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Stefano il Grande (Ştefan cel Mare) – principe romeno

 

 

Ion  Toderaşcu,

Università degli Studi “Al. I. Cuza” di Iassi

 

La commemorazione avvenuta in occasione del semimillenario stefaniano (1504-2004) ci ha determinato a riprendere preoccupazioni che vanno indietro nel tempo e a riflettere sul profilo di romeno del gran principe. Stefano il Grande si ritenne moldavo o romeno? Ebbe un orizzonte etnico limitato al paese ove era principe e dove regnava, oppure una visione più ampia, romena? Una simile restituzione può mettere lo storico nella situazione di attribuire all’uomo medievale, del XV secolo in questo caso, idee e percezioni estranee alla sua epoca. La difficoltà di una tale impresa deriva, innanzi tutto, dal “silenzio” dell’uomo medievale, che non era una persona, non aveva una vocazione pubblica (come l’uomo moderno), non faceva uso della gazzetta e non saliva alla tribuna. Lo scrivere era a quei tempi un bene ad uso molto limitato, un vero e proprio lusso; la società era una dell’oralità e del visibile. Poi, l’informazione documentaria romena, quella che si è conservata e che ci è pervenuta, non è solo insufficiente, ma anche unilaterale. I documenti politici, relativamente poco consistenti, furono redatti su una quasi stereotipia propria della cancelleria romena. I cliché verbali lasciano poco spazio alle sfumature che ci servono tanto per il recupero di un profilo principesco medievale da una prospettiva nazionale.

L’uomo del Medioevo visse in una diversità di forme e di particolarismi locali, in un pluralismo politico prolungatosi a volte fino alla metà dell’epoca moderna. Ciò nonostante, egli ebbe una coscienza di gruppo, il sentimento della discendenza da un lignaggio etnico comune; sapeva di appartenere ad una stirpe (popolo, etnia), di lingua comune, di una stessa confessione e di simili costumi. L’uomo medievale fu interessato alle origini della sua stirpe, cercava il suo eroe fondatore intorno al quale creò una leggenda. Ciò viene comunemente chiamato coscienza di stirpe oppure, con un concetto più nuovo, più adatto e insieme integratore, coscienza nazionale medievale[1]. L’uomo medievale, però, “vive il sentimento nazionale in maniera diversa da quello moderno. In primo luogo con un altro ritmo e un’altra intensità, in genere più diminuite”[2].

Il mondo medievale, talmente “multicolore”, aveva quale punto di legame la religione. È questa la ragione per la quale l’uomo del Medioevo si rivendica innanzi tutto in quanto cristiano. Questa era la sua prima identità. Gli abitanti dei Principati Romeni dei secoli XIV-XVI, periodo che siamo inclini a chiamare la medievalità romena classica, si reputavano, innanzi tutto, cristiani, poi si ritrovavano nel nome provinciale (moldavi,

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munteni[3], olteni[4], bănăţeni[5], haţegani[6], făgărăşani[7], moroşani[8]) e solo per ultimo si dichiaravano romeni. “L’idea di romeni e romanità non era del tutto complessiva, poiché il paese generico abitato dai romeni era formato da più paesi, spesso chiamati dai forestieri Valacchiae o Romanie, e dai romeni Paesi Romeni[9].

Con questi accertamenti preliminari, riprendiamo la domanda iniziale: Stefano il Grande ebbe coscienza della romenità? Oggi sussistono alcuni indizi documentari che ci fanno credere che il gran principe abbia superato la sua condizione di moldavo; che abbia conosciuto le realtà etniche, linguistiche e confessionali al di là dei confini del suo stato, oltre il Milcov e i Carpazi. Pur conoscendole, non si può dire che egli abbia operato con strumenti diversi da quelli specifici dell’uomo medievale e della nazione medievale, allorquando l’idea di stato non ricopriva l’idea di stirpe. Come ben si sa, Stefano il Grande intervenne più volte nella vicina Valacchia[10] (1473, 1476, 1477, 1480, 1481), due volte (nel 1476, per assistere l’ascesa al trono di Vlad l’Impalatore durante il terzo regno di quest’ultimo e nel 1480, al sostegno di Mircea II) cooperando anche con le forze militari della Transilvania, per l’installazione di alcuni principi come Laiotă Bassarab, Vlad l’Impalatore, Bassarab Ţepeluş, Mircea – che egli chiamava “il figlio di mia Signoria”– e Vlad il Monaco. L’insistenza con la quale il principe moldavo seguì la politica dei principi della casata dei Bassarab, cercando di indurre loro un atteggiamento antiottomano, fece sì che il contemporaneo tedesco (il quale ebbe una missione in Moldavia, molto probabilmente una militare), autore della variante tedesca della Cronaca della Terra di Moldavia (oppure soltanto una cronaca del regno stefaniano, come suggerisce proprio la variante in discussione), chiamasse Stefano “voivoda delle Terre di Moldavia e Valacchia”[11]. Inoltre, Istoria Ţării Româneşti (1290-1690). Letopiseţul cantacuzinesc [Storia della Valacchia (1290-1690). La cronaca cantacuzina] attribuisce a Stefano il Grande 16 anni di regno effettivo nella Valacchia[12]. Un’attribuzione senza dubbio gratuita,

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ma spiegabile per gli effetti attraverso i quali la pressione esercitata dalla politica di Stefano fu ricordata dalla coscienza pubblica della Valacchia. A sua volta, Johann Filstich, storico sassone, traduttore di Letop­iseţul canta­cuzinesc (donde sicuramente prese l’informazione) raffigura Stefano il Grande come “condottiero” per 17 anni sul trono della casata dei Bassarab[13].

La politica del grande principe moldavo nei confronti dello stato romeno meridionale è possibile che abbia avuto anche dei precisi fini politico-strategici. È molto probabile che Stefano il Grande abbia pensato ad un’unione dinastica tra la Moldavia e la Valacchia. Tramite il matrimonio con Maria–Voichiţa, figlia di Radu il Bello, Stefano si era assicurato oltre ad un’altra “dote” imperiale, la consanguineità con la famiglia principesca regnante in Valacchia, il che apriva la via all’ascesa di un suo discendente al trono di Târgovişte. Ci sembra sintomatico il fatto che il figlio risultato da questo matrimonio sia stato chiamato Bogdan–Vlad, il primo nome essendo specifico della dinastia di Moldavia, l’altro della dinastia di Valacchia[14]. Questa doppia filiazione fu registrata

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su due pezzi di ricamo donati al monastero di Putna, nel 1510 e nel 1513, una dvera[15] con l’icona della Vergine, la santa protettrice della chiesa, e un lenzuolo funebre per sua madre, la principessa Maria. Quivi Bogdan III s’intitola in slavo “figlio di Stefano voivoda (e) nipote di Radu voivoda”[16]. Il titolo in discussione, scritto in slavo, si ripete su un calice d’argento dorato, lavorato in stile gotico, in Transilvania o in Moldavia (seccoli XV-XVI), che Bogdan III donò all’eremo Protaton del Monte Athos[17], laddove il discendente di Stefano aveva finanziato i lavori di costruzione nel 1507/1508 e nel 1512[18].

Intervenendo in Valacchia, il grande principe di Moldavia ebbe, probabilmente, la consapevolezza di agire in un territorio con la stessa struttura etnica. Secondo una lettera del 12 gennaio 1460, indirizzata al cancelliere Mihu, trovatosi allora in Polonia (la seconda epistola con questa destinazione), il paese nel quale egli volle essere sovrano era “Il Paese dei Bassarab” (riferiamo quanto scritto nel documento: “da quando c’incontrammo nel Paese dei Bassarab”)[19] e non la Valacchia (il che avrebbe significato di ammettere una vera e propria “confisca” di nome e di risonanza etnica). L’iscrizione votiva della chiesa di Războieni (1496), alla quale dobbiamo riconoscere anche un certo senso educativo, rese possibile che la posterità sapesse che, nel 1476, accanto al “potente Mehmet, l’imperatore turco”, venne anche il principe Laiotă “con tutto il suo paese dei Bassarab”[20]. L’iscrizione della chiesa di Milisăuţi, chiesa eretta (nel 1487) per onorare la vittoria di Râmnic (1481) contro Bassarab Ţepeluş, lasciò ai posteri la notizia che Stefano il Grande vi fece “grande strage tra i Bassarab”[21]. Quindi, attraverso questa via di “pubblica informazione”, come fu considerata l’iscrizione dell’edificio di culto[22], Stefano fece conoscere di aver vinto i bassarab (=soldati del principe Bassarab Ţepeluş in questo caso, soldati oppure abitanti del Paese dei Bassarab in senso largo) e non i romeni, perché i romeni erano nel loro insieme, tanto vincitori quanto vinti d’entrambi i “Principati Romeni”.

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Nel testo affidato all’ambasceria inviata a Venezia, presentato al Senato l’8 maggio 1477, Stefano il Grande parlò, tramite l’inviato Giovanni Ţamblac (i veneziani gli dissero “Caloianes Valacus”), della Valacchia chiamandola “l’altro paese romeno”, “l’altra Vlacchia”[23], una formula esplicita per l’identità, in nome etnico, dei due “Paesi”, entrambi romeni. La consapevolezza della nazionalità comune assumeva, in questo modo, la sua più autentica espressione. Questo avveniva a Venezia, nel cuore della latinità, latinità dove l’origine romena del popolo romeno trovò la sua prima e chiara affermazione negli scritti del fiorentino Poggio Bracciolini[24]. L’espressione “l’altra Vlacchia”, con lo stesso significato, fu confermata anche da fonti straniere. Il 27 dicembre 1513, il bailo veneziano Nicolaus Iustinianus (Nicolò Giustinian) comunicò al doge Leonardus Lauredanus (Leonardo Loredan), che l’ambasciatore del re dell’Ungheria (Ladislao II) a Costantinopoli (Barnabas Beley, ricoprì questa carica tra il 1510 e il 1517), ricevuto in udienza dal sultano Selim I, sollecitò al sovrano ottomano che la Porta facesse pace con il re di Polonia, il re di Boemia, con l’Imperatore (l’Impero Romano-Germanico), con Venezia (Vostra Signoria), Moldavia (Carabogdan), “l’altra Vlacchia” (la Valacchia ossia la Terra Romena) e Ragusa[25]. Il tragitto interiore–esteriore del sintagma “l’altra Vlacchia” sembra di confermare l’origine autoctona della consapevolezza della romanità e dell’unità di popolo dei romeni.

La Cronaca della Terra di Moldavia, la cui stesura risale al tempo del regno di Stefano il Grande, adopera in modo corrente per lo stato romeno a sud dei Carpazi Meridionali la denominazione di “La Terra di Muntenia” / “Il Paese Montanaro”, e per i suoi abitanti quella di “munteni”/“montanari”[26]. Si può capire che i moldavi si rifiutarono ostinatamente di riconoscere solo ai romeni di là dal Milcov il diritto di chiamare il loro stato la Terra Romena e lo chiamarono Il Paese Montanaro, il che porta ad una forma di coscienza dell’unità etnica[27] oppure, seguendo il nuovo concetto già menzionato, di coscienza nazionale medievale.

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Da quanto sappiamo, risale ai tempi di Stefano il Grande l’uso più antico del termine rumân=romeno nella sua accezione etnica[28] e una delle “più antiche tracce di lingua romena”. Sulla variante latina del giuramento di Colomea, del 15 settembre 1485, c’è una nota molto interessante: “hec inscriptio ex valachico in latinum versa est […]”, vale a dire “questo atto fu tradotto dal romeno in latino […]”[29]. La conclusione, accreditata da alcuni studiosi dell’argomento, è che Stefano e i suoi consiglieri elaborarono una minuta in romeno che fu la base della versione definitiva del documento redatto in latino[30].

La relazione nazioneconfessione, che fu decisiva[31] per l’intero mondo medievale, si può invocare altresì nel senso dello stesso orizzonte di romanità del pio principe Stefano il Grande. Il pensiero ci riconduce alla Transilvania, laddove l’ortodossia fu per i romeni non solo un sistema religioso, bensì una vera e propria carta d’identità. Ortodosso era sinonimo di romeno, così come la confessione ortodossa era sinonimo della legge romena.

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Solo più tardi, ai tempi di Gabriele Bethlen, in pieno processo di calvinizzazione, si poté scrivere dei “nostri servi della gleba valacchi di fede romena” (atto del 13 aprile 1625) [il corsivo è nostro, I. T.][32]. Di conseguenza, a quell’epoca, all’inizio di un secolo premoderno, l’ortodossia era considerata “fede romena”, e così fu da sempre, perché nell’Ardeal [Transilvania] medievale i concetti di confessione e di nazione si affermarono e si svilupparono assieme.

Stefano il Grande, il principe con una visione generalmente romena, contò molto sulla collaborazione con la Transilvania; vi aveva trovato riparo, per qualche anno, dopo l’uccisione di suo padre a Reuseni (15 ottobre 1451), molto probabilmente sotto la protezione di Giovanni di Hunedoara[33]. In quanto principe di Moldavia, Stefano il Grande ebbe sotto il suo dominio due fortezze transilvane, Ciceu e Cetatea de Baltă, compresi i villaggi romeni e le chiese ortodosse circostanti. Dal paese di là delle montagne richiese informazioni, armi e soldati e, a sua volta, riferì notizie di politica estera che riguardavano entrambi gli stati. Stefano protesse, con un notevole sforzo militare, anche il paese romeno intracarpatico. Il 5 giugno 1476 scriveva agli abitanti di Braşov: “Amici nostri, sappiate […] che noi facciamo guerra agli infedeli Turchi e siamo già nel nostro campo insieme all’intero esercito e ci scagliamo sui Turchi[34]. Vi preghiamo, or dunque, di farci sapere a qualunque ora le novità dalla parte dei Turchi […]”. Fra qualche giorno (l’11 giugno 1476), dalla Valle Berheci, dove aveva sistemato il suo campo per combattere l’esercito di Mehmet II, Stefano ringraziava il podestà e i consiglieri di Braşov per aver mandato notizie riguardanti le mosse degli Ottomani[35]. Nel gennaio del 1477, da Hârlău, Stefano inviò a Braşov un suo messo, Oglindă [lo Specchio], che raccomandava quale “il nostro uomo in tutto e del tutto informato per quanto riguarda le nostre vicende”[36]. “La nostra gente è venuta dalla Valacchia – si diceva in un’altra lettera inviata, il 20 aprile 1479, alle stesse autorità di Braşov – e dico vero che i terribili pagani, i Turchi, sono nuovamente passati, con un altro esercito grande e molto potente, nella Valacchia, e non sappiamo dove si diriga il loro pensiero”. Egli sollecitava, con insistenza, informazioni sulle “intenzioni dei pagani”, accennando che “noi abbiamo mandato di nuovo altra gente perché s’informi delle loro azioni”[37]. La risposta pervenutagli da Braşov, qualche giorno dopo (il 26 d’aprile 1479), è di un gran significato per l’aureola militare del grande principe romeno: “Ti facciamo sapere – vi era scritto – che corriamo un grande pericolo e siamo sotto una grande pressione per colpa dei Turchi troppo crudeli […]”. Gli chiedevano, poi, insistentemente, di intervenire per proteggere la Transilvania: “sembra che tu sia stato prescelto e inviato da Dio per governare e difendere la Transilvania [il corsivo è nostro,

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I. T.] (gubernationem atque defensionem partium Transsilvanarum) […] Con grande desiderio e affetto (magno desiderio et affectione) preghiamo Vossignoria di avvicinarsi a queste parti, per difenderle dai suddetti Turchi troppo malvagi”[38]. Nell’estate del 1480, il 9 di luglio, il principe di Moldavia comunica da Hârlău “ai nostri buoni amici”, al podestà e ai consiglieri di Braşov, notizie sulle mosse degli Ottomani: “[…] le nostre spie che arrivano da loro, così ci dicono, che i Turchi hanno anche altri eserciti pronti e stanno all’erta da qualche parte per piombare davanti sia a noi, sia a voi. Per questo, Vossignoria, indaghi bene con le spie e se vedrà che quei nemici vengano addosso sia a voi sia a noi, siate pronti e ce lo facciate sapere subito […], per essere pronti anche noi a sollevarci assieme a voi contro quei nemici”[39].

La vita spirituale dei romeni di Transilvania ricevette un sostegno efficace dalla Moldavia. Nei dintorni del dominio di Ciceu, a Feleac, esistette un’antica chiesa, la cui santa padrona era la S.ta Parascheva, che la tradizione attribuisce a Stefano il Grande. Alcuni elementi architettonici, rinvenuti anche negli edifici moldavi di Pătrăuţi, Voroneţ, Borzeşti, Războieni e Neamţ[40], verrebbero ad avvalorare questa ipotesi, ma sono insufficienti da punto di vista quantitativo, indeterminati in quanto allo specifico e, in più, non sono esclusivamente moldavi. Fondatore o no, durante il regno di Stefano il Grande, la chiesa di Feleac fu fornita di alcuni libri manoscritti, alcuni di essi si sono conservati, un Liturghier [Messale] slavo del 1481. Altresì, un Tetraevanghelier [Tetravangelo] del 1488, che conserva la nota relativa all’edificazione della chiesa ai tempi dell’arcivescovo Daniil. Nel 1498, Isac il tesoriere, alto funzionario moldavo di Stefano il Grande, rivestì in argento questo libro di culto, precisando la sua destinazione: “per la cattedrale della Metropolia di Feleac”[41]. Entro i confini del dominio di Ciceu, ricevuto in feudo dal re Mattia Corvin, Stefano il Grande eresse edifici di culto per i romeni a Vad, Ciceu e Mihăieşti, di cui il primo continua a conservarsi fino ai giorni nostri. Per la chiesa di Vad, situata sulla vallata Bogata, eretta in piano trilobato, come lo sono molte nella Moldavia, fu utilizzata pietra dalle rovine del castro romano di Căşeiu. Molto probabilmente, il fondatore assegnò i villaggi di Vad e di Suarăş alle dipendenze di questa chiesa[42].

Tramite la costruzione di queste chiese, Stefano il Grande poté intervenire in maniera diretta nella vita dei romeni di Transilvania, assumendo un vero e proprio patrocinio spirituale, il che la memoria storica, col suo ruolo di salda depositaria di quanto accaduto

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nei secoli, conservò affinché servisse al recupero del passato. I rapporti della chiesa che Stefano il Grande fondò a Vad con la Moldavia continuarono anche nei secoli seguenti. In occasione dei lavori di restauro effettuati nell’ex chiesa vescovile di Vad, sulla parete dell’abside dell’altare, sotto l’intonaco più recente, poterono essere lette più iscrizioni graffiate, tra le quali una del 1o agosto 1781 che ricorda l’“Ieromonaca Antonii il Moldavo”[43].

 

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*  *

 

Stefano III, “il Grande” principe nella storia dei romeni, rende onore a questo soprannome grazie alle sue varie doti. Fu un grande statista dei suoi tempi, un grande diplomatico, e altrettanto grande militare, un grande cristiano e fautore di cultura ed ebbe una grande fama tanto tra i contemporanei quanto tra i posteri. Per completare l’aureola di questa personalità complessa va aggiunto l’orizzonte etnico romeno, espresso, come si è potuto vedere da questo breve articolo, nei termini e nelle forme del mondo medievale. Stefano il Grande è entrato nella leggenda ed è stato mitizzato, perché il mito, affermava Karl Abraham, rappresenta “il condensamento dell’animo popolare”[44]. Personificando “l’età

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eroica” della nazione romena medievale, il tempo dei “cavalieri” e della “tarda crociata”, Stefano il Grande diventò compartecipe alla creazione della Romania moderna e della Grande Romania. Attraverso il simbolo Stefano il Grande la realtà medievale è stata investita con gli attributi che segnarono una tappa verso la maturazione della consapevolezza politica della nazione, raggiunta nel Secolo dell’Unione e dell’Indipendenza dei romeni.

 

 

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© Şerban Marin, October 2005, Bucharest, Romania

Last Updated: July 2006

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[1] Ioan–Aurel Pop, Naţiunea română medievală. Solidarităţi etnice româneşti în secolele XIII-XVI, Bucarest 1998, pp. 6-7.

[2] Ibidem, p. 7.

[3] Vale a dire, abitante della regione Muntenia (n. d. tr.).

[4] Abitante dell’Oltenia (n. d. tr.).

[5] Abitante del Banat (n. d. tr.).

[6] Abitante dell’Haţeg (n. d. tr.).

[7] Abitante del Făgăraş (n. d. tr.).

[8] Abitante del Maramureş (n. d. tr.).

[9] I.–A. Pop, op. cit., p. 8.

[10] È sinonimo di Terra Romena che sarebbe la traduzione letterale del romeno Ţara Românească (n. d. tr.).

[11] Cronicile slavo-române din secolele XV-XVI, publicate de Ion Bogdan, edizione rivista e completata da Petre P. Panaitescu, Bucarest 1959, p. 28.

[12] Istoria Ţării Româneşti (1290-1690). Letopiseţul cantacuzinesc, edizione a cura di Constant Grecescu e Dan Simonescu, Bucarest 1960, pp. 4-5: Ţepeluş voivoda “ebbe guerra a Râmnicu Sărat con l’anziano Stefano voivoda della Terra di Moldavia. Allora [l’8 luglio 1481, n. ns., I. T.] perì nell’esercito anche Ţepeluş voivoda [in verità, fu cacciato dal paese, n. ns., I. T.] e la vittoria fu di Stefano voivoda. E quivi rimase e regnò per 16 anni”. Si ipotizzò che il desiderio di Stefano di imporsi come sovrano sui principi della Valacchia, perché era a questo che ambiva in fin dei conti, fosse tramandato nella compilazione cantacuzina “tramite l’antica Cronaca di Muntenia, iniziata ai tempi di Radu di Afumaţi (1524-1528)” (Leon Şimanschi, Ştefan cel Mare – domn al Moldovei şi Ţării Româneşti, in AA. VV., Ştefan cel Mare şi Sfânt (1504-2004). Portret în istorie, a cura di Maria–Magdalena Székely e Ştefan S. Gorovei, Putna 2003, p. 435). Attraverso un’operazione logica si propose che i 16 anni del presunto regno in Valacchia diventassero 6 e si rapportassero al periodo 1481 (la battaglia di Râmnic contro Bassarab Ţepeluş) e 1486 (la conclusione della pace moldavo-ottomana). In quell’intervallo, tra il 1481 e il 1486, Stefano poté diventare “il signore di Valacchia”, difatti lì sovrano (Ibidem, p. 436). L’informazione del viaggiatore polacco Matteo Stryjkowski (Călători străini despre Ţările Române, vol. II, a cura di Maria Holban (curatore capo), Maria Matilda Alexandrescu–Dersca Bulgaru e Paul Cernovodeanu, Bucarest 1970, p. 454), che nel suo cammino verso Costantinopoli (1574-1575) visitò la corte principesca di Valacchia (vi regnava allora Alessandro II Mircea) e vide “il volto” di Stefano il Grande “scolpito in legno […] con la corona sulla testa”, potrebbe fungere da memoria storica. Era l’immagine tramandata nei secoli di colui che, per un decennio, “fece” la politica della successione al seggio principesco valacco e che sarebbe apparso, tramite la forza della storiografia, quale regnante sul trono dei Bassarab.

[13] Johann Filstich, Încercare de istorie românească (Tentamen Historiae Vallachicae), studio introduttivo, edizione del testo e note di Adolf Armbruster, traduzione di Radu Constantinescu, Bucarest 1979, p. 105 e p. 107: “Stefano, principe di Moldavia, dopo aver sconfitto Vladislav l’Impalatore e dopo aver portato la Valacchia sotto la sua ubbidienza [il corsivo è nostro, I. T.], giunse a farsi padrone [il corsivo è nostro, I. T.] anche di questo voivodato. E, benché lo diresse per 17 anni [il traduttore sassone vide la cifra 6 del testo cirillico della cronaca di Muntenia come 7; l’osservazione appartiene a L. Şimanschi, op. cit., p. 435], non lasciò nulla di così degno da essere registrato dalla penna degli storici”. La mancanza delle imprese “meritorie” dal cosiddetto regno di Stefano il Grande in Valacchia, il principe talmente “meritorio” è la prima prova della sua creazione; Stefano poté essere, ciò è ben noto, soltanto un sovrano, effettivo o “in spe”.

[14] P. P. Panaitescu, Problema unificării politice a Ţărilor Române în epoca feudală, in AA. VV., Studii privind Unirea Principatelor, Bucarest 1960, p. 61; per l’identità di questo figlio stefaniano e per l’evoluzione dell’associazione onomastica Bogdan–Vlad, si veda Constantin Burac, Bogdan–Vlad, urmaşul lui Ştefan cel Mare, in “Anuarul Institutului de Istorie şi Arheologie «A. D. Xenopol»”, XXV/1, 1988, pp. 247-252.

[15] Pezzo decorativo a forma di tenda che, nelle chiese ortodosse, copre lo spazio antistante l’ingresso nell’altare (n. d. tr.).

[16] Theodor G. Bulat, Biserica Moldovei în vremea lui Bogdan al III-lea cel Orb (1504-1517), estratto da “Mitropolia Moldovei”, no. 2-3, 1940, p. 19.

[17] Treasures of Mount Athos, Salonicco 1997, p. 380; l’informazione ci è stata segnalata dallo storico d’arte Marius Porumb, al quale rinnoviamo qui i nostri più vivi ringraziamenti.

[18] Petre Ş. Năsturel, Le Mont Athos et les Roumains. Recherches sur leur relations du milieu du XIVe siècle à 1654, Roma 1986, p. 295.

[19] Documenta Romaniae Historica. A, Moldova, vol. II, 1449-1486, a cura di L. Şimanschi, con la collaborazione di Georgeta Ignat e Dumitru Agache, Bucarest 1976, doc. 89, p. 127.

[20] Repertoriul monumentelor şi obiectelor de artă din timpul lui Ştefan cel Mare, Bucarest 1958, p. 143.

[21] Ibidem, p. 58; si è ritenuto, di recente, che questa precisazione – “e fece sterminio grande tra i Bassarab” – possa suggerire, oltre al contrassegno di una vittoria anche la confessione di un rimpianto. “Stefano volle essere assolto dal peccato di aver ucciso quelli della sua stessa stirpe e della sua stessa fede” (Ion I. Solcanu, Artă şi societate românească, secolele XIV-XVIII, Bucarest 2002, p. 251).

[22] Voica Puşcaşu, Actul de ctitorire ca fenomen istoric în Ţara Românească şi Moldova până la sfârşitul secolului al XVIII-lea, Bucarest 2001, p. 120.

[23] Ioan Bogdan, Documentele lui Ştefan cel Mare, vol. II, Bucarest 1913, pp. 348-349; “Espressione interessante, notava l’editore, perché è una prova per il XV secolo della consapevolezza dell’origine comune dei Moldavi e dei Munteni (si veda supra nota 3, n. d. tr.). È noto che la Vlacchia, oppure Valacchia, viene chiamata non solo la Terra Romena, ma anche la Moldavia (“Vlacchia Maior, Vlacchia Minor”) (Ibidem, p. 348, nota 3).

[24] A. Armbruster, Romanitatea românilor. Istoria unei idei, Bucarest 1972, pp. 46-47 (edizione in lingua francese, Bucarest 1977).

[25] I.–A. Pop, Dalla crociata alla pace: documenti veneziani riguardanti i rapporti tra le potenze cristiane e l’Impero Ottomano all’inizio del XVI secolo, in L’Italia e l’Eurropa Centro–Orientale attraverso i secoli. Miscellanea di studi di storia politico-diplomatica, economica e dei rapporti culturali, a cura di Cristian Luca, Gianluca Masi e Andrea Piccardi, Brăila–Venezia 2004, p. 98 e p. 102.

[26] Cronicile slavo-române cit., pp. 17-19, p. 22 e passim.

[27] “Le cronache slave dell’epoca di Stefano il Grande menzionano anche le vittorie contro i munteni di Radu il Bello, di Bassarab il Vecchio e del Giovane Bassarab, di Vlad il Monaco. Eppure mai una parola di rabbia scagliata contro l’avversario dello stesso sangue. Si tratta di due dinastie rivali, di due principi resi nemici dai boiardi (nobili) attorno a loro, oltre a questo nient’altro che la consapevolezza di un unico popolo […]” [il corsivo è nostro, I. T.] (Nicolae Iorga, Conferinţe. Ideea unităţii româneşti, edizione a cura di Ştefan Lemny e Rodica Rotaru, postfazione, note e bibliografia a cura di Şt. Lemny, Bucarest 1987, p. 267).

[28] Eugen Stănescu, Cultura scrisă moldovenească în vremea lui Ştefan cel Mare, in Cultura moldovenească în timpul lui Ştefan cel Mare, a cura e sotto il coordinamento di Mihai Berza, Bucarest 1964, p. 45; il 13 marzo 1489, nel contesto dell’assestamento di alcune ocini (terre ereditarie, n. d. tr.), vengono ricordati i poderi di Bodea Sârbul (il Serbo) e Bodea Rumârul/Rumânul (il Romeno) (Documenta Romaniae Historica. A, Moldova, vol. III, 1487-1504, a cura di Constantin Cihodaru, Ioan Caproşu e Nestor Ciocan, Bucarest 1980, doc. 50, p. 93). Il termine rumân (romeno), notava Gheorghe I. Brătianu, deriva dal termine latino romanus ed è questo il vero e proprio nome nazionale del popolo romeno. Il valore sociale, di contadino assoggettato, del termine rumân trova una spiegazione nel fatto che romanus “rappresenta per gli invasori germanici e slavi del primo Medioevo il nome del colono dipendente di un dominio terriero”. Romanus “conteneva dunque l’idea di stabilità, non di migrazione, l’idea di servitù agricola, non di libertà pastorale” (Gh. I. Brătianu, O enigmă şi un miracol istoric: poporul român, edizione a cura, premessa, studio e note di Stelian Brezeanu, traduzione dal francese di Marina Rădulescu, Bucarest 1988, p. 107). Per il nome etnico rumân–român e per l’evoluzione di questi termini, si veda Vasile Arvinte, Român, românesc, România, Bucarest 1983, pp. 35-96).

[29] Ion Gheţie, Alexandru Mareş, De când se scrie româneşte, Bucarest 2001, p. 28.

[30] Ion C. Chiţimia, Cele mai vechi urme de limbă românească, in “Romanoslavica”, I, 1948, pp. 123-126; I. Gheţie, Al. Mareş, op. cit., pp. 28-29. L’opinione secondo la quale lingua valachica designerebbe “senza dubbio la lingua slava” (si veda “Revista de istorie”, no. 3, 1983, p. 317) va definitivamente abbandonata. Nel XV secolo, come anche nei seguenti, lingua valachica era la lingua romena, mentre la lingua slava era designata tramite la lingua ruthenica. Le numerose testimonianze, in questo senso, in Nicolae Stoicescu, Dovezi istorice despre unitatea limbii române, secolul XV–prima jumătate a secolului XIX, in “Revista de istorie”, no. 2, 1983, pp. 137-147; per lo stesso orizzonte si veda anche Olimpia Guţu, Ana–Cristina Halichias, Note privitoare la scrisul în limba română înainte de 1550, in “Revista Arhivelor”, no. 4, 1983, pp. 390-401; A.–C. Halichias, Mărturii privind limba română înainte de primele atestări scrise, in “Studii şi cercetări de lingvistică”, no. 3, 1989, pp. 239-245.

[31] I.–A. Pop, Etnie şi confesiune. Geneza medievală a naţiunii române moderne, in Nicolae Bocşan, Ioan Lumperdean, I.–A. Pop, Etnie şi confesiune în Transilvania (secolele XIII-XIX), Oradea 1994, pp. 5-63; I.–A. Pop, Geneza medievală a naţiunilor moderne, Bucarest 1998, pp. 115-193.

[32] Cfr. Valer I. Literat, Biserici vechi româneşti din Ţara Oltului, edizione a cura di Nicolae Sabău, Cluj-Napoca 1996, p. 95.

[33] L. Şimanschi, O cumpănă a copilăriei lui Ştefan cel Mare: Reuseni, 15 octombrie 1451, in “Anuarul Institutului de Istorie şi Arheologie «A. D. Xenopol»”, XIX, 1982, p. 185.

[34] I. Bogdan, Documentele cit., vol. II, pp. 339-340.

[35] Ibidem, pp. 340-341.

[36] Ibidem, p. 342.

[37] Ibidem, pp. 353-354.

[38] Ibidem, pp. 354-355.

[39] Ibidem, p. 357.

[40] M. Porumb, Bisericile din Feleac şi Vad. Două ctitorii moldoveneşti din Transilvania, Bucarest 1968, pp. 5-18; Idem, Pictura românească din Transilvania, Cluj-Napoca 1981, p. 45.

[41] Idem, Pictura românească din Transilvania, p. 45; N. Iorga, Les arts mineurs en Roumanie, vol. I, Icônes, Argenterie, Miniatures, Bucarest 1934, p. 40, ha messo il gesto del boiardo moldavo, “diplomatico” di Stefano il Grande, in relazione con la liberazione di costui dalla prigione di Leopoli, dove era stato cacciato, durante la campagna del 1497, per ordine del re Giovanni Alberto, in seguito a una seria violazione dell’immunità di cui godevano gli inviati diplomatici. Vi era, dunque, nel dono del grande dignitario un atteggiamento di gratitudine per la “pietà di Dio” al quale doveva il suo rilascio.

[42] M. Porumb, Pictura românească din Transilvania cit., pp. 46-47.

[43] Idem, Inscripţii medievale româneşti din Transilvania, in “Anuarul Institutului de Istorie şi Arheologie din Cluj-Napoca”, XXI, 1978, p. 312. La fondazione dei vescovati e della Metropolia ortodossa di Transilvania, come anche la loro evoluzione, il loro statuto, i rapporti con la sedi delle Metropolie di Valacchia e di Moldavia sono stati spunto di lunghe discussioni, ma siamo ancora su un terreno d’incertezze. Rispetto alla Metropolia ortodossa di Transilvania si sono delineate, nel tempo, due opinioni. L’una, promossa da Augustin Bunea (Idem, Ierarchia românilor din Ardeal şi Ungaria, Blaj 1904), al quale si unirono poi N. Iorga e P. P. Panaitescu, esclude l’esistenza di una Metropolia ortodossa prima del breve regno transilvano di Michele il Bravo; l’altra, formulata prima da Ştefan Meteş (Idem, Istoria bisericii şi a vieţii religioase a românilor din Transilvania şi Ungaria, vol. I, Sibiu 1935), fu sviluppata da Mircea Păcurariu (Idem, Începuturile Mitropoliei Transilvaniei, Bucarest 1980; Idem, Istoria Bisericii Ortodoxe Române, Chişinău 1993), che ritiene che la sede della Metropolia ortodossa della Transilvania fu itinerante, passando da Feleac (prima del 1488), a Prislop (dopo il 1451), quindi a Geoagiu, Lancrăm, Alba Iulia. Per l’evoluzione di questa controversia, con argomenti e osservazioni poco attendibili a favore dell’opinione di Augustin Bunea, Cfr. Florin Pintescu, Românii din Transilvania la sfârşitul secolului XVI şi începutul secolului XVII, Suceava 2004, pp. 132-143. In quanto al Vescovato di Vad si sono delimitate due direzioni: l’una la fa risalire la sua fondazione ai tempi di Stefano il Grande e la considera dipendente della Metropolia di Moldavia, dove c’erano i vescovi di Vad (si veda, M. Porumb, Pictura românească din Transilvania cit., p. 47); l’altra, rappresentata da M. Păcurariu, la colloca nella prima metà del secolo XVI, il primo vescovo menzionato nei documenti essendo Giovanni, nel 1523, più precisamente il 23 settembre. Assoggettati a questo vescovato vi erano 60 villaggi dell’entroterra della fortezza di Ciceu, 34 villaggi stanziati tra Bistriţa e Gherla, che appartenevano alla fortezza di Unguraş, 50 villaggi di Bistriţa e 23 di Rodna (M. Păcurariu, Istoria Bisericii Ortodoxe Române cit, p. 157).

[44] Karl Abraham, Psychanalyse et culture, Parigi 1969, p. 8.