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La Romania e la crisi ungherese del 1956.

Testimonianze italiane

Giuliano Caroli

Università di Trieste/Gorizia

L’atteggiamento della Repubblica popolare romena nei confronti dei drammatici eventi ungheresi del 1956 è ben delineato dalla sintesi data a suo tempo da François Fejtö nella sua memorabile storia dei regimi comunisti est-europei e ripresa da altri autori [1]: allineamento del partito comunista romeno sulle posizioni sovietiche che condannavano le degenerazioni del "revisionismo" e ristabilivano il principio assoluto dell’unità dei paesi socialisti, eliminando dalle rispettive società tutti gli elementi che rischiavano di compromettere le "conquiste" delle repubbliche popolari dal 1945 in poi; a questa interpretazione si affianca anche il giudizio generale sulla abilità con cui Bucarest passò attraverso quella crisi del post-stalinismo e interpretò la rivolta ungherese anche come un aggressivo irredentismo nazionalista [2].

Tuttavia può riservare ancora aspetti di qualche interesse analizzare più dettagliatamente gli effetti degli avvenimenti d’Ungheria sull’atteggiamento dell’élite dirigente e nella società romena, nel quadro della particolare rigidità che aveva assunto il regime di Bucarest. Ciò anche alla luce del fatto che l’auspicato ritorno all’unità del campo socialista sotto l’egida di Mosca non era più ragionevolmente proponibile né raggiungibile nei termini in cui lo era stato negli anni di Stalin. Di questa realtà la dirigenza romena si mostrò sempre consapevole, anche dopo la generale condanna della rivolta ungherese, proseguendo a suo modo e con maggior cautela quella graduale politica di precisazione degli interessi nazionali che avrebbe preso negli anni successivi ben altri ritmi. La stessa versione che vedeva la responsabilità dei fatti ungheresi attribuita alla "collusione" del titoismo e dei suoi alleati in Europa orientale con i "circoli imperialisti" occidentali presentava una evidente fragilità concettuale. L’analisi delle reazioni romene, sulla base della documentazione diplomatica italiana, è oggetto di questo saggio.

Punto di partenza quasi d’obbligo è la constatazione che in Romania come in altri Paesi dell’Europa orientale, la reazione dello "Stato-Partito" agli eventi d’Ungheria non poteva essere disgiunta dalle problematiche sollevate dalla politica sovietica del dopo Stalin.

Il "nuovo corso" della politica sovietica, soprattutto in campo internazionale, in particolare la non indolore svolta impressa dall’influenza crescente di Kruschev dopo la prima fase di assestamento della leadership sovietica in seguito alla morte del dittatore georgiano, suscitarono nei vari regimi reazioni di natura ideologica e politica contrastanti, non poche volte imbarazzate, talvolta opportunistiche, altre volte addirittura ostili, ma comunque sempre improntate al confronto diverso da Paese a Paese, tra l’establishment "staliniano" e gli "innovatori".

La Romania non sfuggì a questa caratteristica e certamente l’annus terribilis 1956, con i suoi grandi eventi, il XX Congresso del PCUS, la clamorosa denuncia kruscioviana dei crimini di Stalin con il "Rapporto segreto", le sue ripercussioni nei partiti "fratelli", le tensioni legate al cambio di potere in Polonia e, appunto, l’insurrezione ungherese, produsse una serie di assestamenti anche in un regime come quello romeno, segnato in quegli anni dall’incontrastato potere di Gheorghe Gheorghiu-Dej.

Al termine dei primi tre convulsi anni seguiti alla morte di Stalin, come si legge nella Relazione annuale inviata dalla Legazione italiana all’inizio del 1956 [3], la politica romena continuava ufficialmente a "mantenere quelle caratteristiche derivanti dalla stretta adesione alla ‘politica di blocco’ che in materia di rapporti internazionali continuava a concedere ben poco alla iniziativa dei Governi ad essa ‘aderenti’ che non fosse strettamente in connessione o in dipendenza di direttive sovietiche". Un quadro forse troppo semplificato ma che serviva in particolare a evidenziare l’importanza della formale adesione del regime di Bucarest alla "politica di pace" e di distensione inaugurata dalla nuova leadership del Cremlino, dalla firma del Trattato di Stato austriaco alle due Conferenze di Ginevra, alle discussioni sulla riunificazione tedesca, sul disarmo e sulla sicurezza collettiva europea.

L’arroccamento sulla politica estera sovietica era del resto reso necessario proprio dalla debolezza interna mostrata da molti Stati dell’Europa orientale in quel delicato frangente per il mondo comunista e dal fatto che le intraprendenti iniziative di Mosca avevano in qualche modo messo in imbarazzo e sulla difensiva l’Occidente.

D’altra parte il 1955 era stato anche l’anno della costituzione del Patto di Varsavia, alleanza formale che rispondeva all’accresciuta esigenza di sicurezza degli Stati est-europei dopo l’ingresso della Repubblica federale tedesca nella NATO, in un momento in cui, ripetiamo, le strutture politiche interne sembravano dover affrontare non poche sfide. Era stato l’anno, inoltre, del riavvicinamento fra l’Unione Sovietica e la Jugoslavia, segnato dallo storico abbraccio fra Tito e Kruschev a Belgrado, causa di qualche problema in rapporto alla dura campagna anti-titoista degli anni precedenti condotta da quegli stessi regimi ed alle ancora enigmatiche possibilità di conciliare i canoni del marxismo-leninismo con lo sviluppo "autonomo" dei Paesi socialisti.

Proprio il regime di Bucarest aveva però avuto modo di constatare un dato di fatto importante, dopo le due visite in Romania di Kruschev, una compiuta all’indomani del viaggio a Belgrado e l’altra in occasione del 23 agosto, festa nazionale romena. La "riconciliazione" tra Mosca e Belgrado - accolta con formale "soddisfazione" a Bucarest - mirava, in quel frangente internazionale, a collocare Tito in una posizione di maggiore equidistanza tra i blocchi, neutralizzando l’avvicinamento di Belgrado all’Occidente, di cui il Patto Balcanico nel 1954 era stato la massima espressione; sembrava quindi più una iniziativa di politica estera che una operazione all’interno del Cominform (che comunque sarebbe stato poi disciolto) per superare il rovinoso "scisma" del 1948. E a Bucarest erano volate significativamente anche delegazioni dei partiti comunisti cecoslovacco e ungherese, quasi a testimoniare la tensione di tutti i "satelliti" per il reale significato dell’abbraccio di Kruschev con Tito.

Il sostanziale "aperto scambio di opinioni" avuto con Kruschev era forse stato rassicurante, ma aveva palesato una palese mancanza di fretta nel migliorare i rapporti con Tito da parte della Romania e degli altri. Restavano poi sul tappeto le vecchie questioni irrisolte tra i due paesi balcanico-danubiani: le persecuzioni verso i "titoisti" in Romania e la sorte della minoranza serba nel Banato romeno.

Fu comunque confermato il mantenimento dei tradizionali rapporti romeno-sovietici, avallato dalle consuete manifestazioni di amicizia e "fratellanza" ideologica verificatesi in occasione di eventi quali il viaggio in varie località dell’URSS di una delegazione parlamentare romena, la visita di una delegazione del Soviet supremo sovietico in Romania, e, soprattutto, a fine giugno, la restituzione solenne da parte dell’URSS di alcune opere d’arte depositate in Russia durante la prima guerra mondiale.

Se in quel momento la politica sovietica in campo internazionale riscuoteva ampio consenso nei dirigenti romeni, d’altra parte nel 1955 proprio grazie all’Unione Sovietica ed all’intesa raggiunta alle Nazioni Unite si era finalmente arrivati all’ammissione della Romania all’ONU, insieme ad altri sedici paesi, fra i quali – nello schieramento occidentale – anche l’Italia. Ingresso che in Romania era stato salutato con numerose manifestazioni "popolari" come il riconoscimento ufficiale della stabilità e della legittimità del regime, in contrapposizione ai tentativi che ancora venivano imputati all’Occidente e soprattutto agli Stati Uniti di voler mutare le realtà politiche interne dei Paesi socialisti est-europei.

Non è azzardato presumere in questo senso che fosse presente, sia pure bene occultato, anche l’interesse di quei regimi per la difesa del principio di non ingerenza anche nei confronti di quelle pressioni che potevano giungere dalla stessa leadership sovietica, affinché mutassero gli equilibri interni; in particolare a favore dei "riformisti". La presenza politico-militare sovietica costituiva un presidio che non era facile ignorare. In Romania, ad esempio, alle dodici divisioni dell’Esercito andavano aggiunte le forze sovietiche presenti sul territorio nazionale, presenza confermata proprio dal Patto di Varsavia: tre divisioni stanziate nei distretti di Timişoara, nei pressi del confine jugoslavo, di Brăila nella Moldavia meridionale, sul delta del Danubio, e nella fascia costiera del Mar Nero.

A seguito della diminuita tensione internazionale dovuta soprattutto alle due conferenze al vertice e dei ministri degli Esteri di Ginevra il governo romeno effettuò una riduzione degli effettivi di circa 40.000 uomini, dopo aver ridotto anche il periodo di leva obbligatoria; decisioni che sembravano incidere soprattutto nei settori dei servizi territoriali, logistici e amministrativi. Successivamente, a metà luglio, il governo decise una ulteriore riduzione degli effettivi delle forze armate - 20.000 uomini - che sarebbero stati impiegati in vari settori produttivi, destinando a nuovi investimenti le risorse finanziarie liberate da tale riduzione [4]; esigenze dettate dalla critica situazione economica (influì anche la citata riduzione del periodo di leva) potevano così sposarsi con la volontà di assecondare gli sforzi sovietici per il disarmo internazionale, avendo l’URSS deciso a sua volta di smobilitare un milione e 200 mila uomini. Un certo miglioramento qualitativo degli armamenti romeni e nuovi programmi di addestramento dei riservisti e dei congedati avrebbero compensato la riduzione degli effettivi che andava messa in relazione anche alla segreta speranza di Bucarest di veder diminuire il contingente sovietico sul territorio nazionale, così come era avvenuto in Germania orientale; speranza non esaudita, malgrado il venir meno del contenzioso fra il regime di Tito e l’Unione Sovietica.

Di fronte ai nuovi orientamenti della politica sovietica, a partire dal XX Congresso del PCUS e dal ben noto "Rapporto segreto" di Kruschev, non si sfuggiva a Bucarest alla sensazione di un generale disorientamento della leadership romena. Fatti come l’abbandono della politica staliniana e del culto della personalità e lo scioglimento del Cominform implicavano a detta dell’Incaricato d’Affari ad interim italiano, Roberto Cerchione [5], la condanna di un passato ancora troppo recente in un Paese come la Romania, alle prese non solo con un difficile problema di consenso ma anche con una dura situazione economica: l’allineamento al "nuovo corso" sovietico presentava quindi problemi di non poco conto anche perché metteva parzialmente in discussione quanto il regime aveva detto e fatto fino ad allora.

Non a caso il presidente del Consiglio Chivu Stoica tornava in un discorso ad esaltare la figura di Lenin e anche le virtù organizzative e la fedeltà al marxismo del "compagno Stalin": la responsabilità maggiore dei fatti avvenuti nel periodo staliniano veniva identificata nel culto della personalità il cui mito aveva portato a una serie di "teorie inadeguate" che richiedevano però un più accurato esame critico. L’oggetto delle accuse a Stalin si tramutava perciò nell’impegno di una maggiore fermezza nell’azione dei quadri dirigenti, di una "rieducazione" ideologica sia dei quadri che delle masse che certo non lasciava intravedere cambiamenti di grande portata quanto una cauta ma generica politica di "revisione" di alcuni indirizzi fino ad allora attuati.

C’era però qualcosa di più nel quadro di questa prudente decisione della dirigenza romena: si parlava in quei giorni dell’esistenza di un "movimento" non ben delineato di oppositori allo stalinismo in funzione di un ritorno all’ortodossia marxista-leninista, intenzionati, sembra, a mettere in discussione sul piano interno la stessa leadership di Gheorghiu-Dej in quanto "uomo di Stalin". Ma il leader romeno godeva chiaramente della fiducia anche da parte della nuova dirigenza sovietica e del resto non sembrava facilmente sostituibile: la sua rimozione avrebbe causato la caduta di quasi tutta la classe dirigente romena e in Romania la possibilità di un "nuovo corso" appariva perciò alquanto improponibile. Il difficile adattamento al nuovo corso della politica sovietica si rese evidente quando dall’imbarazzo si passò, all’interno dell’élite dirigente romena, ai primi scontri. Proprio nel corso del mese di maggio, infatti, sembrò che l’allontanamento dal suo incarico del vice presidente del Consiglio Dumitru Petrescu con decreto del Presidium della Grande Assemblea fosse legato in qualche modo al dibattito sul "se" e sul "come" adeguarsi al "nuovo corso" sovietico [6]. Alla destituzione di Petrescu – cui seguirono rimozioni e spostamenti di altri dirigenti minori della macchina statale - si accompagnavano tuttavia anche le voci circa un dissidio tra Gheorghiu-Dej e un altro leader storico del comunismo romeno, Emil Bodnaraş, in merito alla destalinizzazione. Lo stesso ex presidente del Consiglio, Petru Groza, presidente del Presidium, che alcune voci davano sofferente per disturbi cardiaci, sembrava in disgrazia.

L’adeguamento alle nuove direttive sovietiche un risultato concreto forse lo raggiunse nella liberazione di circa settanta detenuti per ragioni politiche, fra i quali ex appartenenti a quel gruppo del partito socialista che si era rifiutato di collaborare con i comunisti: alcune voci prevedevano addirittura la partecipazione di alcuni fra questi socialisti democratici alla compagine governativa. Notizie di vario genere, dunque, non facilmente controllabili e destinate ad essere ridimensionate in gran parte inducevano a pensare, ad ogni modo, che anche in Romania le "novità" indotte da Mosca potessero avere un seguito.

L’esistenza di un certo fermento nell’ambito del partito comunista romeno fu poi confermata da varie riunioni delle organizzazioni territoriali per discutere il rapporto della delegazione del Comitato centrale che aveva partecipato al XX Congresso del PCUS a Mosca. Riunioni che sembravano mettere in pratica il precedente intervento di Stoica.

Lo sforzo di adeguamento al "nuovo corso" sembrò toccare una delle punte più alte con la riunione dell’organizzazione centrale degli scrittori e degli artisti: l’"intellighenzia" di partito rilanciava il legame tra la politica marxista-leninista e il mondo della letteratura e dell’arte, confermando però – e questo fu sempre il limite del "rinnovamento" adottato ufficialmente dallo Stato-Partito romeno - il suo ruolo sostanziale di "cinghia di trasmissione". In verità, i consueti attacchi all’influsso ancora presente della borghesia e ai circoli imperialisti occidentali neutralizzavano il presunto scontento di alcuni scrittori di fronte alle "grandi realizzazioni economiche e culturali del regime democratico-popolare", condannando quanto vi era di reazionario nella cultura dei Paesi capitalisti occidentali. Il mondo della cultura non riuscì ad avere i mezzi necessari per recepire e rilanciare in chiave romena il cambiamento proveniente da Mosca, così come, con modalità e risultati diversi, stava avvenendo in Polonia e in Ungheria: il riconoscimento dell’esistenza nel Paese di una ancora consistente cultura "borghese", costringeva il regime a serrare le file e a ritornare ai principi del marxismo-leninismo applicati alla società ed alla cultura. Quanto ampio spazio di manovra avesse l’élite dirigente è dimostrato dai provvedimenti disciplinari presi nei confronti di quei pochi scrittori dotati di un forte spirito critico verso i governanti romeni.

I rapporti tra Romania e Ungheria all’avvio degli eventi poi sfociati nei drammatici giorni di ottobre-novembre, potevano definirsi "normali" anche se caratterizzati da un non eccessivo calore. La questione della minoranza magiara in Transilvania continuava ad attirare la vigile attenzione di Budapest, soprattutto dopo la concessione di una certa "autonomia" alla regione magiara che dai punti di vista dell’estensione territoriale e dell’amministrazione sollevava ancora critiche da parte del governo ungherese. Accoglienze tradizionalmente improntate al modulo adottato dai regimi est-europei in tali occasioni furono riservate a Bucarest ad una delegazione dell’Assemblea Nazionale ungherese con a capo il suo presidente, Sandor Ronai, incaricata di confermare la "fraterna amicizia" fra i due popoli, sancita sul piano tecnico, inoltre, dalla costruzione di lì a poco di un metanodotto in grado di rifornire di gas metano romeno le industrie ungheresi. Il fatto che in Ungheria l’odiato e ormai "scomodo" per gli stessi sovietici Rakosi fosse sempre più relegato in secondo piano, lasciando intravedere una modifica del regime, soprattutto dopo la nomina di Imre Nagy per la seconda volta alla guida del governo fu accolto a Bucarest con un certo favore misto però ad una apprensione che sfociava inevitabilmente in una posizione generalmente attendista. Il principio della "non interferenza" negli affari interni continuava a regolare in generale i rapporti anche tra i paesi dell’area socialista.

Quando però gli eventi precipitarono a Budapest e si arrivò in crescendo alla rottura completa tra lo Stato-Partito e le varie espressioni della società magiara, con le due rivolte e le due repressioni sovietiche, partito e governo romeni furono costretti a prendere una posizione più chiara, anche perché le ripercussioni degli avvenimenti ungheresi sulla popolazione romena furono più che evidenti.

Una conseguenza diretta fu - alla luce della dimensione anche "operaia" della insurrezione ungherese - l’immediato aumento di salari e pensioni sotto forma di maggiorazione degli assegni familiari agli operai (un operaio con famiglia media avrebbe più o meno visto raddoppiare il suo salario). Ma furono anche prese misure di polizia dato che si verificarono numerose reazioni di protesta in alcune fabbriche contro l’intervento sovietico; in particolare nel settore dei ferrovieri da cui, a detta del Ministro italiano a Bucarest, era uscito quel poco di comunismo romeno prima dell’occupazione sovietica del Paese e da cui erano usciti i maggiori esponenti del regime, da Gheorghiu-Dej a Stoica e Apostol [7].

Non mancarono comunque le tanto temute manifestazioni da parte della popolazione studentesca delle università in appoggio ai rivoltosi di Budapest, giunte fino alla critica delle dichiarazioni dei governanti romeni sugli eventi in Ungheria e all’inoltro di precise richieste, fra le quali una maggiore democratizzazione interna agli atenei e la non obbligatorietà dell’insegnamento della lingua russa. Fermenti che naturalmente assumevano un segno più marcato nei centri universitari della minoranza ungherese, dove l’azione della polizia fu più vigile e repressiva che altrove.

Proprio nelle officine ferroviarie “Griviţa Rosie” le proteste anti-sovietiche furono cosě gravi da portare, si disse, a numerosi arresti: in questo luogo intervenne il primo importante esponente del regime a "spiegare" alla classe operaia la questione ungherese: il presidente dei Sindacati, Apostol, a detta del quale in Ungheria la classe lavoratrice si era schierata contro le forze reazionarie interne - fra le quali ancora dei seguaci di Horthy - e i circoli imperialisti internazionali, intenzionati a distruggere il regime democratico-popolare. La "lezione" per la Romania era una soltanto: stringere la classe lavoratrice attorno al partito e al governo, rafforzando i rapporti tra classe operaia e classe contadina e fra queste e gli intellettuali (compresi quelli delle "minoranze"), così come era avvenuto all’inizio della costruzione del socialismo. Nè bisognava dimenticare per Apostol che in Romania erano ancora presenti esponenti delle vecchie classi sfruttatrici e benestanti (!) che avrebbero potuto, come in Ungheria, minare la fiducia nel regime. Significativamente, però, Apostol inseriva questo rinnovato sforzo comune nell’ambito di un grande impegno mirato a difendere la "Patria".

Dalle informazioni in possesso alla Legazione italiana che il Ministro Lo Faro e l’Addetto Militare, tenente colonnello Di Lauro, avevano potuto raccogliere in quelle ore, era ben viva la preoccupazione dei dirigenti romeni anche sul piano militare, dato che la repressione dell’insurrezione ungherese decisa dal Cremlino aveva dato luogo ad un intenso movimento di truppe anche all’interno degli Stati dell’Europa orientale in cui esse erano presenti [8]. La 32° divisione corazzata sovietica, ad esempio, dislocata proprio in Romania a ridosso delle frontiere jugoslava e ungherese, si era spostata in Ungheria, mentre le forze dislocate nella parte orientale del Paese non sembravano essersi mosse, a parte qualche movimento fatto forse per far fronte con più rapidità ad un eventuale invio a Budapest. Truppe che restavano in stato di allarme nell’area tra Focşani, Râmnicu-Sarat, Galaţi e Brăila, mentre Costanza vedeva aumentare la sua funzione di base logistica sovietica, trovandosi vicino ad essa le basi di tutti gli aerei sovietici in Romania, il cui ruolo strategico era piů che rilevante in funzione delle vicende d’Ungheria.

Non era comunque possibile controllare le voci su ulteriori ingressi di truppe sovietiche sul territorio romeno. Lo Faro riteneva che se questo eventuale afflusso si fosse veramente verificato esso sarebbe stato divulgato dagli stessi sovietici, alla stregua di un "monito" preventivo nei confronti della popolazione romena, affinché non seguisse l’"esempio" della vicina repubblica. Tuttavia esso avrebbe dovuto essere messo in relazione anche alla situazione di crisi nel Mediterraneo (per la contemporanea grave crisi del Canale di Suez in seguito all’intervento militare franco-inglese contro l’Egitto), alla luce anche dello sbarco di reparti corazzati dell’URSS in Bulgaria ritenuto una misura preventiva nel caso di un allargamento del conflitto al confine turco o verso gli Stretti.

L’Esercito romeno comunque era stato messo in stato di allarme, con gli uomini consegnati nelle caserme, forse anche per prevenire un eventuale invio in Ungheria di unità comandate da ufficiali romeni di origine magiara. Inoltre, si decise di non distribuire alle truppe nuove grandi quantità di munizioni, proprio per impedire che, come in Ungheria, esse potessero cadere in mano a ipotetici "insorti". Anche le forze aeree romene sembravano essere state concentrate in alcune zone, ma non vi era modo di controllare questa voce, così come non lo era quella su una presunta azione di sabotaggio che avrebbe addirittura fatto saltare alcuni vagoni di un treno sovietico carico di munizioni e diretto in Ungheria.

Pochi giorni dopo l’invasione da parte delle truppe sovietiche era possibile tirare delle conclusioni più precise. Risultava che proprio l’uscita dal territorio nazionale delle truppe sovietiche di stanza a Timişoara aveva sollevato forti timori nel governo romeno che cercò di prevenire qualsiasi azione di solidarietà al "comunismo nazionale" di Nagy da parte di operai, studenti e minoranza magiara. Il già citato decreto sull’aumento dei salari entrava appunto in questa logica. Se infatti Mosca aveva all’inizio consentito una sorta di "liberalizzazione" dei regimi comunisti, a Varsavia come a Budapest, a Bucarest – si pensava - non si sarebbe riusciti a lungo a mantenere quella sorta di "bluff" che vedeva un regime sostanzialmente staliniano verniciato esternamente di "titoismo" [9].

Da indiscrezioni pervenute al Ministro italiano da alcune personalità vicine al governo sembrava che Petru Groza, quasi volendo farsi leader di un ipotetico "riformismo", stesse preparando – d’intesa comunque con lo stesso partito comunista – un rimpasto del governo al fine di consentire il ritorno alla partecipazione nella guida del Paese di ex esponenti socialisti e socialdemocratici. Questo "ritorno", che spostava di vari anni indietro le lancette dell’orologio politico, sarebbe stato clamoroso, alla luce soprattutto dei grandi processi ed epurazioni che avevano completamente smantellato il partito socialista di Petrescu. Difficilmente tuttavia tale ipotesi avrebbe potuto sembrare un’iniziativa di "liberalizzazione", o catalizzare il consenso diffuso di operai, studenti, intellettuali che in Romania avevano un peso diverso rispetto al caso ungherese e non potevano avere la forza di costruire un potere alternativo. La decisione di Nagy di denunziare unilateralmente il Trattato di Varsavia e di proclamare la neutralità ungherese portò il partito comunista romeno ad una maggiore prudenza, anche se la stampa di Bucarest era arrivata al punto di auspicare in anticipo la decisione di Mosca di ricorrere all’impiego delle sue forze armate contro gli insorti. Il Politburo decise inoltre il 1° novembre di non accogliere l’offerta fatta dal Cremlino in quelle ore convulse di trattare "insieme con gli altri firmatari del Patto di Varsavia" la questione delle forze sovietiche stanziate sul territorio nazionale, con il riconoscimento degli "errori" commessi in passato: in quel momento di drammatica incertezza esse dovevano apparire come uno scudo indispensabile.

Arresti di elementi sospetti nelle fabbriche e nelle università e distribuzioni straordinarie di viveri ai negozi di Stato costituirono così gli interventi più importanti del regime per non abbandonare la presa sulla società romena. Ma se misure repressive di polizia e aumento di salari e generi alimentari, agirono da misura precauzionale e monito alla popolazione, non furono in grado però di impedire la diffusione delle informazioni sulla terribile scena del "massacro di un fiero popolo" che provenivano dall’Ungheria.

I dirigenti romeni, volendo mostrarsi decisi a tornare all’ortodossia filo-sovietica più assoluta, si felicitarono con il segretario generale del partito comunista ungherese, Janos Kadar, per la liquidazione dei "criminali" reazionari nel suo Paese e il presidente dell’Assemblea Nazionale, Pîrvulescu, non fece in pratica che ripetere in un discorso di quelle ore la versione ufficiale sovietica dei fatti, mentre Gheorghiu-Dej pubblicava un articolo proprio sulla "Pravda" (ripreso poi da tutta la stampa romena), denunziando i sanguinosi "delitti" di cui si sarebbero macchiate le "bande reazionarie e fasciste", con il testo corredato da foto che mostravano lo strazio dei corpi di attivisti del partito comunista ungherese e di alcuni membri della polizia politica compiuto durante i giorni dell’insurrezione.

Da come si mettevano le cose sembrava dunque che il regime, serrate le fila, puntasse ad eliminare qualsiasi fautore anche del solo processo di destalinizzazione. Lo stesso Cremlino del resto aveva mostrato di non voler portare tale processo oltre un certo limite, agendo a Budapest per dare un monito a tutti i paesi socialisti, escludendo anche solo una soluzione "alla Gomulka" e approfittando dell’impasse in cui si trovava l’Occidente a causa della contemporanea crisi di Suez. La politica di coesistenza e di distensione Est-Ovest ne usciva comunque sconvolta e l’URSS rischiava, secondo Lo Faro, di chiudersi in se stessa con uno scontro tra "duri" e moderati nella leadership sovietica.

Il regime romeno doveva inoltre essere pienamente consapevole del grave colpo che aveva subìto l’immagine dell’URSS nel Paese e se ancora il 7 novembre fu possibile festeggiare secondo i trionfali criteri del passato l’anniversario della rivoluzione d’ottobre, nel corso del "mese dell’amicizia romeno-sovietica" si verificò un vistoso calo nel tono abitualmente esaltato di questa occasione e perfino nell’organizzazione delle manifestazioni. Anche lo scioglimento a "condizioni vantaggiose" della "Sovromquarz", l’ultima rimasta delle società miste romeno-sovietiche (costituite nel 1945 nei vari settori produttivi romeni) che controllava la ricerca e l’estrazione dell’uranio e di altri minerali interessanti la produzione di energia atomica, finiva per diventare una dimostrazione dell’"amicizia" e del "disinteressato aiuto" sovietici, anche se i minerali in realtà continuavano a restare a disposizione dell’Unione Sovietica e degli altri Paesi del blocco orientale.

Il governo romeno, proprio per accentuare il carattere "reazionario" e avventurista di Nagy e dei suoi e per sottolineare come, a suo dire, la popolazione ungherese fosse stata in realtà una vittima di questi, decise nei giorni seguenti di inviarle aiuti di cui vi era un grande bisogno: prodotti petroliferi, legname, materiali da costruzione e viveri per un ammontare di circa 13 milioni di lei (oltre due milioni di dollari al cambio ufficiale) [10].

"Aiuti fraterni" ai lavoratori ungheresi furono inviati anche da fabbriche situate vicino il confine: generi alimentari, combustibili per uso domestico e medicinali. Iniziative che però potevano facilmente tradursi in ulteriori gravi oneri per il già asfittico mercato romeno. Era comunque chiaro il tentativo dei governanti di Bucarest di prevenire con l’invio di questi aiuti qualsiasi diffusione del "contagio" insurrezionale ungherese alla minoranza magiara in Transilvania, a costo di far stringere ancora di più la cinghia alla popolazione romena che non vedeva ovviamente di buon occhio l’elargizione di questa assistenza alimentare all’Ungheria.

Già all’indomani della occasionale e "generosa" dispensa di viveri, si facevano lunghe code per generi alimentari di prima necessità e l’economia nazionale romena tornava a farsi critica malgrado l’esaltazione dei risultati del primo piano quinquennale. I contadini, in particolare, ripresero la loro antica opposizione alla politica degli ammassi. Il cambio del ministro del Commercio interno rivelò le difficoltà economiche e alimentari e per alcuni prodotti – farina di grano, granturco e zucchero – si tornò al razionamento. L’approssimarsi di un inverno non certo mite non poteva che acutizzare questa critica situazione e lo spettro dell’inflazione tornava oltretutto ad affacciarsi in seguito all’aumento "politico" dei salari.

La stampa dal canto suo dava consigli e suggeriva misure precauzionali in vista del prossimo inverno, ma gli inviti a fare scorte di ortaggi e legna suonavano quasi beffarde quando la penuria di generi alimentari già affliggeva i cittadini.

Anche molte settimane dopo i fatti ungheresi la preoccupazione di governo e partito di mantenere un saldo controllo sulla società venne evidenziato con l’adozione di altre specifiche direttive in campo di organizzazione del lavoro e della struttura dei salari, sia per il ceto operaio che per quello impiegatizio, comprese nuove possibilità di licenziamenti.

Verso la fine di novembre la particolare sensibilità romena alla ripresa materiale degli ungheresi venne evidenziata dalla visita ufficiale a Budapest dei responsabili del partito e del governo romeni, Gheorghiu-Dej e Stoica, a pochi giorni di distanza da quella dei dirigenti cecoslovacchi [11]. L’accordo firmato da Kadar e Gheorghiu-Dej confermò la volontà romena di portare aiuto alla economia magiara, prevedendo forniture in merci per un valore di 60 milioni di rubli (circa 15 milioni di dollari), più alcuni aiuti "gratuiti" per circa 2 milioni di dollari.

La visita, caratterizzata dall’adozione di una "dichiarazione comune", dimostrò come Bucarest – al pari di Praga - attribuisse un grande significato allo "scampato pericolo" di una Ungheria "democratica" ai confini ed al recupero di autorità da parte di Kadar. Il suo regime era quanto di meglio potessero attendersi la Romania e gli altri Paesi confinanti, perché evitava una massiccia occupazione militare sovietica a ridosso anche della parte occidentale della Romania, riportando l’entità delle forze russe nei limiti previsti dal Patto di Varsavia e ottenendo dal Cremlino la conferma della famosa dichiarazione del 30 ottobre con cui si delineava un nuovo "statuto" economico e militare dei rapporti tra Mosca e i Paesi "satelliti", unendo in questo senso la politica romena a quella di Gomulka e di Tito.

In quest’ottica andava inserito lo stesso Patto di Varsavia come supporto della riconciliazione russo-jugoslava e dell’allentamento della "disciplina "ideologica cominformista" che la destalinizzazione rendeva comunque un fenomeno irreversibile: era soprattutto lo spettro della neutralizzazione di uno o più Paesi satelliti che Mosca temeva e su questo piano essi dovevano fornire una adeguata garanzia.

Bucarest a pochi giorni dall’invasione non rinunciava tuttavia a cercare il ridimensionamento della presenza militare sovietica sul territorio nazionale di altre nazioni, ricordando al Cremlino la promessa fatta il 30 ottobre di "esaminare insieme con gli altri partecipanti del Trattato di Varsavia la questione delle truppe sovietiche che si trovano sui territori di tali Paesi". Se la presenza militare sovietica in Polonia assumeva aspetti particolari legati al significato strategico di quella nazione e subordinati alla soluzione del problema tedesco, Romania e Ungheria avrebbero dovuto cercare di ridurre questa presenza, magari attribuendo alle forze di Mosca – anche con la convocazione di una conferenza - un carattere di "basi", sul modello dell’organizzazione NATO, e non più quello di forze di occupazione.

Il viaggio a Budapest rivestì dunque per i dirigenti romeni l’aspetto di un atto di solidarietà socialista e un aiuto alla credibilità internazionale dello stesso Kadar, ma serviva anche a fare una sorta di pressione collettiva sul Cremlino e a invocarne una nuova politica di aiuti sul piano economico, garantendo la "normalizzazione".

Nel comunicato comune emesso alla fine della visita si demonizzava la "controrivoluzione" che avrebbe voluto minare la stabilità dell’ordinamento democratico-popolare, trasformando l’Ungheria in un nuovo focolaio di guerra in Europa, ma si era comunque voluto accennare anche al diritto dell’Ungheria di occuparsi in esclusiva dei problemi del suo sviluppo interno (con l’affermazione del diritto al rispetto dell’integrità territoriale e dell’indipendenza di tutti gli Stati), valorizzando l’interessamento delle Nazioni Unite ai fini del ristabilimento della "legalità"; ferma restando ovviamente la denuncia dell’attività delle forze imperialiste e reazionarie internazionali (vedi l’affare di Suez). Inoltre, grande risalto, ai fini della riduzione della presenza militare sovietica, fu attribuito alle stesse proposte di Mosca sul disarmo del 17 ottobre [12].

A Bucarest, insomma, si giudicava controproducente "punire" eccessivamente l’Ungheria, mortificandone l’indipendenza e la sovranità: gli "errori" di Nagy e le colpe dei "controrivoluzionari" dovevano essere isolati provvedendo subito al recupero della stabilità politica ed economica. Insomma, a Bucarest si voleva colpire nell’ambito della famiglia socialista più la degenerazione di un nuovo concetto regolatore dei rapporti interni al blocco che quest’ultimo in sè e per sè.

Significativo fu il fatto che Gheorghiu-Dej sentisse la necessità di andare a parlare, alla fine dell’anno, alle organizzazioni di partito della Regione autonoma magiara, fra la popolazione che, per solidarietà etnica soprattutto, era stata più vicina agli insorti ungheresi [13] .

Il ritorno ad un nuovo contrasto tra il Cremlino e Tito delineatosi alla fine del 1956 aumentò visibilmente l’imbarazzo romeno. Malgrado il presidente jugoslavo avesse approvato l’intervento sovietico in Ungheria – pur definendolo "errore necessario" - vi era stato un nuovo attacco di Belgrado all’URSS, "incomprensibile" dato che le truppe sovietiche stazionavano ancora sul Danubio. Gomulka e Gheorghiu-Dej non avrebbero certo seguito Tito su questa strada e la Romania si vide costretta, suo malgrado, a sostenere ancora la politica sovietica, con ovvie conseguenze sulle possibilità di "mutamenti" interni. Se l’ostilità sovietica al "comunismo nazionale" ungherese si estendeva anche a quello jugoslavo poco tempo dopo la storica "riconciliazione" con Kruschev (compiuta comunque a livello governativo e non ideologico), la Romania guardava con apprensione a tale ipotesi. Tuttavia, la denuncia dell’avvicinamento di Belgrado alle posizioni dell’Occidente, e in particolare americane, sembrava funzionale al desiderio di Bucarest di confermare il suo conformismo e la sua disciplina ideologica agli occhi di Mosca [14], anche se non si voleva contribuire ad aggravare la posizione jugoslava.

Tra la fine di novembre e i primi di dicembre l’apparente orientamento filo-sovietico dei romeni trovò conferma con il viaggio in URSS del primo ministro Chivu Stoica [15]. Una visita, come si può notare dal tono volutamente solo "governativo" dato che il segretario del partito non si mosse: l’assenza di questa componente "ideologica" in una delegazione romena si verificava per la prima volta e non convinceva la spiegazione che ciò avveniva solo perché non esistevano a quel livello particolari problemi tra i due Paesi. La visita anche con questa sua caratteristica palesava le incertezze che dopo la crisi ungherese travagliavano il mondo comunista al di là della sicurezza ostentata ufficialmente. Al termine dei colloqui tra Stoica e Bulganin venne firmata una dichiarazione congiunta che, dopo le usuali affermazioni di principio (parità fra tutti i regimi socialisti, non ingerenza negli affari interni, lotta al "fascismo" tedesco-occidentale), rinverdiva quella dichiarazione sovietica del 30 ottobre che poneva in nuova luce i rapporti tra Mosca e i "satelliti" europei alla ricerca di equilibrio e stabilità. Certo, la dichiarazione Bulganin-Stoica non poteva paragonarsi a quella Kruschev-Gomulka di poco tempo prima, in particolare per l’assenza della dura approvazione dell’intervento sovietico nell’intervento che fece il leader polacco, mentre gli asseriti doveri internazionali dell’URSS nella difesa delle conquiste dei lavoratori nei regimi socialisti finivano per convogliare il consenso romeno sul diritto-dovere di "intervento" da parte del Cremlino.

Ciò - scriveva Lo Faro - evidenziava il "caso particolare del comunismo romeno che non sopravviverebbe a lungo se non fosse sicuro di poter contare sul sostegno delle armi sovietiche". Un "gioco" rischioso quello romeno perché sembrava in contraddizione con la speranza – "malgrado" la questione ungherese – di modificare i rapporti bilaterali con l’Unione Sovietica. Se non altro perché, in caso di nuovi interventi, presupponeva l’impegno dei Paesi socialisti ad aiutare logisticamente l’URSS.

Il viaggio di Stoica a Mosca – la dichiarazione comune lo mostrò chiaramente - era legato anche al delicato problema delle truppe sovietiche in Romania e al desiderio di quest’ultima di veder nascere un nuovo sistema di sicurezza in Europa basato anche sul disarmo così come proposto nei termini del Cremlino. Ma, al contrario di Gomulka che aveva ricevuto la promessa di una revisione circa lo status delle forze russe in Polonia, Stoica fu costretto a considerare insieme al suo ospite come "appropriato il temporaneo stazionamento di unità militari sovietiche" sul territorio nazionale romeno, "in armonia" con il Patto di Varsavia, senza che fosse concordata a breve scadenza una riunione degli appartenenti al Patto per discutere su questo problema così come avrebbe voluto Bucarest.

Oltretutto, approvando il diritto di intervento sovietico nei Paesi socialisti, Bucarest rischiava di avallare anche l’ipotesi di un intervento nella stessa Jugoslavia, per quanto improbabile. In realtà era tutto il complesso e per nulla chiaro sistema concettuale riferito al "comunismo nazionale" ad essere messo sul banco degli imputati. Il riallineamento sulle posizioni politiche e ideologiche sovietiche stava diventando una scelta quasi obbligata per i vari regimi est-europei, già in crisi economica malgrado i primi piani quinquennali e di conseguenza timorosi che sotto la spinta degli eventi ungheresi anche la stessa struttura politica interna potesse crollare.

Nel quadro della nuova tensione fra Mosca e Belgrado Bucarest si inserì con estrema cautela, limitando i suoi interventi ad una riproduzione "ragionata" della posizione sovietica e ad una riaffermazione dell’ortodossia marxista leninista, soprattutto per quanto riguardava la lotta che il Cremlino si aggiungeva a rinnovare contro il "contagio" del "comunismo nazionale", anche nella sua versione – ormai però non più condannabile nei termini del 1948 – del "titoismo", inteso come collaborazione "anti-marxista" con l’Occidente imperialista [16].

L’allineamento di Bucarest sulle posizioni di Mosca e in particolare di Kruschev, dopo che la leadership di questi al Cremlino trionfò sul "gruppo antipartito", avrebbe avuto una conferma più tardi, nel luglio 1957, quando il Comitato centrale del partito comunista romeno decise di epurare dal Politburo due fra i più noti leaders comunisti, Iosif Chişinevschi e Miron Constantinescu [17].

Non poca delusione subirono le aspettative romene sul piano dell’aiuto economico, soprattutto se tale aiuto era messo a confronto con quello più consistente dato a Varsavia poco prima. Il prestito di 4 milioni e mezzo di quintali di grano e di 600 mila quintali di foraggio indicavano la grave situazione economica romena e le difficoltà sul piano alimentare del Paese, al di là dei successi vantati ufficialmente da governo e partito, e di conseguenza accentuavano la dipendenza anche politica da Mosca. Una conclusione avvalorata dalla concessione da parte di Mosca di forniture di materiali industriali e di attrezzature per l’industria chimica, fondamentali per lo sviluppo del secondo piano quinquennale, così come era stato delineato da Gheorghiu-Dej. La misura del limitato interesse sovietico per lo sviluppo economico della Romania era poi data dalle concessioni in materia finanziaria, con la sospensione delle rate dei crediti a lungo termine che sarebbero scadute nel 1957-59, cui sarebbe seguita una conseguente maggiore disponibilità romena delle risorse nazionali fondamentali quali petrolio e legname.

Al termine dell’incontro di Mosca si vide, dunque, come la crisi ungherese, che pure aveva messo in grande difficoltà il regime romeno, lungi dal rappresentare una occasione per ridiscutere la fisionomia del rapporto tra Bucarest e Mosca in termini più favorevoli per la prima, rischiasse invece di riavviare un nuovo rapporto di dipendenza non meno forte di quello che dominò i primi anni della contrapposizione Est-Ovest.

Non a caso negli anni successivi fu proprio partendo dalla ricerca di un più ampio sviluppo economico e industriale del Paese che il regime di Bucarest avrebbe cercato di impostare in termini nuovi la ricerca di una "indipendenza" da Mosca pur confermando la fermezza e la "disciplina" ideologica che era alla base del regime.

Un piccolo risultato nei confronti della grande potenza vicina la Romania lo conquistò qualche mese dopo sul tema cui – specie dopo la rapida invasione dell’Ungheria – Bucarest era più che sensibile: la presenza delle forze militari sovietiche sul suolo nazionale. Il 15 aprile 1957 giunse in Romania una delegazione sovietica guidata da Gromyko e Zhukov che concluse subito dopo un accordo sullo "statuto giuridico delle truppe russe stazionanti temporaneamente in Romania", presenza giustificata con la necessità di assicurare una difesa comune a URSS e alleati contro possibili aggressioni da parte dell’alleanza atlantica: un accordo simile a quello concluso da Mosca e Varsavia, con la previsione di "intese speciali" circa i livelli quantitativi delle truppe e il loro dislocamento nel Paese [18], con un certo aumento - inaspettato - della capacità contrattuale romena.

In un successivo più approfondito esame di questa intesa [19], l’Incaricato d’affari Cerchione notò con interesse come anche i movimenti delle truppe sovietiche al di fuori delle basi e la costruzione di edifici e infrastrutture necessarie alle truppe di Mosca necessitassero dell’assenso del governo e delle autorità romene, mentre altre circostanziate convenzioni avrebbero dovuto regolare l’utilizzo di infrastrutture, mezzi di trasporto ed energia elettrica romeni. In realtà Cerchione si mostrava scettico circa la reale capacità romena di influire su quantità e dislocamento delle forze sovietiche (Bucarest avrebbe fornito solo un "consenso" a decisioni già prese). Le spese relative avrebbero finito nella maggior parte per gravare come sempre sull’Erario romeno; particolarmente oneroso si profilava il bisogno di alloggiare anche le famiglie dei militari russi, necessità che addirittura avrebbe portato alla evacuazione di interi quartieri nelle città di Focşani, Galaţi e Timişoara.

Al momento della firma dell’accordo, l’intervento di Stoica sottolineò significativamente la rinnovata amicizia e cooperazione russo-romena al fine di mantenere la pace internazionale e la coesistenza con paesi dal sistema sociale diverso, insieme però all’esaltazione dell’uguaglianza dei diritti di tutte le nazioni, della loro integrità territoriale e della non ingerenza nei loro affari interni e tentò di legare l’URSS alla creazione del più volte progettato sistema di sicurezza europea. I discorsi di Gromyko e Zhukov contenevano invece fortissimi attacchi contro il revanscismo tedesco-occidentale, la politica americana e quella della NATO, tanto che i Ministri e gli Incaricati d’affari di Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Turchia e Italia, presenti alla cerimonia della firma, decisero di abbandonare la sala, provocando una certa apprensione nei romeni nel vedere una occasione come quella utilizzata per agitare nuovi venti di guerra fredda proprio dalla Romania.

Questa fu comunque l’eredità immediata e inevitabile della crisi ungherese. L’anno successivo, nel 1958, la partenza delle ultime forze sovietiche dal territorio nazionale avrebbe iniziato una nuova fase della politica estera che avrebbe portato gradualmente al fenomeno dell’"autonomismo" romeno. 

[1] François FEJTŐ, Storia delle democrazie popolari. Il dopo Stalin, 1953-1971, Milano, 1977: 107-109. In genere i vari contributi sulla storia dell’Europa orientale del secondo dopoguerra connettono le reazioni romene alla questione della minoranza magiara di Transilvania ed alla sua reazione agli eventi d’Ungheria. Così anche il più recente testo italiano, A. BIAGINI e F. GUIDA, Mezzo secolo di socialismo reale. L’Europa centro-orientale dal secondo conflitto mondiale alla caduta dei regimi comunisti, Torino, 1997: 81. Analisi accurate delle reazioni romene al cambiamento della politica sovietica dopo il XX Congresso del PCUS e alla rivolta d’Ungheria sono anche quelle di Ghiţă IONESCU, in Communism in Rumania, 1944-1962, London, 1964: 257-287, e di Stephen FISCHER-GALAŢI, in The New Rumania. From People’s Democracy to Socialist Republic, Cambridge, 1967: 62-63.

[2] Si veda in particolare Joseph ROTHSCHILD, Return to diversity. A Political History of East Central Europe Since World War II, Oxford, 1989: 161.

[3] Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri italiano (ASMAE), Serie Affari Politici 1956, busta 1338, Telespresso (Tss) 587/320, 31-3-1956.

[4] Ibidem, Tss. 1078/564 da Bucarest, 13-7-1956.

[5] Ibidem, Tss. 722/388 da Bucarest, 7-5-1956.

[6] Ibidem, Tss. 777/423 da Bucarest, 14-5-1956.

[7] Ibidem, Tss. 1781/1005 da Bucarest, 5-11-1956.

[8] Ibidem, Tss. 1783/1007 da Bucarest, 6-11-1956.

[9] Ibidem, Tss. 1840/1036 da Bucarest, 8-11-1956.

[10] Ibidem, Tss. 1860/1051 da Bucarest, 16-11-1956.

[11] Ibidem, Tss. 1894/1076 da Bucarest, 23-11-1956; Telegr. 80 da Bucarest, 26-11-1956.

[12] Ibidem, Tss. 1945/1100 da Bucarest, 1-12-1956.

[13] Ibidem, Tss. 2063/1170 da Bucarest, 27-12-1956.

[14] Ibidem, Tss. 2064/1171 da Bucarest, 26-12-1956.

[15] Ibidem, Tss. 1969/1118 da Bucarest, 6-12-1956; Telegr. 1109 da Bucarest, 5-12-1956.

[16] ASMAE, busta 1374, Serie Affari Politici 1957, busta 1374, Tss. 2064/1171 da Bucarest, Riservato, 26-12-1956.

[17] Ibidem, Tss. 1093/760 da Bucarest, Riservato, 10-7-1956.

[18] Ibidem, T. 17 da Bucarest, 16-4-1957; T. 353 da Mosca, 17-4-1957.

[19] Ibidem, Tss. 571/303 da Bucarest, 18-4-1957; Tss. 612/517 da Bucarest, Urgente, Riservatissimo, 23-4-1957; Tss. 742/577 da Bucarest, Riservatissimo, 13-5-1957.

 

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