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Il viaggio come figura della crisi dell’intellettuale

nella narrativa di Pirandello e Moravia*

 

Maria Bulei,

Università di Padova

 

Nel Libro dell’inquietudine Fernando Pessoa si chiedeva: «E se tutti noi fossimo sogni che qualcuno sogna, pensieri che qualcuno pensa»[1]? Che cosa succederebbe, potremmo continuare a chiederci, se questo qualcuno smettesse in breve tempo di sognare? Allora il suo ma anche il nostro viaggio immaginario, ideale, simbolo di ogni tipo di viaggio, si trasfigurerebbe in naufragio.

Gli sviluppi di una tale ipotesi si ritrovano nella prosa del Novecento in cui il viaggio non più realizzabile emerge come figura di una modernità scossa. In quanto pensiero che transita attraverso le immagini letterarie e i concetti, la figura, ci rivela Franco Rella, «tiene insieme le due mezze verità che sempre si manifestano nel tempo moderno: la massima astrazione del concetto e la massima forza di ciò che è stato via via definito mito […] immagine»[2].

Esplorare alcune delle direzioni in cui il viaggio s’inoltra nell’ambito della narrativa novecentesca, significa analizzare una figura che testimonia lo smarrimento prima di tutto di quel personaggio che dovrebbe raffigurare l’uomo nella sua essenza morale, sociale, civile. Il male di vivere del personaggio raziocinante si avvertiva anche nell’età romantica, ma le sue manifestazioni non andavano mai oltre una tristezza piena di nobili accenti capaci di trasformare il dolore in una condizione umana alta e dignitosa, sublimata dalla bellezza estetica e morale. Nel Novecento, quando l’idea di una linea evolutiva della società umana e dell’individuo che la abita viene meno, la crisi dell’intellettuale assume aspetti radicali “altri” con intonazioni di inaridimento e inquietudine. Ciascuno si ritrova solo, nell’incertezza fondamentale del suo esistere del suo conoscere, perduto nell’inutile ricerca di una meta, di una verità che si scinde e si moltiplica continuamente, non solo all’esterno ma anche dentro il soggetto. È un dramma che travolge tutti ma è soprattutto l’intellettuale, l’individuo pensante, dotato di una certa cultura e soprattutto della facoltà di rifletterci sopra, ad avvertire maggiormente il turbamento causato dalla rivelazione che il sognato futuro della felicità, che si vuole divoratore del passato finisce per essere a sua volta divorato dal presente della contraddizione insuperabile, della violenza, dell’incomunicabilità.

«Finché la letteratura ha parlato di grandi uomini dalle grandi qualità o dai terribili difetti», afferma Giovanna Querci, «il suo oggetto era ancora l’Uomo visto nei suoi valori assoluti, un uomo unitario, un uomo nel quale si potevano riconoscere i grandi valori o la negazione di essi, valori istituiti dalla morale»[3]. Ma quando ad essere raffigurato è l’individuo che porta il marchio di un’intellettualità malata, cui è stato sottratto il principio ordinatore dell’arte, dell’ethos, della bellezza, il personaggio che si fa avanti sulla scena letteraria è l’antieroe. Privato dei ruoli e delle funzioni del protagonista romanzesco, egli

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diventa narratore di sé, della sua coscienza dissociata: divisa tra il sogno di una seconda esistenza soggettiva e liberamente inventata e il peso inevitabile di una vita oggettiva, determinata dalle convenzioni sociali. E nel dar vita ad un simile personaggio lo scrittore esprime oramai anche la sua inettitudine a costruire mondi in sé perfettamente regolati abitati da creature controllate totalmente dall’alto della sua onniscenza.

Nel percorso che mi accingo a tracciare analizzando le opere di Luigi Pirandello e di Alberto Moravia il viaggio diventa figura di questa soggettività lacerata, di questo continuo corrodersi di tutti i tradizionali modi di espressione e conoscenza che denunciano la fine della grande civiltà dell’Umanesimo iniziata nell’ultimo scorcio del XIX secolo. «Giardino di simboli», come qualcuno l’ha chiamato, il viaggio appartiene per eccellenza ai cosiddetti motivi longues durées, che perdurano sin dagli inizi della scrittura e sono stati soggetti ad una pluralità di ristrutturazioni e letture interpretative.  Possiamo non a caso parlare di viaggi reali e immaginari, nello spazio e nel tempo, alla scoperta di nuove dimensioni sociali e culturali, ma anche di viaggi per «savoir vivre»[4], per dirlo con Laurence Sterne; viaggi di formazione e iniziatici, viaggi alla ricerca dell’identità, viaggi nell’intertestualità, nell’atto stesso della creazione.

Storia del viaggio e storia del Sé sembrano correre parallelamente nel Novecento, il movimento spaziale offrendosi come modello al mondo dell’interiorità, come rappresentazione del cammino dell’io, territorio su cui crescono, come afferma Franco Rella, «i boschi e le sterpaglie della malattia, della follia, dell’alterità insanabile»[5].

Il viaggio cartesiano[6] fuori di Sé era stato del resto incrinato già due secoli fa da Voltaire e da Goethe, per i quali il classico tour di formazione acquistava sfumature di spaesamento e disorientamento. Schopenhauer aveva poi portato in scena il viaggiatore che sceglie come spazio d’azione l’inazione e la negazione di sé, per il quale vagare diventa sinonimo di soffrire. Era sorto con lui il viaggio come «deriva», monotona erranza che tende a valorizzare lo spazio della quotidianità quale nuova epopea: quella dell’uomo «senza qualità», dell’io molteplice e “superficiale”. I viaggiatori di Kafka, Musil, Joyce, Moravia, Pirandello ne sono illustri testimoni. Assistiamo con essi alla dissoluzione del tempo lineare della crescita e dell’arricchimento interiori, alla fine del viaggio come esperienza dell’”altro”, manifestazione dello straordinario e dell’esotico da esplorare e colonizzare. Anche se in alcuni casi sopravvivono, questi spazi meravigliosi cessano di essere fonti di serenità e pace interiore e non fanno che rimandare l’imago deformata di sé, l’ennesima figura angosciata della modernità. In The Magus di John Fowles, Conchis spiega all’errante Nicholas Urfe che «la Grecia è come uno specchio. Ti fa soffrire e poi impari».

Rimarrebbe il viaggio dell’immaginazione, della fantasia onirica salvatrice dell’io alienato, possibilità unica di fuga, di evasione. Vi incontreremo tanti personaggi nostalgici, sognatori di civiltà scomparse o irraggiungibili. Ma ci si accorge che il mondo è diventato piccolo, che la scienza ha distrutto quello che Leopardi affermava essere «lo stupendo potere dell’immaginazione», facendo svanire «i sogni leggiadri»[7] di ignote

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lontananze terrestri e astrali. Il viaggio si configura come illusione che tende a smarrire la sua carica immaginativa nel groviglio esistenziale. Un’illusione, che come tutte le altre, volendo restare all’universo leopardiano, rappresenta sì l’unica vera realtà dello spirito umano, ma  del tutto vana. Cosi, l’unica avventura possibile dell’uomo moderno rimane il silenzioso inabissamento nell’io, nello «heart of darkness» di Conrad [8].

Il viaggio del soggetto nell’abisso, la sua caduta nel tempo è un motivo centrale nella narrativa pirandelliana. Chi lo compie è personaggio dissolto nella persona e fissato in forma, destinato a portare una maschera che è la sua condanna a recitare sempre la stessa parte, imposta dall’esterno, sulla base di convenzioni che reggono l’esistenza della massa. Eppure ci sono momenti critici in cui questi personaggi-marionette, queste anime decadenti, riflettono sul gioco e provano a riscattare il loro decadimento per raggiungere la condizione originaria, di persone libere, prive di forma. Il viaggio in quanto momento critico è uno dei motivi pirandelliani destinato ad esplorare la dialettica fra l’esistenza finta e grigia della maschera del personaggio e i lampi di ribellione, di liberazione che ne illuminano la potenziale persona.

Su uno sfondo di crisi istituzionale e di civiltà si consuma la crisi di identità di Mattia Pascal. Il racconto di questa crisi esistenziale si rifà alla struttura simbolica del viaggio: viaggio come fuga, ma anche percorso di formazione, viaggio come figura della crisi del personaggio, ma anche come tentativo di ricomposizione, ricostruzione dell’essere, di salvezza. La direzione in cui si sviluppa è doppia e insieme antitetica. Da una parte, «a livello dell’azione, del vissuto», è «viaggio in avanti», peregrinazione, mentre nella «ricostruzione a posteriori» e nella «riflessione», come afferma Nino Borsellino, è «viaggio all’indietro, ritorno»[9]. In quanto esperienza interiore, in quanto viaggio di formazione, tutto avviene alla rovescia: Mattia finendo quasi per essere educato non alla vita, ma alla “non-vita”.

Il viaggio ha come punto di partenza e di ritorno Miragno, un luogo privo di identità naturalistica, «un non-luogo del non-essere» in cui Mattia si trova a subire il ruolo di bibliotecario inutile di una biblioteca altrettanto inutile. La stessa immobilità della condizione esistenziale lo attende nell’ambiente domestico. Oppresso da una suocera insopportabile, da un matrimonio che appare sempre di più come falsa realtà, in contrasto con la sua natura – situazione che ritroviamo in molte novelle pirandelliane – egli si sente ancora più angosciato fra le quattro mura della sua casa. Tutto precipita quando gli vengono a mancare l’affetto della madre e quello della figlia, morta ad appena un anno. Decide allora di ribellarsi, prende i pochi soldi prestatigli dal fratello e fugge da Miragno, dallo «schifo di vivere a quel modo» per intraprendere il viaggio alla ricerca di individuazioni più vere, come la libertà, l’amore autentico, la giustizia.

Ma sin dall’inizio la sua avventura si svolge all’insegna dell’improvviso, del caso, cui Mattia si abbandona. È per caso che Mattia arriva a Montecarlo, e in seguito al casinò; sarà la fortuna a farlo vincere. Mattia sente persino il bisogno di mostrarsi «degno di lei, dei suoi favori.[…] O tutto o niente». È sempre per caso che apprende della sua morte, leggendo in un giornale il suo necrologio mentre il treno sta per riportarlo a Miragno.

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E rilessi ancora una volta la notizia sbalorditoja. […] Avrei voluto che il treno s’arrestasse, avrei voluto che corresse a precipizio: quel suo andar monotono, da automa duro, sordo e greve, mi faceva crescere di punto in punto l’orgasmo[10].

Venendo a sapere di essere stato scambiato per un suo compaesano che si è tolto la vita, scende dal treno:

Il salto che spiccai dal vagone mi salvò: come se mi avesse scosso dal cervello quella stupida fissazione, intravidi in un baleno…ma si! la mia liberazione la libertà una vita nuova![11].

Ma prima di pensare di approfittare della favorevole occasione, Mattia, guardando «il binario deserto, che si snodava lucido per un tratto nella notte silenziosa», si sentì «come smarrito, nel vuoto, in quella misera stazionuccia di passaggio».

Assistiamo in questi frammenti all’inclusione del motivo del treno nella manifestazione della crisi dell’individuo e delle sue “figure” di rappresentazione.

L’irruzione del treno e della ferrovia nella realtà sociale e individuale ha suggerito  all’immaginario culturale e letterario dell’Otto e del Novecento una serie di elaborazioni tematiche e di pratiche metaforiche. Se da un’importante tradizione culturale (ne sono testimoni Wordsworth, Ruskin, Flaubert), il treno è stato percepito come espressione di una futura meccanizzazione dell’uomo, «forza mostruosa e minacciosa capace di estraniare e spaesare il viaggiatore» con il rotolio e il ritmo monotono delle sue ruote e con le sue «stazioni, luoghi di desolazione, confusione, perdizione»[12], nell’ambito del movimento futurista si è sviluppato un altro filone di pensiero, che ha celebrato il treno come immagine del progresso e del cammino accelerato della società umana. «Con il graduale addomesticamento della sensibilità collettiva di fronte al nuovo paesaggio industriale e ferroviario», afferma Remo Ceserani in Treni di carta, comincia a scomparire questa contrapposizione e il treno assume una sua «funzione di mezzo di vagabondaggio» e si carica di «connotazioni romantiche e di valori nostalgici»[13].

Per quanto riguarda Pirandello, la tradizione potente dell’ideologia antimacchinista e antimodernista «che rappresenta il mondo ferroviario come luogo di lacerazioni individuali, sociali e naturali continua ad operare» nella resa del viaggio come figura della crisi, ma «oramai non può fare a meno di caricarsi delle necessarie contraddizioni»[14]. Nel Fu Mattia Pascal, esso viene collegato con gli sconvolgimenti psicologici del protagonista. Quando Mattia scende dal treno, il viaggio acquista per lui la forma archetipica del rituale di iniziazione, quello della morte – rigenerazione.  Mattia s’illude che per crearsi una nuova e diversa esistenza, per raggiungere la libertà suprema, basti nel suo viaggio cambiar treno, trasformarsi fisicamente, prendere un altro nome, quello di Adriano Meis. Aveva del resto confessato sin dall’inizio del racconto di essere certo di chiamarsi cosi, ma non di esserlo. Per lui non si dà affatto identificazione fra il suo vero nome e la sua identità epistemica.  È dunque, un personaggio tutto da ricostruire. Adriano Meis però «non è una nuova identità ma la negazione stessa dell’identità come essere».[15] Infatti, guardandosi nello specchio, dopo essersi tagliato la barba e aver indossato

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un paio di occhiali, intravede, come dal di fuori, il mostro che sta per nascere e che prefigura lo stato di non essere: «Non ero per niente io».

Con i nuovi connotati di Adriano Meis, si mette in viaggio per l’Italia (ma anche per l’estero) e cosi, valigia alla mano, sperimenta uno stato di libertà sconfinata ma sentendosi tuttavia precario, passeggero, «un forestiere della vita». Ancora una volta s’illude pensando che una città come Roma accolga con indifferenza la sua identità “altra” e gli offra una casa in cui smettere di vedersi vivere per vivere veramente.

In realtà, Roma, che tanto lo aveva attirato, e Anselmo Paleari, borghese teosofo  affascinato dall’occulto, padrone della casa dove alloggia, non fanno che renderlo cosciente che la nuova vita non è più autentica della prima, ma anch’essa fittizia, assurda e inconsistente, una seconda morte. Adriano è «vivo per la morte e morto per la vita», come morta è Roma per una modernità senza passato e con un presente e un futuro squallidi. La maestosa città, «l’acquasantiera» dei papi è diventata «un portacenere», deposito di rifiuti di un mondo che oramai più non la comprende. «Chiusa nel sogno del suo […] passato, non ne vuol più sapere di questa vita meschina che si ostina a formicolarle intorno»[16]. Estraneo al mondo, benché  destinato a viverci, a portare con sé il «lanternino», simbolo del sentimento di vita, il protagonista assiste alla trasformazione della libertà, tanto desiderata, in una «tirannia» del silenzio e del vuoto ( la stessa a cui sarà soggetto Serafino Gubbio ) nella coscienza del nulla che lo circonda, del non poter più essere un eroe, né un marito per la «povera Adriana», neppure una persona rispettabile, provvista di elementari diritti.

Con lo «strappo nel cielo di carta» che lo protegge, «il senso di liberazione, di felicità che l’evasione dalla prigione esistenziale, la fuga e il viaggio hanno suscitato in lui, si rovescia in un sentimento d’esilio che stimola l’ansia del ritorno da quella folle assurda finzione».[17]

Avevo già sperimentato come la mia libertà, che a principio m’era parsa senza limiti, […] più propriamente avrebbe potuto chiamarsi solitudine e noia, e che mi condannava a una terribile pena: quella della compagnia di me stesso, […] un’ombra d’uomo, […] l’ombra d’un morto»[18].

Inscenando il suicidio, Adriano Meis torna ad indossare la maschera di Mattia Pascal e fa ritorno al suo paese. Ma se egli non è riuscito a cambiare, la sua situazione familiare è cambiata irreversibilmente. Sua moglie si è risposata con l’amico Pomino e ha dato alla luce una figlia. Solo e senza meta, Mattia va allora ad abitare con la vecchia zia Scolastica.

Il suo viaggio verso l’autenticità, verso la libertà è destinato così a fallire, non solo perché insegue un’utopia, qualcosa d’irrealizzabile in una società irrimediabilmente incatenata agli automatismi, alla convenzione, ma anche perché la sua “ricostruzione” non è stata sorretta da forti strutture di autodeterminazione e consapevolezza. Mattia, il prototipo dell'uomo moderno, se ne rende ben conto: «Mi pareva, a ripensarci, addirittura inverosimile la leggerezza con cui, due anni addietro m’ero gettato fuori d’ogni legge, alla ventura». Che un destino non si possa appoggiare ad un vuoto provocato dal caso lo dice molto saggiamente anche Seneca nella Tranquillità dell’animo: «Nulla potrà renderci tanto liberi da questo fluttuare dell’animo quanto il fissare sempre un limite al nostro

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successo, il non lasciare arbitra della fine la fortuna, ma essere noi a fermarci e molto prima»[19].

Per questo, alla fine del libro, ritroviamo un Fu Mattia Pascal che rinuncia all’illusione dell’identità e, ponendosi nella «posizione allegorica dell’estraneità e della sospensione dei significati»[20], diventa scrittore.  Forse la sconfitta subita gli ha insegnato che in questa vita limitata e circoscritta c’è una finzione in grado almeno di lasciare i pensieri liberi di vagare nella «profondissima quiete» dell’anima; che, anzi, proprio il confine e l’immobilità consentono la scoperta dell’infinito, come «l’ermo colle» e la «siepe» consentono all’io leopardiano di «naufragare» dolcemente nell’ «immensità». Ma quell’occhio vago «che guardava per conto suo», simbolo della facoltà visionaria e fantastica di Mattia è stato sottoposto ad un’operazione che, raddrizzandolo, ha messo fine alle di-vagazioni del protagonista. Il pericolo che l’immaginazione finisca per adeguarsi stancamente alla realtà, producendo un mediocre ripiegamento ad una vita lacerata acquista così forma, diventa presa di coscienza nell’opera pirandelliana. 

Il viaggio come forma d’evasione da una vita monotona e priva di senso è presente anche nella novella Fuga della raccolta Dal naso al cielo (1925). Minato fisicamente, l’impiegato Bareggi diventa nevrotico, uno sradicato in una dimensione di povertà intellettuale e comunicativa che si ripete, identica, a casa e in ufficio. Bareggi non può che «scapparsene», finché è in tempo, «come un pazzo». Incomprensibile per la massa, la follia, che rivela sempre un fondo di saggezza, permette al personaggio il contatto con la campagna lontana, «immensa, smemorata e liberatrice». Salendo sul carretto abbandonato di un lattaio, egli si lascia trascinare in una corsa frenetica per i campi, ma finirà per essere sbalzato fuori dal cavallo imbizzarrito. La fuga verso una Terra Madre, oramai priva di valore protettivo, discopre cosi il fremito di morte.

Un fremito di morte viene avvertito anche da Mariano Groa nella novella L’uomo solo dell’omonima raccolta (1922). Immerso in una solitudine angosciosa, dopo che si è separato dalla moglie che lo tradisce, egli si rende conto di quanto ancora l’ami. E qui, come aveva fatto anche in altre occasioni e come farà più tardi l’inglese John Fowles, Pirandello ci fa percepire la donna come elemento dinamico, attivo dell’esistenza, senza il quale l’uomo si sente «frustrato e inetto». «Tra il passato già definito della rimozione e il presente immediato del risentimento non c’è possibilità d’intesa»[21]. Ridotto ad una passeggiata nella morta «Città Eterna», sospesa nell’inerte immobilità dei destini umani, il viaggio di Mattia Pascal e di altri personaggi delle novelle “cittadine” finisce con un salto nel Tevere, di fronte alla costernazione degli amici e del figlio.

Nonostante questi casi estremi, molti personaggi delle novelle pirandelliane non rinunciano a vivere. Delusi, disorientati, “amari”, non si danno del tutto per vinti e tentano di dare una spiegazione al loro dramma. È quello che succede nella novella Sopra e sotto della raccolta La rallegrata (1922), in cui il professor Carmelo Sabato, e il suo ex-alunno, il giovane professor Lamella, partono per un viaggio alla ricerca della verità sulla condizione umana. Se per Sabato, irriducibile materialista, l’umanità è di «infinita, inferma piccolezza» nei confronti della grandezza dell’universo, per l’idealista Lamella, l’uomo è

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grande proprio perché è conscio della sua nullità di fronte all’immensità del cosmo. Ma questa convinzione, tratta da una malinconica illuminazione del celebre moralista Blaise Pascal[22], crollerà nella seconda parte della novella, quando si rivelerà che cosa c’è sotto la realtà cosmica. È interessante notare la doppia e antitetica dimensione su cui è intessuto l’intero scritto pirandelliano. Se la conversazione, apparentemente astratta, dei due sull’universo avviene in un’alta terrazza, sui tetti, «sotto lo sfavillio fitto, continuo delle stelle», verso la fine della novella siamo immersi in un quadro di famiglia molto concreto. In una stanza buia, assistiamo allo squallore del dramma vissuto da Sabato: la morte della moglie. E la discesa a questa realtà, «per la buia, angusta, rapida scaletta» che la raggiunge è «difficile».

Se i due professori avevano cercato di innalzarsi, in senso proprio e figurato, fino  a toccare la verità, il giudice d’Andrea della novella La patente ( stessa raccolta) resta sveglio la notte, «con gli occhi alle stelle» o si abbandona a passeggiate «intorno alle mura del paese», come se nell’amministrare la giustizia, voglia tentare di oltrepassare la rigidità e gli interessi meschini dell’ambiente in cui vive. Ad aprirgli meglio gli occhi è il caso «insolito e speciosissimo d’uno iettatore» che sporge querela «per la diffamazione contro i primi due» cadutigli «sotto gli occhi nell’atto di far gli scongiuri di rito al suo passaggio». In realtà, attraverso questa lite giudiziaria, Chiàrchiaro, con grottesco gusto del paradosso, pretende una minacciosa patente di iettatore per esercitare legittimamente, sulla «schifosa umanità» dei compaesani che lo hanno ridotto in miseria, la potenza del male. Ecco un altro «avvocato di una nuova morale», che cerca ad ogni costo di «far trionfare la sua particolarissima visuale, la sua singolarissima maniera di vivere»[23].

Un viaggio dietro la maschera, oltre l’apparenza, viene intrapreso anche dal professor Terremoto, dell’omonima novella della raccolta L’uomo solo. Qui, il viaggio non ha soltanto una funzione strutturale, in quanto il treno in corsa determina «l’andamento ritmico della tecnica descrittiva», come Franco Zangrilli tiene a sottolineare nell’Arte novellistica di Pirandello, ma è anche un’occasione di incontri in cui si è disposti a mostrare ai compagni occasionali l’altra faccia della medaglia spesso sconosciuta allo sguardo miope della società. Sulla scia delle novelle di Maupassant, ma anche delle opere di Dickens e di Tolstoj, lo scompartimento viene presentato come luogo chiuso e costretto, ma esso «diventa per Pirandello anche una specie di praticabile teatralità, un luogo dove i personaggi impersonano ruoli, […] confrontano idee e ricordi, si confessano, si mascherano».[24] In questo senso, un professore di filosofia ci rivela come un atto eroico, un momento sublime in cui l’anima si libera da tutte le miserie della vita ordinaria, può rovesciarsi in una disgrazia per l’eroe, com’è successo a lui, che in occasione di un evento sismico salva dalla morte cinque anime che da allora è costretto a mantenere insieme ad altri suoi familiari. Con questo scagliarsi contro le opinioni correnti, contro i luoghi comuni, il professor Terremoto vuole giustificare e affermare la sua autonomia individuale. Ci troviamo di fronte alla crisi di un altro intellettuale che vuole renderci testimoni della sua intima realtà morale, della «sofferenza di chi si è accorto d’essere protagonista di una storia tragico – grottesca»[25].

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Ma il viaggio può anche consentire all’uomo di proiettarsi in una dimensione “altra”, quella sacra. Nel contesto novecentesco desacralizzante che ha reso possibile il sorgere del nichilismo, un’esistenza senza modello e senza Creatore, assistiamo al ritorno, alla riemersione del sacro, col suo vasto alone di emozionalità e di inconscio. Ad una di queste «ierofanie», termine con cui lo storico delle religioni Mircea Eliade ama chiamare le irruzioni del sacro nel profano, ci rende partecipi anche Pirandello nella novella eponima della raccolta Dal naso al cielo (1925).                                                                                                                                                                                 Sin dall’inizio del racconto siamo immersi in una zona arcana attraverso la presenza del monte, l’Axis Mundi, simbolo del legame fra il cielo e la terra. È sulla vetta del Monte Gaio che il razionalista Romualdo Reda viene messo alla prova. Spinto dall’idealista, professor Vernoni, che si scaglia «contro la scienza positiva, contro certi cosiddetti scienziati che non vedono una spanna oltre i loro nasi, […] che vogliono costringere la natura ad assoggettarsi alle loro esperienze», Reda, l’illustre chimico, accademico dei Lincei, mostra con poche parole la sua superbia intellettuale e la sua totale fede nella scienza. Ma qualcosa è destinato a crollare nei suoi ragionamenti, quando, in una piccola chiesa antica, abbandonata e in rovina, situata in un fitto bosco nei pressi dell’albergo dove sono ospitati i nostri personaggi, avviene una fantastica manifestazione del sacro. Il professor Vernoni e una donna ascoltano una meravigliosa «musica di paradiso» d’organo e arpe, vera e propria «melodia divina» e assistono ad una processione di frati. Senza farlo sapere a nessuno, anche il professor Reda s’incammina per la via del bosco. Sarà poi ritrovato morto e con un ragno che viaggia per un filo fissato sulla punta del naso, come se si fosse perso «nel cielo». La strada che porta al sacro può costituire un itinerario pericoloso e irripetibile per l’uomo moderno che ha ricevuto un’educazione scientifica ignorando che «l’apertura verso il sacro» è «essenziale» perché si «acquisti una doppia conoscenza, di sé e del mondo» e si diventi cosi «l’Uomo completo»[26].

Nell’Avemaria di Bobbio della raccolta La rallegrata, anche il notaio Marco Bobbio, «oramai senza fede e scettico», è colto all’improvviso dal richiamo divino, mentre, in preda a un tremendo mal di denti sta andando in carrozza dal medico. Passando davanti a un tabernacolo della Vergine, Bobbio accenna inconsciamente a una preghiera e, con suo grande stupore, il dolore gli passa per lasciare spazio a un «silenzio pieno di freschezza, arcanamente lieve e dolce». Con sferzante umorismo, Pirandello non manca di presentarci la vittoria dell’agnosticismo della coscienza borghese che rifiuta l’indagine, sospendendo ogni approfondimento: di nuovo in preda al mal di denti, Bobbio, per non dover riaprire il capitolo della fede perduta, ricorre infatti a una soluzione radicale e si fa strappare tutti i denti.

Un’altra ipostasi del peregrinare umano è il viaggio nel proprio passato, nel mondo dei ricordi. È un’occasione per denunciare l’amara estraneità a se stessi, la vanità anche di quelle cose che uno si custodisce nella memoria «con tanta dolcezza d’affetto». Ritornando, dopo molti anni, nel paese natale, il protagonista della novella I nostri ricordi (della raccolta L’uomo solo) si rende conto che, pur non essendo in nulla mutato, il paesello non ha affatto la vita che egli serba nella memoria: «quella vita mi appariva irreale, come di sogno, una mia illusione, una mia finzione d’allora». Viene naturale pensare a Leopardi e alla sua poetica della lontananza, del cui sapore è cosparsa l’intera novella; soprattutto l’inizio: «questa la via? questa, la casa? questo, il giardino? Oh, vanità dei ricordi» non riecheggiano forse i versi di

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A Silvia: “Questo è quel mondo? questi i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi/ onde cotanto ragionammo insieme?/ Questa la sorte delle umane genti?». E insieme ai ricordi dei luoghi si scoprono vane anche le costruzioni che gli altri ci attribuiscono e che noi stessi attribuiamo a loro. Doloroso è, dunque, il ritorno ad un mondo che più non ci appartiene, perché inevitabile è la frantumazione dell’io, «incolmabile» la diversità «che sussiste tra quelli che fummo un giorno, quelli che siamo oggi e che saremo domani»[27].

Nella novella Notte, della raccolta La rallegrata, assistiamo allo straziante viaggio in treno del professor Silvestro Noli verso il luogo del suo esilio e cioè la sua casa, la sua famiglia, diventate oramai estranee. Il professore non ha più la forza di fuggire dalla realtà che aveva dovuto essere per lui la più intima, la più autentica, come aveva fatto Mattia Pascal. Si limita a rimpiangere la «vita gaia della sua giovinezza», «il conforto, caldo alito familiare della vecchia casa paterna». Il treno destinato ad accorciare le distanze fra i luoghi, nel suo caso, come già nel Fu Mattia Pascal, è anche un mezzo che disconnette gli spazi affettivi e quelli della memoria. Anche qui la sua «imponenza rumorosa e violenta» assume connotazioni perturbanti. Il treno ha dentro una «furia» che lo fa correre, muoversi nella notte, sparire nelle tenebre, gridando «di tratto in tratto», con un fischio, «il disperato lamento di dover trascinare cosi nella notte la follia umana lungo le vie di ferro, tracciate per dare uno sfogo alle sue fiere smanie infaticabili».[28]

Fermatosi alla stazione di Pescara, Noli, per aspettare un altro treno con cui proseguire il viaggio, entra nel caffè della stazione, «terra di tutti e di nessuno, luogo del tempo sospeso»[29] popolato da viaggiatori con «visi gonfi, pallidi, sudici e sbattuti» su cui è dipinta «una tetra ambascia, un fastidio opprimente, un’agra nausea della vita che, lontana dai consueti affetti, fuor della traccia delle abitudini», si scopre «a tutti vacua, stolta, incresciosa».[30] Qui egli incontra la vedova di un collega morto di recente e si ritrovano «tutti e due, nella notte, sperduti» nel «lungo viale deserto e malinconico» che conduce «al mare». Immersi nel «vaporoso e arcano» mistero della notte, vicino al mare «tenebroso» e sterminato, sperimentano un’inaspettata epifania, avvertono la solitudine e l’alienazione non più «di essi soltanto, ma di tutto il mondo, di tutti gli esseri e di tutte le cose, di quel mare tenebroso e insonne, di quelle stelle sfavillanti nel cielo, di tutta la vita che non può sapere perché si debba nascere, perché si debba amare, perché si debba morire».[31]

Anche il protagonista senza nome di Una giornata, della raccolta omonima, vive nel sogno l’esperienza del viaggiare come possibilità di epifanizzazione. Nei suoi vagheggiamenti notturni, arriva ad «anticipare, quasi, la sua morte, vedendosi strappare violentemente dalla vita raffigurata in un treno in corsa»[32] da cui s’intravede solo un «lanternino cieco», simbolo, come nel Fu Mattia Pascal, del sentimento della vita fugace. Con procedimenti sempre più «stranianti», che mescolano realtà e illusione, ci viene presentato il protagonista mentre, in sogno, penetra in una terra di nessuno, in un luogo senza spessore e fuori dal tempo, in cui si sente smarrito ed estraneo, in cui si vede vivere senza vivere.

Svegliatosi dal sogno, dalla remota lontananza in cui si era veduto con occhi di bambino, egli diventa consapevole della sua angosciosa vecchiaia, «delle passate

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esperienze, crudelmente casuali» nel loro accadere. Dallo stesso treno, che continua il suo viaggio nella notte, «senza che si possano conoscere né l’itinerario, né la destinazione saranno espulsi forse anche i figli, i nipoti»[33].

Nel caso di Pirandello possiamo arrivare a parlare del viaggio anche come fantastica compensazione, a patto, però, che rimanga fuga nell’immaginazione, nell’irrealtà. Del resto, lo stesso Pirandello, nell’intervista a Giulio Caprini nel 1927, riportata in Colloquio con Pirandello, diceva di essere «un viaggiatore senza bagagli». Grazie a quest’assenza di bagagli alcuni dei suoi personaggi possono aggrapparsi alla vita e, quasi con un senso di esultanza, di vittoria, vivere rari attimi di riconquistata libertà.

Nel Treno ha fischiato, per il povero Belluca, stretto nei «limiti angustissimi della sua arrida mansione di computista» e assalito da dodici bocche da sfamare, sentire, nel silenzio profondo della notte, fischiare un treno ha un effetto straordinario: all’improvviso, egli che «s’era dimenticato da tanti e tanti anni che il mondo esisteva», si ritrova a «spaziare […] nel vuoto arioso del mondo» che gli si spalanca «enorme tutt’intorno». È interessante notare come Pirandello, «della gran macchina rumorosa e sferragliante, isoli, con un’operazione metonimica e simbolizzante, un elemento: quello del fischio»[34]. Il fischio «rompe d’improvviso la quiete di una vita che scorre, introduce un rapporto con un altro mondo, lontano». E con lo sguardo visionario dell’immaginazione, Belluca vede «città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari…[…] Siberia…oppure, oppure…le foreste del Congo…Si fa in un attimo, signor Cavaliere!”»[35]. Con un personaggio come Belluca, Pirandello contribuisce alla messa in risalto dell’idea che, nel moderno, dove predominano esperienze di alienazione e frammentazione, non si può più parlare della continuità temporale cui si arriva tramite la memoria, ma solo di momenti istantanei, incomprensibili, sconnessi, che solo di rado rendono percepibile il sé. Anche se attimi di illusoria liberazione, come quelli vissuti da Belluca, non possono avere conseguenze importanti sul tempo interiore dell’individuo, essi rendono più sopportabile la dimensione – prigione in cui affondano i personaggi.

Tuttavia, anche il viaggio immaginario può risultare fatale, qualora senza ritorno per il protagonista. Nella novella Mondo di carta appartenente alla raccolta La mosca (1923), il professor Balicci, nella denuncia disperata della socialità, della vanità e del dolore di vivere insieme agli altri, diventa un fanatico bibliofilo che arriva a non riconoscere altra realtà se non quella descritta nel «mondo di carta» dei suoi libri. A costo di diventare a sua volta di carta e di perdere la vista, Balicci continua a leggere, perché vivere per lui significa solo questo. Benché cieco, egli non smette di rivedere scene, episodi, brani di descrizione ogni volta che entra in contatto con le pagine di un libro. Volendo che il suo mondo di carta riacquisti la voce negata ai suoi occhi, ricorre ad una lettrice. Se Mattia, nell’inseguire una vera vita, una vita reale, arriva a scontrarsi con la finzione, il protagonista del Mondo di carta, volendo riconquistare il mondo perduto dell’immaginazione, s’imbatte nella realtà, che è diversa e che nega senso e consistenza alla parola scritta. La lettrice da lui chiamata, «abituata a volare, a correre…in treno, in automobile…correre, vivere», lei che «già si sentiva soffocare in quel mondo di carta», quando un giorno il Balicci «le assegnò di leggere certi ricordi di Norvegia, non seppe più trattenersi».

‹Ma che! ma che! ma che! – proruppe su tutte le furie – Io ci sono stata, sa? E le so dire che non è com’è detto qua!› Il Balicci si levò in piedi, tutto vibrante e convulso. ‹Io

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le proibisco di dire che non è com’è detto là! […] È com’è detto là, e basta! Dev’essere cosi, e basta! Lei mi vuole rovinare›[36]!

A Balicci non resta che chiudersi dentro di sé segregando per sempre al suo interno le sue incancellabili visioni.

Simili ai viaggi mentali di Balicci, ma diversi al contempo, in quanto viaggi di scoperta interiore, di scomposizione della maschera ingombrante dell’io, intraprendono anche i monologanti di La carriola e La trappola, novelle che, fra i «capolavori dell’allegorismo moderno, vuoto e negativo», come afferma Romano Luperini [37], si avvicinano di più all’essenzialità.

In La Carriola, il personaggio principale, il cui nome non ci viene neanche svelato, perché potrebbe essere chiunque, caratterizzato com’è solo dai titoli onorifici, scientifici e professionali che lo connotano, mentre torna a casa in treno, stanco e annoiato, comincia a sentire pian piano che gli è estraneo tutto ciò che fino a quel momento ha vissuto, tutto ciò che ha creato e che gli altri hanno creato per lui sulla base delle convenzioni che leggano i rapporti sociali, avverte che la nostra realtà è illusione, che noi, in verità, «siamo tanti morti affaccendati che c’illudiamo di fabbricarci la vita», come arriva a dire il personaggio della Trappola in una delle sue farneticazioni sulla condizione esistenziale. Amara è la consapevolezza che siamo tutti fissati, attraverso la maschera che portiamo, in una forma, per la morte.     

Ma se «conoscersi è morire», allora il rifiuto di conoscersi, di arrivare alla verità, il non addentrarsi “oltre” potrebbe significare vivere. Per questo, all’intellettuale, all’artista toccherebbe tener vivo il mistero del viaggio oltre il confine come l’insigne poeta e filosofo romeno, Lucian Blaga (1895-1961) ci manifesta teneramente nel poema Io non calpesto la corolla di meraviglie dell’universo (Poemi della luce, 1919), che rappresenta anche il suo credo artistico:

 

«Eu nu strivesc corola de minuni a lumii / ºi nu ucid / cu mintea tainele, ce le-ntâlnesc / în calea mea / în flori, în ochi, pe buze ori morminte … […] Eu cu lumina mea sporesc a lumii tainã […] ºi tot ce-i neînþeles se schimbã-n neînþelesuri ºi mai mari / sub ochii mei - / cãci eu iubesc /ºi flori ºi ochi ºi buze ºi morminte».

 

[Io non calpesto la corolla di meraviglie dell’universo / E non uccido / Con la mente i misteri che incontro / Nel mio cammino / Nei fiori, negli occhi, sulle labbra o nei sepolcri…[…]Io con la mia luce rendo più grande il mistero del mondo / […] E tutto l’inafferrabile / Diventa ancora più inafferrabile / Sotto i miei occhi - / Perché io amo / Sia fiori, sia occhi, sia labbra che sepolcri][38].

 

Ma Pirandello non vuole fermarsi, vuole cercare “sotto il velame” per scoprire, (nelle ultime novelle), la dissoluzione inarrestabile della persona che porta alla sua totale reificazione, mentre, paradossalmente, gli oggetti acquistano anima, assumono peso e spessore. È quello che avviene nella Casa dell’agonia, dove il protagonista, privo ancor una volta d’identità, dopo esser arrivato ad assimilarsi al ritmo non scandito in ore e minuti che pulsa nelle cose, dopo averne sentito i richiami di morte, diventa, nella fase finale del suo viaggio oltre la forma, silenzio.

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Anche l’io morente del protagonista della novella Di sera, un geranio viene raffigurato mentre sta per dissolversi, per svanire nelle cose. D’altronde egli non si era mai riconosciuto nel suo corpo, era vissuto sempre al di fuori di esso E mentre «si distacca dalla materia, la vede nella sua viltà e insieme nella sua metaforicità»[39]. La realtà degli oggetti che per se stessi non hanno alcun senso, o quella di un fiore, con la sua vita troppo momentanea, troppo fugace, la realtà, dunque, dell’inconsistenza diventa metafora dello spirito. Il voler consistere ancora in qualche parvenza, in una cosa, «che sia pur quasi niente, una pietra; o anche un fiore che duri poco», ci allaccia in un certo modo al discorso che Foucault fa sulla «finitudine» che si manifesta nella modernità, dove parla del pensiero che arriva all’«impensato», dell’«ansia di ricominciare», della «strana inquietudine immobile che lo pone nella necessità di ripetere la ripetizione»[40].

E mentre si scioglie come la fragranza di un’erba, l’uomo appena spirato nel sonno prova la «tristezza infinita di una […] vana eternità».

Di sera, qualche volta, nei giardini s’accende cosi, improvvisamente, qualche fiore; e nessuno sa spiegarsene la ragione[41].

Finisce cosi questa storia di anonimità, storia informe, casuale, senza principio né fine.

 

Per Alberto Moravia, il pirandellismo, «cioè quella specie di furore delirante e lucido che spingeva Pirandello a denudare i suoi personaggi e a ridurli all’essenziale anche quando quest’essenziale non fosse più che un grido di dolore o di gioia, […] va messo tra le maggiori operazioni igieniche di cui abbia fruito l’arte del nostro tempo»[42].

A modo suo anche Moravia, nel corso della sua vita di uomo e di scrittore, segue la strada della perpetua ricerca dell’origine, della scomposizione dell’essere nelle sue componenti più elementari. Straniero nel proprio paese (tanto che si può arrivare a capire il negro che nel bel mezzo dell’Africa gli chiese: «E tu a quale tribù appartieni?»), un transfuga, uno senza patria, Moravia, come afferma Fulvio Longobardi, ci presenta le cose «come nessuno scrittore italiano ha fatto prima di lui e non le lucida ma le lascia ruvide e pesanti»[43].

Dopo aver a lungo vagato per tutto il mondo, dagli Stati Uniti alle isole dei Mari del Sud, all’Indonesia e alla Thailandia, Moravia arriva ad affermare che «il giro del mondo è finito. Ora fuggiamo in noi stessi». I viaggi di evasione esotica cui nell’Ottocento si sono abbandonati Stendhal, Byron, Baudelaire e altri ancora, per raggiungere paesi nei quali si collocava il sogno di una società diversa o migliore o addirittura di nessuna società, «sono finiti probabilmente per sempre». Oggi nessun luogo, nella memoria, si configura «come qualcosa di esotico, ossia di davvero lontano, remoto, stravagante, estraneo, altro»[44]. Perché in fondo, come dice Fernando Pessoa nel Libro dell’inquietudine, «i viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo», e cioè una massa uniforme di angosciati che si accontenta dell’esotismo industrializzato, fabbricato in serie. Quando il sogno esotico diventa un bene di consumo, un’autentica evasione, non può che

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trasferirsi sul piano dell’interiorità ed essere un’esperienza irrazionale e vasta per questo io, «centro che esiste soltanto per una geometria dell’abisso».

A questo tipo di esperienza approdano anche i personaggi dei romanzi e dei racconti di Moravia, dopo essersi imbattuti in luoghi di natura mitica irraggiungibile ma anche in una falsa «naturalità» che diventa incomprensibile.

Riccardo Molteni, il protagonista del Disprezzo, una delle figure più nostalgiche presentate da Moravia, è un intellettuale il cui rapporto con la realtà e l’arte è visto attraverso la relazione con sua moglie, un rapporto difficile in quanto la donna arriva a non capire più il suo amore per Lei, né la nobiltà delle sue aspirazioni a un mondo migliore. Critico cinematografico, Riccardo accetta di diventare sceneggiatore per accontentare la moglie che finisce invece per ricambiarlo con disprezzo e freddezza. Quando quest’amore viene a mancargli, quando la loro intimità diventa soltanto «estraneità, assenza, separazione», il lavoro perde per Riccardo il suo significato e la sua giustificazione e acquista ai suoi occhi il carattere assurdo di una servitù, di una dipendenza, quella dalla mentalità di un produttore, rappresentante del corrotto mondo contemporaneo, che ha fatto del denaro il suo idolo. Nella ricerca angosciosa di spiegarsi il comportamento della donna amata, di mettere fine al silenzio insopportabile, proprio «perché negativo», che aveva invaso il loro rapporto, Riccardo accetta di recarsi con la moglie a Capri, dove, insieme al produttore Battista e al regista Rheingold avrebbe ideato le prime scene da girare del film tratto dall’Odissea.

In mezzo a «quel mare dalle tinte cosi fresche, sotto quel ciel luminoso», Capri si configura nella sua mente come luogo delle speranze, delle possibilità che il mito dell’«antica semplicità», dell’«amabile misura», diventi realtà.

Io, allora, non potei fare a meno di concepire […] la speranza di una riconciliazione e nella mia mente la lucertola azzurra che descrivevo annidata tra gli anfratti delle due rupi diventò ad un tratto il simbolo di quello che avremmo potuto diventare noi stessi, se fossimo rimasti a lungo nell’isola: anche noi azzurri dentro il nostro animo dal quale la serenità del soggiorno marino avrebbe gradualmente scacciato la fuliggine dei tristi pensieri della città; azzurri e illuminati dentro di azzurro, come le lucertole, come il mare, come il cielo e come tutto ciò che è chiaro, allegro e puro[45].

Ma già durante il viaggio, Riccardo apprende che le sue aspirazioni, le sue interpretazioni letterarie risultano del tutto diverse da quelle di Rheingold, secondo cui, invece della «meravigliosa avventura della scoperta del Mediterraneo» per cui Ulisse vaga sotto la guida della sua sagacia e del vigile sguardo di Atena, ansioso di rivedere il giorno del ritorno, nel film si dovrebbe esplorare il subcosciente di Odisseo, per scoprire un’irrequietezza dell’animo che in realtà non c’è, o che comunque Omero non lascia trasparire nel suo poema. Si prefigura già l’impossibilità che attraverso il parallelismo con questa storia primordiale ci si immerga in una dimensione «altra», sospesa nel tempo, in grado di veicolare ancora un rapporto diacronico con il passato.

Come il dolce ritorno ricercato da Odisseo si trasforma in un viaggio doloroso, cosi Riccardo si vede sempre più bloccato sulla strada che porta alla pacata armonia tanto sognata. Non solo le sue aspirazioni artistiche vengono sconvolte dagli intenti degradanti di Rheingold e di Battista, ma, una volta arrivati alla villa di Capri, egli assiste alla seduzione di sua moglie da parte di questi, con il tacito accordo di lei. Emilia si stacca in questo modo da Riccardo per avvicinarsi a «un vero uomo» che nel mondo corrotto del presente può essere rappresentato

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solo da uno «con la […] forza animalesca e i […] successi grossolani». Riccardo capisce che «l’immagine ideale di un uomo» non scaturisce in Emilia «da un’esperienza consapevole dei valori umani, bensì dalle convenzioni del mondo in cui ella si trova a vivere». Sua moglie appare dunque, «figura storica di una “naturalità” alienata che si crede natura e che giudica “spregevole” ogni nostalgia storica, perché non può comprenderla “naturalmente»[46]. E quel cielo e quel mare non hanno più la forza di salvare questa natura umana alienata; si limitano a testimoniare la cruda realtà, a renderli «lontani, quasi che tutto quell’azzurro fosse stato consistente come un’acqua sottomarina» e loro due fossero stati «seduti in fondo al mare, divisi dal luminoso liquido fluttuare e incapaci di parlare»[47].

Dopo aver deciso di abbandonare Riccardo, Emilia torna a Roma insieme a Battista. Non a caso, in questa descrizione del viaggio di ritorno, come già in quella del viaggio di andata, si insiste sulla grande velocità con cui Battista ama percorrere le strade con la sua automobile. La velocità che questa emblematizza è oramai una droga per il mondo che egli rappresenta cui si può attribuire come motto l’enfatica dichiarazione di Marinetti nel Manifesto del 1909: «Un’automobile ruggente è più bello della Vittoria di Samotracia». Anche a causa di questa velocità tanto bramata forse, sulla strada verso Roma avviene un incidente in cui Emilia perde la vita.

Spinto dalla nostalgia di lei e dei luoghi dove l’aveva veduta per l’ultima volta, Riccardo torna a Capri e qui diventa consapevole che dipendeva da lui e non da quei luoghi, «da un sogno o da un’allucinazione, di ritrovarla e di continuare in maniera rasserenata il loro dialogo terreno». Soltanto nell’oggettivazione della donna può avvenire il sereno distacco; soltanto in questo modo ella sarebbe uscita da lui, «sarebbe stata liberata» dai suoi sentimenti e si sarebbe chinata su di lui «come un’immagine di consolazione e di bellezza». Riccardo è uno dei pochi protagonisti delle opere di Moravia che trova nell’immaginazione un mezzo per superare ogni equivoco e incomprensione, una possibile via d’uscita da un mondo in cui sembra che non ci sia più spazio per un’esistenza genuina.

L’appello del mare si fa sentire anche nel racconto Ritorno al mare della raccolta Racconti (1927 – 1951). Lorenzo prova il desiderio di riaffacciarsi insieme alla moglie al suo «eterno movimento», al suo «eterno clamore», nella speranza di poter riaccendere il loro amore in procinto di spegnersi. Ma il mare con la spiaggia e la pineta vicina non possono più rappresentare luoghi di evasione, perché le braccia dell’odio e della malvagità si sono protese anche su questi spazi meravigliosi nella loro purezza. I due vi scoprono una spiaggia percorsa in tutti i sensi da reticolati, da fili di ferro spinato, mentre la pineta altro non è diventata che un terreno sconvolto dalle rovine di quello che prima del bombardamento era stato il ristorante del luogo.

Superare la routine di questa miseria morale, diventare un altro in questo grigiore esistenziale è arduo, addirittura impossibile, cosi com’è difficile trovare, fra le innumerevoli e incessanti onde che vanno «a morire ai suoi piedi», quella «più forte e più grossa», capace di «evitare gli intoppi delle […] rivali, il rallentamento del risucchio» e scagliarsi con tutta la sua forza sulla riva oltrepassando la spiaggia e altro ancora. La passeggiata lungo il mare si trasforma per Lorenzo in uno sprofondamento dentro un caos di ferri contorti e rugginosi, di macerie, che altro non può introdurre che una minaccia, un moto di inquietudine. Come Riccardo, anche Lorenzo viene abbandonato dalla moglie sulla spiaggia, che gli confessa di

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non sopportare più l’esistenza con lui. Senza più trovare un senso all’esistere, egli sale su un banco di alghe e di sabbia che si leva «in aria con eco tonante» e oscura «per un momento ai suoi occhi il cielo» mentre piomba all’indietro «nel risucchio dell’esplosione». A Lorenzo, naufrago della vita, non resta che chiudere gli occhi e lasciarsi sommergere dalle onde.

Nel protagonista Tarcisio del Ritorno dalla villeggiatura, pur in mezzo a un mondo di solitudini e di indifferenze, sopravvive ancora la fiducia in un possibile rapporto, in un possibile cambiamento della vita accanto agli altri. Per lui l’inverno si colora delle più vaste e insensate speranze e il viaggio verso il nuovo e il miracoloso si muove nella direzione del tutto contraria a molti “altri”, verso la società, nell’«accostarsi affettuoso e doloroso degli uomini gli uni agli altri».

Tuttavia, «mettendosi in treno per il solito ritorno in città», egli sente «alla consueta impaziente attesa mescolarsi come un rintocco lugubre e minaccioso: Questa volta o mai più […], gli pareva che scandissero le ruote del vagone attraverso il monotono fracasso della corsa»[48]. In uno stato di grande esaltazione, prova «un irresistibile bisogno di parlare da solo; di rivolgersi parole senza senso» con le quali la sua febbre trova «un canale e uno sfogo». Il treno, anche in questo racconto si presenta «come supporto importante allo scorrere libero e incontrollato» dei pensieri del protagonista, attraverso il «ritmo delle ruote», le immagini che, muovendosi all’indietro oltre il finestrino, danno l’idea dello «stato di immobile e sognante»[49] attesa in cui ci si abbandona.

Ma arrivato in città, nel suo appartamento, mentre si guarda allo specchio, il nobile Tarcisio si rende conto della vanità della speranza provata, di quanto sia assurdo e ridicolo attendersi che qualcosa di miracoloso prenda il sopravvento sulla noia esistenziale. Il suo ruolo non è più quello di vivere, ma, com’è stato per Mattia Pascal e com’è per tanti personaggi moraviani, quello di guardarsi mentre guarda vivere gli altri, e questo «basta per oscurare il sole e far diventare vecchio il verde degli alberi e fare appassire i fiori prima che fioriscano»[50]. Al suo arrivo, infatti, scopre il cameriere assieme all’amante cenare nel suo salone. E si limita a spiare, ad assistere passivamente dietro ad un uscio all’incontro dei due, che finisce con una scena d’amore proprio nella sua camera da letto. Spettatore assente rimane anche mentre cammina sperduto «senza curiosità né fervore» lungo le strade buie della città, tanto che il suo viaggio a piedi, privato oramai dell’educazione dell’occhio e della sensibilità a contatto con la natura, arriva ad assomigliare a quello in treno, che non richiede una presenza attiva da parte del viaggiatore.

Nel racconto L’architetto, Silvio Merighi, giovane provinciale da poco laureato in architettura, anziché tornarsene nel paese nativo, lascia anche lui che entri in sé, come un vizio, il gusto di vivere nella grande città. Sebbene invaso da una «nostalgia gelosa e mitica» che gli rende più desiderabili non solo «la natura e le altre vaghezze dei luoghi nativi» ma anche «la prudenza, l’angustia e la bonarietà della vita del borgo», Silvio si compiace di continuare il suo cammino nell’intricato dedalo della metropoli romana. Le sue gite in campagna, le uniche in grado di serbare un contatto con gli spazi della natura, vengono fatte in macchina, un mezzo che in realtà nega l’esperienza diretta dei luoghi raggiunti.

 

“[…] rimasero a lungo immobili, e muti, guardando attraverso il vetro del parabrezza al sentiero di rossa terra vulcanica che, serpeggiando tra le erbe ingiallite, girava e scompariva dietro il fianco rotondo della collina. […] l’aria dentro [la macchina]

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odorava di cuoio e di metallo riscaldato. […] Ogni tanto per qualche loro movimento le chiavette di acciaio del motore urtavano contro il cruscotto; e questo tintinnio era […] rumore nel silenzio gremito e vitale della valle profonda[51].

 

Ma l’impoverimento dell’esperienza è solo un aspetto dell’irruzione dell’automobile nella trama posata dei viaggi. La percezione di questo mezzo di trasporto da parte della coscienza collettiva sembra sia invertita rispetto a quella del treno. All’inizio della sua diffusione, l’automobile s’impone come simbolo di progresso e di dominio sulle cose. Non mancano in letteratura, come negli scritti dell’americana Edith Wharton, l’archeologa della metropoli in rapida mutazione, o dell’inguaribile viaggiatore che è stato Jack Kerouac, gli elogi alla macchina vista come strumento di libertà illimitata.

Ma, di pari passo con il perfezionamento e il massiccio incremento di questi veicoli, la corsa inaugura anche il rito della degradazione, dello smembramento. La velocità sempre più alta comincia ad alimentare, nel viaggiatore – lo evidenzia Attilo Brilli nella Vita che corre – «il dubbio di non esserci mai stato, di aver confuso i luoghi del desiderio con quelli della realtà effettuale»[52]. Le città costruite a misura d’automobile diventano dei non-luoghi, inabitabili. E l’uomo, immerso in una quotidianità dagli schemi spazio-temporali predefiniti da tempi di percorrenza automobilistici, non fa che subire il continuo atrofizzarsi dei sensi; ciò che annuncia la sua metamorfosi in macchina, in automa. 

Tornando a Silvio, resta da dire che quando «si mette a sfruttare come luogo comune senza più lievito di intima fede quella difesa dell’architettura razionale come più propizia a una vita fisicamente sana e moralmente sincera»[53], arriva pure lui alla passività.

Una «condizione d’inerzia, di blocco in una negatività pure coscientemente vissuta»[54], inchioda anche il protagonista di Malinverno in una Roma dai tratti inequivocabilmente pirandelliani. Nella città «come un gran corpo giunto al grado estremo di decomposizione», popolata da esseri irrigiditi nella loro freddezza e indifferenza come statue, «l’acqua cosi allegra» delle tante fontane diventa una persecuzione, un’ossessione per l’anonimo viaggiatore, come avesse il compito di ricordagli che il tempo passa anche se la vita non viene vissuta. Non possiamo non ricordare simili sensazioni di Mattia Pascal in piazza San Marco:

Racchiuso li, tra le braccia del portico maestoso, nel silenzio che pareva accresciuto dal continuo fragore delle due fontane: m’accostai a una di esse, e allora quell’acqua soltanto mi sembrò viva, li, e tutto il resto spettrale e profondamente malinconico, nella silenziosa, immota solennità[55].

A sentirsi estraneo nella propria città, nell’ambiente universitario, in mezzo ai propri amici è anche Lucio nel racconto In paese straniero della raccolta L’Automa.

 

Tutto pareva portare il segno della sterilità e della gratuità […] Era insomma come essere capitato in un paese straniero e sapersi condannato dalla propria inesperienza e ignoranza a vedere le persone che non avrebbe dovuto vedere […] fare le cose che non avrebbe dovuto fare[56].

 

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Ma anche quando, nel viaggio, si abbandonano le strade tortuose della città, le stanze dei palazzi, o la famiglia, qualsiasi avventura non fa che mettere a nudo la negatività di quegli aspetti e ambienti della vita, che nella coscienza e nell’immaginario comuni potrebbero essere positivamente connotati.

Nel racconto Viaggio di nozze, mentre viaggia in treno con la sua nuova sposa, Giovanni si rende conto che non c’è alcun rapporto fra di loro; che per lui il matrimonio, in realtà, non ha alcun senso, che non ha nulla da dire, da comunicare al suo volto «bianco e freddo», privo di irradiazioni affettuose, «simile ad un astro spento dal quale sarebbe vano aspettarsi luce e calore».

Quello con cui si può rimanere al ritorno da simili viaggi è l’eco di una voce corale che si rifà ancora una volta alle parole di Pessoa: «Tutti noi viviamo distanti e anonimi; dissimulati, soffriamo da sconosciuti. Per alcuni questa distanza fra loro stessi e un altro essere […] è talvolta illuminata, di orrore o di pena, da un lampo senza limiti; ma per altri essa non è altro che la dolorosa costanza e quotidianità della vita»[57].

 

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* Questa ricerca fa parte di un lavoro più ampio intitolato: Figure della crisi dell’intellettuale nella narrativa del Novecento: il viaggio, l’automa, il libro in Pirandello, Moravia, Huxley, Fowles.

[1] F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Milano: Feltrinelli, 2000: 183.

[2] F. Rella, Miti e figure del moderno, Parma: Pratiche, 1981: 9.

[3] G. Querci, Pirandello: l’inconsistenza dell’oggettività, Bari: Laterza, 1992: 50.

[4] Il frutto di tali viaggi deriva per Sterne «dal doversi accomodare a tante nature d’uomini e a varietà infinite d’usanze». È famoso in questo senso il suo Sentimental Journey in cui si propone di «insegnarci ad amare il mondo e i nostri simili più di quanto siamo soliti fare» (Letters: 402).

[5] Rella, Miti e figure del moderno, cit.: 14.

[6] Un esempio di viaggio cartesiano è il viaggio di Robinson Crusoe, in cui il viaggiatore, garante della nuova razionalità scientifico-filosofica, si lascia guidare nello spazio dall’esperienza.

[7]  Leopardi lo percepiva già nel 1820, come si vede in questo passo della canzone Ad Angelo Mai: «Nostri sogni leggiadri ove son giti/ dell’ignoto ricetto/ d’ignoti abitatori, o del diurno/ degli astri albergo, e del rimoto letto/della giovane Aurora […] Ecco svaniro a un punto, / e figurato è il mondo in breve carta;/ ecco tutto è simile, e discoprendo, / solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta/ il vero appena è giunto,/ o caro immaginar». (Canti, Milano: Garzanti, 1997: 32-33).

[8] L’uomo è per Conrad sospeso tra due immagini del caos: quella dell’universo buio e senza senso e quella dell’interiorità oscura dell’uomo, del suo inconscio.

[9] N. Borsellino, Lo strappo nel cielo di carta, Roma: La Nuova Italia Scientifica, 1988: 71.

[10] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Roma: Newton, 1993: 97.

[11] Ibidem.

[12] R. Ceserani, Treni di carta, Genova: Marietti, 1993: 27.

[13] Ibidem: 215.

[14] Ibidem: 273.

[15] E. Cerasi, Quasi niente, una pietra: per una nuova interpretazione della filosofia pirandelliana, Padova: Il Poligrafo, 1999: 55.

[16] Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit.: 137.

[17] Borsellino, Lo strappo nel cielo di carta, cit.: 75.

[18] Pirandello, op. cit.: 190-191, 199.

[19] L. A. Seneca, La tranquillità dell’animo (trad. it. di Gavino Manca), Milano: Vanni Scheiwiller, 1992: 55-56.

[20] R. Luperini, Introduzione a Pirandello, Bari: Laterza, 1992: 60.

[21] W. Krysinski, Il paradigma inquieto. Pirandello e lo spazio comparativo della modernità, Napoli: Ed. Scientifiche Italiane, 1988: 74.

[22] Si tratta della prima parte del pensiero nr. 397 di Pascal: «la grandeur de l’homme est grande en ce qu’il se connaît misérable» (la grandezza dell’uomo consiste nel riconoscersi miserabile).

[23] E. Mirmina, Pirandello novelliere, Ravenna: Longo Editore, 1973: 109.

[24] Ceserani, Treni di carta, cit.: 279.

[25] F. Zangrilli, L’arte novellistica di Pirandello, Ravenna: Longo, 1983: 121.

[26] M. Eliade, Eliade òi redescoperirea sacrului (Eliade e la riscoperta del sacro), tratto dal film realizzato da Paul Barbãneagrã, Iaºi: Polirom, 2000: 193.

[27] M. Argenziano Maggi, Il motivo del viaggio nella narrativa pirandelliana, Napoli: Liguori Editore, 1977: 48.

[28] Pirandello, Novelle per un anno (La rallegrata, L’uomo solo, La mosca), cit.: 106.

[29] Ceserani, Treni di carta, cit.: 280.

[30] Pirandello, Novelle per un anno, cit: 106.

[31] Ibidem: 111.

[32] Argenziano Maggi, Il motivo del viaggio nella narrativa pirandelliana, cit.: 74.

[33] Ibidem.

[34] Ceserani, Treni di carta, cit.: 277.

[35] Pirandello, Novelle per una anno (La rallegrata, L’uomo solo, La mosca), cit.: 185.

[36] Ibidem: 525.

[37] Luperini, Introduzione a Pirandello, cit.: 117.

[38] La traduzione è mia.

[39] R. Scrivano, "Scetticismo e sentimento del mistero in Pirandello e l’oltre", in Atti del XXV Convegno Internazionale, Agrigento, 5-9 dic., 1990, Milano: Mursia, 1991: 134.

[40] M. Foucault, Le parole e le cose, Milano: Rizzoli, 1985: 359.

[41] Pirandello, Novelle per un anno, cit.: 111.

[42] A. Limentani, Alberto Moravia tra esistenza e realtà, Venezia: Neri Pozza Editore, 1962: 89.

[43] F. Longobardi, Il narratore e i suoi testi, Roma: N. I. S, 1987: 23.

[44] A. Moravia, Viaggi. Articoli 1930-1990, Milano: Bompiani, 1994: 1068.

[45] Idem, Il disprezzo, Milano: Tascabili Bompiani, 1989: 158.

[46] E. Sanguineti, Alberto Moravia, Milano: Ugo Mursia Editore, 1962: 118.

[47] Moravia, Il disprezzo, cit.: 209.

 

[48] Idem, Racconti 1927-1951, Milano: Tascabili Bompiani, 1999: 324-325.

[49] Ceserani, Treni di carta, cit.: 79.

[50] Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit.: 45.

[51] Moravia, Racconti 1927-1951, cit.: 205, 204. La sottolineatura è mia.

[52] A. Brilli, La vita che corre. Mitologia dell’automobile, Bologna: Il Mulino, 1999: 97.

[53] G. Debenedetti, Saggi critici, Roma: O. E. T. Ed. Del Secolo, 1945: 204.

[54] P. Cudini, Introduzione a Racconti 1927-1951 di A. Moravia, cit.: XIV.

[55] Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit.: 140.

[56] Moravia, L’Automa, Milano: Bompiani, 1998: 63.

[57] Pessoa, Il Libro dell’inquietudine, cit.: 153.