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Istituto Romeno’s Publications
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Quaderni 2004
p. 447
Mondo visibile, mondo invisibile (visioni dell’invisibile nella
letteratura contemporanea: Roberto Deidier e Mircea Cãrtãrescu)
Catrinel Popa,
Accademia di Romania in Roma
“Le
regard s’en tient difficilement à la pure constatation des apparences.
Il est dans sa nature même de réclamer davantage. A la vérité, cette
impatience habite tous les sens […] Goethe l’a dit dans une elégie célébre: les mains veulent voir, les yeux souhaitent
carésser. A quoi l’on peut ajouter: le regard veut devenir parole, il
consent à perdre la faculté de percevoir immédiatement, pour acquerir le
don de fixer plus durablement ce qui le fuit. En revanche, la parole cherche
souvent à s’éffacer pour laisser la voie libre à une pure vision,
à une intuition parfaitement oublieuse du bruit des mots. En chaque domaine les plus hauts pouvoirs semblent être ceux qui
détérminent une brusque et boulversante substitution”[1].
1. Alcune
considerazioni teoriche preliminari. Uno degli aspetti fondamentali della letteratura
dei nostri giorni consiste nel non conservare più la tradizionale
classificazione dei generi letterari. Il fatto non è più
sorprendente, se pensiamo che anche la distinzione fra la cultura alta e quella
di bas-étage è già
stata superata, venendo sostituta da una disponibilità senza confine.
Nel postmoderno, la parola essenziale sembra essere l’impurità, secondo il famoso titolo di Guy Scarpetta. In
questo regno degli ibridi, dell’eclettismo illimitato, dove non solo tutte le
forme dell’arte contemporanea si possono amalgamare a caso, ma anche le forme
storicizzate del passato entrano in combinazioni inaspettate, la propensione
verso la narratività dimostra, anzitutto, l’esaurirsi di quella
direzione che Octavio Paz aveva definito come “la tradizione della rottura”.
Nel caso particolare della poesia odierna, questa apertura può essere
anche una possibilità di conquistare (o forse di riconquistare) un
numero più grande di lettori, dato che altrimenti il suo pubblico
rischia di diminuire considerevolmente.
Non è più un segreto per nessuno che nella
modernità i confini della poesia si siano ristretti straordinariamente,
come forse mai era avvenuto in passato, fino a coincidere con quelli della
lirica. Alfonso Berardinelli aveva ragione quando sosteneva che “anche le
poetiche inclusive e dilatanti come quelle di Whitman e di Rimbaud,
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antiintellettualistiche
e vitalistiche, hanno aperto la via alla enumerazione caotica e alla scrittura
automatica: cioè a quelle forme di estremismo antidiscorsivo che hanno
finito per consolidare una separazione netta, ontologica, di principio, fra
poesia e prosa, fra un uso essenziale
del linguaggio e un uso strumentale o relazionale, portando alla definizione
formalistica e jakobsoniana di una funzione poetica di linguaggio, distinta da
tutte le altre funzioni”[2].
Nella teoria letteraria romena, Gheorghe Crãciun, critico
e prosatore importante, appartenente alla cosiddetta generazione degli anni
ottanta, ha formulato, a sua volta, una difesa della “poesia transitiva”,
cioè una poesia prosaica, composta di immagini prosaiche, e dove il
senso può risultare spesso dalla dinamica dei denotati: “Esiste, invece”, scriveva Crãciun, “una poesia della
comunicazione aperta, diretta, immediata che rifiuta la trasfigurazione del reale,
cioè la trasposizione nel piano ambiguo, opaco e oscuro della figura o
del simbolo”[3]. In modo
simile Matei Cãlinescu, uno dei più importanti teorici del postmoderno,
attualmente stabilito negli Stati Uniti, notava che, mentre gli standard della
composizione moderna dovrebbero essere cercati nella lirica, nel suo carattere
indipendente e autonomo, incompatibile con il trasferimento linguistico, quelli
della composizione postmoderna, sarebbero, per eccellenza, associati con la
finzione e il narrativo. Si può facilmente indovinare in tutte queste
prospettive teoriche, un senso di allontanamento dai criteri rigidi, da un
lato, e dall’altro, un’apertura verso una pluralità di strade possibile.
Il concetto stesso di “linguaggio poetico”, come è stato pensato e
teorizzato a partire dagli anni trenta (da Béguin, Raymond e Hugo Friedrich,
fino a Cohen e Genette), è attualmente rivalutato, o –con una formula
che va di moda– decostruito.
La norma della poesia moderna era, come quasi
cinquant’anni fa aveva mostrato Hugo Friedrich, la deviazione da ogni norma,
cioè antirealismo, fantasia dittatoriale, autoreferenzialità,
testualità pura, evasione dalla semantica, automatismo psicolinguistico,
enigma e oscurità. Come è ben noto, il critico tedesco
riaffermava così la volontà di autosufficienza della poesia che
si tradurrebbe anzitutto nel suo sottrarsi deliberatamente a qualsivoglia
istanza comunicativa. Oggi, non è difficile renderci conto che questa
visione della lirica moderna è stata più un mito
teorico-polemico, che una realtà. “Quando la poesia moderna si accosta a
delle realtà, cose o uomini –scriveva Friedrich– non le tratta
descrittivamente, né col calore della familiarità nel vedere e sentire.
Le porta nella sfera del non-familiare, le estranea, le deforma”[4].
Questa visione trova un’associazione immediata con il romanticismo ottocentesco
e ha, ovviamente, radici molto più antiche. Ma, purtroppo, oltre a tutti
questi rilevanti contributi che concorrono a formare il complesso della lirica
moderna europea, rimangono pur sempre fuori dal panorama della poesia moderna
altre vaste e significative zone del fare poetico.
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È
per questo che Berardinelli insiste sulla necessità di mettere in
discussione “la priorità del momento lirico”, chiamando in causa proprio
l’opera (saggistica e poetica) di T. S. Eliot. Ribaltando la funzione del
plurilinguismo eliotiano, il critico italiano sostiene che essa “si presenta
come negazione della lirica in quanto prima
voce della poesia”[5].
C’è un argomento forte nell’individuazione di quello che è,
secondo Berardinelli, l’aspetto centrale del problema, cioè l’apporto
della prosa al discorso poetico. Il peccato originale di Friedrich sarebbe
quello di essersi lasciato “sfuggire questa controtendenza, questa attrazione della
poesia verso la prosa”[6].
Il postmoderno invece, uscendo definitivamente
dall’influsso (oppure dalla tutela) di quelle poetiche fondate su una coscienza
storica di tipo monistico, cerca di avvicinarsi a quei valori di scambio,
cioè a quei valori addomesticati (tamed,
secondo la formula di un altro critico americano di origine romena –si tratta,
stavolta, di Virgil Nemoianu– che permettono al poeta il recupero della propria
voce anche in mezzo al rumore, comunque senza utopie di riscatto. Essenziale
resta fuoriuscire dalla parola onirica e opaca, per recuperare il narrato e
quindi il ricordo, la propria esperienza individuale in quanto esperienza vissuta, come esperienza viva
e perciò comunicabile. Vincenzo Bagnoli aveva ragione quando notava che
oggi molti poeti “scrivono per restituire un dialogo con sé e con l’altro che
si andava estinguendo, in un recupero della comunicazione in senso pieno,
etico”[7].
Dall’altra parte, dobbiamo riconoscere che ogniqualvolta
si tratta della creazione letteraria, l’accesso all’esperienza vissuta, il
contatto con le cose stesse sono possibili solo attraverso le parole, quindi
attraverso un linguaggio che anche nella sua variante prosaica, colloquiale,
denotativa, rischia di produrre dei fantasmi. L’ossessione di Cratilo ci segue
ancora. […] Comunque, è affascinante analizzare non solo quei
meccanismi, quelle strategie testuali che funzionano come filtri tra il mondo
scritto e quello non scritto, ma anche i cambiamenti avvenuti nella percezione
stessa. Il fatto che oggi la distanza che li separava tende a diminuire –da un
lato e dall’altro– può costituire anche una sfida: leggo la poesia
perché mi interessa verificare, ad esempio, come si pone chi scrive nei
confronti del mondo, come intende trasformarlo attraverso le parole, e trasformare
se stesso mentre scrive. Arrivati a questo punto, devo confessare che mi viene
in mente un’ affermazione che Paul Ricoeur faceva nel capitolo Narrativité et référence del primo
volume della sua famosa trilogia:
“Le langage est orienté au-delà de lui-même: il
dit quelque chose sur quelque chose; le langage ne constitue pas un monde pour
lui-même. Il n’est pas du tout un monde; parce que
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nous sommes dans le monde et affectés par des situations […] nous avons
quelque chose à dire, une expérience à porter au langage et
à partager”[8].
Quindi, non solo le opere letterarie non producono copie
povere della realtà e niente di più, come credeva Platone, ma a
loro modo l’arricchiscono di tutte quelle significazioni che loro stesse devono
ai meccanismi testuali (alla mise en
intrigue, secondo la formula di Ricoeur). E, soprattutto, l’essenziale
resta il senso dell’esperienza condivisa, il modo nel quale mondi differenti
sviluppano un dialogo attraverso lo schermo di parole e di concetti. Con
argomentazioni valide la mediazione linguistica è stata considerata
molto tempo inesaudibile. Ma qual’è lo statuto teorico di questa
mediazione? Dobbiamo pensare al linguaggio come a uno schermo invalicabile,
posto tra noi e gli oggetti? E questo schermo sarebbe costituito da un insieme
di rappresentazioni convenzionali e dunque opache dal lato del referente? A
queste domande prova a rispondere Giovanni Bottiroli[9],
mostrando che le prospettive teoriche più notevoli oscillano –proprio
come i “prodotti” della letteratura– tra il legittimare realista e l’arbitrario
esibito con disinvoltura (cioè la metaletteratura). Secondo lo studioso
italiano, la rigidità di tale alternativa è diventata un luogo
comune della modernità, altrettanto che della postmodernità. La
sua osservazione è, senz’altro giusta, ma con la specificazione che nel
postmoderno la cosiddetta metaletteratura rappresenta spesso più che una
questione di stile, dal momento che oggi, quanto abbiamo una consapevolezza
acuta che la realtà stessa è essenzialmente divisa, ciò
che conta è provare, anzitutto, a trarre qualche vantaggio da questa
difficile situazione.
Italo Calvino ha osservato, a suo turno, la
convenzionalità di tali categorici distinzioni:
“La mente dello scrittore è ossessionata dalle contrastanti
posizioni di due correnti filosofiche. La prima dice: il mondo non esiste;
esiste solo il linguaggio. La seconda dice: il linguaggio comune non ha senso;
il mondo è ineffabile”[10].
È ovvio che entrambe le posizioni hanno forti
argomenti dalla loro, ma come giustamente osservava Calvino, per lo scrittore
entrambe rappresentano una sfida (soprattutto in quanto nella pratica
letteraria non è possibile seguirle tale
quale). Da un lato l’estetica strutturalista esige l’uso di un linguaggio
che risponda solo a se stesso, alle proprie leggi interne, rinunciando
definitivamente a ogni “illusione referenziale”, dall’altro il “realismo”
attribuisce al mondo una priorità assoluta (trascurando il dettaglio
essenziale che un mondo rappresentato è, finalmente, “un mondo fatto di parole, usate secondo le
tecniche e le strategie proprie del linguaggio”[11].
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Tenendo conto di quello che abbiamo detto finora,
possiamo concludere queste brevi considerazioni teoriche, notando che gli
aspetti più notevoli che accompagnano il rinnovo dello sguardo poetico
(e, nello stesso tempo, l’orientamento evidente della nuova poesia verso la
prosa ), sono:
1) il passaggio da una dominante epistemologica ad una
dominante ontologica;
2) un approccio essenzialmente visivo a un mondo inteso
come superficie, che si pone cioè semplicemente sul piano dei fenomeni,
dato che non si può più parlare di un centro, di un nocciolo duro
delle cose;
3) una
mutazione profonda e originale delle forme di percezione e di piacere.
Brevemente, nella sua versione “debole”, il postmoderno
sarebbe non solo una reazione alla perdita del piacere della lettura, del
favolare (o dell’affabulare), della digressione e cosi via, ma anche una
modalità di recuperare quella sensazione –della quale parlava Italo Calvino–
“che sei qui, ma potresti non esserci, in un mondo che potrebbe non esserci ma
c’è”[12].
2. Testi e contesti.
Nella poesia contemporanea non sono pochi gli esempi di autori che usano
procedimenti narrativi (in Italia questa direzione è ben rappresentata,
da un filone che, nel secondo Novecento, va da Pasolini e Pagliarani,
attraverso Maurizio Cucchi e Tommaso Ottonieri, fino a Roberto Deidier e
Serafino Murri). Anche nella cultura romena possiamo trovare caratteristiche
narrative, non solo nella poesia della cosiddetta generazione degli anni ‘80,
ma anche nei versi di Geo Dumitrescu, Leonid Dimov, Petre Stoica o Mircea
Ivãnescu. Certo che spesso le cause e le implicazioni di questi tentativi
differiscono da una cultura a l’altra, ma sicuramente un movimento verso la
prosa (accompagnato da un approccio visivo al mondo) è l’elemento comune
di alcuni degli ultimi nuovi scrittori.
Come è ben noto, in Italia, Pasolini è
quello che ha inventato un nuovo (e molto efficace) organismo stilistico. Si
tratta del poemetto ideologico-autobiografico in prosa, una sorta d’articolo di
poesia, che ha una cruciale importanza in quanto riguarda il rapporto fra
lirica e generi letterari epico-drammatici. Sopratutto nelle Lettere luterane si può
facilmente osservare come la perenne dicotomia pasoliniana tra ideologia e passione (che costituisce, senza dubbio, uno dei luoghi di massima
tensione nella creazione pasoliniana), si materializza in una scrittura che
aspira a coincidere con la realtà stessa[13].
In secondo luogo, dobbiamo ricordare l’esperienza di un
altro poeta che ha avuto (per quanto riguarda il rapporto che ci interessa qui)
atteggiamenti molto simili a quelli di Pasolini. Si tratta di Elio Pagliarani,
che –a differenza di Pasolini, comunque–
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appartiene
piuttosto alla “nuova avanguardia” che allo “sperimentalismo realistico”
(secondo la classificazione di Eduardo Sanguineti). Ad ogni modo, dalla Ragazza Carla (1962), alla Ballata di Rudi (1995), per costruire i
suoi poemi, Pagliarani ricorre a personaggi motori, intorno a cui fa girare gli
altri personaggi e costruisce una storia. Alfonso Berardinelli aveva ragione
quando affermava che la tradizione di Pagliarani era quella “del poema
teatrale, del monologo drammatizzato e della ballata (un po’ come in
Majakovskij, Eliot e Brecht)”[14].
Si tratta dunque di una poesia che castiga la liricità, assorbendola
più o meno nella dimensione quotidiana del vissuto, nella linea di
quella neoavanguardia che è stata definita “realistica”, e che appare
molto attenta –come più tardi alcuni membri del Gruppo ‘93– a far
confrontare il linguaggio comune con quello letterario.
Resta senza dubbio che questo tipo di sperimentalismo
formale non è che l’altra faccia della crisi della funzione poetica e
anticipa quello di Maurizio Cucchi, Milo de Angelis, Nanni Cagnone, Angelo
Lumelli e Michelangello Coviello. Si realizza così un trait-d’union sui generis fra due
generazioni di poeti lombardi.
Per quanto riguarda la “poesia” di Maurizio Cucchi,
ciò che colpisce anzitutto è la stessa tendenza a uno scrivere
narrativo e prosastico, in uno pseudoracconto di vicende minime, “in
registrazione di anonima quotidianità, incisa su un nastro magnetico
difettoso”[15]. Basta
citare un breve frammento di Glenn,
per osservare i legami tra parola e realtà, tra esperienza e racconto
dell’esperienza:
“Mentre è in posa, l’adorabile piccolo, vestito di
bianco, col capelluccio a visiera e il giornalino a fumetti nelle mani, piega
leggermente, flessuoso la gamba sinistra e il ginocchio sporge appena. Temo
però che la sua fantasia sia assai mediocre, l’attitudine al fare
inconsistente. La sua curiosità non è, purtroppo, manifesta, non
guarda attorno, non scruta i meccanismi. Ma è tenero e si commuove;
sente profondamente”[16].
Quindi, l’orientamento della poesia verso la prosa
è molto più antico del postmoderno … Tuttavia –anche se questa
tendenza non fosse una scoperta dei postmoderni– loro hanno, invece, portato un
senso di consapevolezza a proposito dell’uso delle tecniche letterarie
afferenti, che mancava prima.
Adesso, per
capire meglio come si articolano i segmenti che compongono il mondo
(in)visibile della poesia di Mircea Cãrtãrescu, sarebbe interessante passare in
rassegna le caratteristiche del contesto nel quale è comparsa la poesia
romena degli anni ‘80. Negli ultimi anni, i critici romeni hanno parlato tanto
del carattere di risposta, di reazione polemica della poesia contemporanea
(soprattutto della poesia emersa pochi anni prima dalla rivoluzione del
dicembre 1989), del suo raddoppiato sovversivismo (contro una realtà
politica aberrante e, nello stesso tempo, contro la tradizione letteraria
p.
453
immediata,
rappresentata dalla generazione precedente –cioè dalla cosiddetta
generazione ‘60-’70– quella di Nichita Stãnescu, Ana Blandiana, Ioan Alexandru,
Marin Sorescu e così via dicendo. Oggi, credo sia arrivato il momento di
leggere la poesia di Mircea Cãrtãrescu, ad esempio, mettendo tra parentesi
–almeno per un certo tempo– considerazioni di questo tipo. È vero che il
contesto iniziale è un elemento cruciale per lo storico letterario,
è vero che la tragedia di quasi cinquant’ anni di comunismo non
può e non deve essere dimenticata, ma quello che infirma la supposta
peribilità di questo tipo di poesia è proprio il fatto che oggi
possiamo leggerla fuori di ogni contesto. I testi di questi poeti sembrano
qualche volta psichedelici e sognanti, come quelli dei Pink Floyd o Led
Zeppelin, “lo specchio portato lungo di uno specchio” (secondo l’espressione di
Cãrtãrescu), non è, infatti, obbediente, ma spesso non fa altro che
rispecchiare quello che era già riflesso. Così, è
praticamente, tematizzata la problematicità del rapporto tra i diversi
mondi possibili e l’inutilità delle frontiere fra i diversi modelli
della realtà. La letteratura postmoderna insiste sullo statuto
ontologico del mondo, sull’interferenza delle diverse (e spesso anche
divergenti) regole della realtà, mette in scena la tensione fondamentale
tra la finzione e la dizione, secondo la formula di Gérard Genette. E per
questo che essa ha bisogno della respirazione ampia della prosa, per
circoscrivere questa irrefrenabile e spesso imprevedibile dinamica,
identificabile anche negli scritti di alcuni dei giovani autori italiani. Non
per caso Alfonso Berardinelli affermava che “anche nei poeti, quello che ci
interessa di più non sono i loro versi, ma la loro prosa, o quelle opere
poetiche che sono più vicine alla prosa, e che potrebbero essere
riscritte oggi in prosa”[17].
Solo così possiamo acquistare un senso della complessità e della
diversità del mondo visibile e, in più, possiamo partecipare a
quel segreto movimento che unisce visione e idea, soggetto e oggetto ecc., in
un’unica rete d’esperienze, dato che alla radice dell’invenzione dell’invisibile
sta la partecipazione al concreto, sta l’osservazione di quanto contiene
già nella sua esteriorità le effigie di un contrasto
problematico.
3. La prassi e la
teoria. Nella poesia (italiana e romena) degli ultimi anni si può osservare
un’attenzione estrema riservata all’inquadratura, allo sguardo, che è
possibile ravvisare non solo nei versi di alcuni nuovi scrittori, ma anche nei
loro testi teorici, (tenendo conto del fatto che gran parte di loro sono non
solo poeti, ma anche studiosi). Ciò che dimostra, anzitutto, come notava
Vincenzo Bagnoli, il carattere decisamente materialistico e “solo parzialmente
sovrapponibile al concetto di inventio”[18]
della nuova produzione poetica, riconducendo piuttosto a un’idea di lavoro
produttivo esercitato sui materiali, un processo operato nel reale e sul reale
da un produttore. Una idea simile è stata formulata da Rebecca West che
sosteneva, ad esempio, che nella letteratura attuale non è determinante
solo la funzione svolta da metafore e nuove prospettive percettive, ma l’uso di
prospettive teoriche e materiali appartenenti alle tecniche.
La poesia di Roberto Deidier –autore anche di alcuni
volumi di saggi– rappresenta il significativo passaggio dal singolare al
plurale, dal sé al reale, dal lirico
p.
454
all’epico,
non senza un atteggiamento nostalgico verso un’integrità perduta. Il
viaggio dall’io al mondo, percorso di interpretazione materializzato proprio
nel vedere e nella visibilità, avviene comunque, come una conseguenza di
ciò che non si può vedere, delle voci e dei rumori venuti da
fuori, e si svolge come figura di una consapevolezza critica: “Ora mattutina,
parlo con te/ mentre cerco oltre i vetri appannati/ la storia che mi
riconsegni/ al giorno./ Forse sei solo il riflesso/ di questo istante che
presto/ sarà perduto,/ quando uscirò per la strada/ confondendomi
nell’aria sottile”[19].
La capacità di guardarsi attorno (una capacità in qualche misura
epica) è raddoppiata da una ipersensibilità che trasforma le cose
stesse in trama di immagini. La storia proiettata sulla retina diventa, poco a
poco, un testimone di quell’“istante che presto sarà perduto”,
figurazione dell’immobilità e insieme scansione della
temporalità. In più, inaspettatamente, si svolgono qui le forme e
le figure dello spiritus fantasticus,
dalla fantasmagorica molteplicità del mondo esperienziale, proprio a
causa dell’assenza di una intentio
indirizzata verso l’invisibile; è possibile ravvisare nei versi di
Roberto Deidier non proprio una forte motivazione a coniugare parola e
immagine, ma piuttosto un senso dell’inutilità di ogni tentativo di
mettere un ordine nel ventaglio delle apparenze o di costruire un discorso
unitario e coerente. La sua esperienza poetica si avvicina, qualche volta, a
quella difficile metamorfosi dell’oggetto in misura del vedere nella
temporalità, caratteristico per una ontologia barocca, dove il
transitorio è senza traccia, e l’evento affonda nel suo proprio vuoto.
In questo punto, per quanto riguarda le affinità, più ancora che
con altri poeti coetanei, trovo che Deidier ne ha probabilmente di più
con artisti come Carlo Fabre o Filippo Panseca. Come Fabre –un fotografo che
utilizza materiali fotografici che rendono non durevole l’immagine fotografata,
anche se invece quest’ultima, nel periodo in cui è permanente,
rappresenta figure percettivamente stabili e “normali”– Deidier combina
l’attaccamento al reale e alla comunicatività con una sorta di acuta
consapevolezza della peribilità di ogni discorso. I suoi “quadri a
durata limitata”[20]
rappresentano delle immagini che, un po’ come le pitture tombali riportate alla
luce da scavi, senza precauzioni tecniche, sembrano sparire lentamente.
Dall’altro lato, benché la programmata instabilità
dell’apparato testuale sia evidente, il desiderio di “entrare nelle cose”, in
un generale atteggiamento di ipersensibilità verso l’esterno, sposta
l’accento sulla nitidezza e trasparenza del mondo: “Ora l’attesa si fa vera,/
il cerchio dei colori si stringe/ intorno al bordo/ per quella sagoma chiara
che fluttua/ e non sa ancora la sua soddisfazione”[21].
Pian piano, nel circuito visivo s’instaura una comunicazione in termini
barthesiani, di rapporto amoroso, grazie al quale l’immagine si apre a una
varietà di livelli: “ Nella metro mi contiene/ l’attenzione, ad occhi
aperti,/ dove è più densa la ragnatela/ del mattino. Ogni
stazione/ conosciuta mi coniuga i giorni/ sul ritmo lento del risveglio”[22].
p. 455
La comunicatività, collegata alla volontà
di affrontare la straordinaria complessità del reale, la capacità
di guardarsi attorno, l’inclinazione verso la narratività ecc., sono
caratteristiche che incontriamo altrettanto nella poesia di Mircea Cãrtãrescu.
Solo che le due alternative che ha la letteratura, se vuole supplire quella
mancanza della quale parlava Calvino (la mancanza di “qualcosa che si vorrebbe
conoscere e possedere, qualcosa che si sfugge”[23]),
sono anche più evidenti nel suo caso: da un lato il fascino del
labirinto in quanto tale, della sua apparente assenza di vie d’uscita (un
labirinto che è fatto, ugualmente, di cose e testi, perché ambedue hanno
stavolta lo stesso statuto esistenziale), e dall’altro lato un atteggiamento
che vuole tentare una mappa del labirinto, la più particolareggiata
possibile. Dunque, in questa seconda situazione, il processo di mimesi diventa sguardo, modo di
mettersi in rapporto con la realtà, come spiega lo scrittore stesso, in
un articolo di 1987:
“Faccio una passeggiata –le mani nelle tasche– intorno
all’incrocio di Doamna Ghica. Sono i
primi giorni di primavera e l’aria è ancora fredda come l’acqua del
frigorifero. Ma il sole è già forte e fa riflettere la mia
immagine rattrappita dal freddo, nella vetrina delle Articole electro-casnice. I tram vanno e vengono. Passa una ragazza
con una bombola dal gas nel suo carrettino. Un gigantesco autocarro TIR
è parcheggiato, la sua cappotta aperta, mentre l’autista aggiusta
qualcosa nei fili arancione che escono del motore nero. L’autostrada è
gialla – splendente. Tutto mi commuove, perché tutto esiste con la stessa
intensità. E se vedo alcune biglie a elastico –di quelle che si usano
per legare i capelli– perdute da qualche scolara sul marciapiede, anche esse mi
sembrano poetiche, importanti, essenziali per comprendere il mondo infinito.
Anzi, la loro descrizione mi sembra più umana che la proiezione sulla
retina (che è la pagina) di una infinità di astri”[24].
Non è difficile renderci conto che considerazioni
di questo tipo –estratte da una specie di manifesto teorico per mezzo di quale
il giovane poeta provava a legittimare la “poesia del reale”– sembrano,
infatti, più ottativi (cioè espressioni di desiderio), che
conformi alla realtà testuale, ma quello che conta, anzitutto, è
il valore che Mircea Cãrtãrescu assegna alla visibilità,
all’osservazione diretta del mondo reale. È vero che a un primo livello
di lettura stupisce, nei suoi versi, la moltitudine di elementi che, un po’
come il barometro di Flaubert, (del quale parlava Barthes) sembrano una
rappresentazione pura e semplice del reale, della nuda relazione di ciò
che è (o è stato), ma, ovviamente, ciò che conta davvero,
alla fine, non è né la fedeltà della rappresentazione, né
l’ostentazione del concreto, ma la rivalutazione sotterranea del rapporto tra
la letteratura e il mondo. Dappertutto incontriamo, ad esempio, oggetti
trascurabili, nomi di quartieri, ristoranti, piazze, cinematografi e
caffetterie di Bucarest, dimostrando non solo un’ostinazione da cartografo da
parte del poeta nel confronto con il labirinto, ma sopratutto il fascino del
labirinto in quanto tale. Poiché –dobbiamo ammetterlo– ciò che resta
essenziale è vivere nell’illusorio, nell’imperio dell’
iperrealtà,
p.
456
dove
tutti i dettagli sono, al tempo stesso, intesi e presenti, coagulati per la
forza del visibile, “del troppo visibile, del più visibile del visibile”[25],
secondo la formula di Baudrillard. D’altra parte, questa diversità di bric-à-brac è sostenuta,
al livello stilistico, da una varietà di registri, procedimenti e
tecniche, come nel poemetto intitolato E
finito l’amore: “[…] in su e in giù, portando tubi, sacchi e calce/
i tram scivolavano come in sogno … / così mi sono seduto sul ciglio e ho
guardato l’erba scintillante./ e cosa vedo? un’ape avvolta nella polvere/ una
stagnola di cioccolatino al latte/ una blatta con l’elitra sfatta, che corre
via sbilenca, quante cose non accadono/ alla radice di un filo d’erba […]/ alla
fine mi sono alzato, perché volevano parcheggiare col camion/ sono rimasto a
guardarli:/ dacci dentro!/ dai, dai, dai … / ancora un po’ … sì,
sì, ancora, ancora … /stop! un po’ più a sinistra … così!/
dai, che vai bene così … un po’, ancora un po’ … / baaasta!/ O. K.!/
è fatta // il sole rotava su nel cielo”[26].
Come possiamo vedere qui, il ricorso a quelle forme di linguaggio, considerate
fino a poco tempo fa inadatte alla poesia (come il gergo, la conversazione, lo
stile dei giornali televisivi ecc.), sovvertono ora il prestigio della
magniloquenza e della gravità. Si cambia, pian piano, anche il senso
della mimesi (del riflesso), dato che
mediante la sua forza associativa, il linguaggio riesce a integrare la banale
realtà quotidiana e gli affascinanti universi paralleli, nello stesso
discorso e con le stesse possibilità di successo, in quanto riguarda la
loro credibilità. Infatti, il referente (nella sua accezione
tradizionale) non esiste più, la tensione tra la realtà e la
finzione sparisce, cioè, l’irrealtà non è più
quella del sogno o della fantasia, di qualcosa che stia sopra, o dentro, ma
diventa semplicemente una sorta di allucinante somiglianza della realtà
a se stessa, secondo l’espressione dello stesso Baudrillard.
Così, leggendo i testi di Cãrtãrescu, scopriamo
subito quanta allucinante poesia si trova nella realtà, nelle cose
più insignificanti, più trascurabili, come un acquaio, ad
esempio: “un giorno l’acquaio si innamorò/ amò una piccola stella
gialla nell’angolo della finestra di cucina/ si confidò con l’incerata e
col barattolo di mostarda/ si lamentò con le stoviglie bagnate./
finalmente l’acquaio rivelò il suo amore:/ piccola stella, non brillare
sul panificio e sul mulino Dâmboviþa/, scendi, perché loro non hanno bisogno di
te […]/ piccola stella, il mio nichel ti desidera, il mio sifone ha borbottato/
ogni sorta di canti per te, come sa fare lui/ anche le stoviglie con resti di
conserva di pesce/ ti vogliono bene/ vieni a brillare tutta la notte sul reame
di linoleum/ regina degli scarafaggi di cucina […]/ a un certo punto nel gioco
d’amore sono entrato anch’io/ io, il buco della tenda, che vi ho raccontato
questa storia./ ho amato una superba dacia color crema che ho visto una sola volta
… / ma, perché farla lunga, ora ho dei bambini in età prescolare/ e
tutto ciò che è stato mi pare un sogno” (Il poema dell’acquaio)[27].
L’impressione di trovarsi nel mondo meraviglioso di Lewis
Carroll o di Hans Christian Andersen è intensa, ma essa può
essere collegata, altrettanto, alla necessità di
p.
457
comunicare
(come nel caso di Roberto Deidier), e, nello stesso tempo al desiderio di
rendere possibile ai mondi invisibili di attualizzarsi, di comunicarsi, attraverso
le parole, dato che, come credeva Italo Calvino, “sempre dall’altro lato delle
parole c’è qualcosa che cerca d’uscire dal silenzio, di significare
attraverso il linguaggio, come battendo colpi su un muro di prigione”[28].
4. Conclusioni.
Ora, spero sia abbastanza chiaro perché nel titolo ho usato la formula “visioni
dell’(in)visibile”. Arrivati a questo punto, devo richiamare alla memoria anche
il passo di Johann Jacob Breitinger (che, nel Settecento, nota bene, ha fatto una classificazione tipologica dei mondi
meravigliosi, cioè mondi allegorici, esopici e invisibili) anticipando,
in qualche misura, i tentativi più recenti di sondare i confini tra i
diversi modelli della realtà. Comunque, per Breitinger, c’era ancora una
distanza tra il mondo attuale e i suoi corrispettivi immaginari. Oggi, non solo
i dati dell’esperienza e quelli dell’immaginazione sono, come ho cercato di
mostrare, collegati, ma, in più, il concetto stesso di realtà sembra indebolito. Per
conseguenza, nella teoria e pratica letteraria, la consapevolezza della
fisicità del mondo e quella delle sue potenzialità imprevedibili
hanno portato all’apparizione di una serie di interrogazioni, come[29]:
1. Che vuol dire “un mondo”?
2. Quanti mondi esistono? Come sono costituiti e come
differiscono tra loro?
3. Che succede quando i diversi mondi entrano in
conflitto o quando i loro confini sono oltrepassati?
4. Qual è il modo di essere di un testo e qual
è il modo di essere del mondo (o dei mondi) che esso progetta?
5. Come sono strutturati i mondi di invenzione?
Rispondere a ciascuna di queste interrogazioni, sarebbe,
certo, il tema di altri lavori, ma spero almeno di essere riuscita ad
approssimare quei punti di articolazione nei quali i diversi mondi
s’incontrano, in ciò che potrebbe venir definita –come direbbe Thomas
Pavel–“una serie di fusioni ontologiche”[30].
In secondo luogo, provando ad esplorare i mondi
progettati di Roberto Deidier e Mircea Cãrtãrescu, ho accentuato l’importanza
della visibilità (senza dimenticare, tuttavia, che l’iperrealtà
multimediale di oggi è, anche, un reame del tatto e dell’udito, come
hanno mostrato, con argomenti, Ong e McLuhan). Comunque, leggendo i testi
letterari più recenti, dobbiamo riconoscere, anzitutto, l’ampiezza di
quel movimento che avvicina la personalità del poeta al luogo e l’IO
allo sguardo (non a caso Linda Hutcheon ha insistito sul dettaglio che in
inglese I –cioè io– si pronuncia come eye, cioè occhio).
Dunque, l’essenziale rimane la parte visuale della percezione e della fantasia.
In più, tutti due tipi di processi immaginativi (quello che parte dalla
parola per arrivare all’immagine visiva, e quello che parte dall’immagine
visiva per arrivare alla
p.
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materializzazione
verbale), trovano l’espressione migliore nella formula epica (più ampia
e, perciò, più adatta all’affabulare). Insomma, per abitare
confortevolmente nella confusione, si avrebbe bisogno, almeno, di
un’insignificante consolazione, cioè quella di un’esperienza comunicata
(e perciò condivisa), come solo la letteratura sa offrire.
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(2004) (a cura di Ioan-Aurel Pop e Cristian Luca), Bucarest: Casa Editrice dell’Istituto
Culturale Romeno, 2004
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© ªerban Marin, June 2005,
Bucharest, Romania
Last updated: July 2006
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[1] Jean Starobinski, L’œil
vivant, Éditions du Seuil, Parigi 1976, p. 12.
[2] Alfonso Berardinelli, Poesia e genere lirico. Vicende postmoderne, in AA. VV., Genealogie della poesia nel secondo
novecento, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa 2002, p.
81.
[3] Gheorghe Crãciun, În
cãutarea referinþei [Nella ricerca
della riferenza, la
traduzione del titolo è nostra, C. P.], Paralela 45, Piteºti 1997, p.
94.
[4] Hugo Friedrich, La
struttura della lirica moderna, Garzanti, Milano 1958, p. 14.
[5] Nel suo saggio intitolato Le tre voci della poesia (1953), T. S. Eliot affermava: “La prima
voce è quella del poeta che parla a se stesso, ovvero a nessuno. La
seconda è la voce del poeta che si rivolge a un uditorio, grande o
piccolo che sia. La terza è la voce del poeta quando tenta di creare un
personaggio drammatico che s’esprima in versi; quando egli dice non quello che
vorrebbe a titolo personale, ma soltanto ciò che può dire entro i
limiti di un personaggio che dialoga con altri esseri immaginari”, Cfr. Sulla poesia e sui poeti, Bompiani,
Milano 1960, p. 97.
[6] A. Berardinelli, La
poesia verso la prosa, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 33.
[7] Vincenzo Bagnoli, Contemporanea,
Esedra Editrice, Padova 1996, p. 38.
[8] Paul Ricoeur, Temps
et récit, vol. I, Éditions
du Seuil, Parigi 1984, pp. 106-107.
[9] Giovanni Bottiroli, Teoria
dello stile, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 199.
[10] Italo Calvino, Mondo
scritto e mondo non scritto, Oscar Mondadori, Milano 2002, p. 117.
[11] Ibidem, p. 1;
Idem, Palomar, Mondadori, Milano
2002, p. 18.
[12] Ibidem.
[13] Ecco un breve frammento del poemetto di Pier Paolo
Pasolini intitolato Autobiografia: “A
Roma, dal ‘50 a oggi, Agosto del 1966,/ non ho fatto altro che soffrire e lavorare
voracemente/ Ho insegnato, dopo quell’anno di disoccupazione e fine della vita/
in una scuoletta privata, a ventisette dollari al mese/ frattanto mio padre/ ci
aveva raggiunto/ e non parlammo mai della nostra fuga, mia e di mia madre/ Fu
un fatto normale, un trasferimento in due tempi/ Abitammo in una casa senza
tetto e senza intonaco/ una casa di poveri, all’estrema periferia, vicino a un
carcere/ C’era un palmo di polvere d’estate e le palude d’inverno/ Ma era
l’Italia, l’Italia nuda e formicolante […]”.
[14] A. Berardinelli, Poesia
e genere lirico cit., p. 85.
[15] Niva Lorenzini, Poesia
del Novecento italiano (dal secondo dopoguerra a oggi), Carocci Editore,
Roma 2002.
[16] Maurizio Cucchi, Poesie,
1965-2000, Oscar Mondadori, Milano 2002, p. 119.
[17] A. Berardinelli, La
poesia verso la prosa, Bollati Boringheri, Firenze 1994, p. 203.
[18] V. Bagnoli, op. cit., p. 65.
[19] Roberto Deidier, Il
passo del giorno, Edizione Sestante Ripatransone, Ancona 1995, p. 33.
[20] Omar Calabrese, L’età
neobarocca, Laterza, Roma–Bari
1989, p. 114.
[21] R. Deidier, op. cit., p. 15.
[22] Ibidem, p. 35.
[23] I. Calvino, Mondo
scritto cit., p. 124.
[24] Mircea Cãrtãrescu,
Realismul poeziei tinere [Il realismo
della poesia giovane, la
traduzione del titolo è nostra, C. P.], in “România literarã”, no. 17,
1987.
[25] Jean Baudrillard, L’altro
visto da sé, Costa &
Nolan, Geneva 1987, p. 15.
[26] Versione italiana a cura di Bruno Mazzoni, in Annuario della poesia 1998, a cura di
Giorgio Manacorda, Roma 1999, pp. 193-194.
[27] Versione italiana a cura di Marco Cugno, La poesia romena del Novecento, Edizioni
dell’Orso, Alessandria 1996, pp. 442-443.
[28] I. Calvino, Mondo
scritto cit., p. 125.
[29] Brian MacHale, Postmodernist
Fiction, Methuen, New York–Londra 1987, p. 10.
[30] Thomas Pavel, Mondi
di invenzione, Einaudi, Torino 1992.