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Quaderni 2004
p.
331
Ana
Sima,
Università degli Studi “Babeş-Bolyai” di
Cluj-Napoca
Alla metà dell’Ottocento
le preoccupazioni e l’interesse evidente della Santa Sede per i cattolici di
rito orientale si possono esaminare e interpretare solo nel contesto del
movimento iniziato dalla Chiesa cattolica in vista del consolidamento dello status cattolico e dell’avvicinamento
delle sue zone periferiche al centro del cattolicesimo romano.
Infatti, già alla fine
del pontificato di Gregorio XVI la Chiesa e persino il pontificato
romano erano minacciati nella loro sopravvivenza dal liberalismo anticlericale
e antireligioso, così che gli ambienti ecclesiastici furono obbligati ad
agire con grande fermezza nella direzione del congiungimento delle forze
dell’intero mondo cattolico intorno alla Santa Sede, oltre che del
consolidamento, ancora una volta, dell’unione dei cattolici orientali,
attraverso la riorganizzazione della loro disciplina e l’esercizio di una
stretta sorveglianza sulla loro vita religiosa[1].
Di fronte a questo
concentramento di forze intorno al Pontefice –valutato in unanimità
dalla prospettiva dei vantaggi apostolici che avrebbe portato alla Chiesa– ci
furono anche delle opinioni titubanti. Alcuni teorici si chiedevano allora se
fosse il caso che questo concentramento di forze dovesse tradursi in una
centralizzazione eccessiva che avrebbe potuto avere effetti negativi sulle
autonomie ecclesiastiche locali. La loro titubanza era ancor di più
giustificata dal fatto che il movimento avrebbe portato in maniera inevitabile
alla riduzione dell’autorità dei vescovi, ad un’uniformazione della
disciplina, della Liturgia, e persino delle forme di pietas. Tutto ciò poteva determinare, in fin dei conti, la
rinuncia ai costumi locali e l’adozione in tutta la Chiesa di uno “stile di
vita” religioso simile a quello esistente in Italia[2].
Valutata in modo positivo e
contestata allo stesso tempo, la strategia della centralizzazione romana ebbe
un’evoluzione particolare durante il pontificato di Pio IX, favorita d’altronde
dall’apparizione di un fenomeno nuovo nella storia della Chiesa: la simpatia di
cui il Pontefice godeva in tutto il mondo cattolico. In questo senso gli
storici concordano nel sostenere il fatto che dopo la crisi rivoluzionaria del
1848 Roma mostrò
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di promuovere un’azione sistematica in vista del
raggruppamento di tutte le energie cattoliche intorno ad un centro d’azione
unico, contro il liberalismo “rivoluzionario e anticristiano”. Alcune
testimonianze in questo senso tracciano in una maniera estremamente eloquente i
contorni di un mondo che si trovava in pieno processo di aggregazione. In
questo senso, mentre i docenti della Pontificia Università Gregoriana
davano allora una nuova interpretazione delle tesi classiche sul primato e
sull’infallibilità del Sommo Pontefice, a Roma veniva registrato un
aumento importante del numero di seminari nazionali. Allo stesso tempo, si
assisteva tacitamente al moltiplicarsi degli interventi dei nunzi apostolici
nella vita interna delle Chiese nazionali e al riattualizzarsi delle visite “ad
limina” da parte dei vescovi, cadute in disuso già da qualche tempo. Non
per ultimo, la Santa Sede aveva promosso una politica sistematica di
contrapposizione a tutto quello che avrebbe potuto incoraggiare il mantenimento
delle sfumature regionali nella vita ecclesiastica, scoraggiando le
velleità di convocazione dei concili nazionali, favorendo il ritorno al
rispetto integrale del diritto canonico, così come veniva prescritto a
Roma quando si ricorreva alla Curia Romana per questioni di qualsiasi natura[3].
Se per le Chiese del
cattolicesimo occidentale l’imposizione delle nuove tendenze non aveva prodotto
perturbazioni al livello delle comunità locali, non si può
affermare la stessa cosa nel caso delle Chiese cattoliche di rito orientale, dove
le direttive romane produssero certi turbamenti di tradizioni già
consacrate, dovendo affrontare spesso forti resistenze da parte dei prelati
locali[4].
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Al di là
dell’unilateralità di un’interpretazione che consideri l’iniziativa di
riforma promossa dalla Santa Sede come la risultante della politica di
centralizzazione romana, un fatto rimane incontestabile: alla metà
dell’Ottocento le Chiese cattoliche di rito orientale avevano davvero bisogno
di una riorganizzazione della loro disciplina ecclesiastica, soprattutto perché
ciò veniva incontro a necessità locali. L’asserzione trovava la
sua piena applicabilità al livello delle Chiese greco-cattoliche della
Corona austriaca, dove la legislazione giuseppina aveva interrotto per più
di mezzo secolo i loro legami con la Santa Sede[5]
e dove le strutture politiche sovrapponevano realtà confessionali
diverse, con tradizioni ed eredità ecclesiastiche spesso antinomiche.
Un primo intervento nella
direzione della riorganizzazione dei cattolici orientali fu, in fondo, la
riproposta di un progetto preesistente e appartenente al Sommo Pontefice
Gregorio XVI, che mirava alla creazione di un patriarcato per gli ucraini di
rito greco dell’Impero austriaco oppure l’organizzazione di questi sotto la
giurisdizione di un primate. Il progetto, però, aveva bisogno
dell’appoggio e della collaborazione del governo viennese. Implicato
direttamente nelle trattative con il potere secolare, il pro-nunzio di Vienna,
Michele Viale Prela, disapprovò l’idea di un patriarcato per i greco-ruteni,
proponendo invece di concedere la dignità di primate al metropolita
ucraino di Lwów.
Riguardo alla giurisdizione del
futuro primate, il pro-nunzio militò per un’area limitata esclusivamente
ai suoi vescovati suffraganti della Galizia e della Bucovina[6].
In fondo, la sua cautela a non estendere l’ambito giurisdizionale di primate
anche sulle altre diocesi di rito greco dell’Impero, soprattutto sui romeni,
rifletteva una consapevolezza profonda del fenomeno di aggregazione
confessionale su principi etnici, presente in alcune regioni della Corona
austriaca. In un momento in cui in Transilvania i romeni ortodossi chiedevano
sempre più insistentemente la separazione dalla gerarchia serba di
Karlowitz e la loro organizzazione in una chiesa indipendente[7],
l’estensione della giurisdizione del primate ucraino sui romeni uniti
equivaleva al rifiuto di riconoscere loro il diritto ad una Chiesa autonoma.
Per Prela, infine, l’idea della loro illustre
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discendenza non era un fattore da trascurare[8].
Dato che i romeni facevano prevalere in permanenza la loro origine latina, la
subordinazione al primate ucraino poteva essere qualificata come un flagrante
abuso nei confronti della loro identità nazionale[9].
Al di là della
controversa area giurisdizionale, il problema della nomina del metropolita
ucraino quale primate era estremamente delicato. Il fatto di concedere questa
dignità ad un gerarca greco-cattolico poteva far nascere notevoli
malumori nella gerarchia latina della Galizia, a cui essa veniva rifiutata, situazione
che faceva scaturire nuovi conflitti. Nonostante tali timori, fino al 1851, il
Prela continuò a sostenere presso il governo di Vienna la
necessità di appoggiare questo progetto. Il disinteresse del governo di
Vienna rispetto alla proposta di un primate per gli ucraini invalidò il
progetto pontificio lasciando luogo ad altri progetti più confacenti ai
tempi che la Chiesa e lo Stato stavano attraversando[10].
È possibile che le
riserve del governo viennese circa il progetto dell’insediamento del primate
ucraino fossero derivate anche dal ricordo della controversia etnica tra
ucraini e polacchi nella Galizia del periodo successivo al 1848[11].
La formula politica là istituita dopo l’esperimento rivoluzionario rese
ancora più grave il conflitto preesistente, trasformando la Galizia nel
teatro di sanguinose lotte per la supremazia confessionale, mentre i polacchi,
identificati con il rito latino, militavano per la salvezza della propria
supremazia e la latinizzazione degli ucraini, quest’ultimi combattevano per la
difesa della propria identità nazionale e confessionale. Di fatto, la
rivoluzione del 1848 generò in questa provincia dell’Impero un
capovolgimento delle posizioni. Se fino al 1848 l’elemento che prevaleva era
quello polacco, dopo questa data l’iniziativa spettò agli ucraini che
nel frattempo avevano ottenuto da parte del governo viennese il riconoscimento
della loro nazionalità e dei diritti relativi ad essa[12].
Dato che i dissensi fra le due frazioni minacciavano di degenerare in un
conflitto di ampie proporzioni, la Santa Sede decise nel 1852 di inviare in
Galizia il pro-nunzio viennese in vista del raggiungimento di una soluzione
fattibile. Così, in base alle istruzioni del 12 luglio 1852, il Prela
doveva compiere un’indagine locale per offrire suggerimenti e rimedi ai vescovi
coinvolti nel conflitto. Le preparazioni riguardanti la conclusione e la firma
del Concordato resero impossibile il suo viaggio in Galizia, fatto che avrebbe
determinato la Santa Sede di decidere la riunione in conferenza dei vescovi dei
due riti[13]. Nonostante
l’opposizione del vescovo latino, la conferenza di Lwów del 1853
proclamò l’uguaglianza dei due riti. Il progetto di accordo elaborato in
tal senso, però, sarebbe stato firmato soltanto nel 1863, in seguito
all’intervento diretto della Congregazione “De Propaganda Fide”, ponendo in tal
modo fine alla controversia[14].
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In una maniera molto eloquente
l’esperimento della Galizia dimostrò negli ambienti pontifici una serie
di fattori a rischio, trascurati in totalità o in parte nelle loro
strategie nei confronti degli ucraini greco-cattolici. Roma diventò
consapevole in quest’occasione del fatto che i dissensi tra il clero dei due
riti non contribuivano ad altro se non a preparare il passaggio dei
greco-cattolici all’ortodossia. Il pericolo era ancor più impellente in
quanto loro si trovavano in prossimità delle comunità ortodosse,
il cui statuto rappresentava un’alternativa per niente trascurabile. Quindi, si
era creato un clima di insicurezza per gli uniti, generato dalla convinzione
del disinteresse della Santa Sede nei loro confronti, fatto che gli determinava
a considerarsi abbandonati, vittime degli atti di latinizzazione dei missionari
cattolici[15]. In questo
contesto, dall’affezione verso la Santa Sede e fino alla sfiducia in essa non
c’era che un passo. Le realtà rivelate costituivano, di fatto, un vero
segnale d’allarme per la politica futura della Curia Romana verso questa parte
del greco-cattolicesimo orientale. In realtà, l’esperimento della
Galizia amplificò le paure di Roma nei confronti del pericolo della
perdita di queste comunità a favore della Russia, obbligandola a
riconsiderare la propria posizione e ad adattare le proprie azioni alle
realtà di queste comunità, per le quali la formula dell’ortodossia
rappresentava un’alternativa accettabile. Nella prospettiva della rivalutazione
della propria posizione i greco-cattolici non dovevano rappresentare un fattore
di dissoluzione, ma uno strumento di coagulazione destinato a contribuire al
rifacimento dell’unità del mondo cristiano. I suggerimenti del
pro-nunzio Prela del 20 febbraio 1855 potevano costituire un invito a
riflettere: “Il rito greco io lo considero lo strumento di cui la provvidenza
farà uso al tempo dovuto per riportare al centro dell’unità tanti
milioni di anime che oggi si trovano nello scisma”[16].
Il problema della
riorganizzazione e del riavvicinamento di questi gruppi confessionali al
cattolicesimo romano richiedeva, però, una riconsiderazione della
posizione della Santa Sede nei loro confronti e, implicitamente, la
“riscoperta” di questo mondo quasi dimenticato alla periferia dello status
cattolico. Tale azione risultava tanto più necessaria in quanto gli
esperimenti della Galizia e della Transilvania (si veda il problema della
costituzione della Metropolia di Alba Iulia e Făgăraş) avevano messo in
evidenza la mancanza di dati e informazioni concrete riguardanti gli orientali.
Senza un supporto documentario che giustificasse le sue decisioni, Roma fu
spesso obbligata a sospendere la risoluzione di certi problemi, scegliendo la
formula delle disposizioni transitorie.
Il riorientamento
dell’attenzione della Santa Sede verso le Chiese greco-cattoliche richiedeva,
in fondo, una conoscenza approfondita delle loro realtà, delle
tradizioni e dei costumi locali, della disciplina e del diritto canonico
orientale, a cui queste erano tributarie[17].
Ciò esigeva l’avvio di campagne di identificazione e di studio delle
loro opere disciplinari e rituali. Allo stesso tempo, gli sforzi di
documentazione
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dovevano prendere in considerazione anche il diritto
canonico e la liturgia ortodossa, invocando, in questo senso, le disposizioni
del Pontefice Benedetto XIV, secondo cui: “nei casi in cui le norme
disciplinari e rituali non sono dannose esse possono essere conservate, evitando
le accuse di latinizzazione che non portano se non a nuovi impedimenti della
Santa Unione”[18].
L’evidente interesse per la
disciplina e per il diritto canonico della Chiesa ortodossa portava in
discussione un importante elemento del discorso pontificio: quello della
superiorità delle istituzioni della Chiesa cattolica rispetto a quelle
dell’ortodossia. Secondo le asserzioni espresse in questo senso, l’origine di
questo statuto ineguale risaliva ai tempi remoti, nell’epoca del Grande Scisma,
quando, nella controversia tra orientali ed occidentali, i primi avrebbero
perso a favore degli ultimi. La loro arretratezza, dunque, poteva spiegare lo
stato di inferiorità degli ortodossi e il carattere immutato delle loro
istituzioni. Di conseguenza, conoscere lo stato in cui si trovavano la loro
disciplina e il loro diritto canonico alla metà dell’Ottocento,
costituiva, nella visione di Roma, una condizione essenziale per ridurre le
differenze vigenti. Si proponeva, quindi, l’idea che l’accettazione da parte
degli ortodossi delle istituzioni della Chiesa latina non poteva essere se non
l’opera di un’educazione solida e di altri mezzi indiretti[19].
L’intero complesso di misure ideato da Roma richiamava, però, l’impegno
di alcuni specialisti in questioni di disciplina e diritto orientale, di cui
Roma non disponeva. L’assenza di questa categoria di teologi ed esperti di
questioni canoniche rifletteva in una maniera indiretta lo scarso interesse che
la Santa Sede aveva mostrato per l’Oriente fino alla metà dell’Ottocento.
Per il ragionamento pontificio, l’inesistenza di specialisti in questioni di
ortodossia fu una giustificazione per l’atteggiamento di aspettativa circa la
pubblicazione di libri liturgici per i cattolici di rito orientale. In assenza
di conoscenze sufficienti, la Congregazione “De Propaganda Fide” preferì
rifiutare piuttosto che editare degli strumenti liturgici incontrollabili. Il
suo atteggiamento sembrava tanto più giustificato, in quanto nel
Settecento il libro di preghiera edito per gli armeni durante la prefettura del
cardinale Castelli fu contestato e poi distrutto a causa degli errori in esso
contenuti[20].
Nella prospettiva della Santa
Sede, alla metà dell’Ottocento, i greco-cattolici dell’Impero
Austro-Ungarico presentavano numerose somiglianze tra di loro, nonostante le
etnie a cui appartenevano. Visti in questo modo, gli uniti del territorio della
Corona austriaca stavano sotto il segno dell’ignoranza e della povertà.
Tenendo presenti queste due costanti, le realtà potevano essere diverse.
Allo stesso tempo, Roma trovò qui un mondo che viveva con il sentimento
della trascuratezza e del suo abbandono da parte della Santa Sede. Un mondo che
cercava di recuperare le reminiscenze di un’identità confessionale
colpita dagli atti di latinizzazione di certi missionari cattolici. Le
realtà contrastanti di queste chiese portavano per la prima volta alla
luce un fatto estremamente
p. 337
interessante, e cioè la mancanza di
efficienza della sorveglianza che l’arcivescovo di Strigonia avrebbe dovuto
esercitare sugli uniti dell’Ungheria, sotto la cui giurisdizione essi si
trovavano. La diversità linguistica, la grande distanza della sua
residenza di Gran e, non ultima, l’eredità culturale di ognuna delle
diocesi che a lui erano state affidate, potrebbero spiegare, in una certa
misura, le difficoltà di un’assistenza efficiente. Anche l’istituzione
della Nunziatura di Vienna si dimostrò inefficiente, soprattutto per
quanto riguarda l’informazione periodica della Santa Sede sui greco-cattolici
dell’Impero.
In queste comunità,
segnate da un’atmosfera di insicurezza, la dissoluzione progressiva
dell’atteggiamento filo-pontificio rappresentava soltanto una delle conseguenze
dei rapporti sporadici con la Santa Sede. Confrontatasi con questa situazione
poco consolante, Roma trovò nell’esperimento giuseppino la
legittimazione ideale per giustificare le realtà di fatto. Il politico
diventava dunque responsabile dello stato deplorevole e dell’alienazione
spirituale dei cattolici di rito orientale dell’Impero austriaco[21].
In fine, l’assolutismo giuseppino era visto come la legittimazione pertinente
per la povertà documentaria con cui si confrontavano gli archivi
pontifici nei confronti delle chiese greco-cattoliche. La mancanza di
informazioni concrete e le realtà contraddittorie identificate nelle
comunità greco-cattoliche dell’Impero, soprattutto nel caso dei ruteni e
dei romeni, aprirono a Roma e a Vienna la strada per diversi tentativi di
soluzioni e rimedi capaci di rispondere alle difficoltà che si erano
presentate.
Una delle prime iniziative in
questo senso si svolse nel contesto della creazione, per i romeni uniti della
Transilvania, della Provincia ecclesiastica di Alba Iulia e Făgăraş. Il caso
romeno sorprendeva proprio per la precarietà documentaria, riflessa,
d’altronde, nella bolla di fondazione della Metropolia, dove una serie di
particolarità disciplinari venivano rimandate a ulteriori dibattiti. Il
fatto fu in misura di determinare la reazione del Pontefice Pio IX che impose,
attraverso il decreto di fondazione della Metropolia, l’obbligo
dell’arcivescovo e dei suoi vescovi di inviare alla Congregazione “De
Propaganda Fide” relazioni diocesane ogni quattro anni. Con la circolare del 20
febbraio 1856, l’obbligo imposto all’inizio solo al vescovato romeno fu esteso
a tutte le diocesi greco-cattoliche dell’Impero austriaco[22].
Dato che la sorveglianza
dell’arcivescovo primate d’Ungheria e le relazioni diocesane dei vescovi
sembravano insufficienti, la Santa Sede premé per il miglioramento di questi
con nuovi strumenti. Così nacque l’idea dell’istituzione, presso la
Nunziatura di Vienna, di un nuovo consigliere per i problemi della Chiesa
orientale. Così che, nel 1852, Roma sollecitò al nunzio viennese
di trovare un esperto dei problemi ecclesiastici specifici dei romeni e dei ruteni.
Subordinato direttamente al nunzio, questo consigliere avrebbe dovuto occuparsi
esclusivamente dei problemi delle Chiese orientali, raccogliendo informazioni
dalla stampa del tempo, ma anche attraverso i cosiddetti “corrispondenti” nel
territorio. Una volta arrivati a Vienna, i dati dovevano essere
p. 338
centralizzati e poi inviati a Roma[23].
Quando gli fu chiesto l’avviso in questo senso, il nunzio viennese
disapprovò l’opportunità di questo progetto, invocando
l’opposizione della Russia[24].
Diffidato dall’inizio, l’idea di un consigliere per i cattolici orientali
rimase per alcuni anni all’attenzione degli ambienti pontifici, per sparire poi
del tutto.
Il fallimento di queste
iniziative transitorie provò ancora una volta a Roma che un impegno
duraturo nella vita interna di queste Chiese non si fosse verificato senza
conoscere la loro disciplina ecclesiastica, il rito, le tradizioni e le loro
eredità culturali. L’unica soluzione intravista allora fu l’avvio di
ampie ricerche locali, sotto la forma delle visite apostoliche, i cui risultati
avessero potuto essere alla base dei progetti di riorganizzazione degli uniti
dell’Impero austriaco. La complessità delle situazioni, però,
fece in modo che, il più delle volte, le ricerche locali si svolgessero
simultaneamente con gli interventi effettivi della Curia Romana, fatto che
determinò dei ritardi nel trovare una soluzione ai problemi già
esistenti.
Nello spazio dei principi cattolici austriaci l’azione
degli ambienti pontifici ebbe delle circostanze favorevoli soprattutto dopo la
firma del Concordato del 1855 tra il governo imperiale e la Santa Sede, in
virtù del quale i diritti della Chiesa erano pienamente riconosciuti dal
potere politico viennese, che otteneva, a sua volta, importanti privilegi[25].
Da quel momento, nella soluzione dei problemi ecclesiastici dell’Impero, le
autorità pontificie si sarebbero riportato sempre alle norme del
Concordato, anche se il governo viennese non avrebbe sempre dimostrato la
prontezza necessaria, in funzione della complessità e della
gravità dei problemi del governo austriaco[26].
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Valutate a lungo termine, le norme del Concordato
contribuirono alla creazione di un sistema legislativo legale, capace di
favorire sia il consolidamento del cattolicesimo propriamente detto, sia il
progresso dell’unione con la Chiesa di Roma, nel caso delle Chiese cattoliche
di rito orientale dell’Impero austriaco.
For this material, permission is granted for
electronic copying, distribution in print form for educational purposes and
personal use.
Whether you intend to utilize it in scientific purposes, indicate the
source: either this web address or the Quaderni della Casa Romena 3
(2004) (a cura di Ioan-Aurel Pop e Cristian Luca), Bucarest: Casa Editrice dell’Istituto
Culturale Romeno, 2004
No permission is granted for
commercial use.
© Şerban Marin, June 2005,
Bucharest, Romania
Last updated: July 2006
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[1] Ioan Filip, La Santa Sede ed i problemi della Chiesa Romena Unita
(1853-1872), in “Acta
Historica”, IV, 1965, p.
109.
[2] Roger Aubert, L’Eglise Catholique de la
Crise de 1848 à la première Guerre Mondiale, in La
Nouvelle Histoire de l’Eglise, vol V, L’Eglise dans le monde
moderne (1848 à nos jours),
Parigi 1975, pp. 65-66.
[3] Ibidem, pp.
66-67.
[4] Si veda il caso dei greco-cattolici della Polonia, degli ucraini
e non per ultimo quello dei cattolici di rito orientale del Medio Oriente:
armeni, caldei, maroniti, Cfr. R.
Aubert, Le Pontificat de Pie IX (Collection Fliche-Martin),
Parigi 1952, pp. 406-407, pp. 417-424.
Ecco alcuni degli esempi che
potrebbero illustrare la suddetta considerazione: il caso dei greco-cattolici
della Polonia, dove il movimento ortodosso dei sacerdoti Popiel e Vojciki,
iniziato in forma di opposizione ai latinismi introdotti nella Liturgia dopo
l’Unione di Brest-Litowsk, allontanò dalla Chiesa greco-cattolica, con
l’appoggio della Russia, più di 250.000 fedeli e 200 preti, Cfr. Ibidem, p. 406; energiche resistenze incontrarono le misure
riformatrici di Roma anche nel caso dei cattolici orientali organizzati in
Patriarcati nel Medio Oriente. In questo senso nel 1856 il Patriarcato Armeno
fu trasferito dal Libano a Costantinopoli dove fu unito con la sede
metropolitana. Attraverso la Bolla Reversurus
il Sommo Pontefice Pio IX estese al livello dell’intero Patriarcato la
disciplina canonica introdotta a Costantinopoli, riguardante la procedura di
elezione dei vescovi, che consisteva nell’esclusione del clero inferiore e dei
laici e nell’imposizione al Patriarca di alcune disposizioni latine riguardanti
l’assegnazione del Palium e delle visite “ad limina”. Valutate come misure di
spoliazione dei privilegi di cui disponevano, le iniziative della Santa Sede
produssero grandi scontentezze al livello del clero armeno, con il risultato di
uno scisma a cui aderirono quattro vescovi, i quali, approfittando dell’assenza
del Patriarca che si trovava ai lavori del Concilio Vaticano I, formarono una
Chiesa separata, riconosciuta dal governo turco come l’unica Chiesa Armena,
Cfr. Ibidem, p. 417. Anche il Patriarcato Caldeo della Mesopotamia ebbe
alcune divergenze con Roma; una delle questioni, che non passò
inosservata nei documenti del tempo, fu quella dell’estensione delle
disposizioni della Bolla Reversurus,
con riferimento all’elezione dei vescovi, anche nel caso dei caldei, attraverso
la Costituzione Cum ecclesiastica
disciplina del 31 agosto 1869. Di fronte a queste istruzioni
canoniche persino il Patriarca si dimostrò intransigente, convinto che
Roma aveva l’intenzione di sopprimere tutti i privilegi patriarcali, ragione
per cui continuò a consacrare dei vescovi senza rispettare i nuovi
provvedimenti pontifici. Fu poi obbligato a sottomettersi attraverso
l’Enciclica Quae in Patriarcatu,
del 1 settembre 1876, sotto pena di scomunica, Cfr. Ibidem, p. 419. Rispetto al Patriarcato
Maronita, questo dei caldei fu il più importante e il più
numeroso tra tutti gli altri Patriarcati, contando circa 250.000 fedeli. Benché
non si fosse fatto notare attraverso delle divergenze disciplinari particolari,
comunque il Patriarca maronita, Monsignor Pietro Paul Mas’ad si ribellò
contro l’applicazione della Bolla Reversurus considerata contraria agli
impegni solenni presi da Benedetto XIV dopo il Sinodo Libanese del 1736,
approvato dalla Santa Sede nella sua forma originaria, Cfr. Ibidem, p. 424.
[5] Archivio Segreto Vaticano
(d’ora in poi sarà citato ASV), Archivio
della Nunziatura di Vienna, vol. 337,
d. 73389, f. 157v; d. 75389, f. 244r; d. 73212, f. 104v; ASV, Segreteria di Stato; Affari
Ecclesiastici. Carte d’Austria, vol. VIII/1858-1862, posizione III,
parte I/1858 febbraio-settembre, doc. 25, p. 120; “Istruzione a Monsignor De Luca Arcivescovo di Tarso e Nunzio
Apostolico in Vienna per la missione ai Rumeni della Provincia ecclesiastica di
Fogaras ed Alba Giulia in Transilvania”, Ibidem, doc. 1, f.
101, dispaccio no. 90.228/16 febbraio 1858, si veda vol. II, Documenti,
no. 32.
[6] Octavian Bârlea, Metropolia
Bisericii Române Unite proclamată în 1855 la Blaj, in “Perspective”,
X, no. 37-38, (Monaco di Baviera) 1987, pp. 248-250; Nicolae Bocşan, Ion Lumperdean, Ioan–Aurel Pop, Etnie şi
confesiune în Transilvania (secolele XVIII-XIX), Oradea 1994, pp.
160-161.
[7] O. Bârlea, op. cit., p. 251.
[8] Ibidem, pp.
250-251.
[9] Sorin Mitu, Geneza identităţii naţionale
la românii ardeleni, Bucarest 1997, pp. 273-282.
[10] O. Bârlea, op. cit., pp. 254-255.
[11] Ibidem, pp. 252-256.
[12] ASV, Segreteria di Stato; Affari Ecclesiastici. Rapporti
delle Sessioni, sess. 344, fasc. 4/1858, f. 321v.
[13] Ibidem, ff. 321v-322r.
[14] R. Aubert, Le Pontificat cit., p. 407.
[15] ASV, Segreteria di Stato; Affari Ecclesiastici. Rapporti
delle Sessioni, sess. 344, fasc. 4/1858, f. 322r.
[16] Ibidem.
[17] Ibidem, f. 254r.
[18] Ibidem, ff. 254r-254v.
[19] Ibidem, f. 254v, f. 255r.
[20] Ibidem, f. 255r.
[21] Ibidem, f. 255v.
[22] Ibidem, f. 320v.
[23] Ibidem, f. 321r.
[24] ASV, Archivio della Nunziatura di Vienna, vol. 337, no. 73212, f. 104r.
[25] Giuseppe Sebastiano Pelczar, Pio IX e il suo pontificato, sullo sfondo delle
vicende della Chiesa nel secolo XIX, vol. II, Torino 1910, pp. 71-77.
[26] La corrispondenza tra la Nunziatura di Vienna e il
Segretariato di Stato coglie in una maniera estremamente eloquente il realismo
di azione del governo austriaco; ecco quanto veniva affermato in questo senso
in una delle note diplomatiche inviata il 4 marzo 1858 al Cardinale Segretario
di Stato Antonelli dal nunzio Antonio Xaverio De Luca: “Il regolamento
amministrativo di questo Stato è un vero labirinto. I progetti di legge
richiesti in vista dell’applicazione dei provvedimenti e delle disposizioni del
Concordato si realizzano presso il Ministero dei Culti, previa consultazione
delle autorità amministrative, dopo di che vengono dibattuti nella
Conferenza dei Ministri. Di qui passano al Consiglio dell’Impero e, in caso
fosse necessario, vengono presentate, insieme ad una relazione afferente, alla
Sua Maestà l’Imperatore in vista della sanzione definitiva. Questo lungo
circuito richiede un tempo indefinito. Di conseguenza, giustamente, viene
sostenuto da alcuni, che nonostante i desideri del mondo intero, il Concordato
non si sarebbe potuto concludere se l’Imperatore non avesse dato piena
libertà al Monsignore, oggi Sua Eminenza il Cardinale Rauscher, a cui
avrebbe dato la sua piena fiducia.
La seconda ragione del ritardo
sta nella situazione deplorevole dell’erario imperiale, poiché la messa in
pratica di alcuni punti previsti dal Concordato necessitano somme importanti.
Il Ministero delle Finanze, oltre al fatto di essere protestante e per niente
favorevole alla Convenzione stipulata, impedisce le proposte fatte in questo
senso.
Non poco rilievo hanno anche
gli avvenimenti politici, come ad esempio il triste caso del sacrilegio contro
il fu Arcivescovo di Parigi, le agitazioni funeste del Belgio. D’altra parte,
la perfidia della Prussia, la malafede della Francia e le manovre della Russia
rispetto a questi problemi, tuttora attuali, dei Principati Danubiani hanno
determinato il Governo Imperiale ad agire con cautela ed estremamente timido in
ciò che riguarda i romeni che si trovano dentro e fuori dalle frontiere
dell’Impero. Tutto questo mi determina a dedurre, che non potremmo sperare di
ottenere né la restituzione dei beni ecclesiastici usurpati dai romeni
ortodossi, in maggioranza in Transilvania e nelle province vicine, ma neanche
la notifica degli abusi fatti alla Chiesa Cattolica, se prima non si dovesse
risolvere la grave controversia dell’organizzazione politica della Valacchia e
della Moldavia.
Dato che le questioni si
presentano in questo modo, dobbiamo insistere, in quel che ci riguarda, per
un’esecuzione progressiva del Concordato, con la fermezza temperata e misurata
della prudenza. […] L’imperatore è dalla nostra parte, nonostante tutti
quelli che lo circondano e che tentano ogni giorno di allontanarne il suo cuore
religioso e leale. L’Augusto Sovrano mantiene intatta tutta la sua fiducia
nella sua Eminenza il Signor Arcivescovo (Rauscher), consultandolo in problemi
importanti relativi alla Chiesa.
Il Ministro dei Culti è
inoltre estremamente disposto. Alle mie ripetute richieste mi risponde di
essere pazienti, sostenendo che la piena […] applicazione del Concordato
è per l’Austria non solo un obbligo ma anche un gesto d’onore”, Cfr. ASV, Segreteria di Stato; Affari Ecclesiastici. Carte d’Austria,
vol. VIII/1858-1862, posizione IV, d. 5, f. 178, dispaccio no. 332/4 marzo
1858.