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I prigioneri di guerra romeni nel campo di concentramento di Avezzano (AQ) durante la Prima Guerra Mondiale

 1916-1918

 

Alberto Basciani,

Università “La Sapienza”, Roma

 

Nel corso della prima guerra mondiale le autorità civili e militari italiane, incalzate dal costante afflusso di soldati appartenenti all’esercito dell’Austria-Ungheria fatti prigionieri dal Regio Esercito nel corso delle varie azioni militari condotte sul fronte alpino, ripartirono la massa dei combattenti nemici catturati[1] in una serie di campi di prigionia ben distanti dal teatro delle operazioni belliche e di fatto dislocati su tutto il territorio nazionale dalla pianura padana fino alle regioni del Sud, comprese le isole grandi e piccole[2].

Durante la prima parte del conflitto su precisa indicazione del ministero dell’Interno i prigionieri non furono assolutamente utilizzati per alcun tipo di lavoro manuale all’esterno dei campi per paura forse che l’immissione sul mercato del lavoro di una numerosa manodopera, generalmente a basso costo, potesse provocare qualche tensione sociale certamente non auspicabile nella già difficile temperie della guerra. Tuttavia questa disposizione non fu mantenuta per troppo tempo, ben presto anche gli italiani si decisero ad adottare le disposizioni contenute nell’articolo 6 del Regolamento dell’Aja che ammetteva l’impiego di prigionieri di guerra in lavori esterni. A partire dal 1916 in numero progressivamente maggiore – anche per via delle pressanti richieste provenienti dai proprietari terrieri dell’intera penisola – i soldati prigionieri furono utilizzati con continuità nei lavori agricoli e, sia pur in misura ridotta, anche nell’industria[3]. Sollecitazioni per l’utilizzo di questo tipo di manodopera pervennero praticamente da tutta la penisola e fu giusto in questo contesto che maturò la decisione di trasferire un certo numero di prigionieri austro-ungarici nella cittadina abruzzese di Avezzano, principale centro e capoluogo della Marsica, posta nel territorio della provincia dell’Aquila. Questa località infatti sembrava riunire una serie di condizioni propizie ad ospitare prigionieri di guerra: in primo luogo l’assoluta lontananza da tutti i teatri di guerra e, quindi, l’esigenza di reperire velocemente nella zona un’abbondante manodopera non necessariamente specializzata che attendesse sia alle urgenti necessità agricole dei campi posti nella piana del Fucino strappata poco meno di trenta anni prima, alle acque dell’omonimo lago e resa in gran parte coltivabile[4], sia (e

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soprattutto) all’opera di ricostruzione seguita al grave sisma del 13 gennaio 1915. Quel giorno infatti la città con tutto il territorio circostante (l’intera Marsica fino ai centri abitati della valle del fiume Liri al di là del confine con il Basso Lazio) furono sconvolti da un disastroso terremoto che causò migliaia di vittime distruggendo la quasi totalità degli edifici pubblici e privati[5].

Ancora molti mesi dopo l’avvenimento i cumuli di macerie delle costruzioni crollate rappresentavano la costante del paesaggio avezzanese e di tutte le contrade circostanti assieme al totale sconvolgimento della rete viaria pubblica. L’urgenza di accelerare una serie di lavori necessari a restituire un minimo di normalità alla città si scontrava però «con la mancanza della mano d’opera locale per effetto dei richiami alle armi e per l’arruolamento degli operai impiegati in lavori di guerra[6]». La risposta a questa necessità fu l’istituzione ad Avezzano nella tarda estate del 1916 di un campo di prigionia destinato ad accogliere prigionieri di guerra dell’esercito dell’Austria-Ungheria che in origine sembrava essere destinato ad essere collocato nella vicina cittadina di Tagliacozzo. Posto alla periferia Nord di Avezzano il campo occupava una superficie pari a circa 30 ettari divisi in quattro distinti settori; le prime costruzioni furono realizzate utilizzando materiale ricavato dalle baracche adoperate in precedenza per fronteggiare l’emergenza provocata dal terremoto, in seguito la maggioranza delle strutture del campo furono costruite in muratura e legno. Il campo era capace di ospitare 15.000 prigionieri e i circa 1.000 tra soldati semplici, sottufficiali e ufficiali del Regio Esercito destinati alla sorveglianza dei soldati reclusi[7]. Sull’utilizzo dei prigionieri nello svolgimento di lavori di pubblica utilità più o meno urgenti non potevano esservi dubbi 

 

«rivolgo perciò a cotesto ministero [dell’Agricoltura Industria Commercio, NdA] preghiera che voglia permettere mi sia accordato di potere adibire a lavori di manutenzione stradale ordinaria prigionieri di guerra tratti da questo campo di concentramento [Avezzano NdA] […] [8]».

 

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In genere le richieste venivano soddisfatte dalle autorità superiori come testimonia una lettera inviata dalla Sottoprefettura di Avezzano il 28 giugno 1916 che però sottolineava come

 

«[…] l’opera dei prigionieri di guerra deve essere considerata soltanto quale esperienza di carattere eccezionale per bisogni ai quali non sia possibile altrimenti provvedere, è principio stabilito e inderogabile che il lavoro dei prigionieri non deve fare concorrenza sotto nessun aspetto al lavoro libero[9]

 

Dunque nel 1916, completati in breve tempo tutti i lavori necessari ad ospitare prigionieri e personale militare addetto alla sorveglianza, cominciarono ad arrivare ad Avezzano i primi ospiti nel nuovo campo di prigionia. In generale si può dire che fino al 1918 il campo di Avezzano funzionò senza particolari differenze rispetto al resto dei campi di reclusione sparpagliati per il resto del territorio italiano. Ovunque le condizioni di vita dei soldati detenuti erano piuttosto dure, in linea con il regime di sorveglianza imposto dalle autorità militari italiane, tanto da provocare continue proteste da parte delle autorità e della stessa opinione pubblica austriaca[10]. Il campo di Avezzano non rappresentò in questo senso una eccezione, ne’ la consueta durezza della stagione invernale e la diffusione tra il 1918 e il 1919 in tutta la zona dell’epidemia di febbre detta “spagnola” semplificarono le cose[11]. Tuttavia, pur tra le inevitabili difficoltà e ristrettezze fino al 1918 la vita nel campo seguì un andamento piuttosto normale; i prigionieri venivano continuamente richiesti per effettuare lavori non solo di manutenzione di strade pubbliche e sgombero delle macerie ma anche da privati cittadini che li utilizzavano principalmente per lavori nei campi. L’Archivio storico del comune di Avezzano conserva a tal proposito un cospicuo numero di richieste di piccoli e grandi proprietari terrieri locali ansiosi di ottenere mano d’opera tratta dal campo di prigionia; la clausola che vietava il loro utilizzo in concorrenza con il libero lavoro veniva aggirata facendo avanzare la richiesta di utilizzo da parte del comune che poi li girava ai privati e tra questi coloro che maggiormente ne beneficiarono i Torlonia.

I prigionieri inviati ad Avezzano appartenevano a tutte le principali nazionalità inserite nei confini della duplice monarchia e naturalmente tra questi non mancavano i romeni originari della Transilvania, del Banato e della Bucovina confusi con i loro commilitoni austriaci, ungheresi ecc. Con il passare del tempo però la presenza romena nel campo andava facendosi man mano più numerosa acquisendo una sua precisa fisionomia tra le diverse componenti etniche che popolavano il luogo di reclusione; questa sorta di specificità con il tempo divenne ben riconoscibile anche tra le autorità e le popolazioni locali. Ho rintracciato, per esempio, uno strano documento nel quale il municipio di Avezzano richiedeva al comandante del campo  «[…] l’invio di una nuova squadra di 10 prigionieri (possibilmente di nazionalità romena) i quali saranno utilizzati al lavoro di sgombero delle macerie […][12]» Stupisce la singolarità della richiesta, perché una squadra di soli romeni?  Per una maggiore facilità di comunicazione rispetto a ungheresi, tedeschi o

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cechi? Perché mostravano maggiori simpatie nei confronti della causa nazionale italiana? Per una maggiore attitudine a sbrigare lavori duri? Non si può dare una risposta precisa, anche perché dai documenti non emerge; quello che è certo è che la situazione dei prigionieri romeni con l’arrivo del 1918 era destinata a cambiare radicalmente.

Nei primi tempi la percentuale di prigionieri austro-ungarici di nazionalità romena presenti ad Avezzano non era affatto numerosa; la maggior parte di essi era concentrata in altre località, soprattutto nei campi situati nel Nord Italia; ve ne erano, per esempio, ben 3.600 nel campo di Mantova, 2.000 a Cavarzere, 800 rispettivamente a Ostiglia e Cavanelle ecc. tutte località poste tra le provincie di Mantova e Ferrara[13]. L’avvenimento che avrebbe fatto di Avezzano il principale centro di aggregazione dei romeni transilvani membri della Legione romena d’Italia fu senza dubbio il Congresso delle nazionalità oppresse svoltosi a Roma tra il 27 marzo e il 9 aprile del 1918 che riunì nella capitale d’Italia rappresentanti delle principali nazionalità comprese nella monarchia austro-ungarica[14].

Non possiamo in questa sede dilungarci su questo avvenimento, ciò che per il momento ci interessa è che al termine dei lavori i delegati  delle diverse nazionalità convenuti a Roma tra le altre richieste avanzarono la proposta di formare unità armate autonome su base nazionale, poste sotto la giurisdizione dei diversi comitati nazionali, e di offrire ai soldati di queste nuove unità lo status giuridico di alleati[15]. Del resto per i romeni era l’occasione attesa per stringere ulteriormente i rapporti con l’Intesa offrendo un contributo concreto per la vittoria definitiva della causa comune[16]. I più attivi rappresentanti romeni in Italia furono il professore di origine transilvana Simion Mândrescu, George Mironescu e Mihail Sturdza che immediatamente si attivarono per cercare di arrivare alla formazione di un contingente romeno reclutato tra i circa 18.000 prigionieri di guerra dell’Austria-Ungheria di nazionalità romena[17] presenti in Italia e provenienti dalla Transilvania, dalla Bucovina e dal Banato. Il professor Mândrescu e l’ex ministro romeno in Italia, il principe Dimitrie Ghica, furono i principali responsabili delle trattative condotte con il governo italiano in vista della formazione della Legione romena; per coordinare meglio le azioni i romeni con l’appoggio di un gruppo di ufficiali, fondarono il 6 giugno del 1918 a Cittaducale un Comitato d’Azione dei Romeni di Transilvania, Banato e Bucovina mentre contemporaneamente in diverse città italiane nacquero dei comitati Pro-Romeni.[18] Nel giro di qualche mese l’attivismo dei rappresentanti romeni, capaci di sviluppare in molte città italiane un notevole movimento di simpatia a favore della causa nazionale romena riuscì infine ad ottenere il 15 ottobre 1918 dal ministro della Guerra Zuppelli il

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permesso per la costituzione di una Legione romena posta sotto i comandi del generale di brigata Luciano Ferigo che in seguito avrebbe ricoperto l’incarico di addetto militare a Bucarest.

Furono proprio gli ufficiali di Cittaducale a intraprendere l’azione più decisa per cercare di coinvolgere nell’iniziativa quanti più soldati romeni tra tutti quelli reclusi nei diversi campi di prigionia. In realtà pochi mesi prima, tra il giugno e il luglio del  1918, si erano già costituite tre compagnie romene (la prima aveva ricevuto la propria bandiera il 28 giugno a Ponte di Brenta, una località non lontana da Padova) per un totale di 830 uomini e 13 ufficiali che inquadrate immediatamente nell’VIII, V e IV Armata italiana presero parte a diverse importanti azioni militari tra le quali la battaglia di Monte Grappa e la battaglia di Vittorio Veneto[19]. Furono giusto i componenti di queste tre compagnie a formare dunque il primo nucleo della Legione romena la cui base fu deciso che dovesse impiantarsi nel campo di concentramento di Avezzano, quando ormai la guerra volgeva al termine. Una volta avviata l’iniziativa politico militare da parte dei promotori romeni anche le autorità civili e militari italiane si attivarono affinché i prigionieri di nazionalità romena concentrati nei diversi campi della penisola si dividessero dal resto dei commilitoni e gradualmente cominciassero a confluire verso Avezzano; è questo il tenore di un messaggio del 1919 inviato dal generale Armando Diaz a Vittorio Emanuele Orlando.

 

 «Ritenendo conveniente sistemare posizione ex prigionieri austriaci che più prestano servizio presso ufficio informazioni questo comando dispone che i romeni siano riuniti a legione romena in formazione ad Avezzano»[20]

 

Il meccanismo era stato ormai avviato, sembrava proprio che ormai per i prigionieri romeni presenti in Italia si aprisse un capitolo nuovo; paiono confermare tale impressione successivi messaggi inviati dal ministero della Guerra e dalla stessa Presidenza del Consiglio. Tuttavia tra i diversi organi dello Stato italiano non sempre le opinioni sul destino dei romeni sembrano coincidere. Il 14 novembre il presidente del Consiglio Orlando scriveva a Diaz:

 

« […] bisogna distinguere tra coloro che avevano un inquadramento militare italiano e quelli che non lo avevano […] per quanto riguarda invece prigionieri di quelle nazionalità anche aventi aspirazioni a formare unità combattenti per l’Intesa, sembra evidente che non si può parlare della loro costituzione militare e neanche mi sembrerebbe opportuno lasciarli puramente e semplicemente liberi. Io credo che in questo caso si potrà usare l’agevolezza di consentire il rimpatrio […][21]»

 

I militari invece non erano dello stesso avviso e alla fine sembrò prevalere il principio (almeno nella maggioranza dei casi) che i prigionieri dell’esercito austroungarico di nazionalità romena fossero in ogni caso concentrati nel campo di Avezzano. Dunque il lavoro di costituzione della Legione romena procedeva con celerità e sicuramente un ulteriore impulso fu offerto il 22 novembre 1918 dal riconoscimento ufficiale da parte del Governo italiano del Consiglio Nazionale dell’Unità Romena diretto a Parigi da Take

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Ionescu futuro architetto della politica estera romena. Una volta arrivati ad Avezzano i romeni venivano inquadrati militarmente e forniti di tutto il necessario equipaggiamento bellico, quindi iniziava un periodo di addestramento sotto la supervisione di ufficiali italiani. Non mancarono neppure momenti di svago marcati da qualche gita realizzata in località del circondario o di banchetti offerti in loro onore da municipalità locali.

Era chiaro che nei piani dei dirigenti del movimento nazionale romeno questi soldati una volta tornati in Transilvania, avrebbero dovuto rappresentare una delle principali forze di occupazione del territorio offrendo una supplementare legittimazione alle aspirazioni delle autorità romene che in questa maniera avrebbero inoltre potuto presentarsi al tavolo dei negoziati con l’ulteriore vantaggio del fait accompli. Del resto le reali intenzioni e lo spirito antimagiaro non tardarono troppo a manifestarsi. In una sezione separata del campo infatti erano rinchiusi (e con trattamento ben diverso) anche un buon numero di altri prigionieri dell’esercito austroungarico tra i quali anche numerosi ungheresi. A causa di questa forzata convivenza con il passare del tempo il clima tra romeni e ungheresi nel campo si fece sempre più teso. Secondo le cronache del campo numerose erano le risse che scoppiavano tra gli appartenenti ai due gruppi dando un bel daffare alla non troppo numerosa guarnigione italiana di guardia. L’episodio più grave si verificò il 12 ottobre 1919, verso il calare delle tenebre, quando un gruppo di legionari decise di dare una lezione definitiva agli ex commilitoni ungheresi. Fu organizzata una vera e propria spedizione punitiva contro le baracche situate nel settore che ospitava i prigionieri magiari; l’intervento delle truppe e dei carabinieri di guardia fu tardivo e il risultato finale fu che due soldati ungheresi persero la vita e ben quarantacinque furono feriti alcuni, di essi in maniera anche piuttosto grave[22].

Come detto questo non fu certamente l’unico caso di violenza verificatosi ad Avezzano e in altri campi di prigionia tanto da spingere le autorità ungheresi nel corso degli anni a presentare formali proteste al governo italiano per mezzo sia del Consolato ungherese di Berna sia dell’Ambasciata di Spagna a Roma che allora curava gli interessi magiari nel nostro Paese. La risposta italiana non tardò ad arrivare; in essa si chiariva che le autorità militari italiane avevano sempre provveduto a isolare completamente nei diversi campi i prigionieri appartenenti a nazionalità diversa, mentre non si era mai costretto nessuno ad aderire alle diverse legioni nazionali

 

«[…] come è noto i prigionieri di nazionalità rumena, czeco-slovacca ecc. furono lasciati sempre liberi di arruolarsi, o meno, nelle legioni e furono sempre impartiti ordini tassativi per il rispetto della volontà individuale[23]»

 

La grave situazione instauratasi nel campo di Avezzano rifletteva insomma la tensione e il conflitto che in quello stesso periodo investivano la Transilvania, la Bucovina e il Banato. Dunque si può comprendere il netto rifiuto opposto dalle autorità italiane alla proposta, avanzata dalla Legazione romena di Roma, di trattenere in Italia tutti i prigionieri di guerra autroungarici nativi delle regioni irredente romene e che si rifiutavano di arruolarsi nella Legione romena di stanza in Abruzzo, di togliere loro lo status di prigionieri

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di guerra, considerandoli internati e rinchiuderli in un apposito campo di concentramento. Per le autorità italiane non era il caso di creare nuovi conflitti:

 

«[…] non è nel nostro interesse d’istituire nuovi campi di concentramento, quando è necessario invece d’addivenire sollecitamente alla eliminazione di quelli esistenti, che sono motivo d’imbarazzo e danno causa a reclami specialmente da parte degli estremisti.»

 

Era necessario dunque smantellare quanto prima tutti i campi e permettere il ritorno dei prigionieri, indipendentemente dalla nazionalità, alle loro case[24]. Del resto anche tra i legionari inquadrati ad Avezzano la situazione con il passare del tempo era divenuta difficile; per molti di essi il rimpatrio tardava ad arrivare (effettivamente qualcuno rimase ben oltre il 1919), il forzato distacco dalla patria lontana esacerbava gli spiriti e certamente non migliorava la situazione il pericolo sempre incombente di malattie o addirittura di vere e proprie epidemie – come il tifo petecchiale – di cui le condizioni igieniche e sanitarie del campo di prigionia facilitavano il diffondersi. Non tutti però sembravano troppo scontenti della situazione, sembra essere questo il caso del venticinquenne Teodor Ardelean che il 4 novembre 1919 convolò a nozze con una ragazza del posto certa, Luisa Fortini[25]. 

Lentamente ebbero inizio i rimpatri anche per i romeni di Avezzano. Effettivamente le prime partenze dei Legionari romeni alla volta della Romania cominciarono ad aversi solo verso l’inizio dell’autunno del 1919; il 20 ottobre partì dal porto di Taranto il piroscafo “Meran” con un battaglione di legionari perfettamente equipaggiato, ed entro la fine dello stesso mese era programmata la partenza di un’altra imbarcazione[26]. Era previsto che una volta arrivati nel porto romeno di Galaþi sul Mar Nero e non sul ben più importante e visibile porto di Costanza, i reparti di legionari arrivassero fino Bucarest affinché fossero passati in rassegna, assieme agli ufficiali italiani che li avevano inquadrati e addestrati e che li accompagnavano nel viaggio di ritorno, dal re di Romania (Ferdinando I).

Tuttavia ben presto apparve chiaro che le autorità romene non vedevano di buon occhio questa eventualità e fecero sapere al ministro italiano a Bucarest, Fasciotti, che sarebbe stato opportuno che non appena arrivati a Galaþi gli ufficiali italiani prendessero congedo dai reparti legionari; secondo quanto riferiva Fasciotti, per i romeni si trattava di una semplice procedura dettata dalla prudenza esisteva infatti la possibilità concreta che queste truppe venissero presto utilizzate contro formazione bolsceviche e irredentisti magiari[27]. Non si voleva dunque che negli scontri rischiassero la vita anche gli ufficiali italiani. In realtà parve allora (come oggi del resto) che si trattasse di una pura scusa. Il governo romeno non desiderava che le proprie truppe fossero guidate da ufficiali stranieri e in particolari da quelli italiani. La presa di posizione romena provocò non pochi malumori al ministero della Guerra; se ne fece portavoce lo stesso ministro Caviglia in una risentita lettera inviata al ministero degli Affari Esteri nella quale faceva notare tra l’altro che comunque nonostante le argomentazioni di Bucarest che tra le truppe romene impegnate,

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per esempio, contro le formazioni bolsceviche in Bessarabia prestavano servizio ufficiali inglesi e francesi e come in definitiva la presa di posizione romena danneggiasse il prestigio degli ufficiali italiani, costretti al loro arrivo nei porti romeni a restarsene sulle navi[28]. Comunque la posizione romena fu riaffermata nel dicembre del 1919 dal ministro romeno a Roma Alexandru Lahovary che ribadì l’urgenza di utilizzare i legionari per

 

«participer à l’occupation des pays roumains de l’ancienne monarchie autro-hongroire et témoigner ainsi, par leur présence en moment plus tôt, de l’intérêt fraternel que l’Italie leur a montré en les appellant à concourir à la grande oeuvre de leur delivrance […]»

 

A margine di questa sviolinata il diplomatico romeno richiese inoltre che le autorità italiane provvedessero il prima possibile al rimpatrio di qualche migliaio di soldati romeni con circa sessanta ufficiali ancora presenti nel campo di Avezzano. Le argomentazioni romene irritarono non poco gli ambienti militari italiani che tuttavia furono ricondotti all’ordine dalla volontà dei politici italiani di non avere problemi con il nuovo Stato romeno che, ingranditosi grandemente, appariva un soggetto politico di prim’ordine nel nuovo assetto internazionale danubiano-balcanico. Orlando preferì chiudere la questione invitando al sollecito rimpatrio di tutti i romeni, inquadrati o meno, concludendo lapidariamente che «i benefici non si fanno a chi non li desidera[29]». La vicenda dei legionari romeni si concluse dunque con un quasi incidente diplomatico premonitore in qualche modo delle non sempre ottime relazioni, che intercorsero durante gli anni Venti e Trenta tra l’Italia e la Romania[30].

 

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© ªerban Marin, August 2002, Bucharest, Romania

serban_marin@rdslink.ro

 

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[1] Non esistono cifre assolutamente sicure sul numero totale dei prigionieri austro-ungarici caduti in mano agli italiani nel corso delle operazioni belliche; i calcoli dello Stato Maggiore dell’esercito parlano di 168.898 uomini a cui si devono aggiungere circa cinquemila disertori. Si veda Mario Isnenghi – Giorgio Rochat, La Grande Guerra 1914-1918, Milano: La Nuova Italia, 2000: 345.  

[2] Fino al settembre 1916 risultavano impiantati sul territorio nazionale 83 campi di prigionia il cui mantenimento, e in particolare quelli destinati alla truppa, non sembrava interessare troppo i vertici politici e militari italiani. Solo in seguito alla vittoriosa e decisiva battaglia di Vittorio Veneto (30 ottobre 1918) con il conseguente aumento del flusso di prigionieri le autorità italiane si decisero ad attendere ad una radicale opera di ampliamento e riorganizzazione di queste installazioni. Si veda Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, Roma: Editori Riuniti, 1993: 222.

[3] Ibidem: 223.

[4] Là dove esisteva il terzo lago d’Italia per estensione tra il 1852  e il 1876 fu portata a termine una difficile opera di prosciugamento, bonifica e successivo dissodamento che fece progressivamente emergere dalle acque, rendendola coltivabile, una superficie pari a circa 15.000 ettari di terra, il cui possesso innescò ben presto una serie di dure lotte (terminate solo con la riforma agraria del 1952) tra le popolazioni contadine della zona e il principe Alessandro Torlonia e i suoi eredi che avevano avuto in concessione la quasi totalità della superficie emersa. Per maggiori ragguagli sulla questione si veda, Raffaele Colapietra, Fucino ieri. 1878-1915, Avezzano: E. R. S. A., 1989²;  AA VV, Fucino cento anni. 1877-1977, Avezzano: E. R. S. A., 1983²; AA VV, Il Fucino, Milano: Silvana Editoriale d’Arte, 1977, in particolare 141-161.

[5] Secondo il censimento del 1911 Avezzano contava 11.208 abitanti; in seguito alla catastrofe il 95% della popolazione rimase sotto le macerie, fortunatamente una parte almeno dei dispersi alla fine fu tratta in salvo dall’opera, tuttavia generalmente tardiva e disarticolata, dei soccorritori. Cfr. Colapietra, op. cit.: 155. Per una completa visione d’insieme del grave evento naturale si veda invece Luigi Filippo De Magistris, “Il terremoto marsicano del 13 gennaio 1915”, La Geografia, gennaio-febbraio 1915: 6-34. L’eco suscitata in tutto il Paese dalle terribili conseguenze del terremoto fu enorme si veda al riguardo la raccolta di articoli di varie testate nazionali contenute nel volume Marsica 1915 (a cura di Bruno Vespa – Arnaldo Panecaldo), Roma: Fotogramma, 1984.

[6] Archivio Storico del Comune di Avezzano (d’ora innanzi ASCA), Campo di concentramento Busta VIII/6/2. (Lettera non datata ma presumibilmente risalente ai primi mesi del 1916) del Delegato civile del Comune di Avezzano diretta al ministro dell’Agricoltura Industria e Commercio (allora Giannetto Cavasola).

[7] Si veda Enzo Maccallini e Lucio Losardo, Prigionieri di guerra ad Avezzano. Il campo di concentramento. Memorie da salvare, Avezzano: Archeoclub d’Italia – Sezione della Marsica, 1996: 7-8.

[8] ASCA, Campo di concentramento cit. Inoltre per i comuni che ospitavano sul proprio territorio dei campi di prigionia un ulteriore vantaggio economico era costituito dal gettito fiscale derivante dal dazio imposto sugli spacci interni ai campi (bettolini)  riservati alla vendita al dettaglio di beni alimentari e di conforto sia ai prigionieri che ai soldati che costituivano la guardia armata del campo di concentramento.

[9] Ibidem.

[10] Cfr. Procacci, op. cit.: 222-223.

[11] Nei quattro anni di funzionamento (dal 1916 al 1919) morirono nel campo ben 850 prigionieri, mentre nel solo 1919 furono ben 123 i romeni, già inquadrati nelle fila della Legione Romena, che vi persero la vita. Cfr. Maccallini e Losardo, op. cit.: 52.

[12] ASCA, Campo di concentramento Busta VIII/6/2, richiesta del 5 febbraio 1917.

[13] Si veda Dan Grecu e Robert M. Bell, “The Romanian Legion in Italy (1918-1919)”, Romanian Postal History Bullettin 26 (1988) .

[14] Per una visione generale del Congresso di Roma, della sua genesi e delle conseguenze si veda Leo Valiani, La Dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Milano: Il Saggiatore, 1966, in particolare 373-413.

[15] Angelo Tamborra, L’Europa centro-orientale nei secoli XIX-XX (1800-1920), Milano: Vallardi Commissionaria Editoriale, 1971: 403-404; ulteriori e più specifiche informazioni sulla vicenda sono offerti da Francesco Guida, “Il compimento dello Stato nazionale romeno e l’Italia: Opinione pubblica e iniziative politico-diplomatiche”, Rassegna storica del Risorgimento 70 (1983), 4: 425-462.

[16] Eliza Campus, Din politica externã a României (1913-1947), Bucarest: Editura Politicã, 1980: 158 e segg.

[17] Ministero della Guerra Ispettorato Generale per i Prigionieri di Guerra, Relazione sul riordinamento, la riorganizzazione ed il funzionamento del servizio per i prigionieri di guerra, Roma, Stabilimento Poligrafico per l’Amministrazione della Guerra, 1919, in particolare si consultino gli Allegati 1 e 2.  

[18] Si veda Valeriu Fl. Dobrinescu, Ion Patroiu, Gheorghe Nicolescu, Relaþii politico-diplomatice ºi militare româno-italiene (1914-1947), Craiova: Intact, 1999: 47-48.

[19] Cfr. Grecu e Bell, op. cit.

[20] Archivio Centrale dello Stato (ACS d’ora innanzi) Presidenza Consiglio dei Ministri – Guerra Europea, Busta 169, Messaggio del 9 novembre 1918.

[21] Ibidem.

[22] Maccallini e Losardo, op. cit.: 108-109.

[23] ACS, Presidenza Consiglio dei Ministri – Guerra Europea, Busta 484 cit., Messaggio del ministero della Guerra al ministero degli Affari Esteri del 22 marzo 1920.

[24] Ibidem, Busta 169, Messaggio dell’Ambasciata romena del 22 agosto 1919 e risposta delle autorità italiane del 30 settembre 1919.

[25] Maccallini e Losardo, op. cit.: 135-137.

[26] ACS, Presidenza Consiglio dei Ministri – Guerra Europea, Busta 201, messaggio del 26 ottobre del ministero della Guerra alla presidenza del consiglio. Secondo un precedente messaggio del 13 settembre 1919 i legionari «[…] venivano armati ed equipaggiati con materiali italiani da contabilizzarsi a carico del Regno di Romania.»

[27] Ibidem, Telegramma del ministero degli Affari Esteri al ministero della Guerra del 10 febbraio 1919.

[28] Ibidem, messaggio del 16 febbraio 1919.

[29] Ibidem, messaggio di Orlando a Caviglia del 4 marzo 1919. Date queste premesse si può capire meglio la secca risposta negativa del governo italiano alla richiesta avanzata dalla Legazione romena di Roma di concedere il transito ferroviario gratuito sulla linea Trieste – Napoli a ex prigionieri di guerra di nazionalità romena provenienti dalla Siberia. Secondo le autorità italiane il governo aveva già notevolmente sostenuto l’opera di rimpatrio con un contributo di 8 milioni di Lire che avevano facilitato il ritorno in Romania di quasi novemila uomini. Ivi, Busta 484, messaggio del marzo 1921.

[30] Su tale aspetto si veda per esempio Giuliano Caroli, “Un’amicizia difficile: Italia e Romania (1926-1927)”, Analisi Storica 2 (1984), 3: 277-316; Idem, “Un’intesa mancata. I rapporti tra Roma e Bucarest dal conflitto italo-etiopico al conflitto europeo, 1937-1939”, in Studi Balcanici (a cura di Francesco Guida – Luisa Valmarin), Roma: Carucci, 1989: 239-262.