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p. 287
Tra
economia e geo-politica:
la
visione ottomana della Guerra di Cipro
Maria Pia Pedani,
Università Ca’ Foscari di Venezia
1. Verso la
guerra
L’
Secondo la tradizione storiografica occidentale
più accreditata[1],
la guerra di Cipro fu fortemente voluta dal nuovo sultano Selim II, succeduto
al padre Süleyman I nel 1566, che voleva con una grande impresa guerresca
imitare il suo predecessore e continuarne la politica espansionistica. Tale
desiderio si sarebbe venuto a sovrapporre alle mire di un potente ebreo, don
Jossèf Nassì, favorito di Selim ancor prima della sua ascesa al
trono. Secondo quello che è stato definito il “mito che circondava
Nassì”[2], diffusosi
tra i ceti dirigenti veneziani già durante il conflitto, questo
potentissimo personaggio, “re” o “capo” di tutti gli ebrei, sarebbe stato il
maggiore nemico della Repubblica, promotore tra l’altro di una rete
internazionale di spie a suo danno. Alcuni gli attribuivano anche il rogo
dell’Arsenale lagunare, andato a fuoco proprio nel 1569, alla vigilia della
guerra, mentre altre voci lo volevano fautore dell’idea di creare un
insediamento ebraico a Tiberiade, o nel suo ducato di Nasso, o ancora in
un’isola che avrebbe cercato di ottenere dalla Repubblica o, infine, proprio a
Cipro, nel caso questa fosse stata conquistata dalle armate del sultano. In
realtà Nassì non sembra essere stato così potente da poter
spingere l’apparato ottomano verso una guerra; di certo era strettamente legato
al gruppo di potere che aveva tra i suoi personaggi più in vista Lala
Mustafa pascià, il precettore di Selim II, e in Piyale pascià, il
kapudan pascià del fallito
assedio di Malta (1565) ma anche della presa di Chio (1566), oppositori
politici dell’allora gran visir Sokollu Mehmed pascià.
A leggere quella che viene comunemente chiamata “la
dichiarazione di guerra”, presentata a Venezia negli ultimi giorni di marzo
1570 dal çavuº Kubad[3],
altre erano le ragioni che spingevano gli ottomani allo scontro. Innanzi tutto
il fatto che i veneziani continuassero a costruire in Dalmazia castelli e
villaggi oltre la linea confinaria stabilita negli accordi di pace; che
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le
navi di corsari utilizzassero Cipro come base di rifornimenti per poi attaccare
i legni ottomani sulla rotta che univa Alessandria a İstanbul, tanto che
la dichiarazione ricorda esplicitamente alcuni episodi particolari di questa
guerra corsara; il fatto che i sudditi di San Marco uccidessero tutti i levend del Maghreb che cadevano nelle
loro mani, anziché inviarli a İstanbul per essere giudicati dalla
giustizia musulmana, come stabilito dagli accordi di pace, e infine un paio di
altri avvenimenti specifici che avevano visto coinvolti dei mercanti sudditi
ottomani la cui mercanzia era andata perduta, in un caso perché si trattava di ferro,
e quindi di merce di cui era proibita l’esportazione da Venezia, nonostante
fosse già stato pagato il dazio, e nell’altro in quanto la nave su cui
la merce era stata caricata era stata assalita e depredata dai pirati uscocchi
in Adriatico, nonostante le assicurazioni del rettore di Cattaro sul sicuro
controllo veneziano su tutto il Golfo.
Secondo il pensiero ottomano, alla base del conflitto non
vi erano dunque questioni personalistiche, bensì precise ragioni
geo-politiche, come ricorda anche lo storico Selânikî Mustafa efendi[4].
Come base logistica per corsari e pirati l’isola rappresentava un grave
pericolo per la sicurezza dello stato ottomano, tanto che in ogni campagna
militare occorreva lasciare indietro navi e armati per contrastare eventuali attacchi
provenienti da quei luoghi. Inoltre sembra che il fallito assedio di Malta
avesse cambiato il punto di vista della Porta nei riguardi degli obiettivi
strategici prioritari[5]:
non più il tentativo di mantenere il controllo del Mediterraneo
conquistando prima di tutto alcune basi di primaria importanza, bensì un
procedere in modo più sistematico e completo da est a ovest e, in questa
strategia, Cipro, ormai un’enclave cristiana in un mare musulmano, era la prima
isola che occorreva conquistare. In quest’ottica bisogna tenere presente anche
il fatto che allora le galee erano le navi più diffuse nel Mediterraneo:
si trattava di legni con ciurme numerosissime e limitata capacità di
stivaggio; il loro naturale modo di procedere era quello di evitare le lunghe
traversate privilegiando una navigazione di piccolo cabotaggio che consentiva
di rifornirsi di viveri e acqua ogni due-tre giorni al massimo. In tale
contesto sottrarre Cipro agli infedeli significava precludere alle navi corsare
punti di ancoraggio e di rifornimento, soprattutto di acqua potabile, non
più tale dopo tre-quattro giorni, e dunque la possibilità di
navigare nella parte più orientale del Mediterraneo.
Inoltre la pirateria, endemica nel Mediterraneo sin
dall’antichità, era andata aumentando nel corso della seconda
metà del Cinquecento. Alla maggior aggressività della marineria
maghrebina si era contrapposto non solo una sempre più spavalda risposta
cristiana, bensì anche un aumento del contrabbando, determinato anche
dall’impoverimento delle popolazioni legato alla crisi della produzione
cerealicola mediterranea. Sin dal Medioevo il Vicino Oriente riforniva l’Europa
di grano, ma nella seconda metà del secolo si ebbero una serie di
proibizioni all’esportazione di tale prodotto da parte ottomana (per esempio
1553-56 e poi ancora 1565-67) volte a privilegiare i rifornimenti interni ormai
appena sufficienti al fabbisogno locale[6].
Da un punto di vista squisitamente ottomano, la conquista di Cipro significava
dunque anche proteggere il commercio.
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Accanto a motivi geo-strategici si possono infatti
individuare anche delle motivazioni più propriamente economiche[7].
La rotta che univa İstanbul ad Alessandria d’Egitto, dal 1517 divenuta
parte del commercio interno dell’Impero, procedeva circumnavigando la penisola
anatolica, passava tra Rodi e la terraferma, superava Antalya, Alanya, Silifke,
per toccare poi Famagosta e quindi Beirut, Sayda e procedere verso sud[8].
Era la via principale attraverso cui anche molti prodotti del più
lontano oriente, della Cina, dell’India e della Persia giungevano in Occidente
sia, via terra, passando per Baghdad e Aleppo che, via mare, attraverso il Mar
Rosso. Nonostante la concorrenza portoghese, tale commercio non era
assolutamente di poco conto nella seconda metà del Cinquecento e ad esso
si sommava quello che portava i prodotti propri dell’Egitto a İstanbul.
Tale visione di un Mediterraneo, che venne fatta propria soprattutto dal gran
visir Sokollu Mehmed, portò gli ottomani a cercare anche vie alternative
a quelle tradizionali, come per esempio la costruzione, pur non attuata, del
canale di Suez o quella di un canale che unisse il Don al Volga per aver modo
di allontanare facilmente i moscoviti da Kazan e Astrakhan e discendere sul
Caspio, prendendo così alle spalle il proverbiale e indomito nemico
persiano. Se questo secondo tentativo venne portato avanti solo nel 1569, e poi
sospeso a causa della guerra di Cipro, l’idea del canale di Suez, già
proposta dai veneziani ai mamelucchi in funzione anti-ottomana nel 1504, venne
ripresa più volte nel corso del secolo nel 1531-32, nel 1568 e poi
ancora nel 1586[9].
Non appare quindi senza fondamento l’affermazione da
parte del sultano che tra le cause scatenanti la guerra vi fossero episodi di
attacchi a navi ottomane da parte di pirati o corsari. Alcuni di questi poi
determinarono una reazione più sentita di altri a corte. Se ne
può ricordare almeno uno in particolare: nel 1569 la nave dove era
imbarcato il defterdar (tesoriere)
d’Egitto venne attaccata e catturata dai pirati. Secondo Kâtip çelebi a tale
notizia Selim II ebbe un accesso di rabbia e ciò accelerò la
decisione di conquistare l’isola[10].
La rotta che univa İstanbul ad Alessandria aveva
però un’ulteriore particolarità per i musulmani: era una delle
vie utilizzate dai pellegrini per recarsi alle città sante di Mecca e
Medina. Parte dell’ascendente religioso fatto proprio dai sultani ottomani con
la conquista dell’Egitto (1517) dipendeva proprio dal loro essere diventati
servitori dei luoghi santi e quindi, come i sultani mamelucchi prima di loro,
anche protettori delle vie del pellegrinaggio. Tale attributo costituiva un
forte elemento di legittimazione sui musulmani. Non era quindi pensabile che un
pio sovrano islamico potesse permettere attacchi alle navi cariche di
pellegrini che frequentavano quella parte di mare[11].
Prima di scatenare una guerra contro uno stato con cui
era stato già stretto un accordo di pace occorreva avere non solo
consistenti ragioni geo-politiche o economiche, ma anche dei motivi da far
valere, sia a livello del diritto internazionale, sia di immagine nei confronti
dei
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sudditi.
A questo fatto si sovrappose la forza politica di chi non voleva la guerra,
cioè Sokollu, che tentò, finché ebbe un qualche margine d’azione,
di evitare il conflitto. I suoi contatti con il bailo veneziano lo spinsero a
tentare di ottenere pacificamente l’isola, con una spontanea cessione da parte
della Serenissima, possibilità abilmente sostenuta dal rappresentante
veneziano Marcantonio Barbaro, che riuscì in tal modo a ritardare di qualche
tempo lo scoppio delle ostilità, consentendo al Senato di non trovarsi
completamente impreparato al conflitto: il çavuº
Kubad portò dunque a Venezia quella che è la richiesta di
cessione dell’isola. I tentativi di Sokollu si scontrarono però sia con
l’intransigenza veneziana, sia con la forza del partito della guerra che ebbe
in questo momento un notevole supporto nella massima autorità religiosa
dello stato, cioè lo ºeyhülislam
Ebussuud, un’importante personalità dell’epoca che tenne tale incarico
dal 1554 al 1574.
La domanda che venne posta a Ebussuud per ottenerne un
responso giuridico fu se fosse giusto che un sovrano musulmano, eccitato da
zelo religioso, volesse togliere dalle mani di infedeli, con cui aveva
precedentemente sottoscritto una pace che si sarebbe venuta quindi
necessariamente a rompere, un paese anticamente terra d’Islam, in cui gli
infedeli avevano trasformato le moschee in chiese, opprimevano l’Islam e
riempivano il mondo di obbrobri? Nella fetva
che Ebussuud emise in risposta si ribadiva che un sovrano musulmano non poteva
stipulare legittimamente la pace con gli infedeli se non ne derivava utile e
vantaggio per tutti i musulmani. Se non si otteneva tale vantaggio, la pace non
era legittima e si doveva romperla nel caso si presentasse una qualche
utilità, durevole o passeggera. Così il Profeta sottoscrisse la
pace con gli infedeli ma poi la ruppe, attaccò gli infedeli e
conquistò la Mecca. Nella sua risoluzione di attaccare l’isola, il
“califfo di Dio” (Tanrı’nın
halifesi hazretleri) si sarebbe dunque adeguato ad imitare la sunna del Profeta[12].
Effettivamente l’isola di Cipro era stata terra d’Islam
nei primi tempi dell’Egira. Attaccata e saccheggiata da Mu‘âwiya nel 647 aveva
subito poi un altro attacco nel 653-54, era rimasta musulmana sino ai tempi del
califfo Yazîd (680-83) e anche in seguito aveva continuato a pagare tributo a
Damasco sino al periodo di al-Mansûr (754-75). A ricordo di quelle
antiche conquiste era rimasta la tomba di Umm Harâm, moglie di ‘Ubâda ibn
al-Sâmit e cugina del Profeta, riscoperta dagli ottomani nel XVIII secolo
presso Larnaca, dove fu allora costruito l’Hala Sultan Tekke. Alla prima
spedizione avevano infatti preso parte anche alcune donne in quanto Mu‘âwiya,
desideroso di conquistare l’isola, aveva ricevuto il permesso di recarvisi dal
califfo, che voleva essere sicuro della vittoria, solo nel caso vi avesse
partecipato anche sua moglie. Il comandante della spedizione quindi
partì non solo con la consorte ma anche con sua sorella e altri
musulmani lo imitarono. A quanto è dato sapere, tra le varie donne che
presero parte alla spedizione solo Umm Harâm ebbe la sfortuna di morire,
cadendo da un mulo, e quindi venne sepolta a Cipro[13].
Nella fetva di Ebussuud
appare anche di particolare interesse l’affermazione, non sottolineata e quindi
considerata quasi un fatto scontato, che il sultano fosse “califfo di Dio”; si
tratta di un’espressione densa di sottintesi religiosi che potrebbe ancora una
volta riaprire il
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dibattito
su come e quando i sultani ottomani si appropriarono del titolo di califfo, poi
abolito nel 1924[14].
Poiché i Lusignano si erano impegnati a pagare un tributo
di 8.000 ducati l’anno, l’isola di Cipro era, sotto il profilo del diritto islamico,
in qualche modo dipendente dal regno mamelucco. Infatti nel 1427 re Giano era
stato catturato dal sultano d’Egitto e aveva ottenuto la libertà solo
impegnandosi a pagare annualmente tale somma in stoffe preziose. Nel 1489,
quando Caterina Cornaro aveva abdicato in favore della Repubblica, tale impegno
era stato fatto proprio dai veneziani. Infine, nel 1517, Selim I aveva
conquistato l’Egitto e nel nuovo accordo di pace con Venezia il tributo venne
confermato, anche se esso doveva ora essere pagato non più in panni ma
in denaro. In epoca mamelucca la rendita che si ricavava dall’isola era
attribuita al mantenimento delle città sante di Mecca e Medina ed
è quindi possibile che quel tributo in stoffe veneziane, così
ricercate nei mercati d’Oriente, sia stato pensato anche per fornire
annualmente nuovi teli per coprire la Ka‘ba; era questo uno dei compiti che il
sultano d’Egitto aveva come protettore di quei luoghi per cui, come si è
detto, traeva una legittimazione del suo potere. Come erede dei mamelucchi il
sultano ottomano poteva dunque rivendicare anche un diritto ereditario
sull’isola e pensare di riattribuire le sue rendite alle città sante[15].
Partendo da tale prospettiva, si potrebbe quasi dire che
Cipro si trovava, così come Zante, altra isola veneziana per cui si
pagava tributo agli ottomani sin dal 1484, nella stessa posizione dei
principati di Valacchia o Moldavia, o anche della Repubblica di Ragusa,
formalmente terra d’Islam per gli ottomani, in base al tributo annuale che
pagavano, ma per il resto abbastanza liberi, almeno in politica interna. Le
varie zone che facevano parte dell’Impero infatti non avevano tutte il medesimo
status giuridico. Per esempio, in
base a quella che è stata definita la “teoria dei tre cerchi”[16],
negli stessi Balcani vi erano terre a dominazione diretta, come la Bulgaria, la
Tracia, la Macedonia e la Dobrugia, tutte strettamente legate al potere
centrale. A queste seguiva una fascia dove funzionava un’amministrazione
provinciale, formata dalla Bosnia-Erzegovina, il Montenegro, la Serbia,
l’Albania, la Grecia e anche l’Ungheria. Infine vi era il terzo cerchio formato
da principati semi-indipendenti, che pagavano tributo in quanto cristiani, come
appunto Ragusa, la Valacchia, la Moldavia e, in alcuni periodi, anche la Transilvania;
queste godevano di particolari privilegi, come quello di avere dei capi di
stato della stessa religione del popolo. Tali regioni potevano quindi dirsi
quasi sullo stesso piano del khanato di Crimea o dei luoghi santi di Mecca e
Medina che, pur essendo terra d’Islam, godevano anch’essi di uno statuto
particolare nell’ambito dell’Impero.
Sempre secondo gli storici turchi, un’ulteriore spinta
alla conquista proveniva dalla popolazione stessa dell’isola, stanca delle
vessazioni veneziane. La maggior parte degli abitanti, privati dei diritti
più elementari, erano obbligati a tre giorni di lavoro forzato la
settimana e inoltre dovevano pagare varie tasse, tra cui una da sola ammontante
a un quarto di tutto ciò che riuscivano a produrre in proprio. In tale
situazione riuscivano a stento a procurarsi di che vivere. Per la popolazione
cipriota di rito greco-ortodosso un altro elemento d’attrito con le
autorità
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veneziane
era il fatto di essere subordinata al rito latino. Dunque in opposizione a
quella veneziana, la dominazione ottomana, che i greci ben conoscevano essendo
ormai l’intera Rumelia conquistata da oltre un secolo, era caratterizzata da
una tassazione più contenuta, dall’esenzione per i cristiani dal
servizio militare e dalla libertà di culto[17].
Quanti hanno studiato invece soprattutto i documenti veneziani rifiutano una
situazione così deteriorata, sottolineando la continuità con il
comune passato cristiano, notando come vi furono anche possibilità di
miglioramenti economici per la popolazione e considerando come una “leggenda
nera” quella che vede in modo puramente negativo il periodo di dominazione
veneziana sull’isola[18].
2.
Favorevoli e contrari
Alla corte ottomana due erano i partiti che si
fronteggiavano nei rispetti di una nuova guerra volta a conquistare l’isola.
Tra i contrari sembra esservi stato solo il gran visir Sokollu Mehmed
pascià[19]. Questo
anziano ed esperto uomo politico, già gran visir durante gli ultimi anni
di regno del grande Süleyman, temeva il formarsi di una grande coalizione
cristiana che avrebbe potuto mettere in difficoltà l’Impero, che non
aveva altrimenti nulla da temere da un stato impegnato singolarmente. Per lui
obiettivi primari erano l’Ungheria e lo Yemen. Importantissima era ancora la
rotta che partiva dall’Egitto e scendeva lungo il Mar Rosso: frequentata tanto
da pellegrini quanto da navi cariche di spezie, prodotto ormai al centro
dell’attenzione anche dei legni portoghesi. La grande lotta con i cristiani si
doveva ormai combattere non più unicamente nel Mediterraneo, ma anche in
altre acque: il Mar Rosso, il progettato canale di Suez e quello tra il Don e
il Volga rientravano nell’ampia visione che Sokollu Mehmed aveva delle
priorità economiche e strategiche dell’impero che serviva. Sembra quasi
di poter affermare che fu lui il primo ad avere la visione di un “Mediterraneo
allargato”, in cui le rotte marittime e le vie carovaniere che univano oriente
e occidente avevano una precisa funzione strategica e commerciale: aveva
cioè coscienza che un’azione nel Golfo Persico, o nell’Oceano Indiano,
aveva ormai conseguenze nel Mediterraneo, e viceversa. Infine un altro problema
che gli sconsigliava la guerra era la difficile situazione in cui si trovavano
allora i mori di Andalusia, bisognosi d’aiuto anche militare in quanto
costretti ad abbandonare le loro terre dalla politica xenofoba del
Cattolicissimo.
Assieme a quella del gran visir non sembra si siano
levate altre voci contrarie all’impresa di Cipro. In particolare le fonti
tacciono sull’atteggiamento di Nur Banu, la potente sposa di Selim II, di cui
sono note le simpatie filo-veneziane, ma nello stesso tempo anche l’astio nei
confronti di Sokollu, che pure nel 1561-62 ne aveva sposato la figlia Esmihan.
Il gran visir dunque temeva una guerra lunga e costosa,
che avrebbe inoltre potuto sostenere le pretese a importanti cariche politiche
dei suoi oppositori interni, in massa favorevoli al conflitto. Gli altri
importanti personaggi erano allineati infatti sulla posizione di Selim II e
sulla
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necessità
di opporsi ai veneziani. Innanzi tutto vi era il compaesano di Sokollu, Lala
Mustafa pascià, già istitutore del sultano, che lo aveva
sostenuto nel momento della lotta con il fratello Bayezid per la successione al
trono[20].
Lala Mustafa aveva ricevuto allora la promessa del gran visirato, che non gli
era però stato poi conferito in quanto Selim confermò la sua
fiducia a Sokollu; comunque una vittoria eclatante a Cipro avrebbe certo messo
di nuovo in primo piano la candidatura di Lala Mustafa. Nel 1571 dopo lo scoppio
delle ostilità ottenne infatti il posto di serdar per quella campagna militare e venne quindi inviato alla
conquista dell’isola.
Il partito della guerra arruolava ancora lo ºeyhülislam Ebussuud, autore della fetva in favore dell’intervento armato e
che poi chiese ai cadì di organizzare preghiere collettive per i
combattenti in nome dell’Islam. Fu solo in un secondo momento che la sua
posizione si fece più morbida e si avvicinò maggiormente alla
linea sostenuta da Sokollu, ormai volta non tanto a evitare un conflitto
già scoppiato, quanto a trarne i maggiori vantaggi possibili. Dopo
questa crisi Ebussuud promise al gran visir, suo antico alleato fino a quel
momento, di non emettere in futuro più alcuna fetva contro di lui. Ancora a favore erano il terzo visir Piyale
pascià[21], esperto
uomo di mare che era stato allontanato dalla carica di kapudan pascià nel 1568 con l’accusa di aver trattenuto per
sé gran parte del bottino dell’ isola di Chio, e Pertev pascià, che
divenne poi serdar della flotta
imperiale durante la campagna estiva che culminò nella sconfitta di
Lepanto[22].
Anche a Venezia la decisione di rispondere negativamente
alle richieste presentate da Kubad, e quindi precipitare nel conflitto, non
venne presa a cuore leggero. Vi era certo chi voleva la guerra, anche per vendicare
la mancanza di fede alla parola data di Selim II che poco tempo dopo la sua
ascesa al trono, il 25 giugno 1567, aveva ratificato la pace con la Repubblica.
Comunque tra i senatori vi era anche chi desiderava cedere immediatamente
l’isola, per evitare le spese di una campagna che si annunciava lunga e costosa
e poter mantenere il ritmo dei commerci. Effettivamente in quel decennio il
flusso delle spezie che arrivavano a Rialto attraverso il Mar Rosso aveva
raggiunto nuovamente, dopo un lungo periodo di depressione, gli alti livelli di
un tempo; il trend commerciale era favorevole e si stavano riconquistando i
mercati tedeschi e italiani, con larghe aperture anche verso la Francia. Una
guerra avrebbe causato una crisi a tale espansione, come effettivamente
avvenne. Infine vi fu anche chi pensò di vendere Cipro alla Porta,
trasformando quindi in un affare quello che si preannunciava come un
dispendioso conflitto[23].
In poche ore tuttavia si giunse all’accordo sulla
necessità della guerra. Questa fu dunque la risposta che Kubad dovette
riportare a İstanbul. Dopo soli tre giorni di permanenza a Venezia, dal 27
al 30 marzo 1570, l’inviato poté ripartire in tutta libertà, secondo la
migliore prassi diplomatica. Rimase invece come ospite obbligato dei veneziani
un altro diplomatico ottomano, l’interprete Mahmud bey müteferrika, un tedesco di Passau convertitosi all’Islam che, dopo
l’avventura veneziana, sarebbe divenuto gran dragomanno della corte imperiale.
Giunto a Venezia il 17 gennaio 1570, con lettere che lo accreditavano presso il
re di Francia, e non presso il doge, era solo in transito per la città
lagunare quando vi venne trattenuto dalle lungaggini dell’ambasciatore
francese, che cercava di evitare a Parigi l’imbarazzante presenza di un inviato
del Gran Signore proprio quando si preannunciava un conflitto tra l’Impero
Ottomano e uno stato
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cristiano
con cui vi erano rapporti di amicizia. Arrestando Mahmud i veneziani sentirono
dunque di non violare alcuna prassi internazionale in quanto non si trattava di
un ambasciatore inviato presso di loro. Purtuttavia la notizia del suo arresto,
portata a İstanbul dallo stesso Kubad, determinò una immediata
reazione ottomana che si concretizzò negli arresti domiciliari per il
bailo Marcantonio Barbaro. L’interprete Mahmud venne poi trasferito nel
castello di San Felice di Verona, mentre i suoi servitori furono lasciati
liberi di abitare a Venezia. Lì rimase fino alla fine della guerra, e
venne rilasciato intorno al 1º maggio 1573, dopo che in Senato era giunta
la notizia della liberazione del rappresentante veneziano a İstanbul[24].
3. Le
vicende della guerra
Il 16 maggio 1570, subito dopo il ritorno di Kubad a
İstanbul, la flotta ottomana lasciò le acque del Bosforo.
Comandante in capo della campagna era il serdar
Lala Mustafa pascià, mentre a capo della flotta vi era il visir Piyale
pascià. Il 2 luglio venne conquistata Limassol, e si avanzò
immediatamente di una ventina di chilometri verso Larnaca. La fortezza di
Leftari si diede quasi subito, senza combattere. Per punire una simile
arrendevolezza i veneziani organizzarono una rappresaglia, ma la strage di
civili che ne seguì non fece altro che aumentare la disaffezione della
popolazione cipriota contro di loro. Il 3 luglio le armate ottomane
circondarono Larnaca, sia da terra che dal mare. Un pope greco aiutò
allora l’esercito nella sua avanzata e il giorno seguente la città venne
conquistata. Il 25 luglio si arrivò sino a Nicosia cui venne posto un
assedio che doveva durare a lungo; esso continuò per tutto agosto, anche
se gli uomini cominciarono a morire per gli assalti e le malattie. Per questo
Piyale pascià decise di assegnare alle operazioni di terra una squadra
di 20.000 uomini, formata sottraendo cento vogatori ad ognuna delle sue navi.
Il 9 settembre venne conquistata Nicosia e subito dopo Kyrenia e Baffo si
arresero. Piyale non poté però godere di una vittoria completa in quanto
tre delle sue navi che dovevano portare a İstanbul il bottino e gli
schiavi vennero fatte esplodere da una donna che era stata catturata, e che
preferì dar fuoco alla santabarbara piuttosto che finire schiava a
İstanbul. Il 16 settembre cominciò il lungo assedio alla fortezza
di Famagosta, che doveva protrarsi per più di dieci mesi. Il primo
agosto dell’anno successivo, dopo innumerevoli assalti e migliaia di vittime,
la città, accettato un accordo di resa, aprì le porte agli
ottomani[25].
Il tragico epilogo di questa vicenda si consumò il
5 agosto nella tenda di Lala Mustafa. La storiografia veneziana è
concorde ad attribuire all’improvviso e ingiustificato voltafaccia del serdar la tragica fine dei difensori,
anche se le fonti ottomane forniscono una versione diversa in molti particolari
significativi. Secondo quanto si racconta[26],
il comandante ottomano aveva accordato agli assediati di partire su 14 navi che
erano già state caricate. I veneziani andarono allora a salutare il
pascià che chiese però in ostaggio, per essere sicuro che le navi
gli sarebbero state rese, il più giovane del gruppo, Antonio Querini.
L’insolente risposta di Bragadin a questa richiesta fu “tu non puoi trattenere
un bey, e neppure un cane”. A simili parole Lala Mustafa si alterò e
chiese allora l’immediata liberazione dei cinquanta uomini, catturati sulla via
del pellegrinaggio dai veneziani all’inizio della guerra. In base al trattato
di resa questi dovevano
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essere
restituiti, ma Bragadin gli rispose “Ognuno apparteneva a un comandante e nella
notte della resa furono massacrati”. “E che ne facesti del tuo?” chiese allora
il serdar. “Quando gli altri uccisero
i loro, anch’io uccisi il mio” fu la risposta. Allora Lala Mustafa disse
“così hai violato l’accordo di resa”. Le cronache ottomane, molto
succinte ma ben documentate, tacciono innanzi tutto sulla vogliosa
concupiscenza di Lala Mustafa nei confronti di Antonio Querini, il cui mito
nacque comunque solo con l’opera di Giustina Renier Michiel[27];
l’indicazione della sua persona come ostaggio da trattenere, rientrava
semplicemente nell’uso di utilizzare a questo scopo i più giovani,
generalmente figli di re o di importanti personaggi. Comunque le due
storiografie divergono soprattutto relativamente al comportamento dei
protagonisti. Per Peçevî le cause dell’eccidio non sono da ascrivere tanto al
voltafaccia del serdar, quanto
all’atteggiamento sprezzante di Bragadin, che era comunque lo sconfitto, e,
soprattutto, a venir meno alla parola data non furono gli ottomani quanto i
veneziani, che avevano passato a fil di spada i prigionieri inermi dopo averne
garantito la restituzione; tali versioni, di cui tra le righe accennano anche i
contemporanei come il Paruta[28],
in quanto catturati durante il pellegrinaggio, erano rivestiti di quell’aurea
sacrale di cui si è già accennato. Seguì dunque la
vendetta del pascià; dieci comandanti veneziani vennero uccisi sul posto;
Bragadin fu orrendamente torturato e crudelmente ucciso qualche giorno dopo. Si
salvò invece Ercole Martinengo, che venne nascosto dal capo degli
eunuchi finché la furia del pascià non si fu calmata. Venne poi evirato,
ma riuscì a fuggire qualche anno dopo e, con l’aiuto del bailo,
tornò a Venezia[29].
Cipro divenne allora il simbolo dell’Impero cosmopolita,
tanto che gruppi delle varie etnie viventi sotto la Porta vi vennero
trasferiti. Posta in un primo momento alle dipendenze dirette dell’amministrazione
centrale, l’isola venne poi trasformata, a causa della sua importanza
geo-strategica, in provincia autonoma e le vennero annessi anche alcuni
sangiaccati della costa anatolica. Il lavoro forzato per i contadini venne
abolito, la gerarchia cattolica soppressa e la chiesa greca fu restaurata sotto
il suo arcivescovo, trasformato nel capo della comunità greca, molto
più autonoma rispetto alla Porta di quanto non lo fosse stata nei
confronti di Venezia[30].
4. La
battaglia di Lepanto
La guerra non era però ancora terminata. La flotta
ottomana incrociava ancora nelle acque del Mediterraneo e, all’inizio di quella
campagna estiva, aveva ricevuto l’ordine di cercare e attaccare quella nemica.
Ormai molti mesi erano trascorsi dall’inizio delle operazioni, ma nessun
contatto era ancora avvenuto. Le prime galee avevano preso il mare in febbraio,
inviate a contrastare i veneziani che stavano ammassando i loro legni a
Corfù. Il 21 marzo il kapudan pascià,
Müezzinzade Ali pascià, aveva lasciato İstanbul con altre trenta
galee. Questo comandante era stato presente anche l’anno precedente all’assedio
di Nicosia, dove aveva comandato un grosso contingente. Il secondo visir,
Pertev pascià, era partito invece il 4 maggio con 124 galee e con il
titolo di serdar. A maggio il terzo
visir, Ahmed pascià, aveva lasciato la capitale con l’esercito per
supportare con operazioni terrestri la flotta impegnata tra la Grecia e
l’Adriatico. Il 9
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maggio
le navi di Pertev pascià si erano unite a quelle di Müezzinzade Ali
pascià e erano cominciate le operazioni congiunte con vari raid nello
Stato da Mar veneto. In settembre, non riuscendo a incrociare la flotta
veneziana, e ritenendo ormai che i cristiani dopo aver rifuggito lo scontro per
tanti mesi non avessero il coraggio di mettersi alla prova, si era pensato di
smobilitare la flotta. Allora i sipahi
erano stati in parte sbarcati e si era cominciato a preparare il campo
invernale.
La flotta cristiana, però, dopo aver superato
notevoli contrasti, era ormai riuscita a riunirsi e a far vela verso est. La
battaglia tra i due schieramenti avvenne il 7 ottobre. In poche ore i legni
ottomani vennero distrutti o catturati. Müezzinzade Ali pascià venne
ucciso, Pertev pascià si salvò a nuoto, e solo Uluç Ali, il
comandante di uno dei contingenti barbareschi riuscì a salvare le
proprie navi e a tornare con un paio di prede a İstanbul[31].
Se le fonti occidentali si dilungano nell’esaltare tale battaglia, vista come
la prima grande sconfitta ottomana e l’inizio di un riscatto della
Cristianità, in generale le fonti ottomani passano quasi sotto silenzio
quella che pure venne allora chiamata la sıngın
donanma, la “flotta dispersa”.
Gli storici si dilungano un po’ di più nel
ricercare le cause della sconfitta e nel sottolineare le immediate risposte del
governo. Si considera allora il fatto che la flotta era partita presto, che le
ciurme erano esauste dopo tanti mesi di mare, che i sipahi, cioè buona parte della forza combattente, erano
già stati in parte sbarcati e che l’attacco dunque venne portato quando
ormai non lo si aspettava più e si considerava conclusa la campagna per
quell’anno. Inoltre si sottolinea l’inesperienza delle cose di mare soprattutto
del kapudan pascià, che era
stato a capo dei giannizzeri, ma mai di un contingente di navi, e di Pertev pascià,
pure uomo di eserciti di terra e non di mare; entrambi avevano disprezzato la
tattica proposta, in quelle ore concitate che avevano preceduto la battaglia,
da Uluç Ali, uno dei pochi che, in un posto di comando, sapeva come si sarebbe
potuto svolgere un combattimento navale. Müezzinzade dunque aveva sbagliato
completamente l’attacco, gettandosi a capofitto contro le navi veneziane armate
di cannoni come mai ci si sarebbe immaginato, poste proprio al centro dello
schieramento. Le condizioni metereologiche, favorevoli ai cristiani, avevano
poi fatto la loro parte contribuendo alla sconfitta.
La sıngın
donanma dunque pose fine a İstanbul a un periodo di euforia
determinato soprattutto dal veloce e favorevole esito delle operazioni di
guerra. Comunque, una volta giunta alla capitale la notizia, la popolazione non
sembra ne sia rimasta particolarmente colpita; ben diverso atteggiamento e
panico collettivo si sarebbero visti poco meno di un secolo dopo quando le navi
veneziani, all’inizio della guerra di Candia, arrivarono sino ai Dardanelli.
Dopo Lepanto la reazione degli organi centrali fu invece immediata ed efficace.
Mentre la flotta cristiana cominciava a disperdersi e le speranze di ricavare
un qualche utile materiale, e non solo di immagine, dalla vittoria andavano
affievolendosi tra i governanti veneziani, la Porta diede ordine a Uluç Ali di
riunire le galee disperse e porsi a guardia tra la Grecia e Scio. Ahmed
pascià, beylerbeyi di Rumelia,
ebbe invece l’incarico di reclutare soldati e di metterli a guardia delle
fortezze, di ispezionare l’area intorno a Prevesa e di recarsi poi in Morea.
L’ordine era di rimproverare i soldati che avevano abbandonato il campo di
battaglia, ma di non punirli e anzi cercare di riorganizzare le loro fila.
Anche ai cadì del Montenegro fu detto di mettere sentinelle nei luoghi
più esposti e di completare le guarnigioni dei fortini. A chi era
guardia degli Stretti, di Rodi e di Modone venne ordinato di stare all’erta.
Non si poteva infatti immaginare che la flotta
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cristiana
si sarebbe sciolta così in fretta e si temeva un attacco. L’isola di
Cipro, ritenuta il punto più debole, venne rafforzata con l’invio di
vari beylerbeyi e reis con i loro armati. Uluç Ali e
Sokollu Mehmed pascià ebbero l’ordine di ricostituire la flotta durante
i mesi invernali. Vennero messi a loro disposizione tutti gli arsenali
dell’Impero, una grande quantità di denaro e si ricorse anche
all’utilizzo di legname fresco per degli scafi pensati in quelle ore
drammatiche non tanto per durare degli anni quanto per essere pronti a
primavera[32].
5. Dopo
Lepanto
La sconfitta di Lepanto non creò quindi nessuna
massiccia reazione popolare nell’Impero. Le navi ottomane ripresero entro pochi
mesi a pattugliare il Mediterraneo come avevano fatto fino a quel momento. Dopo
tutto l’isola di Cipro era stata conquistata come ci si era prefissi all’inizio
delle ostilità[33].
Ben più gravi furono invece le conseguenze per la
Repubblica tanto da spingere il Consiglio di Dieci a sottoscrivere la pace con
il sultano il 7 marzo 1573, all’insaputa dello stesso Senato. L’intervento nei
negoziati del medico ebreo Salomone Ashkenasi[34]
contribuì a eliminare i sospetti di un complotto di quella nazione
contro Venezia e l’attività dei mercanti ebrei riprese. La crisi
investì però in generale il commercio, con la perdita dei porti
di Cipro che stavano sulla rotta verso la Siria; inoltre i prodotti dell’isola,
e soprattutto il sale che era sia zavorra per le navi sia prodotto di sicura
redditività, vennero a mancare. Le perdite di legni durante il conflitto
vennero a pesare anche sul traffico mercantile. Inoltre altre nazioni
approfittarono delle ostilità per farsi largo nello spazio mediterraneo.
Non solo la bandiera francese aveva spesso sostituito quella veneziana durante
la guerra, ma ormai anche inglesi e olandesi cominciarono a competere come
vettori commerciali sempre più agguerriti. La peste, che colpì la
città lagunare tra il 1575 e il 1577, venne a rendere la situazione
economica ancora più precaria, mentre il sacco di Anversa del 1576 spinse
gli inglesi a interessarsi sempre più direttamente del Mediterraneo,
appoggiandosi sul porto di Livorno che divenne in poco tempo un importante
scalo[35].
Nel 1574 gli ottomani ripresero Tunisi agli spagnoli.
Questa conquista, assieme alla tregua del 1580 tra i due imperi, segnarono
secondo molti storici l’uscita del Mediterraneo dalla grande storia. La
battaglia di Lepanto, pur così sentita a livello di immagine, non
avrebbe contato invece più di tanto sul piano della politica internazionale.
Essa non impedì infatti agli ottomani di vincere la guerra e raggiungere
gli obiettivi che si erano fissati, cioè la conquista di Cipro,
l’eliminazione di possibili ancoraggi per i pirati e corsari cristiani e una
maggior sicurezza per la rotta che univa İstanbul all’Egitto[36].
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Stranamente però tutti i protagonisti favorevoli
al conflitto non trassero grandi vantaggi dalle loro imprese. Jossèf
Nassì perse probabilmente allora con il titolo di duca di Nasso anche il
favore del sultano, e morì poco dopo. Lala Mustafa pascià non
ottenne il tanto agognato posto di gran visir, né allora né in seguito. Anzi
venne accusato di aver perso troppi uomini durante gli assedi alle fortezze
dell’isola e venne allontanato per alcuni anni dalla scena politica, sulla
quale riuscì tornare solo nel 1577. Piyale pascià, accusato di
aver perso alcune navi, venne allontanato dal potere già alla fine del
1570, nonostante anche lui avesse sposato una figlia di Selim II. Il kapudan pascià Müezzinzade Ali
pascià, perì durante la famosa giornata. Pertev pascià,
fuggito in quelle ore a salvamento, ritornato alla capitale venne posto in
pensione, salvando la testa solo grazie ai buoni uffici di sua moglie, che era
legata all’entourage dell’harem
imperiale. Morì il 7 ottobre del 1572, esattamente un anno dopo la
battaglia che aveva posto fine alle sue aspirazioni politiche. Anche il sultano
Selim II non poté godere a lungo dei frutti della vittoria, venendo a morte nel
1574 per una caduta accidentale nel bagno[37].
Sokollu Mehmed pascià invece, era e rimase gran
visir fino al 1579, quando venne assassinato da un bosniaco. Nonostante prima e
durante la guerra la sua posizione fosse stata fragilissima all’interno
dell’entourage imperiale, fu l’unico a mantenere la propria carica, mentre i
suoi oppositori vennero tutti, uno ad uno, estromessi. In effetti, una volta
che la guerra venne decisa, Sokollu non cercò certo di evitarla; pur
senza dimenticare la diplomazia e i segreti contatti con il rappresentante
veneziano, si allineò nei fatti con quanti la combattevano e anzi
utilizzò proprio la guerra per allontanare i suoi nemici dal potere
combattendo contemporaneamente altre battaglie, più sorde e nascoste,
tra le mura del Palazzo imperiale. Qualche storico turco[38]
ha avanzato l’ipotesi che, dopo tutto, il gran visir avesse previsto, forse
addirittura favorito, o almeno fatto conto, di una possibile sconfitta sul mare
in quell’anno di grazia 1571. Essendo stato un tempo kapudan pascià aveva
una qualche esperienza delle cose di mare, eppure la flotta venne allora
affidata a due comandanti entrambi digiuni di marineria. Già in
precedenza Sokollu aveva utilizzato il sistema di assegnare importanti
incarichi a chi poi non era stato in grado di portarli a termine,
compromettendo così la loro carriera politica. Per esempio intorno al
1569 aveva nominato proprio Lala Mustafa pascià serdar in Yemen, carica che quasi portò alla rovina quel
pascià, salvato solo dalla sua amicizia con Selim II; nel 1577 invece,
per la campagna di Persia, vennero nominati serdar
sia Lala Mustafa sia il suo rivale Sinan pascià; entrambi aspiravano al
gran visirato che però, anche in quella occasione, rimase saldamente
nelle mani di Sokollu. All’inizio della campagna estiva del 1571 poi l’ordine
perentorio ai due comandanti fu quello di cercare ovunque e attaccare la flotta
nemica. D’altronde per un impero nato da un gruppo di cavalieri nomadi e
abituato soprattutto a vincere con le armate di terra, una sconfitta sul mare
poteva anche essere considerata di secondaria importanza. Forse Sokollu non
aveva previsto il disastro che avvenne, ma certo sapeva che lo stato era saldo
e che si sarebbe trattato certo solo di un episodio circoscritto, che gli
avrebbe permesso di liberarsi dei suoi ultimi avversari politici, e che, in definitiva,
la guerra era già stata vinta e Cipro conquistata. L’unico che non aveva
voluto il conflitto ne risultò alla fine il vero vincitore.
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