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Quaderni 2002
p. 266
Rapporto «centro» versus «provincia»
nello spazio mitteleuropeo.
Il «caso Trieste»
Afrodita Carmen Cionchin,
Università di Timiºoara,
Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica,
Venezia
La presente trattazione fa parte di un lavoro più ampio intitolato Trieste
e triestinità in prospettiva mitteleuropea, il quale, cominciando
col determinare lo spazio triestino come topos geopolitico, modello
culturale e matrice mentale ed affettiva, viene ad analizzare la
specificità dello stile letterario in tale zona di contatto etnico, i
fenomeni d’incontro, di collaborazione e scontro della creatività
secondo il rapporto fra centro e provincia, per evidenziare sia la paradossale
posizione centrale di questa terra di confine nell’ambito della cultura
italiana, sia l’appartenenza alla civiltà mitteleuropea.
La prima sezione della ricerca parte dall’idea che
lo spazio in questione offre condizioni ideali per lo studio dei fenomeni di
interferenza culturale e di ricostruzione dell’identità, individuale e
collettiva, dato l’assetto multietnico, le pressioni che il passato ha
esercitato nella sua configurazione, facendolo cambiare periodicamente, nonché
il particolare inserimento, determinato geograficamente e storicamente, in una
problematica specifica dei rapporti fra centro e provincia.
Per avviare tale discorso faremo appunto
riferimento ai due concetti soprammenzionati, ricchi di significato –
«centro» e «provincia» – che furono messi in relazione grosso modo negli
anni del dominio napoleonico e della Restaurazione, quando vennero effettivamente
poste le basi per un superamento dell’«ancien régime», oppure, con la
terminologia italiana, dell’antica Italia statale-regionale. In questo modello,
il centro appare essenziale per sottrarsi all’arretratezza provinciale e per
entrare in un circuito culturale di ampio respiro, nazionale ed europeo, mentre
la periferia, la regione, la città chiusa dentro le mura, il borgo, sono
il limite, la prigione, l’orizzonte limitato.
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La contemporaneità, invece, rimette in
discussione i concetti, rilevandone la dinamica fluttuante, in una prospettiva
flessibile e aperta, in conformità alla quale i margini diventano tanto
interessanti e consistenti quanto i centri. Cosicché il modello «centro versus
provincia» presenta dei risvolti particolari, ogni città è un
punto centrale rispetto alla regione che la circonda, ovvero la
centralità varia a seconda dell’epoca storica. Il binomio originario non
si dimostra più funzionale, «centro» e «provincia» possono essere
dappertutto. C’è in quest’accezione una tendenza a difendere le aree
marginali contro il centro e contro qualsiasi modello standard. “Ho lottato
contro i «centralismi» politici e culturali – affermava Guy Scarpetta; di qui
sono usciti i moti difensivi delle minoranze, dei marginali, delle
comunità uniformate o sfruttate”[1].
In questo ambito, la provincia stenta a definirsi
in termini positivi; diventa più facile esprimere ciò che non
è: non si trova in relazione ad un centro solo, non si mostra, dunque,
provincia sempre dello stesso centro. Ad un simile modo di interpretazione si
potrebbe richiamare la seguente affermazione di Fulvio Tomizza sulla sua terra
nativa – Materada: “Io appartenevo a questo paese mistilingue, trascurato,
forse un po’ deriso dai centri (in questo caso il centro più vicino era
Umago)”[2].
Ciò in confronto a Trieste: “Era motivo di vergogna se uno di Materada
non è mai stato a Trieste. Non si trattava di una lacuna ma di una
grossa sottrazione per quell’individuo”[3].
Sottrazione, quindi, anche in termini d’identità.
Una
specie di dialettica altrettanto avvertibile viene a caratterizzare la vera
funzione di Trieste, in quanto “città cresciuta in modo bivalente e
dialettico”[4]. I due
concetti dei quali stiamo trattando determinarono, infatti, lo svolgimento
storico della città sotto il segno dell’ambivalenza. È
così che, all’inizio castelliere, la troviamo poi come colonia romana
(probabilmente una delle più antiche, col nome di Tergeste, Tergesteum o
Tergestum), non soltanto nel senso proprio della parola, secondo l’organizzazione
politica romana, ma colonia quale «centro di vita sociale e politica», dedotto
e ricostruito in base alle caratteristiche proprie di un altro centro, da cui
trae, se non sempre le origini materiali, lo spirito vivificatore; non centro a
sé, ma uniformantesi al tipo e all’aspetto, alle leggi, ai costumi infine di un
nucleo, a cui si sente legato da eventi, che prima o poi permisero lo sviluppo
di una tradizione di reverenza[5].
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L’aspetto
di colonia si manterrà, rendendosi più evidente, nel periodo
successivo, l’età bizantina, quando a Roma si sostituisce, nell’Istria,
Venezia, rappresentante della nuova nazione italiana. D’altro canto, come «numerus»
militare bizantino, la città adriatica sembrò per la prima volta
assolvere una funzione che si potrebbe chiamare di mediazione fra Occidente e
Oriente.
Il
Medioevo apre, nel secolo XIII, coll’assurgere a comune indipendente, una nuova
epoca della sua evoluzione. Il secolo successivo trova il comune triestino
compiutamente costituito, del tutto indipendente nel regime interno e tributario
di Venezia e Aquileia nei rapporti internazionali. Si deve inoltre notare che
lo spirito politico cittadino permise di conservare, nella tradizione
autonomista, il carattere inalterato di colonia latina e italiana. Lo storico
Fabio Cusin considerava appunto che “la coscienza del diritto all’esistenza
pone la piccola città sull’eguale piede delle più potenti vicine
e sorge quel vivo senso della patria, limitata alla breve cerchia delle mura”[6].
Nell’ambito
dell’Impero absburgico, il Settecento segnò la storia moderna di
Trieste, con la proclamazione del «portofranco» il 18 marzo 1719. In seguito
all’istituzione del portofranco, sotto Carlo VI, la città cambiò
statuto ed assurse al principale sbocco al mare dell’Impero e ad emporio
cosmopolitico. Ciò significa che “non doveva più essere un
piccolo centro di pescatori e marinai, condotti da qualche mercante o
impresario di aziende a partecipazione, il cui commercio servisse sia a
smerciare i prodotti della campagna sia a portare dalle coste occidentali
dell’Adriatico il sostentamento necessario per sé e per un piccolo retroterra.
Doveva elevarsi a centro, dove si sarebbe radunato tutto il traffico
dell’Adriatico, una specie di mercato permanente, dove, per la quantità
delle merci poste a disposizione e per la forte concorrenza, tutti gli abitanti
dell’interno avrebbero trovato da rifornirsi a buon mercato, arricchendo
d’altra parte un largo ceto di mercanti e mediatori”[7].
Un
ulteriore incremento allo sviluppo commerciale viene dall’Imperatrice Maria Teresa,
figlia di Carlo VI, che, continuando la politica di sostegno della città
e del suo porto, fa della nuova Trieste una palestra per gli architetti e gli
urbanisti dell’Impero. Nuovi borghi s’innestano intorno al nucleo originario
arroccato sul Colle di San Giusto. La città, che all’inizio del
Settecento contava poche decine di migliaia d’abitanti, a seguito di questo
disegno politico-economico attira sempre più traffici, lavoro,
imprenditori da ogni parte dell’area mediterranea e del centro-est europei: alla
fine dell’Ottocento gli abitanti sono duecentomila. Mutano così, in
relazione a questo nuovo ruolo economico assunto dalla città, la natura
stessa e il
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volto secolare di
Trieste. Come notò Alberto Spaini, “Trieste non si sarebbe mai sognata
di voler rappresentare un centro di cultura internazionale ma, senza
volerlo essere programmaticamente, lo era di fatto”[8].
L’arrivo
di sempre più cittadini di nazioni diverse fa sì che accanto al
vecchio borgo sorge la città nuova. Il comune latino, che aveva conservato
il suo carattere originario attraverso secoli di stasi, si scioglie così
anche amministrativamente nella città più grande, che ingloba
accanto ai vecchi abitanti i nuovi insediamenti, inserendosi nelle correnti
più vivaci del tempo, nello stesso frangente in cui perde la
caratteristica originaria di autonoma individualità politica. Il nuovo
volto storico ed etnico della città viene a essere un fenomeno
coincidente con il manifestarsi di un differente legame con il territorio che
la circonda e con tutta la monarchia absburgica. E la conseguenza di tale
fenomeno è che nasce, con l’arrivo di gente straniera, accorsa a Trieste
in cerca di lavoro e di fortuna, la realtà e insieme il mito della
città cosmopolita[9].
Le
popolazioni immigrate dagli altri paesi, per conservare e usare la propria
lingua d’origine, le proprie tradizioni culturali e i propri credo religiosi si
riuniscono in comunità. Contemporaneamente sorgono numerose chiese
dedicate ai vari culti, che fanno di Trieste un esempio di felice convivenza
religiosa.
Accanto,
però, a questa configurazione etnica più composita rispetto a
quella che l’aveva contraddistinta per secoli, la città adriatica
è esposta, come tutto l’impero – e in particolare il suo corpo centrale,
i domini ereditari – a una pressione che mira a rafforzare le posizioni
tedesche. Con la dovuta menzione che non si tratta di un’azione germanizzatrice
e snazionalizzatrice, ma di un tentativo di utilizzare le potenzialità
unificatrici del germanesimo, inteso non come fattore nazionale, ma come forza
statale[10].
Un
breve iato nell’ascesa della città è rappresentato dalle tre
occupazioni napoleoniche (1797, 1805-1807, 1809-1813), ma la regione,
rioccupata dall’impero austriaco, vide l’aggiunta delle provincie ex venete e
Trieste ne diviene la capitale morale.
Una
koiné linguistica di indubbia ascendenza italica accomuna gli abitanti
antichi e nuovi e determina l’affermarsi dell’irredentismo triestino, in quanto
il movimento risorgimentale, la nascita del regno d’Italia non potevano
rimanere senza echi neppure nell’appartata e periferica italianità
triestina. Suggestivo è, in questo senso, il commento di Alberto Spaini:
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“C’è un’apparente contraddizione in quello che andiamo dicendo: come mai questi immigrati, di così diversa origine, che avevano il mezzo ed innegabilmente anche la volontà di conservare i loro caratteri nazionali (visto che organizzavano con forti spese scuole e istituti di cultura) – diventavano poi italiani? Com’è che tedeschi e slavi, inglesi e greci, parlavano tutti triestino? Fenomeno che a Trieste si è ripetuto per quasi due secoli. I più lesti a diventar triestini erano forse i tedeschi, che pure arrivavano a Trieste coll’orgoglio della nazione guida, ed avevano tutto un apparato di scuole statali di primo ordine (gli italiani le scuole dovevano mantenersele colle risorse del Comune). Per di più i tedeschi avevano istituti di cultura attrezzatissimi, sorti col preciso scopo, prima di tutto politico, di essere una solenne affermazione di germanismo – eppure sono pochi i tedeschi ripartiti da Trieste sottraendosi al fascino della città.”[11]
A
questo punto interviene l’affermazione che potrebbe aprire il discorso
sull’irredentismo triestino: “I soli che hanno resistito a questo fascino sono
gli slavi; anzi gli sloveni, i vicini immediati”[12].
In tale particolare situazione, la coscienza nazionale si sviluppa forse
soprattutto per contrasto, di fronte a quella che la popolazione italiana
avverte come la “minaccia” slovena.
Vale
lo stesso sottolineare, con riferimento ai concetti in questione, che Trieste
acquista per gli sloveni un significato centrale e simbolico nella fase della
propria riscossa nazionale e sociale, non solo per il suo prestigio e il suo
fascino di città ricca e moderna, ma anche perché, considerando sia la
città sia gli immediati dintorni, essa è la maggiore città
slovena, ha cioè una popolazione slovena che nel censimento del 1910
sarà superiore a quella di Lubiana. Trieste è ritenuta il centro di
una regione prevalentemente slovena, isola cittadina italiana sperduta in una
campagna slovena. La città adriatica assume quindi per gli sloveni il
significato di capitale morale e naturale della Slovenia, di simbolo della sua
riscossa nazionale, di meta a cui tendere.
Quanto
al rapporto Trieste-Austria multinazionale, esso si sviluppa continuamente fino
al 1918, quando la dissoluzione dell’Impero absburgico, che ne segnò il
distacco da un mondo al quale aveva appartenuto per secoli, trasforma in maniera
radicale e irreversibile la posizione e il ruolo storico della città
adriatica. Si rompe il legame politico con lo hinterland danubiano-balcanico,
quel vincolo che aveva dato a Trieste prosperità e grandezza, che aveva
determinato la sua dimensione europea.
Nello
sviluppo storico che stiamo descrivendo, l’incrociarsi di etnie e le appartenenze
geopolitiche fluttuanti si sono mostrate come una chance della diversità
culturale ma, in uguale misura, anche quale fonte di emergenze
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nazionalistiche.
Di seguito, alla fine della prima guerra mondiale, nell’ambito della polemica
italo-jugoslava e del contrasto italo-slavo nella regione Venezia Giulia, di
cui centro è Trieste, la città diventa però un centro
periferico, situato all’estremo confine orientale d’Italia, si trasforma in una
città di provincia italiana: inizia quella frattura, psicologica e reale
nello stesso tempo, fra l’aspirazione di grandezza, che è anche un
richiamo a un passato scomparso e irripetibile, e la realtà di un presente
più prosaico e più angusto. Trieste diventa così una
«marca di frontiera» e tale concetto, data la sua complessità, si presta
ad un’analisi distinta..
Dobbiamo
però far risaltare che, rispetto all’Istria, Trieste rimane una vera e
propria «capitale morale», come risulta dagli scritti di Tomizza: «La
successiva perdita dell’Istria, culminata con l’esodo di due terzi dei miei
conterranei riversatisi in primo luogo nella loro capitale morale, rinfocolava
tra le due etnie un rancore che tuttora stenta a placarsi»[13].
Nel
rapporto con la confinante Jugoslavia, Trieste appare come «capoluogo
commerciale» e «oasi di pacifico ritrovo» di tutti i cittadini del paese:
“Più temeva di venir fagocitata dalla confinante Jugoslavia e più
diventava capoluogo commerciale e oasi di pacifico ritrovo di sloveni,
croati, serbi, bosniaci, macedoni e montenegrini, notoriamente in cattivo
rapporto dentro il loro territorio.”[14]
Per
tornare al punto di partenza, vogliamo sottolineare che allo stesso rapporto
centro-provincia si richiama ciò che venne definito come «particolarismo
triestino». Ricordiamo il già citato Cusin, il quale faceva riferimento
alla reale caratteristica della storia triestina, di aver avuto cioè la
città una speciale tendenza a rimanere separata dai grandi centri di
pensiero e di vita politica. Un assieme di cause geografiche e storiche
concorsero a distaccare questo piccolo centro e ad isolarlo in modo da renderlo
alieno da forti influenze, che ne determinassero una caratteristica
particolare, mentre la povertà della vita locale non ne permise uno
sviluppo autonomo. L’analisi prosegue segnalandone la presenza di alcune «
stonature » di fronte allo sviluppo delle terre vicine, degli sforzi di
adattamento per vivere in unisono con esse e spesso dei movimenti strani, che
manifestano come un’incomprensione dei tempi, delle forze spirituali e
più ancora delle tendenze generali proprie delle diverse epoche[15]
(incomprensione, che del resto si riscontra sempre nelle posizioni periferiche,
rispetto ai centri di irradiazione del pensiero nuovo).
Nel passare dal piano storico a quello culturale,
in una prospettiva sempre attuale, prenderemo in considerazione il rapporto
spazio–tempo all’interno di
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quello in discussione. Si nota che se la provincia vive un tempo medio o
lungo rispetto al centro sottomesso, invece, al tempo breve, evenemenziale,
essa conosce però «la jouissance de la culture», la sua
elaborazione privata – la provincia è strapiena di eruditi, che non si
incontrano nell’agitazione delle grandi metropoli – ed anche la sua integrazione
in forme comunitarie difficili da immaginare al centro di tutti gli
individualismi, oppure il suo « immettere » in uno stile di vita personale,
vetusto forse, ma che arricchisce il quotidiano con norme e atteggiamenti
considerati «desueti»[16]
– e, quindi, ignorati dal centro.
Nel mondo contemporaneo, l’intelligenza, nei
grandi centri, rischia di perire, soffocata dall’ansioso incalzare
dell’industria culturale, che stritola l’individuo condannandolo al ritmo di
una prestazione intellettuale senza posa, che gl’impedisce di rinnovarsi e
finirà per condurlo all’analfabetismo. La periferia e la provincia
potrebbero offrire all’individuo le condizioni per la sua sopravvivenza
spirituale, se egli sapesse godere la vita e la pausa per trasformarsi e rinascere
anziché sentirle, come spesso avviene, quale esclusione ed inferiorità,
che lo inducono a mimare quella frenesia con un’attività altrettanto
frenetica e ancor più alienante, perché rivolta a problemi minori[17].
Di conseguenza, l’integrazione della cultura nella vita può essere
più profonda in provincia che al centro.
È questo forse uno dei motivi per i quali
Trieste si dimostra una «città di scrittori», oppure, in un’altra
espressione memorabile, “Trieste: più scrittori che abitanti”[18].
Si può, infatti, rilevare che ancor oggi, rispetto al numero dei suoi
abitanti ed al modesto livello delle sue istituzioni letterarie, Trieste
produce un numero proporzionalmente alto di notevoli scrittori e soprattutto
una discreta qualità di vita privata e di cultura individuale[19].
Come aveva scritto Claudio Magris: “Crescere a Trieste significava – e
significa ancora – accorgersi di vivere in una città di carta, coperta
dalla letteratura come l’impero, in una parabola di Borges, è coperto
dalla sua mappa disegnata dai cartografi”[20].
Il
rapporto spazio-tempo si dimostra essenziale non solo in relazione a quello tra
centro e provincia, ma anche all’interno del fenomeno letterario, aspetto messo
in evidenza da Czeslaw Milosz, il quale sosteneva che la caratteristica
più evidente della letteratura mitteleuropea è rappresentata
dalla «coscienza della storia» – sia come passato, sia come presente. Essa
sembra dettare la trattazione di
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tutta una serie
di argomenti, non necessariamente storici, che possono essere osservati con la
stessa facilità in un romanzo oppure in una poesia d’amore. L’io
narrante ed i personaggi che compaiono nelle opere degli autori mitteleuropei
vivono in un tempo modulato diversamente rispetto ai loro omologhi occidentali.
Gli eventi politici del decennio in cui vivono i personaggi, quelli degli anni
in cui questi autori si sono formati e dei quali portano le tracce, e perfino
quelli della vita dei loro genitori, sono sempre presenti sullo sfondo,
conferendo a tali opere una dimensione raramente riscontrabile nella letteratura
occidentale. Lì, in Occidente, il tempo è neutro, incolore,
imponderabile – corre senza alcun zigzag, senza curve inattese e senza cascate.
Nell’Europa Centrale invece, il tempo è intenso, spasmodico, pieno di
sorprese, è un partecipe attivo alla storia. E questo perché il tempo
è sempre associato ad un pericolo che minaccia l’identità della
comunità nazionale della quale fa parte lo scrittore[21].
Una storia triste e piena di drammaticità, come accade anche nel caso di
Trieste.
Relativamente alla «cultura di provincia», essa
non è, per definizione, inferiore a quella del centro, ma un altro tipo
di cultura, in quanto vissuta in modo diverso nella provincia rispetto al
centro. Le culture di provincia, contrariamente a quelle del centro, sono molteplici
in Europa e l’irradiazione alla quale furono esposte ha a che fare con il
flusso storico dei centri di potere politico e culturale. Cosicché le onde
viennesi sono arrivate a Trieste, Udine, in Slovenia oppure in Banato e
Transilvania. Perciò, le culture provinciali sono sostanzialmente
culture d’interferenza, ovvero culture plurali.
In via di esempio citiamo uno dei maggiori
scrittori contemporanei del Banato, Cornel Ungureanu, il quale espresse in maniera plastica tali idee:
“Vivere a Timiºoara significa
essere assieme agli scrittori che qui devono creare una buona letteratura.
Prima di appartenere ad una generazione, appartengo ad una provincia
letteraria. E lo dico senza orgoglio, ma anche senza umilianza, quasi stupito
di dover rispondere a tale domanda. Prima di appartenere ad una generazione
letteraria, appartengo ad una generazione di “feuilleton”-isti ai quali fu
affidato il feuilleton quando loro, ancora giovani, erano in grado di
dimostrarsi maturi, sapevano diventare vecchi, potevano sopportare... Vivo in
una città che, cinquecento anni fa, era la capitale di un regno:
permettetemi di dirlo: la capitale di un impero. [...] Certamente, sono un
provinciale come tanti altri, un abitante della provincia, che conserva intatte
tutte le adorazioni e tutte le sue idiosincrasie, così come non
sarò mai nient’altro che uno scrittore della provincia. Di questa
città che è da lontano la più bella della Romania. Mi
siano concessi questi piccoli eccessi, ma se qualcuno tentasse, con domande
alquanto imprudenti, alla mia esistenza privata, gli
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direi: signore, questa
città è stata la capitale di un impero! E i vecchi “timiºoreni”
sono stati, ai loro tempi, centinaia d’anni fa, al centro dell’Europa, luogo
d’incontro per i destini del mondo. Siccome io, il provinciale, ne vivo
un’altra superstizione, quella dell’albero genealogico, mi dico – ogni volta
che devo scrivere Provincia: il mondo comincia da qui, signore, non c’è
verso.”[22]
Con riferimento alla cultura triestina, il critico
Bruno Maier rivela la sua peculiarità nell’ambito della tradizione
nazionale italiana: “La cultura triestina era nata periferica e tale seguitava
a essere; ma proprio perciò aveva saputo conservare dei caratteri
autonomi e autoctoni, che costituivano il fondamento della sua originalità
e della sua importanza.”[23]
Come «letteratura regionale»,
la giuliana (cioè triestina) «ha due facce»: “una segna l’impronta
italiana della coltura regionale, italiana e per nient’affatto differente da
quella delle altre regioni” e “l’altra segna una modernità, una
spregiudicatezza, una larghezza d’orizzonti che è più
propriamente nostra e che interpreta l’anima di una popolazione, la quale, per
essere ai margini della nazione, riesce meglio a salvarsi dall’angustia mentale
del provincialismo e dalla stasi del conservatorismo accademico.”[24]
Lo stesso carattere ambivalente della letteratura
triestina compare in Ara e Magris: “al pari di Dublino, Trieste diviene una
capitale della poesia grazie alla sua povertà di tradizioni culturali
ottocentesche; periferica rispetto ai grandi filoni della civiltà
ottocentesca, ad esempio l’idealismo, diviene una punta avanzata della cultura
analitica che nasce dalla crisi di quella civiltà unitaria.”[25]
In questo modo, come scriveva Giulio Caprin nel
1933, “il genius loci nelle province lungo il confine nuovo promette le
virtù particolari che gli vengono dall’essere sul confine: costretto
più che altrove a sorvegliarsi, ma anche più pronto a spaziare
oltre le angustie provinciali.”[26]
Da quanto esaminato risulta indubbiamente che il
contesto storico che ha fatto esaltare la città nell’ipostasi di
«centro» non è altro che quello asburgico, nell’arco di tempo e
significati teso tra i suoi poli metaforici – il paradiso e l’apocalisse. Il
centro in assoluto dell’Impero era senz’altro Vienna, ma c’è da
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notare che il suo spirito si è propagato anche verso i margini,
moltiplicandosi, amplificandosi. Le provincie imperiali esistite fino alla
prima guerra mondiale sembrano rivivere i ritmi della metropoli-madre. In un
frammento di una vasta ricerca consacrata alle provincie imperiali, il critico
letterario Cornel Ungureanu, specialista nello studio comparato delle culture
centroeuropee, afferma appunto che la lezione di Vienna stimola le lezioni
sull’Impero, il quale viveva essenzialmente attraverso i suoi margini. Non si
può capire niente della «struttura imperiale» senza studiare i margini[27].
Dato che intendiamo l’ambito mitteleuropeo,
riportiamo a questo proposito un frammento autobiografico di Elias Canetti:
“Sull’influsso che l’Austria esercitava su di noi, già fin da quei tempi
lontani di Rustschuk, ci sarebbero molte cose da raccontare. Non soltanto
entrambi i miei genitori erano andati a scuola a Vienna, non soltanto fra loro
parlavano tedesco: mio padre leggeva ogni giorno la Neue Freie Presse ed
era sempre un momento solenne quando spiegava lentamente il giornale”[28].
Joseph Roth, con il suo straordinario spirito di
osservazione, notava che gli unici che credono ancora nell’Imperatore sono le
nazioni dei «margini», che solo i ruteni, gli ebrei, gli sloveni, gli slovacchi
cantano ancora l’inno nazionale austriaco, Gott erhalte. I viennesi
però, cantano senza vergogna Wacht am Rhein, l’inno tedesco.
“L’anima dell’Austria non è il centro, ma la periferia. La sostanza
dell’Austria viene nutrita e incessantemente rigenerata dai territori della
Corona.”[29]
Quelli che credevano nell’Imperatore come nel
rappresentante di Dio sulla terra, quelli che vivevano la religione dell’Impero
erano i «marginali», le popolazioni delle zone arcaiche, e perciò
più conservatrici. Presentiamo in merito, con i mezzi specifici della
letteratura, un quadro suggestivo di Carolus Cergoly:
“A
proposito di Trieste la città gentilissima e mercantile e immediata
all’Impero era bello veder camminare per le strade e per le vie della
città tanti e tanti sosia dell’Imperatore tanti Franceschigiuseppi.
Quando dai portoni della Posta Centrale uscivano i portalettere sembrava
l’uscita dalla Hofburg di tanti Imperatori tutti naturalmente dal passo
elastico. I portalettere nelle loro irreprensibili monture cercavano di
rassomigliare al sublime collega dalle braghe rosse e dal Toson d’Oro. La gran
bella e forte borsa di cuoio con nella tracolla ben fisse due matite copiative
con relativi copripunta e sulla patuella ben fermata con borchie d’ottone
lucido l’aquila imperiale con le teste incoronate e linguate di rosso. Anche
molte delle signore guardie e specialmente le guardie di quartiere portavano
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baffi e barba all’imperatora.
Anche quasi tutti i gendarmi dall’elmo color giallo argilla avevano la faccia
in stile dall’Imperatore.”[30]
Le città provinciali affermavano, quindi,
un policentrismo spettacolare. Erano «dedicate a Vienna», credevano nella
famiglia e nei valori imperiali, ma anche in quelli nazionali, che cercavano di
conservare e di affermare. Ogni città di provincia aveva una simile
stazione, caffè, posta, caserma, ogni funzionario assomigliava
all’imperatore e ogni singolo centro amministrativo ripeteva l’immagine del
Centro, cioè ricreava, con un’ubbidienza specifica, la sua
sacralità. Ecco un altro esempio – Cernovcy (rom. Cernãuþi), città dell’Ucraina, presso il confine con la
Romania, la quale «sembrava una Vienna in miniatura»[31],
con la sua università, teatri e opera e tutti gli attributi di una
metropoli regionale. Per lungo tempo, fino alla prima guerra mondiale, la vita
culturale germanofona della Bucovina rimase conformista e conservatrice, pronta
a seguire l’ultimo grido viennese ma lasciando che altri nutrissero le
avanguardie.
Disposte in cerchi concentrici che potrebbero far
pensare agli «scalini» di una possibile gerarchia, queste provincie stanno
spesso sotto il segno di alcune grandi città. Così come le
rivivono in memoria Cergoly oppure Urzidil, Trieste e Praga irradiano, quali
potenziali nuovi centri, una straordinaria forza, essenzialmente culturale. E
abbiamo messo Praga accanto a Trieste perché anch’essa è città di
tre popoli (il ceco, il tedesco, l’israelitico), come la città
adriatica, col suo trittico italiano, slavo e tedesco.
È così che troviamo Trieste
quale “capitale finanziaria dell’impero absburgico, uno dei centri più
ricchi d’Europa, una delle città più disinvolte d’Europa.”[32]
Un’altra formulazione letteraria celebra
“il gran porto di mare, il porto che serviva tutto l’entroterra dell’Impero, il
gran porto austriaco pieno di vita, di giovinezza e di mare. Trieste
un’immagine del mondo, Trieste città gentilissima e mercantile,
città ponte, odori di spezie e di coloniali, Trieste pacifica e
domestica, ombelico del mondo.”[33]
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C’è anche un antico detto
triestino che ne conferma la posizione: Tedesca slovena italiana – Trieste
xe una splendida sovrana, come l’ha fatto anche il francese Valéry Larbaud:
“C’est vraiment Trieste, et non Venise la capitale de l’Adriatique.”[34]
È ben
noto il fatto che la fama e la bellezza della città adriatica sono per
sempre legate ai due secoli di sviluppo economico, urbanistico e demografico
tra il 1719 (l’anno in cui Trieste, come Fiume, ottenne i diritti e i privilegi
di portofranco) ed il 1918 (la dissoluzione dell’impero austroungarico). Si
potrebbe proprio affermare che Trieste ricostituisce, in un mise en abyme,
tutta la storia absburgica, in quanto città attraverso la quale l’Impero
ha imparato a sopravvivere, aprendosi al mare e comunicando così con il
resto del mondo, ma dove è anche venuto a sapere come si può
agonizzare e proprio morire.
Alla città di Trieste fu
conferito da Francesco I, il 9 dicembre 1819, l’appellativo di fedelissima
e poi, nel 1850, grazie all’opera di Bruck, fu dichiarata da Francesco Giuseppe
città immediata dell’impero, venendo sottratta a ogni eventuale
futura subordinazione provinciale – “fedelissima e immediata all’Impero
dell’Imperatore dalle braghe rosse e dal Toson d’Oro come un piccolo sole.”[35]
Sempre
in Carolus Cergoly troviamo che “Trieste fu proclamata città fedelissima
e immediata all’Impero e gli Imperatori assunsero il titolo di «Signore di
Trieste», lo stemma di Trieste con l’alabarda d’argento ebbe la concessione del
capo imperiale ch’è d’oro all’aquila bicipite di nero spiegata e
linguata di rosso e coronata d’oro.”[36]
La letteratura propone quindi, in tutto lo spazio
centroeuropeo, un ampio discorso rievocativo del mondo imperiale. Nel
territorio oggetto della nostra ricerca, “i sedimenti e i detriti del passato
absburgico costituiscono certo un humus di Trieste, nel quale la letteratura
può affondare le sue sonde e dal quale può trarre le sue linfe.”[37]
In
ciò che segue, cercheremo di ricuperare l’immagine della Trieste
mitteleuropea, così come viene rappresenta nella letteratura della zona,
per poi esaminare alcuni aspetti della sua evoluzione storica.
Scrittore triestino ed esperta nei problemi della Mitteleuropa,
Claudio Magris realizza una correlazione che lega in maniera inconfondibile la
città adriatica a tale spazio, affermando di essere convinto che Trieste
gli ha suscitato, senza che se ne accorgese per molto tempo, l’interesse e la
comprensione della
p. 278
Mitteleuropa, per il suo incrocio di cultura
tedesca, slava, romanza ed ebrea. L’autore aggiunge che non a caso, nel suo
primo libro, scritto tra venti e ventiquattro anni, si era occupato del mito
absburgico o che, più tardi, aveva scritto Lontano da dove, un
libro su Joseph Roth e la grande tradizione letteraria ebreo-orientale, con la
sua dimensione del soprannazionale, con il tema dell’esilio e dello
sradicamento, ma anche con la forza di resisterne[38].
Al ruolo storico di Trieste in prospettiva mitteleuropea si
riferiva pure Carolus Cergoly quando sosteneva che “era e deve essere una
città ponte una città d’incontri delle tre grandi culture:
italiana, slava e tedesca”[39],
come la vedeva anche Ferruccio Fölkel, “in un poligono di fuoco del Vecchio
Continente, spartiacque ma anche punto di aggancio fra Europa settentrionale e
Europa mediterranea, fra un Occidente decaduto e un Oriente indecifrabile,
convegno di popoli dalle tradizioni e dalle culture opposte, localizzata in
un’area sove si sono mischiate le lingue del da, del ja, del sì.”[40]
A
sua volta, Fulvio Tomizza si esprime pressoché nei termini di una definizione:
“Per noi triestini, e giuliani in genere, Mitteleuropa è quasi
una dichiarazione d’ufficio della nostra non intera appartenenza italiana, in
nome di una diversa mentalità, di un rigore morale di origine non
esclusivamente religiosa, di un differente modo di sentire il rapporto con chi
ci governa e con chi ci passa accanto.”[41]
Lo
scrittore porta a termine l’idea aggiungendone delle sfumature: “Un attestato
tuttavia destinato a rimanere vago e vano, fino ad avvilire maggiormente la
nostra particolarità, se per caso ci ponessimo in mente di adoperarlo
come passaporto per cercare nei più vicini paesi d’oltreconfine la
contrada ideale nella quale riconoscerci completamente. Il dramma di Trieste
conosce anche questo doloroso risvolto, ché altrimenti non di dramma si
tratterebbe ma di ritardo di una giustizia che non manca mai di venire.”[42]
In
un’altra prospettiva, Giorgio Voghera trova che Trieste “«interpretava» il
mitteleuropeismo in chiave italiana, ovvero dava alla sua indubbia
italianità una coloritura mitteleuropea che la distingueva
dall’italianità delle città sorelle al di là del confine
del 1915; e ciò si poteva notare anche diversi anni dopo che questo era
stato rimosso.”[43]
p. 279
Enzo
Bettiza, facendo riferimento alla stessa Trieste mitteleuropea, ma dal punto di
vista della sua ambivalenza costitutiva, afferma che “ha desiderato l’Italia
vivendo da viennese e odiato Vienna non potendo vivere da italiano; ha dato
vita, sul Mediterraneo, a una borghesia mercantile di mentalità e
costume piuttosto anseatici che mediterranei»; in più, «ha creato una
letteratura scritta in italiano ma pervasa dalle inquietudini che scendevano da
Vienna e da Praga.”[44]
La
cultura triestina mitteleuropea, che trae alimento dall’incontro con la grande
cultura “storica” della monarchia absburgica, quella tedesca, e dal fatto di
trovarsi naturalmente inserita in uno “spazio” geograficamente più ampio
rispetto alle culture nazionali e in conseguenza ricco spiritualmente di
diversità, di tensioni e di fermenti, che le dànno una
vastità di orizzonti e di riferimenti del tutto particolare nella
cultura italiana del tempo[45],
tale cultura triestina dispone, quindi, sul piano linguistico, di un patrimonio
considerevole e multiforme.
Riportiamo,
a questo proposito, le parole di uno storico della medicina, Loris Premuda, con
le quali commemora la figura di un eminente esponente triestino della scuola
medica di Vienna, Constantin von Economo: “Parlava greco con il padre, tedesco
con la madre, francese con la sorella Sophie e con il fratello Demetrio,
triestino (cioè: italiano) con il fratello Leo. Forse e proprio in
questo tipo di atteggiamento linguistico si possono riconoscere – se realmente
e in senso generale esistono i connotati concreti, e non mitologici, di una
cultura triestina squisitamente mitteleuropea... – le radici e l’essenza di una
mitteleuropäische Bildung.”[46]
In
questo contesto ci vuole, però, una precisazione secondo la quale,
arricchita e sensibilizzata da diverse suggestioni linguistiche e culturali,
inserita in uno stato multinazionale, considerata come sbocco al mare di tutta
la monarchia e quindi in un certo modo città comune a tutti i popoli
dell’Austria, Trieste è nello stesso tempo una città che ha, e
ancora più cerca di darsi, una superficie unitaria. Si tratta del fatto
che non possiede quel naturale pluralismo linguistico e culturale, diffuso a
diverso livello in tutti i ceti sociali, che caratterizza invece la vicina e
rivale Fiume, la città in cui, come sentirà dire arrivando a
Fiume in piena ebbrezza dannunziana il futuro cardinale Celso Costantini, anche
“il «più stupido omo» nasceva con quattro lingue”. Di conseguenza, la
“multinazionalità” di Trieste va forse più esattamente ridotta
alla dimensione dell’incontro tra culture diverse
p. 280
(incontro che
è particolarmente fecondo in alcuni settori specifici) in un ambiente
che è però essenzialmente italiano.
Carolus Cergoly, citato qua sopra, è forse
il più fedele esponente della città «immediata all’Impero» e
della Cacania. Nel suo stile caratteristico, lo scrittore ricompone l’immagine
di un vero e proprio «ombelico del mondo», nonché della «più vicina al
centro Europa». Ecco qualche altro «pezzo» costitutivo di tale immagine:
“Hinzelman
planò su Trieste che è un canestro di mazzi di fiori freschi come
la primavera che posa su d’uno scoglio. E subito Hinzelman capì che la
città era una città meno antica di Rodi ma assolutamente
più moderna di Varasdin. Una finestra sull’Adriatico per l’Europa
centrale. [...]
Hinzelman sgamba veloce verso l’interno della città fedelissima e immediata
all’Impero dell’Imperatore dalle braghe rosse e dal Toson d’Oro come un piccolo
sole. Questa città che ha l’Imperatore come paterno Signore di Trieste. [...] Questa città che
è l’ombelico del mondo Trieste. Situazione geografica 45°38’5’’ di
latitudine nord e a 11°26’17’’ di longitudine sud orientale e di tutto il
Mediterraneo la più vicina al centro Europa. [...] Sempre più
interessante sempre più poliedrica questa Trieste in posizione veramente
privilegiata. Città tirata su dal caro dio solare Triopa tra est e
ovest. Città adriatica città mediterranea città crocevia
città viva anzi vivissima con il suo grande retroterra che vuol dire Mitteleuropa.”[48]
Sul piano della storia mitteleuropea e, implicitamente, triestina,
una figura ragguardevole è quella di Karl Ludwig von Bruck, il cui
destino si intrecciò felicemente con quello della città
adriatica. Nato a Elberfeld il 18 ottobre 1798, dopo lunghe vicende giunto a
Trieste nel 1821 allo scopo di raggiungere la Grecia dove si sarebbe unito ai
combattenti per la libertà, egli venne convinto dal console di Prussia,
K. F. Brandenburg, a rimanerci a lavorare presso di lui. Dopo un lungo
p. 281
servizio presso
varie società assicuratrici, fu tra i promotori della costituzione del
Lloyd Austriaco, alla fine del 1832. Rilevata all’assemblea generale del
gennaio 1835 la prevalenza d’affari concernenti attività marittime ed il
notevole movimento navale nel porto di Trieste, venne inoltrato all’imperatore
Ferdinando un memoriale, il 30 luglio 1835, in cui si chiedeva di modificare lo
statuto sociale e di disporre d’un pubblico sostegno per una società di
navigazione destinata non solo al porto di Trieste, ma all’intera monarchia. Le
richieste, dato l’alto costo dell’iniziativa, furono ascoltate solo in parte;
tuttavia, il 2 agosto 1836 venne costituita la seconda sezione del Lloyd,
destinata a fama mondiale, e Bruck ne diventò il direttore. Prese a nolo
sei navi e, affidato ad un cantiere di Londra l’incarico di costruire il primo
battello di proprietà della società, la navigazione ebbe inizio
nel 1837 con l’esercizio di quattro linee. Per il successo dell’impresa, Bruck
assurse alla condizione nobiliare.
È
importante notare che la sua idea di Mitteleuropa nasce dalla constatata
possibile convivenza tra il modo nuovo di concepire l’attività
imprenditoriale e l’accettazione della cornice politica, in cui si tramanda
l’eredita imperiale. Operatori politici ed economici, guidati da quest’idea,
possono ripartirsi in piena armonia i compiti specificamente loro spettanti.
Una compiuta teorizzazione viene tentata solo dopo il 1848, ma intanto, in
linea di fatto, Bruck vede operante a Trieste la soluzione del problema, prima
ancora che esso venga impostato, con tutte le sue implicazioni, nelle restanti
parti dell’impero[49].
Ulteriormente,
una vera e propria perorazione per Trieste viene da parte di Lorenz von Stein.
Nel 1856 egli propose il modello di Trieste come necessario e naturale
“incontro di tutte le nazionalità del Mediterraneo, giacché per tutte,
egualmente, essa deve essere il punto unico d’un traffico immediato con i
territori di produzione e di consumo della Mitteleuropa. Essa non poteva
essere italiana come Venezia; altrettanto poco essa poteva diventare puramente
tedesca o puramente greca. Essa doveva avere origine dall’afflusso di tutte le
stirpi, dove tutte si incontrano, ciò che accadeva nel punto terminale
di quell’unica linea di comunicazione col Nord.”[50]
Nell’individuare
la vera funzione di Trieste, von Stein ricorre per primo al «criterio
naturalistico», di carattere geografico. Non si devono aprire sbocchi al mare
dove essi sono impossibili: se, in generale, pare quasi che la natura abbia
voluto separare l’Europa Centrale dall’Adriatico, non manca un’eccezione, un
punto, partendo dal quale si può arrivare a Nord fino a Vienna. “La fine
di questa via, il punto d’unificazione delle linee che vanno da Nord a Sud ed
all’inverso, al
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tempo stesso
l’intera costa marittima meridionale della Mitteleuropa, condensata in
una sola città, è Trieste.”[51]
Nella
dimostrazione, viene poi invocato come argomento, sul piano storico-politico,
il passato medioevale di Trieste: “Accade di raro, e rarissimamente in Italia,
che una città si assoggetti durevolmente ad un corpo statale maggiore,
non una sola volta ad uno italiano e men che meno ad uno tedesco. Allorché
però nel 1382 Trieste liberamente si diede all’Austria, null’altro fece
che ciò che richiedeva la natura della cosa. Da quell’epoca è
indissolubilmente legata a quest’ultima; la sua sottomissione non è in
effetti nient’altro che la dichiarazione in base alla quale il fondamento della
sua esistenza va ricercato nei suoi rapporti con la Mitteleuropa, e che
in essa lo ha trovato. E questa coscienza le è rimasta fino al giorno
d’oggi e le rimarrà.”[52]
Lo
sviluppo di tale coscienza è circoscritto in seguito alla funzione
economico-commerciale, che per Stein appare come solo fondamento valido, il cui
punto fermo rimane il Lloyd. L’analisi consente che si sovrappongano e proprio
si identifichino il discorso sulla città e quello sulla compagnia di
navigazione: “Trieste non costituiva naturalmente unità alcuna nella sua
popolazione; essa non viveva nelle sue memorie storiche[53];
quest’unità le doveva venir assegnata per la prima volta. Al fine di
costituirla, occorreva però un’idea che comprendesse, con intelligenza
profonda, l’elemento massimo e quello minimo delle cose umane, da un lato la
grande configurazione politico-commerciale d’Europa e dell’Oriente e dall’altro
l’interesse calcolato con grande cura dell’impresa commerciale. Da entrambi
questi elementi è formato il Lloyd; su entrambi riposa il suo avvenire.”[54]
Nella
visione di Stein, il Lloyd – destinato a diventare la grande società di
navigazione nota dopo il 1918 con il nome di Lloyd Triestino – occupa un posto
centrale: “esso è il punto d’incontro con il sistema ferroviario
d’Austria e Germania nel loro insieme. Rappresenta la medesima funzione, solo
trasferita sul mare. È una vita per sé.”[55]
Una
volta che il Lloyd diventa elemento principale della vita di Trieste e riesce
con le sue navi a penetrare nei mari più lontani, ad attraccare nei
porti dei continenti più lontani, a stabilire contatti con tutto il
mondo, mutano pure le dimensioni della città. Quello che era uno dei
tanti porti, diventato grazie al Lloyd
p. 283
«organo della Mitteleuropa»[56],
cessa d’essere parte d’una storia commerciale ristretta, come può essere
quella dell’Adriatico o del Mediterraneo, per appartenere alla storia
commerciale mondiale. L’espansione della vita europea avviene per mezzo del
Lloyd, che “era già diventato un elemento integrante della vita
commerciale dell’intero Oriente”, adeguandosi “alla prima parte della grande
idea che sta a suo fondamento” e facendo di Trieste, con la riduzione della sua
distanza dall’Oriente, una «città emporiale mondiale»[57].
È
interessante sottolineare che, in Stein, la stessa Vienna è idealizzata
in un legame che la identifica a Trieste: completa la ferrovia meridionale,
“Vienna e Trieste saranno una grande città.”[58]
In
questo suo grandioso disegno Stein non può che esprimere l’auspicio di
sviluppi futuri per la città adriatica: “Quale città d’Europa
può misurarsi su tali fondamenti col futuro di Trieste!”[59],
esclamazione che viene a potenziare l’idea.
In tal punto si potrebbe affermare che lo statuto
ambivalente di Trieste si riflette benissimo nel suo mito che presenta
più volti: economico, legato alla gloria emporiale del primo porto
dell’impero austriaco; politico, legato alle lotte nazionali e all’aspetto del
tutto particolare dell’irredentismo triestino; culturale, legato alle diverse
componenti etniche della città e, infine, letterario, che riassume tutti
gli altri. E tale volto letterario del mito, in cui convergono e si sublimano
tutte le componenti che costituiscono il tessuto storico così complesso
della città, rappresenta il riflesso di un fenomeno ben definito per
opera dei poeti, romanzieri e saggisti che hanno dato al loro discorso
artistico una dimensione di ampio respiro, inserendolo in un’area culturalmente
“promiscua, fertile, meticcia, unica in Europa per la sua ricca trama
pluripsicologica”, l’area di quella categoria sovranazionale, quella «strana
massoneria dello spirito»[60], che è la cultura mitteleuropea.
Il famoso mito
della Trieste imperiale è, quindi, indissolubilmente legato all’ancor
più famoso «mito absburgico», con tutta la sua complessità che
continua ancor oggi a suscitare l’interesse. Ci sarebbero infatti due punti di
vista antinomici, un’ambivalenza cioè dell’eredità della
monarchia absburgica, che vengono a determinare la riflessione attuale
sull’identità politica dell’Europa.
Il
«mito absburgico», per riprendere la nota espressione di Claudio Magris
riferita ad un contesto che riguarda appunto l’ordinamento europeo, trova
attualità, secondo alcuni autori, nella nostalgia per una confederazione
cementata da un
p. 284
principio dinastico
che, in mancanza di meglio, continua ad apparire un’età dell’oro
perduta. La convinzione che l’Europa Centrale absburgica formasse un tutto
organico (ein Totum) costituisce l’elemento centrale del mito.
Secondo altri, il bilancio della monarchia austroungarica
è molto più limitato e il principio di sovranazionalità
figura tra le belle menzogne dell’ideologia ufficiale che nascondono in
realtà l’egemonia delle nazionalità tedesca e ungherese ed una
pericolosissima tendenza a esacerbare nazionalismi e razzismi di ogni
genere.
In ciò che segue tenteremo un’analisi letteraria della
monarchia absburgica tra mito e realtà, a partire proprio dalla soprammentovata
ambivalenza. Gli «austriachisti», come i «germanisti», hanno il loro Historikerstreit.
La «controversia degli storici» riguarda, come abbiamo già illustrato,
la diversa valutazione della politica absburgica nei confronti delle
nazionalità e il ruolo dell’Austria-Ungheria nell’equilibrio (e negli
squilibri) europeo prima del 1914. È da qui che sorgono due possibili
domande: Il regime di Francesco Giuseppe I conteneva in germe una prospettiva
«centroeuropea»? O, invece, la «prigione dei popoli» era inevitabilmente la
«polveriera dell’Europa»?[61]
Facendo riferimento, sulle tracce di Claudio Magris,
all’origine del mito absburgico e alla sua funzione politica, dobbiamo notare
che tale processo di mitizzazione della concreta realtà storica
incomincia nei primi anni dell’Ottocento. Si tratta di un mondo, di una
civiltà – e di una trasfigurazione di questa – legati agli Absburgo del
«danzante» Congresso di Vienna, della Metternicherei della duplice
monarchia imperialregia; legati insomma all’ultimo atto della secolare storia
absburgica, che ha una sua precisa fisionomia rispetto agli Absburgo delle
lotte svizzere e dei fasti di Carlo V, del secolo d’oro della Controriforma e
delle complicate vicende della Prammatica Sanzione[62].
Tale passato – per quanti sforzi abbiano fatto storici
eminenti come il von Srbik per dimostrare l’unità nella storia austriaca
– è soltanto preistoria rispetto al mito della Cacania “col suo
odore di sego, col suo esercito di soldati in piedi, preti in ginocchio e
funzionari seduti e con i suoi valzer spumeggianti”[63];
diventa «cacanese» solo nella rievocazione trasfigurante di poi, nel mito
dell’epoca posteriore che è appunto oggetto della nostra analisi.
La data di nascita del mito, “arbitraria come ogni tentativo
di stabilire una svolta precisa nelle vicende della storia, ma utile e
chiarificatrice”[64], potrebbe
p. 285
essere l’anno di grazie
1806, in cui Francesco II imperatore del Sacro Romano Impero di Nazione
Germanica diventava Francesco I imperatore d’Austria. Tale certificato di nascita
fa intuire immediatamente il carattere di «surrogato», di ripiego, il carattere
autunnale che contrassegnerà fin dall’origine questo mito.
È
allora che gli Absburgo, estromessi con le guerre del Settecento e con quelle
napoleoniche dal predominio in Germania, si svolgono a cercare un altro modo di
vita e un’altra ragione di esistenza e di coesione della monarchia. Ed è
allora che nasce l’ideale dell’impero sovranazionale, della «grande Svizzera»,
dei «miei popoli» legati al vincolo dinastico del paterno sovrano; popoli, come
ci si preoccupava di dire, cioè razze e gruppi etnici e non
individualità nazionali.
Sorge
così il mito della monarchia popolare, in un senso ben diverso da quello
che la parola poteva significare in riferimento allo sforzo dell’assolutismo
illuminato di stabilire affettivi nessi tra le forze dello stato, nel senso
cioè tradizionalistico e «paesano» di bonari e sentimentali legami. Ma
questo ideale che determinerà in modo così penetrante l’atmosfera
e il Gemüt austroungarici, non è, in fondo, che un surrogato di
quelle forze vitali che all’Austria erano negate, e che invece vivificano altri
stati, come la Prussia; un tentativo incerto di estrarre dalla situazione di
fatto delle ragioni che la giustificassero e addirittura di mitizzare come
ideali le sue debolezze[65].
Il
termine mito, che di per sé indica un’alterazione e una deformazione della
realtà dovute appunto al desiderio di estrarre da questa una sua pretesa
verità essenziale, un suo ipotetico nucleo metastorico che ne riassuma
il più vero significato, acquista in questo caso una particolare
accezione. Il mito absburgico non è cioè un semplice processo di
trasfigurazione del reale, proprio di ogni attività poetica, ma è
la completa sostituzione di una realtà storico-sociale con un’altra
fittizia ed illusoria, è la sublimazione di una concreta società
in un pittoresco, sicuro e ordinato mondo di favola.
E
poi chiaro che questa mitizzazione non è un’astratta fantasticheria, e
che quindi è capace talvolta di cogliere alcuni aspetti reali della
civiltà absburgica, e di coglierli con particolare finezza di
penetrazione. Com’è altrettanto chiaro che non tutti gli scrittori si
sono limitati a una superficiale «laudatio» del buon tempo antico
austriaco; con la menzione però che anche l’analisi più feroce di
un Musil e l’umorismo disincantato di un Doderer sono rimasti in un certo senso
all’interno di un determinato modo di vedere, e prigionieri, anche se critici
dispettosi, di quella favolosa e struggente trasfigurazione dl mondo danubiano,
di quella suggestiva
p. 286
alienazione[66]
ch’era stata per più di un secolo l’effettivo strumento di potere e il
più valido sostegno spirituale dell’impero absburgico.
Un’idea
altrettanto significativa riguarda il fatto che la mitizzazione del mondo
absburgico, che si riscontra nelle pagine scritte dopo il suo sfacelo, non
è una semplice rievocazione del passato, ma s’inserisce in una lunga
tradizione, in un processo storico di deformazione della realtà
austroungarica: processo di cui gli scrittori contemporanei rappresentano
l’ultima fase, il capitolo finale e più esemplare, giacché il fatto di
descrivere quella società dopo la sua scomparsa accentua il carattere di
evasione e di fuga dalla realtà che aveva sempre contraddistinto la visione
delle cose austriache, il mito absburgico. Questo era stato soprattutto un
sapiente, efficacissimo strumento di un’accorta alienazione politica, lo sforzo
di trovare delle ragioni di vita a una compagine statale sempre più
anacronistica e impossibile[67],
e di distrarre in tal modo le energie della concreta percezione della
realtà.
Questo
sforzo patetico, sorto da un sincero e appassionato attaccamento ai valori che
si volevano difendere, non era rimasto sul piano di una generica propaganda
politica ma era sceso sul piano dei sentimenti e dei valori quotidiani, dello
stile di vita. Così il «sistema» si era tradotto in un complesso di
abitudini e di ideali non solo politici, ma anche personali, in una particolare
atmosfera spirituale. Gran parte della letteratura austriaca e mitteleuropea
dell’ultimo secolo di storia absburgica era nata in questo clima, e la profonda
carica umana che animava questo tentativo di impossibile conservazione si
è tradotta spesso in pagine di commossa umanità e di viva poesia.
Il mito absburgico aveva raggiunto una notevolissima capacità di
diffusione e penetrazione, aveva permeato coscienze e sensibilità, ed
era riuscito quasi completamente a trasformare la contraddittoria realtà
austriaca in un mondo tranquillo e sicuro. A questo proposito, lo scrittore
triestino più fedele alla memoria absburgica, Carolus Cergoly, nota che
«l’Impero Austriaco era l’Impero della sicurezza o dell’ottimismo e dal lento
progresso verso le cose moderatamente moderne»[68].
Tale,
infatti, lo ricordano anche gli scrittori, austriaci e mitteleuropei in
generale, superstiti al suo crollo e innamorati di quell’epoca immobile in cui,
quando gli eventi incalzavano e si aveva bisogno di pace “si poteva [...]
scendere dal treno del tempo, salire su un treno comune di una ferrovia comune
e ritornare in patria.”[69]
p.
287
Un
senso di smarrimento per la ferma sicurezza distrutta e per la perduta
gerarchia dei valori si avverte nelle pagine dei contemporanei rievocatori
della Cacania, sotto il segno delle famose parole di F. Palacky: “Se l’Austria
non ci fosse, bisognerebbe inventarla”, oppure delle cinque «vocali d’oro»,
A.E.I.O.U., Austriae Est Imperare Orbi Universo, mentre nella variante
più ottimistica sarebbe proprio Austriae Erit In Orbe Ultima. E
la dissoluzione di questo mondo sembra aver sconvolto la loro vita e i loro
sentimenti, la loro stessa visione del mondo:
“Austria: il
nome evoca due immagini molto diverse. L’immagine del grande Impero degli
Habsburg, e quella della piccola repubblica inventata dal trattato di Sain
Germain.
Resta una
caricatura tragica, un esempio di stultitia. Se fosse esistita prudentia,
le aspirazioni nazionali avrebbero cercato di svilupparsi in direzione di uno
Stato plurinazionale. Invece si sono fatte rottami e schegge perseguitate.
L’Austria era
un piccolo mondo nel quale il grande mondo avrebbe dovuto fare la sua prova
generale. Quel paese, l’Austria degli Habsburg, è scomparso nel 1918, ma
più che una scomparsa è stata una catastrofe del buon senso, il
trionfo del tumultus.
La storia di
questo Impero scomparso non è soltanto storia austriaca: è storia
europea. Era un Impero che pochi apprezzarono e compresero, finché si era in
tempo; poi, quand’era troppo tardi, avvenne proprio tutto il contrario.”[70]
La Mitteleuropa
absburgica significò indubbiamente qualcosa, se lasciò una
così forte impronta nella coscienza di tanti scrittori anche lontani,
per formazione e ideologia, dalle premesse spirituali di quel mondo. È
significativo in questo contesto che gli scrittori triestini, che avevano combattuto
sul Carso per abbattere l’impero absburgico, abbiano sentito profondamente il
lato positivo della compagine austroungarica e l’abbiano vista più
tardi, ricordando in tristi momenti storici la loro giovinezza degli anni
precedenti la guerra, quasi come il simbolo di una comunità europea[71].
Così
lo è Scipio Slataper, in cui il mito dell’opulenza di Trieste emporiale
assurge a patos poetico nella conclusione de Il mio Carso: “E levan
l’ancora i grossi piroscafi nostri verso Salonicco e Bombay; e domani le
locomotive rintroneranno il ponte di ferro sulla Moldava e si cacceranno con
l’Elba dentro la Germania.”[72]
Ci
sarebbe poi, sempre in via di esempio, anche Umberto Saba, con i suoi Riccordi-Racconti
che tradiscono, oltre le sue opzioni ideologiche diverse, anche una certa
valutazione positiva dell’impero: “Lettore buon repubblicano, non ti
p. 288
allarmare. Il vecchio
che scrive i ricordi di un mondo che egli si ostina a vedere meraviglioso, non
desidera e non teme più di te un ritorno della Monarchia. Ma, educato
sotto Francesco Giuseppe, che (a torto) odiava, egli sospirava, nella sua prima
giovinezza, per il re d’Italia. Più precisamente, per il re d’Italia a
Trieste.”[73]
In
un articolo del 1946, intitolato Inferno e paradiso di Trieste, i
ricordi di Saba si muovono, in una suggestiva allegoria, nella stessa direzione
austroungarica:
“Trieste era,
ai tempi della mia giovinezza, molte cose. Era anche come una bella donna,
sposata a un ricco banchiere. Il banchiere era, anzichenò, anziano; e
non si può dire che fra i due corressero rapporti d’amore propriamente
detti. Ma la donna non poteva lamentarsi troppo del suo primo marito. Questi
l’amministrava bene, e, senza chiederle troppo, non le faceva mancare né il
superfluo né il necessario. La donna aveva, come usa in questi casi, l’amante
del cuore. Quando il vecchio, che si chiamava Austria, volle, contro ogni
consiglio dell’inutile saggezza, fare cosa contraria alla sua età e
andare in guerra, finì, dopo qualche effimero successo, male: fece un
clamoroso fallimento e morì – pace all’anima sua – di morte violenta.”[74]
Più
avanti, lo scrittore cerca di immaginare che Trieste ridiventi portofranco:
“Immagino
volentieri di passeggiare per le sue belle contrade, come passeggiavo al tempo
della mia giovinezza, quando a Trieste composta in una sua strana unità,
c’era l’Austria, c’era l’Italia, c’era la Balcania, c’era l’Oriente vicino;
così che a volte, svoltando una strada, avevi l’impressione di cambiare
paese, o addirittura continente. Immagino, non spero. Gli uomini e le loro
disgraziate azioni ci sono troppo noti per sperare che il lieto miracolo possa
ripetersi.”[75]
I
temi e i motivi delle moderne rievocazioni dell’impero non nascono dunque con i
loro moderni autori, ma si ricollegano a una particolare tradizione. Anzi, negli
scrittori contemporanei che nelle loro opere richiamano in vita l’ambiente e
l’umanità della monarchia imperialregia, i vecchi aspetti del mito
acquistano una maggiore evidenza, si chiarificano meglio e si staccano con un
più preciso rilievo, sicché proprio in queste opere più recenti
si può cogliere meglio il lungo sforzo dell’impero di mascherare e
idealizzare la propria esistenza. Ciò che prima si era pateticamente
predicato e che si era confuso con la realtà effettuale del sistema
absburgico, ora appare nel chiaro e trasparente volto del mito, della
proiezione fantastica e sentimentale, ripetendo ormai soltanto nell’ambito
della memoria e della riesumazione del passato i vagheggiamenti e la
trasfigurazione che
p. 289
un tempo erano stati
proiettati su una ben diversa realtà contemporanea. Disorientati nel
nuovo caotico mondo sorto dalle rovine del 1918, gli intellettuali austriaci e
mitteleuropei in generale si sono aggrappati a quella tradizione absburgica
idealizzante e ammaliatrice, accettando o almeno subendo l’alienatrice
mitizzazione della realtà storica che aveva caratterizzato l’epoca di
Francesco Giuseppe[76].
Ed
è proprio lui, il celebre Francesco Giuseppe, la figura rappresentativa
del mito absburgico. Per Carolus Cergoly, l’immagine del Centro è
ricuperata in maniera integrale, di apoteosi appunto, dall’Imperatore. In un
testo esaltato, quasi al limite del parodico, l’autore realizza quello che si
potrebbe definire un vero e proprio panegirico, mentre il romanzo stesso, Il complesso
dell’imperatore, con l’ambivalenza della
costruzione, costituisce realmente ciò che la psicanalisi chiama
«complesso»:
“E Francesco
Giuseppe uscì dalla matrice e tuonarono i cannoni e suonarono le campane
le trombe diedero fiato alle più belle marce e meravigliosi fuochi
d’artificio illuminarono i cieli dell’Impero e i popoli cantarono nelle
plurilingue dell’Impero il Serbi Iddio l’Austriaco Regno. Vegli il nostro
Imperator e Bog oèuvai
Bog oh ràmi e poi
tutti nella Weltsprache Gott erhalte Gott beschütze unsern Kaiser
unser Land.
Dentro la
cuna il Porfirogenito sul materasso pieno di piume d’ali di Cherubini e fuori
della cuna nuvole di merletti d’Idria e di Burano delle Fiandre e delle
Dalmazie.
E ancora la
voce del Plurinome truccato da Joshua generato da Maria disse Tu sarai il
più caro il più amato Imperatore del mondo.
I tuoi occhi
saranno azzurri come l’Adriatico le tue mani saranno bianche come le rocce
delle Dolomiti e le tue dita saranno lunghe e affusolate come quelle del
suonatore di cetra Davide l’irlandese.
E quando
saranno passate tante primavere e saranno passati autunni e inverni io ti
nominerò Apostolico affinché tu sia pari agli Apostoli della buona
novella.”[77]
Il
primo motivo fondamentale del mito absburgico, strettamente legato alla sua
stessa origine, come abbiamo già illustrato, è quello
sovranazionale. Si può infatti affermare che l’ideale sovranazionale,
che si esprimeva fin nel paterno e rigido inizio dei proclami di Francesco
Giuseppe, Meine Völker, era stato il fondamento ideologico della
monarchia danubiana, il suo sostegno spirituale e propagandistico nella lotta
contro il moderno risveglio delle forze nazionali, era stato quindi un’arma
della lotta absburgica contro la storia.
Nella
letteratura triestina, il motivo è ampiamente evocato dal già
citato Carolus Cergoly, sulle tracce, però, dello scrittore austriaco
Franz Werfel. Per
p. 290
quest’ultimo, ebreo
cosmopolita e Weltfreund[78],
l’impero si configurava come uno stato sovranazionale, una «Grande Svizzera»
civile e armoniosa, pittoresco e composito mosaico che riuniva “le Alpi del
Tirolo, i laghi del Salzkammergut, i dolci orizzonti della Boemia, gli
altipiani selvaggi del Carso, le rigogliose contrade dell’Adriatico, i palazzi
di Vienna, le chiese di Salisburgo, le torri di Praga [...] le vaste steppe
della Puszta [...] gli alti pascoli dei Carpazi e i bassipiani del Danubio, con
tutte le meraviglie del suo bacino fluviale, con le sue praterie selvagge
ricche di uccelli e le grandi isole popolose del suo affluente, il Tibisco“[79].
Se
questa è la nota più suggestiva e ricca di fascino mitteleuropeo,
nota che accompagna sempre con una sorta di profumo slavo l’evocazione
dell’impero, ben più importante è il significato
politico-religioso che Werfel attribuiva alla compagine absburgica. L’impero gli
appariva un regno fondato «nel segno di un’idea superiore» e lo opponeva
ideologicamente agli “Stati nazionali (che) sono nella loro intima essenza
unità demoniache; come tutto ciò che è demoniaco e
idolatrico, sono suscettibilmente «dinamici», minacciosi e minacciati.”[80]
Per
Werfel, che scriveva in un’Europa già sconvolta dal nazismo,
quell’universalismo medievale e feudale si trasforma in una moderna
civiltà europea, in un armonioso superamento dei contrasti nazionali.
L’impero absburgico chiedeva che il suo suddito “non fosse soltanto un tedesco,
un ruteno, un polacco, ma qualcosa di più, qualcosa al di sopra”;
richiedeva “un vero e proprio sacrificium nationis”, una “rinuncia a una
comoda affermazione di se stessi, rinuncia all’eccitante abbandono agli istinti
del proprio sangue“, per cui l’uomo “si trasforma, da tedesco o ceco che era,
[...] nell’austriaco.”[81]
Per
tornare a Carolus Cergoly, riportiamo in seguito la sua teoria sul carattere
sovranazionale dell’impero absburgico, presente nel romanzo Il complesso
dell’imperatore:
“L’Impero del
mondo di ieri era un impero sovranazionale e tutti avevano il diritto anzi
l’obbligo di esprimersi nella lingua che la madre gli aveva messo in bocca e
poi nella lingua d’uso ch’era la lingua tedesca considerata una specie
d’esperanto una Weltsprache insomma.
L’impero era
un impero sovranazionale ma non internazionale. Perché essere sovranazionale
è cosa ben diversa che essere internazionale.
I due
concetti come diceva il conte Arturo Polzer-Hoditz si escludono a vicenda.
p.
291
Il
sovranazionalismo apprezza e tutela qualsiasi caratteristica individuale e la
vuol conservata e tutelata in tutti i popoli. L’internazionalismo all’opposto
si mette al di sopra delle caratteristiche nazionali e cerca di cancellarle. Il
sovranazionalismo rifugge dalle perequazioni tanto in senso nazionale che in
senso internazionale. Un popolo conserverà intatta la sua lingua e le
caratteristiche se esso avrà per gli altri popoli il rispetto stesso che
esige per sé e se terrà conto dei diritti nazionali altrui nella misura
stessa in cui vuole siano tenuti i suoi propri.
Internazionalismo
è un vertice ingannevolmente uniforme steso sopra una civiltà
uniforme frutto del grande capitalismo internazionale una pseudociviltà
ma è anche al tempo stesso l’uniforme di color grigio di tutto il
proletariato visto con gli occhi di un marxista.
Il
sovranazionalismo è al contrario ricerca di differenziazione di
individualismo nazionale. Dico ricerca perché una vera civiltà
può avere le sue radici solo nel popolo e nelle caratteristiche di
esso.”[82]
In
un’altra opera, intitolata Il pianeta Trieste, Cergoly sottolinea lo
stesso carattere sovranazionale, questa volta con riferimento al porto
adriatico:
“La
città è veramente e genuinamente una città sovranazionale
con forti influssi di civiltà mitteleuropea e italiani, tedeschi, slavi,
greci, turchi, ebrei, inglesi, francesi e americani lavorano per l’interesse
personale e per quello dell’Impero.”[83]
Il
secondo motivo fondamentale del mito absburgico sarebbe quello burocratico,
caratterizzato dal senso dell’ordine e della gerarchia, “perché in questo
Impero tutto era previsto e calcolato e niente era lasciato al caso che gli
scettici chiamano l’uomo d’affari del buon Dio; [...] tutto era prestabilito e
tutto era preordinato”[84].
Basterebbe
farne un solo esempio a questo proposito per far capire le dimensioni e le
implicazioni del fenomeno che riassume l’essenza dell’impero:
“Già
nelle scuole cittadine gli scolari apprendevano con testo approvato con
riverito decreto dell’Eccelso I. R. Ministro del Culto e dell’Istruzione d.d.
Vienna 14 giugno 1897 n. 15459 come si scrivono lettere obbligazioni quietanze
cambiali e telegrammi.
Esempio. Le istanze vanno scritte in carta di
cancelleria. Il foglio viene piegato a metà e a sei centimetri di
distanza dall’orlo superiore si scrive l’intestazione (Inclita I. R. Direzione
di Finanza Eccelsa I. R. Luogoteneza ecc.).
Altri quattro
centimetri più sotto nella metà a destra si comincia lo scritto
con capoverso. Alla fine dell’istanza si scrive a destra il proprio nome e
cognome e a sinistra la data. A sinistra dell’intestazione si mette il bollo di
una corona. Ogni documento allegato all’istanza deve avere un bollo da trenta centesimi
se non ha già il proprio bollo.
p.
292
L’ultima
pagina del foglio serve per il così detto rubro o specchietto dove in
poche parole sotto l’indirizzo si scrive lo scopo dell’istanza e si nota il
numero degli allegati.
Così
tutte le istanze che si scrivevano nell’Impero dovevano essere compilate come
erano stampate e modello in una delle tredici lingue che si parlavano
nell’Impero.”[85]
A
questo tema burocratico è direttamente connesso il mito di Francesco
Giuseppe, così vivo negli scrittori legati al mondo k.u.k. Sommerso
dal tempo e consapevole della fine vicina, chiuso nella sua solitudine come una
vecchia quercia percossa dagli anni e dalle amarezze, l’imperatore sembra
incarnare, per questi rievocatori, l’eroica mediocritas. Secondo Werfel,
egli si era consacrato alla “prammatica del servizio [...] costringendosi
all’impersonalità, all’ordine e alla regola”, s’era opposto
all’esibizionistico individualismo dell’epoca con misurato riserbo, che gli
vietava “di pronunciare, in occasione di un’esposizione d’arte o di una serata
a teatro, un giudizio di carattere personale. Così nacque la frase
spesso schernita nei giornali umoristici: «È stato molto bello. Mi ha
fatto molto piacere».”[86]
Carolus
Cergoly porta nella letteratura triestina la stessa idea guida:
“L’Imperatore
è riservatezza non deve esprimere mai opinioni in pubblico e mai
concedere interviste deve passeggiare solo primo fra tutti coloro che
passeggiano anche con passo elastico.”[87]
In
questo ambito, la parola d’ordine è la misura:
“L’Imperatore
deve avere sempre la misura di tutto e per tutti.
E
l’Imperatore aveva questa misura e tutti ammiravano e cercavano d’imitare
questa misura e tutti lo vedevano e lo consideravano un vero e autentico stupor
del mondo austriaco.”[88]
La
soprammenzionata «prammatica del servizio» diventa modello di burocrazia per
definizione in tutto l’impero:
“Lo stile e
il vivere dell’Imperatore modellò lo stile e il vivere di tutto
l’Impero.
La prammatica
di servizio. Altra stella con i raggi a sei punte brillanti su tutti i cieli
dei ventiquattro paesi dei tredici popoli delle tredici lingue per tacer dei
dialetti e su il velario teatro Habima.
p.
293
La prammatica
del servizio cioè amministrare il modo perfetto e onesto il mio il tuo e
il suo.
La prammatica
del servizio una burocrazia estremamente pratica semplice snella.
Un esempio
ancor valido oggi per tutta l’Europa e dintorni. Lo stile dell’Imperatore era
l’Austria e l’Austria era lo stile dell’Imperatore.”[89]
Si
arriva, di conseguenza, ad una vera trasposizione della mentalità burocratica
sul piano dei costumi e perfino dei sentimenti:
“C’era uno stile nel salire e nello scendere
dal treno dalla carrozza dal tramwai.
Nel salutare
a seconda delle condizioni sociali di chi si salutava.
Nel prendere
congedo dalle persone La prego di ricordarmi alla sua signora mamma e al suo
signor papà.
Grazie non
mancherò e parimenti.
Nei negozi i
commessi e le commesse Cosa la comandi in che posso servirla e dopo comandato e
servito vicendevoli complimenti e ringraziamenti.
Non era
assolutamente fine indicare i prezzi delle merci esposte nelle vetrine.
In quasi
tutti i negozi era ben visibile una tabella in vetro con fondo nero e con le
parole in foglia d’oro PREZZI FISSI.
L’ospite
fumatore in tutte le case di qualunque condizione sociale chiede il permesso di
fumare la sigaretta o il sigaro mai però fuma la pipa.
Il fumo non
le disturba? No grazie anzi mi piace gustare l’aroma del tabacco.
E la
cerimonia si ripeteva tanto alla fine del pranzo che alla fine della cena.”[90]
Alla
dimensione solare di un mondo che si trova nei suoi momenti aurorali e di
«mezzogiorno» sereno, si aggiunge, quindi, l’altro versante dello spirito
mitteleuropeo, che sta sotto il segno del crepuscolo, dell’agonico, del
malaticcio. Tutto ciò irradia dal Centro (reale e simbolico) chiamato
Vienna verso le province imperiali. “Il mito della Vienna paradisiaca è
sempre compromesso da un’altra, una città infernale, sottomessa ad una
triplice maledizione – dell’antisemitismo, della Casa imperiale degenerata e
del kitsch”[91].
L’analisi dei volumi di Jacques Le Rider, Michael Pollak o W. M. Johnston
consacrati alla modernità viennese comprende pagine sostanziali sulle
cause (politiche, sociali, economiche, culturali) che hanno generato la crisi
di massima acuità, ripercossa nel primo decennio del XX secolo su tutto
l’Impero, fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Esso non ha fatto che
mettere in scena, facendole scattare con massima violenza, le energie latenti,
centrifughe, dissolutive. Intuiscono queste cause e le descrivono con una
sensibilità
p. 294
ipertrofica i grandi
scrittori del primo Novecento. Alcune sono cause obiettive, che riguardano un
intero sistema (economico, politico, sociale), annientando perfino l’individuo.
Altre trovano l’origine in una sensibilità individuale sempre più
fragile, più vulnerabile, che vive con intensità esacerbata le
forme della crisi.
Il
deterioramento del modello imperiale (la decrepitezza dell’imperatore stesso,
la degenerazione morale della sua famiglia, colpita da una fragilità
parossistica), l’incapacità del sistema di regolarsi, di rimediare le
proprie carenze e le imperfezioni sempre più acute (generate
sostanzialmente dalla pressione delle tendenze emancipatrici delle nazioni), il
decadimento della rigorosità legislativa, amministrativa e militare,
fatto che portò a ciò che gli scrittori austriaci chiamano Schlamperei
(una perdita sempre più accentuata dell’energia ordinatrice, della
volontà di rigore), l’affondare voluttuoso in un edonismo collettivo
tanto facile quanto inconscio, d’altra parte, la tendenza di rifugiarsi, come
una specie di soluzione compensativa o proprio terapeutica, nella cultura, sia
nelle sue forme minori, di consumo, sia nelle più elitarie
manifestazioni artistiche, tutto ha contribuito, secondo numerosi storici, alla
«devitalizzazione» politica dell’impero austroungarico. Il paragone con la
Germania, realizzato, ad esempio, dallo scrittore austriaco Karl Kraus (ma non
solo da lui), è nettamente a favore di quest’ultima. Lo spirito tedesco
ha più forza e vigore, è più pragmatico, non ha
estetizzato le proprie energie vitali. Da cui deriva, in rapporto all’Austria,
la sua straordinaria espansione, non solo economica, ma anche politica e
culturale.
Lo
stesso Kraus ha la forza visionaria di formulare una grande verità.
Questa parte dell’Europa è stata «il laboratorio in cui si è
sperimentata la fine del mondo». Da qui, un acuto sentimento dell’apocalisse,
vissuto, paradossalmente, nella memorabile espressione di Hermann Broch, come «apocalisse
gioiosa». Secondo una storia del romanzo novecentesco, firmata da Felix
Stoessinger, ci sarebbero ben quattro Apocalissi nella letteratura
contemporanea austriaca: quella a livello mondiale, rappresentata ne Gli
ultimi giorni dell’umanità di Kraus; l’Apocalisse del germanesimo,
ne I sonnambuli di Broch; l’Apocalisse dell’Austria, ne L’uomo senza
qualità di Robert Musil, l’Apocalisse del mondo occidentale, ne La
torre di Hugo von Hofmannsthal.
Un
altro motivo fondamentale del mito che stiamo analizzando riguarda appunto la
cosiddetta «apocalissi absburgica», il finis Austriae, con le cause e le
sue conseguenze. Secondo un anziano impiegato di corte, «rigorosamente
parlando, l’imperatore Francesco Giuseppe regnò fino alla morte di
Johann Strauss». L’ultima fase della civiltà absburgica appare infatti
compresa tra due poli opposti, tra una malinconica consapevolezza del declino,
sopportato con tacita dignità, e
p. 295
una leggerezza
spensierata e operettistica. Due poli che sono le due facce di una stessa medaglia,
due volti dell’ultima illusione mitteleuropea[92].
Le implicazioni della «catastrofe» (die
Katastrophe) sono profonde:
“La corsa
del Tempo tutta color di sangue si ferma nel 1918 e l’ultimo Asburgo il giovane
imperatore Carlo I cerca di salvare il salvabile ma non riesce a salvare niente
anche quello che ragionevolmente poteva salvare. Guai ai vinti, crolla l’antico
mutano i tempi ma qual vita nuova fiorirà tra le rovine?
Le vocali
d’oro A.E.I.O.U. si modificano come d’incanto in “Austria Erit In Orbe Ultima”.
Dalla
catastrofe (die Katastrophe) nascono tanti stati nazionali con forti
minoranze linguistiche mal tollerate e perseguitate o semplicemente ignorate
perché falsamente non esistenti.”[93]
In
contrasto con la catastrofe e l’odio rimane per la posterità l’idea di
amore specifica alla civiltà imperiale. Il tono stesso del testo sembra
animato da “un cuore perdutamente
innamorato d’amore”:
“Dopo la
catastrofe gli uccellini di razza artista volarono per tutto il mondo e il
mondo conobbe finalmente che cosa voleva dire civiltà austriaca o
mitteleuropea, una civiltà da vedere, toccare, gustare con un cuore
perdutamente innamorato d’amore.”[94]
In
tal modo si configura il mondo austroungarico nella memoria e nella
rappresentazione degli scrittori che Claudio Magris chiamava «esuli», dato che
dopo il crollo del 1918 si trovarono senza patria. E il ricordo lasciato dal
vecchio impero è veramente di notevolissima portata, cosicché “ancora il
mondo austriaco o se si vuole il mondo della Mitteleuropa danno fascino
vivo, moderno e pieno di raffinatezze tanto alle persone di una certa
età quanto ai giovani di belle speranze.”[95]
A
questa prospettiva tonica, fiduciosa nell’idea di Mitteleuropa si oppone
un altro punto di vista, segnalato da Daniel Beauvois, in uno studio che ha
suscitato parecchi dibattiti[96].
Non è, ovviamente, il solo. Per lui, lo stesso paradigma può
essere una trappola del passato nel momento in cui viene pensato come progetto
culturale di prospettiva. Non a caso egli cita Alain Minc, col suo disputato
volume
p. 296
del 1989, La
grande illusion. Entrambi riconoscono quanto sia stato importante per gli
intellettuali mitteleuropei affermare una particolare identità, sia in
rapporto all’Occidente, sia all’Est europeo, un’identità costruita in
nome di un passato culturale. Solo che la realtà (la fine degli anni
ottanta) dimostra tutt’altra cosa: “L’Europa è fatta di spazi disgiunti,
e le sue attuali frontiere non hanno alcun significato; il vecchio cerchio
europeo, al quale andava bene il nome di Mitteleuropa, è rotto.
Dietro alla rinascita del mito viennese, cioè di Vienna tra il 1850 e il
1917, commemorato, festeggiato, animato attraverso mostre, colloqui, libri, si
manifesta in realtà la nostalgia per quella Europa culturale: un
territorio sacro, confinato da Monaco, Berlino, Vienna, Praga, Varsavia,
Trieste, Venezia. Questa Europa dello spirito è morta: la Cortina di
Ferro l’ha fatta emiplegica; il destino della Germania le ha tolto qualsiasi
influenza culturale; Vienna è una città di provincia, Belino – un
essere distinto, Praga – una città morta... La riconquista lenta, da
parte dell’Europa Centrale, della sua propria identità, fa intravedere,
certamente, la porta di una rinascita culturale. Non è un caso il fatto che
i segni della Mitteleuropa hanno spesso preso la forma dei pretesti
culturali, commemorazioni, mostre, colloqui... In questo mondo, la cultura
è all’unisono con la deriva strategica del continente: la prima ha solo
da approfittare di quest’ultima, la precede graziosamente e le ritma il
progresso.”[97]
Continuando
l’idea di Minc (emendabile e già emendata), Daniel Beauvois si chiede:
“Ma perché questa rinascita culturale dovrebbe limitarsi a auto-celebrare
un’identità? «La rinascita» non dovrebbe piuttosto significare rigetto
radicale della chiusura imposta più di cinquant’anni, ed un’apertura
verso una concezione tutta nuova dell’Europa?[98]
In
nome dello stesso spirito critico (o «acutamente critico»), che rifiuta di
idealizzare il passato e di immaginare, su questa base, un possibile modello
culturale, ci sarebbe da rivalutare la stessa relazione tra culturale e
politico, tra «il criterio culturale e l’esigenza politica», per utilizzare
proprio il titolo di uno dei capitoli del testo citato. “È illusorio
credere che potremmo accontentarci di un legame comunitario lasso, di tipo
culturale, costruito più che altro sui rapporti interpersonali che non
sulle istituzioni politiche. Un’Europa Centrale e dell’Est ispirata da questi
principi non è che un bel sogno del passato, in quanto chi potrebbe
esserne interessato? [...] Questo archetipo di un’Europa della cultura,
seducente a livello estetico, ha l’origine nell’Europa francese dei Lumi, ma
dubito che i risultati straordinari che essa ha avuto – e penso, ad esempio,
all’eccezionale
p. 297
mostra Vienna
1900 – possano portare ad un modello sociale per la nostra epoca. La
formazione di alcune scuole artistiche o intellettuali, che ha focalizzato ad
un certo punto l’attenzione su Praga, Budapest, Vienna, Cracovia o Berlino, ha
sempre avuto ragioni congiunturali e non ha mai coinvolto la totalità,
in senso geografico, dell’Europa centrale.”[99]
Il
punto di vista di Daniel Beauvois, lontano dall’essere singolare, deve essere
attentamente esaminato. Esso sostiene esplicitamente l’idea di una «sola
Europa». Il paradigma «Mitteleuropa» gli sembra passatistico, inoperante
teoricamente e inefficace, sul piano pratico, «per i nostri tempi». Se dal
punto di vista politico, economico, sociale, civilizzatore, il suo progetto
globalizzante, integratore, si potrebbe convalidare, dal punto di vista
culturale sembra rischioso. La cultura europea – anche nelle epoche che hanno
affermato programmaticamente un ideale universalista ed unificatore di
umanità (ad esempio, il Rinascimento e i Lumi) – ha provato una delle
sue vocazioni fondamentali: la diversità, la pluralità, la
molteplicità. Un’Europa monolitica dal punto di vista culturale,
uniforme ed uniformante, monotona e, di conseguenza, scialba, verrebbe ad
annullare la sua propria identità. Un’occidentalizzazione culturale
senza sfumature, senza diversità, senza specificità zonali,
potrebbe perfino annullare l’idea stessa di cultura europea.
Non
ancora del tutto esaurito, l’argomento conserva intatto l’interesse dei
ricercatori e il discorso sull’idea di Mitteleuropa e di cultura
mitteleuropea rimane sempre attuale, data l’evoluzione dei paesi che
appartengono a questo spazio, con le mutazioni storiche, economiche, sociali,
nonché il ridimensionamento a livello mondiale dello stesso concetto di cultura.
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Quaderni 2002
[1] Guy Scarpetta, Eloge du
cosmopolitisme, Parigi : Grasset & Fasquelle, 1981 : 17.
[2] Fulvio Tomizza, Destino
di frontiera. Dialogo con Riccardo Ferrante, Genova: Marietti, 1992:
49.
[3] Ibidem: 133.
[4] Enzo Bettiza, Mito e
realtà di Trieste, Milano: All’Insegna del Pesce d’Oro, 1966: 50.
[5] Fabio Cusin, Appunti alla
storia di Trieste (con saggio introduttivo di Giulio Cervani), Udine: Del Bianco, 1983: 87.
[6] Ibidem: 109.
[7] Ibidem: 193.
[8] Alberto Spaini, Autoritratto
triestino, Milano: Giordano, 1963: 33.
[9] Angelo Ara e Claudio Magris, Trieste. Un'identità
di frontiera, Torino: Einaudi, 1987: 20-21.
[10] Ibidem: 22.
[11] Spaini, op.
cit.: 31.
[12] Ibidem:
32.
[13] Tomizza, Alle
spalle di Trieste (Scritti 1969-1994), Milano: Bompiani, 1995: 36.
[14] Ibidem:
37.
[15] Cusin, op. cit.: 60.
[16] Cfr. Sorin Alexandrescu,
“Europele provinciale”, in Secolul XX, n. 10-12/1999, 1-3/2000: 37.
[17] Ara e Magris, op. cit.: 202.
[18] Tomizza, Destino
di frontiera, cit.: 44.
[19] Ara e Magris, op. cit.: 202.
[20] Apud Tomizza, op. cit.:
44.
[21] Czeslaw Milosz,
„Atitudini central-europene” nel vol. Europa Centralã. Nevroze, dileme,
utopii (vol. coordinato da Adriana Babeþi
e Cornel Ungureanu), Iaºi:
Polirom, 1997: 257-258.
[22] Cornel Ungureanu, Timpul
îndreaptã erorile..., intervista realizzata da Vasile Sãlãjan, nella
rivista Tribuna, Sibiu, 15.09.1977.
[23] Bruno Maier, Scrittori
triestini del Novecento, Trieste: LINT, 1991, Prefazione alla seconda
edizione: V-VI.
[24] Ferdinando Pasini, Mondo
letterario giuliano del dopoguerra, nell’antologia Scrittori giuliani
(a cura di Donatello D’Orazio e
di Guido Sambo), Trieste:
Triestina Moscheni & C, 1935: 24-25.
[25] Ara e Magris, op. cit.: 73.
[26] Nel “Corriere della Sera” del 16 aprile 1933.
[27] Ungureanu, Mitteleuropa
Periferiilor, Iaºi: Polirom, 2002:
12.
[28] Elias Canetti, La lingua
salvata. Storia di una giovinezza (traduz. it. di Amina Pandolfi e Renata Colorni), Milano: Adelphi, 2001: 43.
[29] Joseph Roth, La cripta
dei Cappuccini (traduz. it. di Laura Terreni), Milano: Adelphi, 1979: 23.
[30] Carolus Cergoly, Il
complesso dell’Imperatore (Collages
di fantasie e memorie di un mitteleuropeo),
Milano: Mondadori, 1979: 193.
[31] Jacques Le Rider, Mitteleuropa.
Storia di un mito
(traduzione italiana di Maria Cristina Marinelli), Bologna: Il Mulino, 1995: 95 [Edizione originale: La Mitteleuropa,
Parigi: Presses Universitaires de France, 1994; versione romena: Mitteleuropa
(trad. di Anca Opric, prefazione
di Andrei Corbea), Iaºi: Polirom,
1997].
[32] Ferruccio Fölkel, “Giallo e
nero era il mio impero”, in F. Fölkel,
C. L. Cergoly, Trieste
provincia imperiale – splendore e tramonto del porto degli Asburgo, Milano:
Bompiani, 1983: 30.
[33] Cergoly, “Il
pianeta Trieste”, in Fölkel,
Cergoly, op. cit.: 268.
[34] Apud Fölkel, Cergoly, op. cit.: 286.
[35] Cergoly, Il
complesso dell’imperatore, cit.: 19.
[36] Idem, Il
pianeta Trieste, cit.: 280.
[37] Ara e Magris, op. cit.: 199.
[38] Magris, Danubius
(traducere, note, capitol post-ultim de Adrian Niculescu), Bucarest: Univers, 1994: 425.
[39] Cergoly, Il pianeta Trieste, cit.: 285.
[40] Fölkel, Giallo
e nero era il mio impero, cit.: 9.
[41] Tomizza, Alle
spalle di Trieste, cit.: 18.
[42] Ibidem: 19.
[43] Giorgio Voghera, Gli anni
della psicanalisi, Gorizia: Goriziana, 1980: 111.
[44] Bettiza, Mito
e realtà di Trieste, cit.: 50-51.
[45] Ara e Magris, Trieste. Un’identità
di frontiera cit., p. 45.
[46] L. Premuda, “La formazione
intellettuale e scientifica di Constantin von Economo”, Rassegna di Studi
Psichiatrici 6 (1977): 1327.
[47] Cergoly, Il pianeta Trieste, cit.: 288.
[48] Idem, Il complesso dell’imperatore, cit.: 18, 19, 82 e 139.
[49] A. Agnelli, La genesi
dell’idea di Mitteleuropa, Milano: Dott. A. Giuffrè, 1971: 124.
[50] Lorenz von Stein, Oesterreich
und der Frieden, Vienna, 1856: 47.
[51] Ibidem.
[52] Ibidem: 48.
[53] Aggiungiamo qui la giusta osservazione di Agnelli che « mentre la prima negazione steiniana appare ben
fondata, altrettanto non si può dire della seconda », in La genesi
dell’idea di Mitteleuropa, cit.: 249.
[54] von Stein, Oesterreich,
cit.: 53.
[55] Ibidem: 54.
[56] Agnelli, La
genesi dell’idea di Mitteleuropa, cit.: 250.
[57] von Stein, Oesterreich,
cit.: 54.
[58] Ibidem: 52.
[59] Ibidem.
[60] Bettiza, Mito
e realtà di Trieste, cit.: 43.
[61] Jacques Le Rider, Mitteleuropa,
cit.: 58.
[62] Magris, Il
mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, cit.: 27.
[63] Ibidem.
[64] Ibidem:
28.
[65] Ibidem.
[66] Ibidem:
15.
[67] Ibidem.
[68] Cergoly, Il
complesso dell’imperatore, cit.: 194.
[69] R. Musil, L’uomo senza
qualità (trad. it. di A. Rho), vol. I, Torino, 1957: 36.
[70] Cergoly, Il
pianeta Trieste, cit.: 229.
[71] Magris, Il
mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, cit.: 255.
[72] Scipio Slataper, Il mio
Carso, cit.: 104.
[73] Umberto Saba, Personaggi
regali, in Prose, cit.: 199.
[74] Idem, Inferno
e paradiso di Trieste, in Prose, cit.: 817.
[75] Ibidem: 822.
[76] Magris, Il
mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, cit.: 17.
[77] Cergoly, Il
complesso dell’imperatore, cit., 148.
[78] Titolo di una raccolta lirica di F. Werfel del 1911.
[79] F. Werfel, Aus der
Dämmerung einer Welt, 1936 (trad. it. di C. Baseggio), Milano, 1950: 13 e 16.
[80] Ibidem.
[81] Ibidem:
19-20.
[82] Cergoly, Il
complesso dell’imperatore, cit.: 189.
[83] Idem, Il
pianeta Trieste, cit.: 283.
[84] Idem, Il
complesso dell’imperatore, cit.: 188 e 194.
[85] Ibidem: 188.
[86] Werfel, op. cit.: 24-25.
[87] Cergoly, Il
complesso dell’imperatore, cit.: 190.
[88] Ibidem.
[89] Ibidem:
191.
[90] Ibidem.
[91] Ungureanu,
“Europa Centralã ºi Europa periferiilor”, postfazione al vol. Europa
Centralã. Nevroze, dileme, utopii, cit.: 414.
[92] Magris, Il
mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, cit.: 185.
[93] Cergoly, Il
pianeta Trieste, cit.: 267.
[94] Ibidem: 265.
[95] Ibidem:
266.
[96] Daniel Beauvois, L’Europe
du milieu, Presses Universitaires de Nancy, actes du colloque organisé par
le Groupe de recherche sur l’Europe Centrale de l’Université de Nancy II, sept.
1989.
[97] Beauvois, “Sã nu ne înºelãm asupra paradigmei”, nel vol. Europa Centralã. Nevroze, dileme, utopii, cit.:
90.
[98] Ibidem.
[99] Ibidem:
94-95.