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p. 329

Con Baricco e Cărtărescu alla ricerca del Libro

 

Maria Bulei,

Università di Padova

 

Rifacendoci alla visione di Borges in cui tutto accade perché confluisca in un libro[1], non ci riesce difficile intuire che qualsiasi immersione noi facciamo, nei pensieri, nei sogni, nel mare o nella lettura, ci avviciniamo a Lui, lo Scrittore, il Tessitore di quel Testo Universale e Originario che giustifica e genera tutto. È sotto l’impulso del Libro che l’italiano Alessandro Baricco e il romeno Mircea Cărtărescu esordiscono come romanzieri nell’ultimo decennio del Novecento, in contesti culturali diversi ma accomunati dalla stessa attrazione per i meccanismi della genesi e per le funzioni del testo narrativo.

Che si debba andare fino alla fine del mondo, come nella Seta di Baricco, o nel proprio passato, persino dentro di sé, nella propria carne, come avviene nella Nostalgia e nell’Orbitor[2] di Cărtărescu, il viaggio del personaggio ma anche del lettore verso l’Autore che scrivendo, ci scrive, è sempre uno lungo e tormentato, segnato però dallo splendore e dalla folgorazione di un avvenimento unico.

Seta è il simbolo della fantasia e dell’immaginazione come secrezione che rende consistente il vuoto esistenziale. Anche nella Nostalgia saper sognare è l’unica via possibile per accedere a quella dimensione magica, al REM che rappresenta il Tutto. Nana, colei che stimolata da Egor, uno strano personaggio scrittore, parte alla ricerca del Tutto, sembra scoprirlo nel momento in cui entra nella stanza dove l’Autore sta scrivendo la storia che s’intitola REM. Le pagine di questa storia raccontano di Lei, della sua vita. Il cerchio sembra chiudersi così, il

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Tutto sembra afferrato, ma una volta diventata adulta, Nana si rende conto che il REM si trova in ognuno di noi, che persino l’Autore si fa includere nel REM. Perché in fondo “realitatea e doar un caz particular al irealului şi suntem cu toţii […] doar ficţiunea cine ştie cărei alte lumi, ce ne creează şi ne cuprinde” (la realtà è solo un caso particolare dell’irreale e siamo tutti […] solo la finzione di chissà che altro mondo, che ci crea e ci contiene)[3]. I personaggi dell’Orbitor si riscoprono anche loro simulacri d’irreale, a sua volta simulacro, segni di un libro le cui pagine sono fatte di pelle. “Suntem pânze subţiri de păianjen umflate şi sfâşiate de vânt” (siamo sottili ragnatele gonfiate e stracciate dal vento), eppure, nonostante questa nostra matericità insignificante, “suntem întreaga lume” (siamo il mondo intero)[4]. 

Ritroviamo quest’ immagine-guida della fragilità inconsistente, ai limiti del nulla, per quanto preziosa ed essenziale, dell’arte, nel romanzo di Baricco. Hervé Joncour compie i suoi viaggi costanti, rituali, dalla Francia al Giappone, per trovare e portare con sé nel suo paese di Lavilledieu “la più bella seta del mondo” che era così fine che “era come stringere il nulla”[5]. Per poter toccare questa meravigliosa tessitura, la seta-scrittura o “la morte resa vana o trasfigurata”[6], come Maurice Blanchot ama definirla, Joncour deve raggiungere un luogo-altro, l’equivalente stesso della letteratura.

Tornare in uno spazio simile, delle origini, che si fa eco di tutto ciò che non può cessare di parlare, di significare, diventa un’ossessione anche per i protagonisti dei testi di Cărtărescu. Essi non possono fare a meno di soffrire di nostalgia, essendo consapevoli della rottura che è avvenuta fra loro e questa dimensione degli inizi, questo fluido mentale di una conoscenza immensa in cui tutto è sempre ancora a venire. Non solo immaginare, dunque, ma anche ricordare acquista importanza nel tentativo di restituire questa simbiosi, di ridare l’interezza e la purezza alla tessitura della creazione.

 

Într-o exaltare greu de descris, am dezgropat din memorie în câteva minute nişte lucruri despre care eram convins că nu mai ştiam nimic. Mai mult, mi-am dat seama că acea perioadă a vieţii mele a fost cea care a concentrat tot ce este original şi poate chiar neobişnuit în mine. Cum a rezistat până acum acest glob perfect, sidefiu, încuiat între valvele cenuşii ale vieţii mele de profesor necăsătorit şi blazat, care trăieşte pentru că tot s-a născut, nu îmi dau seama. […] Pe măsură ce soarele cobora la orizont, aurul zidurilor trecea în ambră şi apoi în purpură, […] ferestrele se umpleau de sânge, iar o fetiţă în

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rochie albastră, oprită în poarta […] casei sale, îţi răvăşea amintiri vechi, atât de vechi încât ţi se părea că le ai dinainte de-a fi venit pe lume.”

(Preso da un’esaltazione difficile da descrivere ho scovato nella memoria, in pochi minuti, cose di cui ero convinto di non saper più niente. Inoltre, mi sono reso conto che in quel periodo della mia vita si era concentrato tutto quello che c’è di originale e forse persino di inconsueto in me. Come sia resistita fin’ora questa sfera perlacea, serrata fra le ceneri valvole della mia vita di professore celibe e disincantato, che vive perché comunque è nato, non me ne rendo conto. […] Man mano che il sole scendeva all’orizzonte, l’oro delle mura mutava in ambra e poi in porpora, […] le finestre si riempivano di sangue, mentre una bambina con un vestito blu, che si era fermata al portone […] della sua casa, ti destava vecchi ricordi, tanto vecchi che ti sembrava averli già da prima che fossi venuto al mondo[7].)

 

I ricordi, i sogni del narratore, o meglio, dei vari narratori che si susseguono nella Nostalgia e nell’Orbitor sono stimolati da uno sguardo penetrante che si pone su una Bucarest in perenne costruzione, sulle sue strade trafficate, sui suoi palazzi grigi e sulle sue vecchie case «bagnate dal silenzio». La particolarità dei racconti di Cărtărescu, che sembrano scriversi da soli – esiste un passo nella seconda sequenza narrativa della Nostalgia in cui il narratore ha la visione della sua macchina da scrivere che continua a scrivere la sua storia da sola – sta nella sua abilità di percepire la stranezza del familiare che si scopre sotto la specie del meraviglioso. I gesti più semplici e banali, ma che sono anche i più spontanei e i più vissuti, rimandano ad una quotidianità solo apparentemente insignificante e priva di verità; essa potrebbe essere anche il luogo di ogni significato possibile.

In una simile posizione limbica tra senso e vuoto, tra Essere e Nulla si trova il Giappone che accoglie Hervé Joncour nella Seta. Tutto quello che accade nel paesaggio naturale e negli interni domestici di questo luogo acquista un’intensa significazione, che richiede maestria al lettore che la vuole cogliere. Tutta la scena del primo incontro di Hervé Joncour con Hara Kei, “l’uomo più imprendibile del Giappone, padrone di tutto ciò che il mondo riusciva a portare via da quell’isola”[8], è incentrata, come ci fa notare Claudio Pezzin, “su una ritualità dominante e ossessiva del gesto, espressione di una sacralità primordiale, originaria, piena e classica, in sé geometrica e perfetta”[9].

 

“Hara Kei era seduto […] nell’angolo più lontano della stanza […]. Unico segno visibile del suo potere, una donna sdraiata accanto a lui, immobile, […] gli occhi chiusi […]. Nella stanza era tutto così silenzioso e immobile che parve un evento immane ciò che accadde all’improvviso, e che pure fu un nulla.

D’un tratto

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senza muoversi minimamente

quella ragazzina

aprì gli occhi”[10].

 

Hervé Joncour entra così nello spazio della fascinazione, nel regno del Demiurgo, di colui che mise in scena il mondo, l’umano e il non-umano. Ma il maestro non offre nulla da conoscere che non resti determinato dall’ignoto, dal mistero che egli stesso rappresenta e che si afferma attraverso la distanza infinita che si frappone fra loro due.

 

Quell’uomo per cui tutti, in quel paese, esistevano, si muoveva sempre in una bolla di vuoto. […] – Quando mi direte chi è quella ragazzina?

Hara Kei continuò a camminare, con un passo lento a cui non apparteneva alcuna stanchezza. Intorno era il silenzio più assoluto, e il vuoto. Come per un singolare precetto, ovunque andasse, quell’uomo andava in una solitudine incondizionata, e perfetta[11].

 

Leggiamo ad un certo punto nelle pagine della Nostalgia:

 

Cu cât spaţiul acţiunii sau jocului […] este mai îngust, cu atât restul lumii, adică Lumea, este mai largă. Şi merită întotdeauna să te restrângi, chiar şi până la inexistenţă, ca să sporeşti minunea lumii” (più lo spazio dell’azione o del gioco è ristretto, più il resto del mondo, cioè il Mondo, è grande. E vale sempre la pena che ti ristringa, anche fino all’inesistenza, per accrescere la meraviglia del mondo)[12].

 

Un’indeterminatezza e un’ambiguità istrionica del narratore, del padrone della scrittura si osserva anche nei romanzi di Cărtărescu. Le metamorfosi che il narratore subisce, passando da uomo a donna, bambino, adolescente, per prendere alla fine le fattezze di un mostro perverso, un ragno che tesse la sua tela, tessitura, testo, acquistano l’immagine di un unico essere; e questo essere, non solo letterario, annota il critico Vasile Popovici, “crucificată la intersecţia timpurilor, a sexelor, a banalului cu miraculosul, este totul” (crocifisso all’incrocio dei tempi, dei sessi, del banale con il miracoloso, è il tutto)[13].

È da questo Tutto che prende vita la scrittura, “l’idioma puro dei cieli”, come Roland Barthes la definisce nelle Variazioni sulla scrittura[14], che impegnando l’uomo nella sua interezza, corpo e storia, tende a restituirci una visione unitaria del mondo. La scrittura, la lettera, l’iscrizione sensibile sono state

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da sempre considerate sia dalla tradizione occidentale che da quella orientale come il corpo, la veste dello spirito. E in quanto in un mondo superiore Qualcuno ci scriverà, lettera per lettera, o disegnerà, tratto per tratto il sublime e il grottesco dei nostri profili, il corpo della scrittura si identificherà con il nostro stesso corpo. La lettura del Libro incompiuto, “realizzazione di quel che c’è infinito nello spirito”[15], si deve cogliere dunque come lettura di se stessi.

 

Trecutul meu era cheia, semne tulburi îl arătau ca lizibil, trebuia să-ncep o dată marea lectură, dar nici o stelă nu se arăta ca să-mi lumineze deodată înţelegerea. Nu ştiam dacă şirurile vieţii mele (voci şi atingeri, nori şi oraşe, râsete şi pământ plin de râme) se citesc vertical sau orizontal, de la stânga sau de la dreapta […], dacă este o scriere. […] Pergamentul era viu ca pielea abia smulsă a unui martir şi mustea de cerneală şi sânge. Ce scria însă pe pielea mea, sau ce era tatuat acolo, între sfârcurile şi pieptul meu, era deocamdată complet obscur pentru mine.”

(La chiave stava nel mio passato, segni vaghi lo indicavano come leggibile, dovevo iniziare prima o poi la grande lettura, ma neanche una stele si faceva vedere per illuminarmi tutto d’un tratto la comprensione. Non sapevo se le righe della mia vita (voci e sfioramenti, nuvole e città, risate e terra piena di vermi) si dovessero leggere verticalmente od orizzontalmente, da sinistra o da destra, se ci fosse una scrittura. La pergamena era viva come la pelle appena strappata di un martire e stillava d’inchiostro e di sangue. Ma quello che era scritto sulla mia pelle, o che era tatuato lì, fra i capezzoli del mio petto, mi era per ora completamente oscuro[16].)

 

Ci troviamo, dunque, di fronte ad una scrittura difficile da decifrare, la cui lettura sembra sfuggirci, ma è proprio questo a sedurre, questa sua discontinuità, questa messinscena di un’apparizione-sparizione.

Anche Hervè Joncour è sedotto dalla scrittura, che, dopo la seta, è incarnata dalla giovane concubina di Hara Kei. “Quella ragazzina continuava a fissarlo, con una violenza che strappava a ogni sua parola l’obbligo di suonare memorabile”[17]. Avvicinarsi a questa creatura è come consegnarsi al fascino dell’assenza di tempo laddove tutto ricomincia, di nuovo e di nuovo, all’infinito. Emblematica è in questo senso la scena del bagno:

 

Sentì la leggerezza di un velo di seta che scendeva su di lui. E le mani di una donna – di una donna – che lo asciugavano […]: quelle mani e quel tessuto filato di nulla. […] Aspettò a lungo, nel silenzio, senza muoversi. Poi lentamente si tolse il panno bagnato dagli occhi. […] E, con cura, fermò il Tempo, per tutto il tempo che desiderò. Fu un nulla,

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poi, aprire la mano, e vedere quel foglio. Piccolo. Pochi ideogrammi disegnati uno sotto l’altro. Inchiostro nero[18].

 

In un altro passo gli ideogrammi appaiono come «orme di piccoli uccelli». L’immagine della scrittura viene così associata alla voliera di Hara Kei, voliera che custodisce uccelli raffinati e bellissimi portati da tutte le parti del mondo per incantare con la loro musica quella dimora “annegata in un lago di silenzio”, per dare suono al silenzioso, al di fuori di ogni parola: uno spettacolo, una “magnifica follia”. I viaggi di Hervé Joncour possono essere dopotutto i viaggi della parola stessa, che, si sa, è essenzialmente errante, verso quella condizione di silenzio originario che è la sua genesi. È in questo silenzio che la parola si fa ascoltare e questo momento coincide con la sparizione alla quale è invitato colui che scrive, che, per dare voce all’universale deve sacrificare in sé la parola che gli è propria[19]. Verso la fine della Seta assistiamo ad un simile momento. Per l’ennesima volta Hervé Joncour torna da Hara Kei, perché è sempre difficile resistere alla tentazione di tornare laddove non esiste una parola per dire «niente» ma “rotea il tutto vorticosamente”[20], laddove in un solo sguardo si possono comprendere lo spazio dell’impossibilità e il mondo della possibilità. Ma questa volta … “vagò per giorni fino a quando non riconobbe un fiume, e poi un bosco, e poi una strada. Alla fine della strada trovò il villaggio di Hara Kei completamente bruciato: case, alberi, tutto. Non c’era più niente”[21]. Guidato da un ragazzino che compare «dal nulla, tutto d’un tratto» e che da un piccolo strumento tira fuori i versi di tutti gli uccelli del mondo, Hervé oltrepassa la fine del mondo e raggiunge il corteo di Hara Kei. Ma il padrone della seta non è più disposto a ospitarlo e al posto della donna misteriosa che tanto lo aveva affascinato gli è consentito vedere solo una portantina e intorno ad essa stoffe meravigliose, seta, “mille colori, arancio, bianco, ocra, argento, non una feritoia in quel nido meraviglioso, solo il fruscio di quei colori a ondeggiare nell’aria, impenetrabili, più leggeri del nulla”[22]. Tutto il resto è da reinventare, perché, come lo ricorda Maurice Blanchot, “l’essenza della letteratura consiste nella fuga da ogni determinazione essenziale, da qualsiasi affermazione che la fissi”[23]; è sempre da ritrovare.

E da abile lettore che leggendo tesse la propria opera, ma anche da vero narratore che sa di non poter vivere l’Enigma senza ricrearla lui stesso, Hervé

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Joncour, tornato in Francia, ricostruisce nel suo villaggio l’essenza magica del mondo di Hara Kei: alberi e siepi che disegnavano sulla terra “labirinti lievi e trasparenti”, giardini che si aprivano a sorpresa, una grande voliera che sembrava “un ricamo sospeso nell’aria”, e quel lago che passava ore a guardare, giacché, “disegnato sull’acqua, gli pareva di vedere l’inspiegabile spettacolo, lieve, che era stata la sua vita”[24]. Con il tempo, il protagonista della Seta inizia a concedersi anche un piacere che prima si era sempre negato: “a coloro che andavano a trovarlo, raccontava dei suoi viaggi. Ascoltandolo, la gente di Lavilledieu imparava il mondo e i bambini scoprivano cos’era la meraviglia. Lui raccontava piano, guardando nell’aria cose che gli altri non vedevano”[25].  Intravediamo in queste immagini finali della Seta quel movimento che rifà il grande gesto demiurgico: che parte dalla lettura di sé, dalla riscoperta del proprio io per abbracciare il mondo intero, per creare il reale.

Essere inventori del Libro che, abbandonando la propria fisicità cartacea, si dilata e si identifica con l’universo, è anche l’ideale di Andrei e di Egor che incontriamo nella Nostalgia:

 

nu, nu vreau să ajung un mare scriitor, vreau să ajung Totul. Visez necontenit la un creator care, […] să se substituie universului, să devină el însuşi Lumea” (no, non voglio diventare un grande scrittore, voglio diventare il Tutto. Sogno incessantemente un creatore che si sostituisca all’universo, che diventi egli stesso il Mondo)[26].

 

Questo desiderio di onniscienza e di ubiquità sarà realizzato, in chiave musicale, dal protagonista dell’Architetto, l’ultima sequenza della Nostalgia. Condannato anche lui a “piovere la sua vita”, come lo era stato Hervé Joncour prima di andare alla ricerca della seta, l’architetto Emil Popescu vive una svolta decisiva nel momento in cui si lascia conquistare dal mondo dei claxon della sua nuova automobile. Sperimentando claxon sempre più moderni e complessi, egli arriva a suonare, a ricomporre, senza averla mai sentita prima, l’intera musica del mondo. Con il tempo, l’architetto diventa un essere immortale in una sorta di fusione dionisiaca con l’universo, mentre la sua musica non può più essere percepita dall’orecchio umano in quanto “nu mai ţinea de sunete, nici măcar de materie, ci pătrundea în pulsaţiile cosmice, împletindu-se cu ele şi forţându-le să se modifice” (non aveva più a che fare con i suoni, nemmeno con la materia, ma penetrava nelle pulsazioni cosmiche, intrecciandosi con esse e costringendole a

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modificarsi)[27] per creare una nuova galassia. A questo punto ci sembra doveroso soffermarci sul monologo Novecento, un’altra opera di Baricco in cui si ritrova questa simbiosi con il flusso del divenire, con l’immenso, rappresentato questa volta dall’Oceano. È solo sull’Oceano che il pianista Novecento, allegoria anche lui del narratore di storie, può suonare, può creare “perché la gente non sentisse il tempo, e si dimenticasse dov’era, e chi era; suonava per farli ballare, perché se balli non puoi morire, e ti senti Dio”[28].

Anche il finale dell’Orbitor allude agli orizzonti infiniti che l’immaginazione dalla corposità eterea e fluttuante possa abbracciare. La metafora su cui è incentrato il romanzo è una farfalla gigantesca alla vista della quale si ha uno spettacolo «accecante»[29], appunto. Si ha la visione allora di quello che si è sempre intraveduto, parzialmente, “in specchi ed enigmi”, del Tutto in cui si congiungono i contrari, si sciolgono “colori di fuoco e di ghiaccio”, “paradiso infernale, luce oscura”[30].

Autori con stili diversi, uno dalla prosa densa, barocca, quasi felliniana, com’è il caso di Cărtărescu, e l’altro che cura con raffinatezza la costruzione della parola e delle immagini fino a toccare un livello di quasi impalpabilità, come Baricco, convergono, dunque, verso la stessa mèta: quella di percepire il mondo nella sua letterarietà che continua a sorprenderci, essendo convinti che ciascuno dei luoghi in cui passa la scrittura è una ripetizione del paradiso perduto.

 

 

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© Şerban Marin, June 2003, Bucharest, Romania

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[1] Si veda J. L. Borges, Altre inquisizioni, Milano: Feltrinelli, 2000: 115.

[2] Si tratta di due metaromanzi della lettura e della scrittura che non sono ancora stati tradotti in italiano. L’unico romanzo di Cărtărescu che ha conosciuto una versione italiana a cura di Bruno Mazzoni, uscita nel 2000 presso le edizioni Voland, è Travesti. Vi si trovano nella prosa di questo scrittore rimandi alle tecniche decostruttive tipiche del postmodernismo, ma è difficile inquadrare le sue opere in una precisa corrente letteraria. Colgo qui l’occasione per auspicare la traduzione anche della Nostalgia e di Orbitor, romanzi molto apprezzati dalla critica romena soprattutto per il loro onirismo, visto non come un modo di fuggire dalla realtà, ma come uno di invaderla.

[3] M. Cărtărescu, Orbitor, Bucarest: Humanitas, 1996: 323. La traduzione è mia. Aggiungo che anche gli altri brani in romeno che verranno in seguito riportati in questo studio saranno tradotti da me.

[4] Ibidem: 335, 59.

[5] A. Baricco, Seta, Milano: BUR, 1999: 19.

[6] M. Blanchot, Lo spazio letterario, Torino: Einaudi, 1967: 75.

[7] Cărtărescu, Nostalgia, Bucarest: Humanitas, 1993: 34 -35, 96.

[8] Baricco, Seta, cit.: 25.

[9] C. Pezzin, Alessandro Baricco, Sommacampagna: Cierre, 2001: 74.

[10] Baricco, op. cit.: 24-25.

[11] Ibidem: 35, 36.

[12] Cărtărescu, Nostalgia, cit.: 255.

[13] Citazione riportata in A. Bodiu, Mircea Cărtărescu (monografie), Braşov: AULA, 2000.

[14] R. Barthes, Variazioni sulla scrittura, Torino: Einaudi, 1999: 40.

[15] Blanchot, op. cit.: 70.

[16] Cărtărescu, Orbitor, cit.: 312.

[17] Baricco, Seta, cit.: 27.

[18] Ibidem: 39.

[19] Si veda Blanchot, Lo spazio letterario, cit.: 12-13.

[20] Baricco, Barnum 2, Milano, 1998: 135.

[21] Idem, Seta, cit.: 67.

[22] Ibidem: 75.

[23] Blanchot, Il libro a venire, Torino: Einaudi, 1969: 202.

[24] Baricco, Seta, cit.: 100.

[25] Ibidem.

[26] Cărtărescu, Nostalgia, cit.: 252.

[27] Ibidem: 316.

[28] Baricco, Novecento, Milano: Feltrinelli, 2000: 13.

[29] Con questo termine potrebbe essere tradotto il titolo del romanzo Orbitor.

[30] Cărtărescu, Orbitor, cit.: 344.