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Stefano il Grande – anni di pace e anni di guerra

 

 

Ion  Toderaşcu,

Università degli Studi “Al. I. Cuza” di Iaşi

 

Il mondo medievale è solitamente percepito come un mondo di guerra. Questa è la sua prima immagine, spiegabile per una certa predilezione di quelli che registravano gli eventi – le cancellerie e i cronisti – per i fatti clamorosi[1], che scattavano stati emozionali. Eppure, il rapporto tra gli anni di pace e gli anni di guerra inclina a favore della pace, e il principato di Stefano il Grande, che ci appare ad una veloce valutazione come un periodo di incessabili conflitti militari, non fa eccezione da questa valutazione. Stefano il Grande dimostrò molta ponderazione in tutto quello che intraprese. Dopo l’ascesa al trono, egli scelse la pace invece della guerra. Sistemò al meglio le strutture e i rapporti interni del paese, quanto quelli esterni, perché la calma di dentro era una garanzia per la calma di fuori. Il suo lungo principato si svolse tra pace, stato di guerra e guerra effettiva. Era lecito per Gregorio Ureche, uno degli insigni cronisti moldavi, affermare che dopo l’ascesa al trono Stefano “si preparava alla guerra”. Cosa del tutto naturale, giacché le guerre scoppiavano dappertutto, provocate per lo più da “quelli grandi”, le aspirazioni imperiali essendo molto acute all’epoca. Gli stati piccoli dovevano difendersi, e la Moldavia era uno di essi. Situata all’interferenza di certi interessi politico-economici maggiori, nella vicinanza del Danubio e del Mar Nero, attraversata da vie continentali, padrona di posizioni-chiave e di porti importanti, il paese di Stefano fu destinato ad una causa importante in un secolo di grandi capovolgimenti e riassestamenti quale il Quattrocento. Una potenza storica, il Bisanzio, crollò nel 1453, in seguito ad una lunga agonia, sotto i colpi degli Ottomani. Era stato preceduto nella stessa sorte dalla Serbia Meridionale (1371), dalla Bulgaria (1393-1396) e dalla Macedonia (1394). Seguirono al Bisanzio, condividendo il suo tragico destino, alcuni stati ex territori bizantini: Atene (1456), Morea (1460), Trapesunzio (1461), tutti quanti facendo parte, in seguito alla conquista ottomana, della “Casa dell’Islam” (“Dar-al-Islam”), entrando de facto e de jure nei confini dell’Impero Ottomano. La grande potenza che era in piena ascensione, ovvero l’Impero Ottomano, aveva un’ideologia politico-spirituale del tutto opposta a quella cristiana. Minacciata dall’espansione dell’Islam, l’Europa cristiana reagì. Dal papato partirono iniziative di

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crociata, la cosiddetta tarda crociata, quindi la coalizione antiottomana chiamata la Santa Lega[2].

Se il mondo dell’Islam si dimostrò una forza con grandi risorse umane, economiche e militari, garantite da un sistema ben definito e con una politica di offensiva e di estensione territoriale, la cristianità si presentò unita solo nell’idea ma non nell’azione. Essa fu tormentata da interessi divergenti che corrispondevano alla politica di ogni singolo stato, quelli potenti determinando l’ordine nella zona. L’idea cristiana, ben stilizzata d’altronde, fu compromessa dai progetti di dominazione effettiva, o per lo meno d’influenza diretta, di alcune potenze dell’epoca, di controllo dei punti strategici, delle vie commerciali e dello sfociare nel mare. Stefano III dovette iscrivere la sua politica estera entro queste coordinate e agire mantenendo bilanciate le leggi della diplomazia e le leggi della guerra. Quando la diplomazia esauriva i suoi argomenti e la comunicazione falliva oppure veniva rifiutata, la guerra diventava inevitabile. Stefano III fu un grande militare, un notevole stratega, ottimo conoscitore delle leggi della guerra. Il più delle volte egli seppe applicare la tattica migliore, accogliere il nemico nel posto giusto, coglierlo di sorpresa, tendergli delle imboscate, opprimerlo e affamarlo per indebolire le sue forze assicurandosi in questo modo le premesse psicologiche della vittoria[3]. Stefano sfruttò abilmente il vantaggio del

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terreno[4], ingaggiando la battaglia decisiva laddove e allorquando poteva assicurarsi la vittoria. “Stefano voivoda non osò uscire all’aperto, ma solo negli stretti bisognava incastrare [gli Ottomani]”, sapeva nel XVII secolo Gregorio Ureche[5]. Il gran principe diede particolare attenzione alle fortezze, che per lo stratega medievale rappresentavano delle “vere colonne del potere”, i noccioli duri della resistenza che decidevano la sorte di un paese in situazioni estreme[6], quale fu per la Moldavia l’estate del 1476 quando, in seguito alla sconfitta subita a Valea Albă–Războieni[7], le fortezze resistettero all’assedio ottomano, e lo stato sopravvisse alla terribile minaccia volta ad annientarlo[8]. Di Chilia e Città Bianca, il principe aveva affermato, nel messaggio diplomatico presentato al Senato di Venezia l’8 maggio 1477, che sono “la Moldavia intera” e che “la Moldavia con questi due territori è un muro per l’Ungheria e per la Polonia”[9]. L’intuizione di Stefano il Grande fu confermata anche dai piani perseguiti dal suo avversario, Bayazid II, il sultano conquistatore delle due città-fortezza nell’estate del 1484[10], azione decisiva per il periodo tra il 1475 e il 1484 che consentì la trasformazione del Mar Nero in un “lago ottomano”[11].

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Stefano il Grande ingaggiò molte guerre[12] e condusse molte battaglie, 36 secondo la propria testimonianza annotata dal medico veneziano Matteo Muriano, venuto in Moldavia, nel 1502, a prendersi cura della salute del principe moldavo: “io sono circondato da nemici da tutte le parti e da quando sono il voivoda di questo Paese ho condotto 36 battaglie […]”, cifra che è molto vicina alla realtà. Inoltre, il principe aggiunse, durante quell’incontro: “sono stato vincitore in 34 di esse e ne ho perse 2”[13]. Se una delle sconfitte fu quella di Valea Albă (1476), registrata come tale nell’iscrizione della chiesa di Războieni (1496) (“[…] e con la volontà di Dio, furono sconfitti i cristiani dai pagani”), quale fu il secondo insuccesso, percepito da Stefano il Grande quale “battaglia persa”, è difficile dire: l’assedio fallito di Chilia del 22 giugno 1462? Oppure la perdita di Chilia e di Città Bianca del luglio-agosto 1484 (dove, infatti, la resistenza fu di quelli trovati dietro le mura della fortezza, mentre Stefano, sconcertato dalla mossa a sorpresa del sultano Bayazid II, vi rimase “spettatore” della caduta della città nelle mani degli Ottomani)? Oppure, si tratterà del tentativo infausto di liberare la Città Bianca nel 1485? Se il medico inviato dal doge Leonardo Loredano registrò in modo esatto e annotò in maniera fedele questa testimonianza, resta ancora una “sconosciuta” riguardante le “gesta” di Stefano il Grande.

Da una prospettiva strategica, le battaglie di Stefano il Grande furono, tutte quante, di difesa. Vi furono poche azioni offensive. Le incursioni iniziate all’infuori dai confini della “Terra di Moldavia”, nel territorio dei secui, nella Polonia oppure nella Valacchia (il “Paese dei Bassarab”), quale rappresaglie volte a colpire alcuni avversari politici o, nel caso della Valacchia, per assicurare una consonanza nella politica antiottomana, si circoscrivono sempre all’idea di difesa e di recupero territoriale. Si trattò, in questi casi, di un’offensiva imposta da necessità difensive[14].

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Il rapporto anni di pace – anni di guerra, al quale abbiamo accennato prima, è prevalentemente a favore della pace. Se incentriamo la durata della guerra sui conflitti

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maggiori degli anni 1467, 1475, 1476, 1484 e 1497[15] – ai quali va aggiunto anche quell’anno-chiave: 1473 – un conteggio, che non può essere che molto relativo, per mancanza d’informazioni precise – per poter permettere il monitoraggio dell’intero tragitto temporale del suo principato, ci accorgeremo che si ammonta a un totale di circa 285 giorni[16]. Di conseguenza, gli scontri militari principali, disseminati entro l’arco di tre

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decenni, 1467-1497, costituiscono in tutto pressappoco tre quarti d’anno dei complessivi 30 anni. Gli altri coinvolgimenti bellici di Stefano il Grande, intorno a 30, furono di minore portata e durata. Come si nota, dei 47 anni di principato, la guerra occupò un periodo minore; dunque, quale evento storico, le campagne militari del principe romeno s’iscrivono nella durata breve. Le conseguenze della guerra, però, furono grandi, la gente visse un permanente sentimento di terrore (“con i dì nella mano”, secondo un’espressione del cronista Miron Costin), ma la pace fu lo stato di normalità.

Vittorioso o sconfitto, il pio principe, il gran cristiano Stefano intese la situazione per volontà divina. La vittoria essendo un dono di Dio, e non solo di lui, Stefano il Grande si reputò meramente un portatore di vittoria[17]. E così che lo presenta la cronaca Letopiseţul

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de când s-a început, cu voia lui Dumnezeu, Ţara Moldovei (in una certa misura, e con simili termini, anche in alcune delle sue varianti). La sconfitta di Pietro Aron (il 12 aprile 1457) fu possibile “per pietà di Dio”[18], e la presa di Chilia (il 23 gennaio 1465), “con la volontà di Dio”[19]. La sconfitta di Mattia Corvino a Baia (il 15 dicembre 1467) “portò a compimento il pensiero di Dio”[20] e la vittoria conseguita nella lotta con il valacco Radu il Bello, a Soci (il 7 marzo 1471), fu raggiunta “per pietà di Dio”[21]. A Vaslui (il 10 gennaio 1475), Stefano “sconfisse le forze turche […] per pietà di Dio e con l’aiuto di Gesù Cristo, figlio di Dio […]”, quindi tornò con tutti i suoi soldati quale “portatore di vittorie nella reggia di Suceava” [il corsivo è nostro, I. T.][22]. Come “portatore di vittorie” ritornò Stefano anche dalla Valacchia dove, l’8 luglio 1481, aveva sconfitto a Râmnic Bassarab Ţepeluş “per pietà di Dio e con le preghiere della Santa Madonna e di tutti i Santi e con la preghiera del Santo e venerato Gran Martire Procopio”[23]. A questo santo militare, Stefano dedicò la chiesa di Milişăuţi (1487), nella cui iscrizione votiva s’invoca di nuovo la benedizione divina: “E Dio aiutò Stefano voivoda e sconfisse Bassarab voivoda”[24]. A Cătlăbuga (dicembre 1485), dove affrontò gli Ottomani, “vinse Stefano voivoda per pietà di Dio”[25],

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e fu sempre vittorioso contro Giovanni Alberto, il re polacco, che si gettò “con inganno” contro la Terra della Moldavia (1497); pio, “Stefano voivoda […] prese in aiuto Dio Altissimo e lo colpì giovedì, il 26 ottobre. E per pietà di Dio e con le preghiere della Santa Vergine […] vinse allora Stefano voivoda”[26]. Anche la sconfitta del principe romeno accadeva per volontà di Dio, come una punizione per i peccati del vinto. A Valea Albă–Războieni, “nel mese di luglio, 26 […], per volontà di Dio, i pagani sconfissero i cristiani. E vi perì un gran numero di soldati moldavi […] ” [il corsivo è nostro, I. T.][27].

Stefano il Grande, quale “figlio devoto della Chiesa”, affrontava la vigilia delle battaglie con “digiuno e preghiere”[28], come nel Bisanzio[29]. Da un ragguaglio straniero, veniamo a sapere che la mattina della battaglia di Vaslui i soldati moldavi rivolsero una preghiera nella speranza che “Dio ci aiuterà”[30]. Anche dopo le vittorie si soleva innalzare

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una preghiera “poiché a Dio solo spetta tutta l’osanna”[31]. Tre giorni dopo, Stefano e i suoi soldati festeggiavano le loro vittorie. Vincitore a Chilia (1465), il gran principe “vi rimase per tre giorni a festeggiare e a lodare Dio”[32]. Dopo aver combattuto contro “Radu voivoda” (1473), ritornò alla fortezza, residenza principale, di Suceava, dove “il metropolita insieme con l’intero clero secolare gli fecero un’accoglienza meravigliosa e bella”. Allora Stefano il Grande “vi fece una festa ai suoi metropoliti e ai suoi audaci[33]. “La meravigliosa e bell’accoglienza” era, facendo un paragone con il nostro modello, il Bisanzio, un trionfo, una forma di proiezione del potere[34]. Di un altrettanto trionfale ricevimento Stefano il Grande godette a Suceava anche dopo la battaglia di Vaslui (il 10 gennaio 1475). Allora “gli vennero incontro i metropoliti e i preti, portando il Santo Vangelo […] e benedicendo lo tzar: «Evviva lo tzar [=l’imperatore, Cfr. D. Năstase]»”. E il vittorioso principe “fece allora gran festa ai suoi metropoliti e ai suoi audaci e a tutti i suoi boiardi, dai più grandi ai più piccoli”[35]. Una “gran festa”, accompagnata da regali costosi offerti generosamente ai boiardi e per i audaci, “a ciascuno a seconda delle sue imprese” e dal contributo decisivo

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dell’istituzione di audaci (una specie di promozione e di decorazione, come nei tempi moderni) ebbe anche le vittorie del 1481 (Râmnic)[36] e 1497 (Codrul Cosminului). Nel secondo caso, la celebrazione della vittoria ebbe luogo a Hârlău, il giorno di S. Nicola (il 6 dicembre). Come sempre e dappertutto, s’innalzavano osanni alla divinità “perché tutte le vittorie sono da Dio” [il corsivo è nostro, I. T.][37].

La venerazione della Santa Croce, il segno dell’espiazione, della lotta contro la sofferenza e il sacrificio, ma anche la guida alla vittoria dei santi militari (il S. Arcangelo Michele, l’arcistratega degli eserciti celesti, il S. Gran Martire Procopio, S. Teodoro, S. Giorgio, il gran martire portatore di vittorie, “il voivoda di Gesù”, S. Demetrio, “il soldato di Gesù”), e inoltre la copiatura, nel 1473-1474, su ordine di Stefano il Grande, del Panegirico di Costantino il Grande, scritto da Eftimio, patriarca di Târnovo, non possono essere che la rappresentazione in piano simbolico della guerra di crociata[38]. Ed è sempre lì che ci rimanda la “spettacolare trasformazione” dello stemma personale di Stefano il Grande, avvenuta nel periodo tra il 1470 e il 1477, può darsi anche nell’anno-chiave 1473: dalla croce semplice, nello scudo araldico del 1470, alla doppia croce dorata in quello del 1477. Ciò sembra suggerire “il ruolo assunto da [Stefano] nella crociata cominciata nel 1473”[39]. Gregorio Ureche, il boiardo storico e patriota, collocò Stefano il Grande davanti a tutti i principi di Moldavia. Egli reputava adatto il luogo di Stefano tra i santi, ma “non per l’anima, che si trova nella mano di Dio, poiché egli ebbe dei peccati, bensì per le sue azioni coraggiose, che nessuno dei principi, né di prima, né di poi raggiunsero [mai più]”[40]. Era l’elogio rivolto al grande militare che provvede, per quasi mezzo secolo, alla difesa della Moldavia.

 

 

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[1] Che le cose stiano così, ce lo suggerisce il modo nel quale fu redatta la cronaca ufficiale presso la corte di Stefano il Grande; l’elaborazione si svolse a tappe successive, incentrate sugli eventi bellici degli anni 1467, 1473, 1475-1476, 1484-1486 e 1497, eventi che incisero fortemente sui contemporanei, rimanendo nella memoria collettiva (Leon Şimanschi, Începutul ela­bo­rării cronicii lui Ştefan cel Mare, in Profesorului Constantin Cihodaru la a 75-a aniversare, Iaşi 1983, pp. 39-46, testo ristampato in AA. VV., Ştefan cel Mare şi Sfânt (1504-2004). Portret în istorie, Sacro Monastero di Putna 2003, pp. 238-244.

[2] Constantin Rezachevici, Rolul românilor în apărarea Europei de expansiunea otomană. Secolele XIV-XVI, Bucarest 2001, p. 231.

[3] Un soldato del principe moldavo, che aveva partecipato alla battaglia del 10 gennaio 1475, riferiva a Buda che “il voivoda di Moldavia con tutto il suo potere e insieme ai suoi prese le misure necessarie affinché sul cammino lungo il quale dovevano avanzare [gli Ottomani] si nascondesse tutto, sia i cavalli che la gente, e tutto quello che non poté essere nascosto dovette essere dato alle fiamme e ciascuno incendiò la propria casa”; si tratta della cosiddetta “Lettera di Buda”, del 24 febbraio 1475, pubblicata da Nicolae Iorga, Acte şi fragmente cu privire la istoria românilor, vol. III, Bucarest 1901, p. 93. Jan Długosz trovava anch’egli una simile spiegazione per la vittoria dei moldavi a Vaslui: “[…] i Turchi erano straziati dalla fame poiché Stefano voivoda diede alle fiamme tutta quanta la terra moldava laddove loro sarebbero passati, e questa congiuntura fu decisiva per la vittoria” (Ce spun cronicarii streini despre Ştefan cel Mare, traduzione a cura di N. Orghidan, Craiova 1915, p. 16). Nel 1476, Stefano “dopo aver bruciato tutti i viveri e i fienili si scagliò sull’esercito tartaro” (Ibidem, p. 25). L’italiano Angiolello, entrato alle dipendenze del sultano Mehmet II, partecipò alla campagna del 1476 e vide sul posto i risultati di questa tattica. Gli abitanti di una città (si trattava degli abitanti di Suceava) avevano interrato la loro roba, ma gli Ottomani erano “maestri nel trovare cose così nascoste e interrate; trascinando sulla terra una catena o persino una briglia, essi sentono e riconoscono i vuoti nella terra, dove sono interrate cose e granaglie; in questo modo trovarono pozzi con granaglie e altre cose interrate” (Călători străini despre Ţările Române, vol. I, a cura di Maria Holban, Bucarest 1968, p. 137). Lo stesso Angiolello dice che il principe “abbia ordinato che tutte le granaglie siano tagliate […]”; altresì i pascoli e “fece bruciare tutto”, quindi il sultano trovò il paese “disabitato” e privo di “granaglie e pascoli” (Ibidem, p. 135-136). Il cronista turco Hodja Husein, che scrisse la sua opera più tardi, nella prima metà del Seicento, si ricordò della informazione, tramandata attraverso i secoli, che il principe moldavo Stefano “aveva bruciato i seminati del suo proprio paese, di modo che non lasciò alcuna traccia di fienaie o di granaglie […]” (Cronici turceşti privind Ţările Române. Estratti, vol. I, secolo XV-metà del secolo XVII, a cura di Mihail Guboglu e Mustafa Ali Mehmet, Bucarest 1966, p. 458).

[4] “Il sistema di battaglia di Stefano il Grande era […] legato all’aspetto della terra moldava, non era imparato dagli stranieri. È giusto dire che gli eserciti del gran voivoda hanno vinto sempre perché si erano affratellati con la terra del paese” (Cfr. P. P. Panaitescu, Ştefan cel Mare. O încercare de caracterizare, in AA. VV., Ştefan cel Mare şi Sfânt (1504-2004) cit., pp. 28-29).

[5] Grigore Ureche, Letopiseţul Ţării Moldovei, edizione a cura di P. P. Panaitescu, Bucarest 1958, p. 107.

[6] “Le fortezze giocarono un ruolo militare decisivo nel Medioevo; chi s’impadroniva delle fortezze di un paese, lo aveva in mano” (P. P. Panaitescu, op. cit., p. 28).

[7] Momento difficile, con tardi riverberi; il 6 agosto 1583, Petru Şchiopul confermava al monastero di Suceviţa il villaggio di Mândreşti, nella provincia di Suceava, la cui proprietà era andata persa “quando i Turchi assalirono Stefano voivoda a Pârâul Alb” (Documente privind istoria Ro­mâ­niei, A. Moldova, secolul XVI, vol. III, doc. 255, pp. 198-200 e doc. 275, pp. 222-223).

[8] Vincitori a Valea Albă (il 26 di luglio 1476), gli Ottomani vollero assicurarsi la vittoria e sottomettere il paese tramite la conquista delle fortezze; le guarnigioni di Suceava (trovatasi sotto il commando di Şendrea, il cognato del principe) e Hotin (vi era il comandante Vlaicu, lo zio di Stefano) resistettero, e avvenne lo stesso con quella di Neamţ, “una fortezza nelle montagne”, annotava Angiolello. L’intento di conquistare Neamţ per mezzo del tradimento fallì, perché “quelli che si trovavano all’interno della fortezza non vollero discutere, tutti quanti si difendevano con i canoni e non importava loro di noi” (Călători străini cit., vol. I, p. 138).

[9] Ion Bogdan, Documentele lui Ştefan cel Mare, vol. II, Bucarest, 1913, p. 350.

[10] Nella “lettera di vittoria” datata “il 2 agosto, sotto Chilia”, inviata ai ragusei, donde la notizia fu diffusa in Europa, il sultano ottomano considerava Chilia “chiave e porta dell’intero Paese di Moldavia e Ungheria e del Paese Danubiano [Valacchia]” e Città Bianca “chiave e porta per tutta la Polonia, la Russia, la Tartaria e tutto il Mar Nero” (N. Iorga, Studii istorice asupra Chiliei şi Cetăţii Albe, Bucarest 1899, pp. 157-158). Bayazid II avvalorò la sua vittoria, un po’ più tardi, in una seconda lettera, una fatihnâme, senza precisazioni spaziali o temporali. All’epoca Chilia era chiamata “la chiave del paese” e Città Bianca “la chiave delle vittorie sui Polacchi, sui Cechi, sui Russi e sui Magiari” (Andrei Antalffy, Două documente din Biblioteca Egipteană de la Cairo despre cucerirea Chiliei şi a Cetăţii Albe în 1484, in “Revista Istorică”, XX, no. 1-3, 1934, pp. 41-42; Ştefan S. Gorovei, Pacea moldo-otomană din 1486. Observaţii pe marginea unor texte, in “Revista de istorie”, 1982, no. 7, p. 817, propone la datazione di questa epistola “dopo il 21 settembre 1484”. Facendo a meno della parte retorica, che usa le forme stereotipe di quei tempi, abituali per la diplomazia e per la cronachistica ottomana, resta una verità fondamentale: le due fortezze erano di un’importanza strategica maggiore, e la loro conquista segnò l’epilogo di un programma politico: il pieno controllo ottomano sul Mar Nero.

[11] Şerban Papacostea, De la Colomeea la Codrul Cosminului. Poziţia internaţională a Moldovei la sfârşitul secolului al XV-lea, in AA. VV., Ştefan cel Mare şi Sfânt (1504-2004) cit., p. 463.

[12] Matei Miechowski scriveva, quando lavorava al ritratto del principe: “Stefano, il voivoda di Moldavia, stremato dalle lotte […]” (Ce spun cronicarii streini cit., p. 36). Lo storico e il diplomatico tedesco Herberstein, il quale conobbe dall’interno la situazione della Russia, dove visse alla metà del secolo XVI, attribuisce a Stefano la seguente confessione: “Ivano di Mosca non lotta mai contro i nemici e impugna sempre regioni e fortezze nuove e io, invece, non posso abbandonare la spada neanche un giorno e riesco a malapena a mantenere il mio Paese intero” (Cfr. P. P. Panaitescu, op. cit., p. 20).

[13] Călători străini cit., vol. I, p. 149.

[14] N. Iorga aveva notato che “in un momento nel quale il re Mattia [Corvino] aveva alte preoccupazioni”, Stefano il Grande riprese il “ruolo di capitano di crociata, per lo meno difensiva, dato che lui non provò mai ad attaccare i Turchi nel loro paese” [il corsivo è dell’autore ivi citato] (Cfr. N. Iorga, Istoria românilor, vol. IV, Cavalerii, a cura di Vasile Neamţu e Stela Cheptea, Bucarest 1996, p. 122). L’attività politica e militare di Stefano il Grande “fu subordinata nella maggior parte a una meta, la crociata, ma una difensiva” [il corsivo è nostro, I. T] (Cfr. Andrei Pippidi, Tradiţia politică bizantină în ţările române în secolele XVI-XVIII, Bucarest 1983, p. 145). La guerra antiottomana di Stefano il Grande è inserita nel concetto di crociata da Maria Magdalena Székely e Şt. S. Gorovei: “Il 1486 […] la pace con i Turchi porrà fine alla crociata”; la costruzione della chiesa di Volovăţ iniziò nel 1500, “nell’ultima tappa della crociata di Stefano il Grande” [il corsivo è nostro, I. T.]; la celebrazione della festa dell’Elevazione della Santa Croce (il 14 di settembre) rientra nello stesso ordine (Cfr. M. M. Székely, Şt. S. Gorovei, “Semne şi minuni” pentru Ştefan voievod. Note de mentalitate medievală, in AA. VV., Ştefan cel Mare şi Sfânt (1504-2004) cit., pp. 71-73). Anche per Voica Puşcaşu, studiosa del concetto di atto di fondazione, con tutti i suoi sensi e tutte le implicazioni spirituali e sociali, la lotta antiottomana fu “percepita dalla Signoria e dall’insieme dei boiardi nello spirito crociato dell’epoca” [il senso è di crociata difensiva, n. ns., I. T.] (V. Puşcaşu, Actul de ctitorire ca fenomen istoric în Ţara Românească şi Moldova până la sfârşitul secolului al XVIII-lea, Bucarest 2001, p. 112). Un’altra opinione è di Dumitru Năstase, il quale, interpretando l’immagine di Costantinopoli assediato dagli Ottomani nella pittura esteriore di alcuni monumenti moldavi, ritiene che Stefano il Grande abbia condotto una “guerra antiottomana permanente, a carattere offensivo” [il corsivo è nostro, I. T.] (Cfr. D. Năstase, Ideea imperială în Ţările Române. Geneza şi evoluţia ei în raport cu vechea artă românească, secolele XIV-XVI, Atene 1972, p. 9). Ultimamente, D. Năstase riprende e sviluppa l’idea della guerra offensiva, con argomenti che vengono, per lo più, dalla stessa zona del linguaggio figurativo (Idem, Ştefan cel Mare împărat, in AA. VV., Ştefan cel Mare şi Sfânt (1504-2004) cit., pp. 567-609). Su piano ideatico, il gran principe pensò alla liberazione di Costantinopoli e al “restauro del «Regno Cristiano»”, assumendo l’atteggiamento di un “nuovo Costantino”. Edificando a Pătrăuţi (1487) la chiesa della S.ta Croce, Stefano “doveva affermare in maniera decisiva che la pace [con gli Ottomani, 1486, n. ns., I. T.] non era stata accettata che di fatto, quale un provvisorio «cessate il fuoco» da parte del fondatore, che si riteneva in una specie di guerra permanente con i Turchi”. L’atto di fondazione era pensato dalla prospettiva della vittoria “definitiva della Croce e della liberazione del «Regno Cristiano»”. Questo è anche il significato della rappresentazione, nel pronao della chiesa, della Cavalcata di Costantino il Grande (Ibidem, pp. 577-579). Nello stesso anno, 1487, Stefano il Grande rinnovò “la preghiera del 1473” e rivestì il Tetravangelo di Humor. L’iconografia del rivestimento viene interpretata da D. Năstase nello stesso senso, di guerra offensiva, per la liberazione di Costantinopoli, questa volta per la mano “dell’imperatore Stefano”. In effetti, la seconda scena sul rivestimento, quella sul retro, rappresentava L’Assunzione della Beata Vergine Maria: il 15 agosto; questa data del calendario cristiano “evocava anche la vittoria di Costantinopoli sugli «Agareni» (ovvero gli arabi), nel 718, avvenuta lo stesso giorno e celebrata in seguito il 15 agosto, in quanto festa della liberazione di Costantinopoli dovuta alla Vergine” (Ibidem, p. 581). Ricordiamo che, nella mentalità bizantina, alla Vergine era dovuta anche la liberazione di Costantinopoli nell’estate del 626, allorquando la capitale bizantina subì un luogo assedio combinato avaro-slavo-persiano (con riflessi anche nella pittura murale della Bucovina). Siccome l’imperatore Eraclio già dal 622 si trovava nell’Oriente, capeggiando una campagna contro i persiani zoroastri (di conseguenza, ritenuti infedeli) l’organizzazione della difesa spettò al patriarca Sergios, che dopo la vittoria (il 10 agosto, intorno alla grande festa dell’Assunzione della Vergine, il 15 di agosto) compose l’Inno Acatisto, inno di trionfo dedicato alla Vergine, il cui santuario del quartiere Vlacherne era rimasto intatto in mezzo alle devastazioni. Georgios Pisides, lo storico ufficiale presso la corte d’Eraclio, l’autore del poema Bellum Avaricum, evocava in questo modo il potere della Vergine: “Redenzione ora senza armi ci porta […] / Invincibile nella lotta come nella nascita” (Cfr. André Grabar, Iconoclasmul bizantin. Dosarul arheologic, traduzione, premessa e note a cura di Daniel Barbu, Bucarest, 1991, pp. 71-72). Nella chiesa dedicata alla Vergine a Vlacherne si conserva una reliquia interessante, un foulard (una stola) portato a volte dagli imperatori durante i combattimenti, per assicurarsi, si credeva allora, del sostegno divino (Ana Comnena, Alexiada, vol. I, traduzione a cura di Marina Marinescu, premessa, tavola cronologica e note a cura di Nicolae Şerban Tanaşoca, Bucarest 1977, p. 272 e nota 1 della stessa pagina). Dopo la vittoria cristiana nella battaglia di Lepanto (1571), il sommo pontefice Pio V istituì una festa chiamata La Madre di Dio delle Vittorie (Cfr. Jean Delumeau, Frica în Occident, secolele XIV-XVIII. O cetate asediată, vol. II, traduzione, postfazione e note a cura di Modest Morariu, Bucarest 1986, p. 130). Secondo l’opinione di P. P. Panaitescu, “il gran voivoda di Moldavia combatte contro i Turchi, non in qualità di crociato, bensì di difensore del suo Paese; egli non era animato dall’ideale feudale delle crociate, bensì della tendenza monarchica, unificatrice della frantumazione feudale, era un monarca e non un feudale” (P. P. Panaitescu, Ştefan cel Mare în lumina cronicarilor contemporani din ţările vecine, in “Studii şi cercetări ştiinţifice. Istorie”, XI, fasc. 2, 1960, p. 199). L’idea fu ripresa allorquando il grande storico romeno “tentava” una caratterizzazione di Stefano il Grande: “Il Principe di Moldavia non fu un crociato nel senso di un distacco dal suo paese, così come furono i cavalieri dei secoli precedenti. Ma, sulla terra salda e ristretta del suo paese tra i Carpazi e il Nistro, cercò più di una difesa. Chiameremmo Stefano un crociato realista, uomo di fine Medioevo, epoca di borghesi e di signori pratici” [il corsivo è nostro, I. T.] (Cfr. Idem, Ştefan cel Mare. O încercare de caracterizare cit., pp. 12-13). L’idea che Stefano non apprese la lotta antiottomana quale crociato, bensì in quanto monarca che provvedeva agli interessi del suo paese, è stata ultimamente seguita anche da Eugen Denize, Ţările Române şi Veneţia. Relaţii politice (1441-1541) de la Iancu de Hunedoara la Petru Rareş, Bucarest 1995, p. 108, p. 153, pp. 164-165).

[15] Come fece Alexandru Gheorghe Savu, Ştefan cel Mare. Campanii, Bucarest 1982.

[16] Seguendo le principali fonti documentarie e narrative interne (Letopiseţul anonim al Moldovei e le sue varianti, Letopiseţul di Gregorio Ureche), i dati offerti da Antonio Bonfinius e da J. Długosz, e dalle cronache turche, come anche dalla storiografia dell’argomento, siamo in grado di realizzare delle stime attendibili durata delle principali guerre del gran principe. Così, la campagna del 1467, che ebbe quale momento principale la battaglia di Baia (14-15 dicembre) durò 40 giorni, dalla metà di novembre fino a Natale, quando le truppe di Mattia Corvino riuscirono a malapena a ritirarsi nella Transilvania. Lo dice Stefano il Grande nella lettera del 1 gennaio 1468 (una “lettera di vittoria”) inviata al re polacco Casimiro IV: “[…] e noi li seguimmo e ci lottammo, giorno e notte, incessantemente, per quaranta giorni […]” (Cfr. P. P. Panaitescu, Contribuţii la istoria lui Ştefan cel Mare, in “Analele Academiei Române. Memoriile Secţiunii Istorice”, III serie, XV, 1934, p. 67). P. P. Panaitescu credeva che i quaranta giorni invocati da Stefano il Grande fossero “un’esagerazione” (Ibidem, p. 69). L’11 novembre 1467, però, per la festa di S. Martino, il re Mattia Corvino era a Braşov, pronto per la partenza in Moldavia, il che avvenne qualche giorno dopo (Gheorghe I. Brătianu, Lupta de la Baia „după izvoare ungureşti”, in „Revista Istorică”, V, no. 11-12, 1919, p. 218). A distanza di dieci giorni dopo la sconfitta subita a Baia, “in festo Nativitatis Domini” (il 25 dicembre 1467), il sovrano dell’Ungheria si trovava nella località St. Miklos (Nicoleşti, provincia di Harghita), da dove inviava un ordine al Convento di Cluj–Mănăştur (Cfr. Ioan–Aurel Pop, Valoarea mărturiilor documentare despre expediţia întreprinsă de regele Matei Corvin la 1467 în Moldova, in “Revista de istorie”, no. 1, 1981, p. 136). Secondo Bonifico (Cfr. Ce spun cronicarii streini cit., p. 74), il re, ferito, era già arrivato a Braşov il primo giorno di Natale del 1467. È certo che, l’ultima giornata dello sfortunato mese reale, il 31 dicembre 1467, Matia rilasciava da Braşov un atto di dono al vescovo di Oradea, Ioan VIII Beckenschléger, compartecipe alla recente campagna militare in Moldavia (Cfr. Adrian Andrei Rusu, O sursă maghiară despre lupta de la Baia (1467), in “Anuarul Institutului de Istorie «A. D. Xenopol»”, XXIII/2, 1986, p. 714). Il 3 gennaio 1468, il monarca dell’Ungheria, trovatosi sempre a Braşov, ricompensava gli abitanti di questa città e della Terra di Bârsa (Ţara Bârsei) per la fedeltà dimostrata durante la campagna dell’autunno-inverno del 1467 (Gh. I. Brătianu, op. cit., p. 221; I.–A. Pop, op. cit., p. 136). La campagna del 1475, rimasta nella storia per la grande battaglia di Vaslui (il 10 gennaio) contro l’esercito degli invasori Ottomani, durò pressappoco 30 giorni, “dalla fine del 1474” fino intorno al 25 gennaio 1475, data alla quale Stefano il Grande era a Suceava, da dove inviava la ben nota “lettera circolare”. La spedizione sultaniale dell’estate 1476, quando il grande scontro avvenne a Valea Albă–Războieni (il 26 luglio), durò circa 60 giorni: gli Ottomani attraversarono il Danubio nella seconda metà di giugno, e il 15 agosto cominciarono la ritirata. Lo stato di guerra del 1484, quando gli Ottomani conquistarono Chilia e Città Bianca, si protrasse per circa 45 giorni, dal 26 giugno, momento in cui l’esercito della Porta oltrepassò il Danubio a Isaccea, fino alla prima decade del mese di agosto (7-8 agosto). Lo abbiamo chiamato stato di guerra, uno stato acuto, poiché Stefano il Grande era su “piede di guerra”. Aspettò gli Ottomani al guado, a Isaccea, ma non intervenne per difendere le fortezze; si tratta di un’altra “sconosciuta” del suo lungo principato. Un’annotazione anonima su un Libro slavo di canti religiosi, rivalutata da D. Năstase, menziona che all’epoca del sultano Bayazid II, che egli chiama tzar, gli Ottomani presero Chilia e Belgrado [=Città Bianca], e Stefano, chiamato sempre tzar, vale a dire imperatore, “non andò in guerra, ma lo aspettò a Obluciţa; i Turchi furono astuti e non vennero ad affrontarlo, ma s’installarono sotto Chilia […]” (D. Năstase, Ştefan cel Mare împărat cit., p. 573). Ci fu allora una “mancata reazione da parte del principe moldavo di fronte all’aggressione ottomana”; un fatto “sconcertante” (M. M. Székely, Şt. S. Gorovei, „Semne şi minuni” cit., pp. 80-81). Il conflitto moldavo-polacco del 1497, che ha quale riferimento storico la battaglia di Codrul Cosminului del 26 ottobre, ebbe la più lunga durata, 80 giorni, dal 9 agosto al 30 ottobre. La campagna di Stefano il Grande nella Valacchia, del 1473, che generò tante conseguenze, soprattutto dal punto di vista delle relazioni moldavo-ottomano, e fu proprio per questo che l’anno 1473 venne chiamato anno-chiave (D. Năstase, Şt. S. Gorovei), durò per tutto il mese di novembre, dunque 30 giorni. Tutti e sei gli eventi bellici ammontano a un numero di 285 giorni.

[17] In seguito alla vittoria di Vaslui, J. Długosz nota che Stefano “ordinò all’intero paese di non osare ad attribuire a lui quella vittoria, ma solo a Dio” (Cfr. Ce spun cronicarii streini cit., p. 36).

[18] Cronicile slavo-române din secolele XV-XVI publicate de Ion Bogdan, edizione revisionata e completata da P. P. Panaitescu, Bucarest 1959, p. 15.

[19] Ibidem, p. 16.

[20] Ibidem; l’erezione della chiesa “Sf. Gheorghe/S. Giorgio” (detta Albă/Bianca) di Baia, che la tradizione attribuisce a Stefano il Grande, è collegata alla vittoria ottenuta contro Mattia Corvino (Repertoriul monumentelor şi obiectelor de artă din timpul lui Ştefan cel Mare, Bucarest 1958, p. 198.

[21] Cronicile slavo-române cit., p. 17; Stefano sconfisse i Tartari a Lipnic (il 20 agosto 1469) con l’aiuto “solo di Dio e dalla Sua Santissima Madre”, e “in lode di ciò, ringraziando Dio, santificò il monastero di Putna” (Cfr. Gr. Ureche, Letopiseţul cit., p. 93). I lavori di costruzione del monastero di Putna iniziarono il 4 luglio 1466, finendo nel 1469, e la consacrazione religiosa del luogo di culto avvenne nel 1470 (Ion I. Solcanu, Artă şi societate românească, secolele XIV-XVIII, Bucarest 2002, p. 247).

[22] Cronicile slavo-române cit., p. 18; nella lettera-circolare del 25 gennaio 1475 era invocata la stessa grazia divina: “[…] impugnammo la spada e con l’aiuto di nostro Dio onnipotente andammo contro i nemici della Cristianità, gli sconfiggemmo e gli calpestammo […]”. Nello stesso luogo aggiunse: “[…] con l’aiuto di Dio onnipotente, noi gli tagliammo la mano destra […]” [il corsivo è nostro, I. T.] (I. Bogdan, Documente cit., vol. II, p. 323). Nell’opera di Jan Długosz si menziona: “con il meraviglioso potere di Dio, annientò le truppe turche” [il corsivo è nostro, I. T.] (Cfr. Gr. Ureche, Letopiseţul cit., p. 102). La chiesa principesca di Vaslui, il cui santo patrone è “S. Giovanni Battista”, fu costruita nel 1490 (Repertoriul monumentelor cit., p. 87).

[23] Cronicile slavo-române cit., p. 19; per celebrare questa battaglia, attesta la tradizione storica, Stefano il Grande avrebbe costruito una chiesa (S.ta Paraschiva) a Râmnicu Sărat, la cui iscrizione votiva iniziale non si conserva (Repertoriul monumentelor cit., p. 209). La sua erezione avvenne, probabilmente, nell’ultimo anno del suo principato (Cfr. V. Puşcaşu, op. cit., Tabella, no. 3550).

[24] Repertoriul monumentelor cit., p. 58.

[25] Cronicile slavo-române cit., p. 19; “Per questa gioia, quando tornò Stefano voivoda, costruì la chiesa dal nome di S. Nicola nel borgo di Iaşi” (Gr. Ureche, Letopiseţul cit., p. 108).

[26] Cronicile slavo-române cit., pp. 20-21; Cronica moldo-rusă, sanzionando “il re polacco Alberto”, dice che il sovrano “concluse un patto con inganno” (Ibidem, p. 161). In segno di gratitudine per la vittoria di Codrul Cosminului, i cui echi suscitavano la paura dei soldati polacchi capeggiati da Alberto Laski, venuti al sostegno di Despot Vodă nel 1563 (Călători străini cit., vol. II, a cura di M. Holban, Maria Matilda Alexandrescu–Dersca Bulgaru, Paul Cernovodeanu, Bucarest 1970, p. 621), il principe fondò la chiesa “dal nome del S.to martire Demetrio, nel borgo di Suceava, che sussiste ancor’oggi” (Cfr. Gr. Ureche, Letopiseţul cit., p. 115).

[27] Repertoriul monumentelor cit., p. 143; il principe di Moldavia vi era stato sconfitto perché Dio “si riprese indietro la pietà”, ed egli, sapendosi peccatore, cercò “una via di conciliazione con Dio” e la trovò nel “sant’uomo”, Daniil Sihastru/Daniil l’Eremita, al quale si confessò, chiese consiglio e quindi il santo divenne il suo intercessore (Ovidiu Cristea, Despre raportul dintre principe şi „omul sfânt” în Ţările Române. Întâlnirea lui Ştefan cel Mare cu Daniil Sihastrul, in AA. VV., Ştefan cel Mare şi Sfânt (1504-2004) cit., p. 192, p. 195). Gregorio Ureche sapeva, quasi due secoli dopo, che “quando i nemici lasciarono il Paese, Stefano voivoda radunò i corpi dei morti, un mucchio di salme, e quindi fece costruire sopra una chiesa, che sussiste ancor’oggi per la commemorazione delle anime” (Cfr. Gr. Ureche, Letopiseţul cit., p. 104). Infatti, questo accadde nel 1496, venti anni dopo la suddetta battaglia, quando Stefano “ebbe la bontà” di far costruire, “con la sua buona volontà”, una chiesa il cui santo patrone fosse “l’arcistratega Michele […] per il ricordo e la commemorazione di tutti i fedeli cristiani che vi perirono” (Repertoriul monumentelor cit., p. 143). È una chiesa-mausoleo la cui simbolistica la rende unica nelle terre romene; le ossa dei caduti nella battaglia furono esumate due decenni dopo e riordinate sotto la navata della chiesa (Gheorghe I. Cantacuzino, Biserica lui Ştefan cel Mare din Războieni – monument comemorativ, in „Memoria Antiquitatis”, IV-V, 1972-1973, pp. 231-235). I. I. Solcanu (Idem, op. cit., p. 256) la chiama “la necropoli dei martiri”, poiché gli scheletri sono privi di testa; per la spiegazione di questa separazione tra crani e corpi, si veda Ibidem, p. 255.

[28] N. Iorga, Faze sufleteşti şi cărţi reprezentative la români. Cu specială privire la legăturile „Alexandriei” cu Mihai Viteazul, in „Analele Academiei Române. Memoriile Secţiunii Istorice”, II serie, XXXVII, 1914-1915, pp. 547-548.

[29] Nel Bisanzio, “prima di una battaglia, sul campo s’intona una preghiera, che si conclude con l’implorazione della pietà di Dio”; dopo che si fissava la presunta data di una battaglia, si teneva una liturgia, “seguita da tre giorni di digiuno”, durante la quale “i soldati potevano mangiare una sola volta al giorno (la sera)” (Peter Schreiner, Soldatul, in Omul bizantin, coordinatore: Guglielmo Cavallo, traduzione a cura di Ion Mircea, postfazione di Claudia Tiţa–Mircea, Iaşi 2000, p. 104).

[30] N. Iorga, Acte şi fragmente cit., vol. III, p. 93: “Gott, der Wirt, uns helffen”; prima della battaglia di Vaslui, tutti i soldati di Stefano il Grande “si legarono a digiunare per quattro giorno con acqua e pane” (Idem, Istoria lui Ştefan cel Mare, Bucarest 1966, p. 124).

[31] Idem, Faze sufleteşti şi cărţi reprezentative cit., p. 547; dopo la vittoria di Vaslui, scriveva J. Długosz, “Stefano non s’insuperbì […], anzi digiunò per 40 giorni con acqua e pane”, perché era da Dio solo che veniva la vittoria (Cfr. Ce spun cronicarii streini cit., p. 36).

[32] Cronicile slavo-române cit., p. 17; Gregorio Ureche riferisce quasi precisamente il modo in cui fu conseguita la vittoria: “E lì [a Chilia] passando tre giorni a festeggiare, lodando il Signore […]” (Cfr. Gr. Ureche, Letopiseţul cit., p. 92).

[33] Cronicile slavo-române cit., p. 17.

[34] Michael McCormick, Împăratul, in Omul bizantin cit., pp. 283-288; “Il rientro nella Valacchia [nel 1473] apre la serie degli ingressi «imperiali» di Stefano il Grande”. Questo “primo ingresso imperiale è particolarmente importante su piano simbolico perché consacra la riconquista di un territorio cristiano e la sua estrazione dal sistema politico e militare ottomano, la reintegrazione di questo territorio in un impero cristiano” (Liviu Pilat, Modelul constantinian şi imaginarul epocii ştefaniene, manoscritto inedito, la cui citazione ci è stata gentilmente consentita dall’autore).

[35] Cronicile slavo-române cit., p. 18; la relazione di Gregorio Ureche, talmente remota, è molto simile a quella della cronaca stefaniana: Stefano “ritornò al suo seggio, vittorioso ed elogiato, dal medesimo Dio Altissimo; il metropolita e tutti quanti i preti gli vennero incontro, porgendogli il Santo Vangelo e la sacrosanta croce, come di fronte ad un imperatore e vincitore di lingue pagane e benedicendolo” (Gr. Ureche, Letopiseţul cit., p. 102). L. Pilat (Idem, op. cit.) rileva una differenza tra il modo in cui furono festeggiate le vittorie del 1465 e del 1475. La prima festa avvenne per volontà principesca, mentre la seconda per iniziativa del clero. Nel 1475, constata l’autore citato, Stefano il Grande beneficiò di “un ingresso «imperiale»”, durante il quale “i principali attuanti sono i chierici”, il che “trasforma la cerimonia in un atto liturgico” (Idem, op. cit.). Il ricevimento che venne fatto al principe a Suceava, dopo la vittoria del gennaio 1475, quando egli fu accolto con l’augurio “Viva lo tzar” [=l’imperatore] definisce, secondo la cronaca della corte, nota D. Năstase, “la vittoria imperiale sugli infedeli e il trionfo dell’imperatore cristiano Niceforo rientrato nella sua capitale”. “L’ingresso trionfale dell’«imperatore» Stefano” nella sua reggia che, più tardi, Macario chiamerà “la città imperiale di Suceava” è, considera lo storico citato, un’imitazione del modello costantiniano. Vittorioso “sotto il segno della croce”, Costantino il Grande entrò trionfalmente nella “Roma imperiale” (D. Năstase, Ştefan cel Mare împărat cit., p. 570). Per il titolo di tzar, “ovvero imperatore”, di Stefano il Grande, si veda anche Petre Ş. Năsturel, Din legăturile dintre Moldova şi Crimeea în veacul al XV-lea, in Omagiu lui Petre Constantinescu–Iaşi, Bucarest 1965.

[36] Cronicile slavo-române cit., p. 19: “E Stefano voivoda ne ritornò vittorioso insieme con il suo intero esercito e con tutti i suoi boiardi nella sua reggia di Suceava. E allora fece una grande festa al metropolita e ai vescovi e ai suoi boiardi e all’intero esercito. E allora istituì molti viteji/audaci (=nel Medioevo romeno, una specie di titolo quasi nobiliare attribuito ai possessori di terre che ricevevano dal principe alcuni incarichi militari speciali, n. d. tr.) e regalò molti doni e vestiti costosi ai suoi boiardi e ai suoi audaci e all’intero esercito. E svincolò tutti, a seconda delle loro imprese, ciascuno alle sue e insegnò loro di lodare e adorare Dio per quello che fu, perché venne da Dio tutto quello che fu” [il corsivo è nostro, I. T.]. L. Pilat (Idem, op. cit.) constata che, a differenza degli “ingressi precedenti” nella sua reggia, sede del trono, che possono essere considerati “vere liturgie civili”, questa del 1481 “sembra piuttosto una «liturgia militare»”.

[37] Cronicile slavo-române cit., pp. 21-22: “Lo stesso Stefano voivoda svincolò il suo intero esercito, ciascuno alle sue e così ordinò a tutti i suoi boiardi di radunarsi il giorno di S. Nicola nel borgo chiamato Hârlău. Dunque quel giorno vi si radunarono tutti. E lì allora Stefano voivoda fece una grande festa per tutti i suoi boiardi, da grande a piccolo, e allora istituì molti audaci e regalò loro doni costosi, a seconda delle loro imprese. E li lasciò andare alle loro cose e insegnò loro a lodare e a benedire Dio, l’Altissimo, per quello che gli fu donato, perché tutte le vittorie sono da Dio” [il corsivo è nostro, I. T.]. La celebrazione di questa vittoria, un mese dopo e non presso la reggia, bensì presso la corte principesca di Hârlău, conferisce all’evento una nota speciale; come quella del 1481, essa ebbe piuttosto il carattere di una “liturgia militare” (L. Pilat, op. cit.).

[38] M. M. Székely, Şt. S. Gorovei, “Semne şi minuni” pentru Ştefan voievod cit., pp. 74-75; D. Năstase, Ştefan cel Mare împărat cit., p. 572.

[39] Şt. S. Gorovei, 1473 – un an-cheie cit., ristampato in AA. VV., Ştefan cel Mare şi Sfânt (1504-2004) cit., p. 391.

[40] Gr. Ureche, Letopiseţul cit., pp. 120-121.