha occupato posti ragguardevoli
nella comunità di Milano, presente nella Chiesa Apostolica Armena,
officiata da padre Sakis Sarkissian, di via Jommelli, a cantare le Lodi del
Signore. Ecco ora Harutiun Kasangian, che tanto si è prodigato per
l’architettura armena. Appare ora la figura di Ovsanna Keuleyan, sopravvissuta
alle stragi degli armeni di Antiochia. Sarebbe divenuta esperta nel lavorare
merletti. La serie delle testimonianze è chiusa dal dottor Coren
Mirachian, spentosi a Padova. Generoso sino alla fine con tutti coloro che
avevano bisogno di lui. Ci aveva raccontato, in un libretto, apparso nel 1986 a
Padova, Da pastorello a medico, le
peripezie della sua vita, gli studi che aveva intrapreso, mentre
p. 619
lavorava. Si pu&ò dire che anch’egli abbia
pensato dunque di raccontare, in modo discreto, la sua odissea, ma in fondo,
anche il suo ottimismo cristiano, soffuso però dall’amarezza per coloro
che, meno fortunati, erano stati massacrati.
Il libro si conclude
con le considerazioni della professoressa Antonia Arslan: «I giusti: coloro che
non guardano altrove». «Mi risulta – osserva la docente di origine armena – che
alcuni intellettuali turchi oggi piangano la scomparsa di quel mondo, e della
ricchezza culturale perduta dall’Impero Ottomano; e che molti armeni coltivano
il mito della città di Costantino. Forse questo nostro tema della
memoria e dei giusti, di tutti i giusti, che hanno salvato degli armeni,
dovrà essere più e più volte ricordato e riproposto, e
stormire in fronde possenti contro il vento della barbarie, perché non avvenga
davvero più che una giovane sposa turca, mostrando festosa a un vecchio
armeno in incognito i suoi braccialetti, gli dica: “Vedi, nonno quanto sono
belle queste decorazioni, che bei doni mi hanno fatto”; e che il vecchio
riconosca in quei bei disegni la dedica augurale che suo padre, massacrato,
aveva fatto incidere per sua madre, deportata nel giorno del loro fidanzamento»
(A. Arslan, L. Pisanello, op. cit.,
p.162). Questo volume è un testo di storia importante che recupera
l’oralità come elemento di testimonianza nella storia ed è una
tessera di un grande mosaico che ci fa rivivere vicende e tragedie che sarebbe
turpe scordare.
Giuseppe Munarini
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