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Rapporto «centro»  versus «provincia»

nello spazio mitteleuropeo.

Il «caso Trieste»

 

Afrodita Carmen Cionchin,

Università di Timiºoara,

Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica,

Venezia

 

La presente trattazione fa parte di un lavoro più ampio intitolato Trieste e triestinità in prospettiva mitteleuropea, il quale, cominciando col determinare lo spazio triestino come topos geopolitico, modello culturale e matrice mentale ed affettiva, viene ad analizzare la specificità dello stile letterario in tale zona di contatto etnico, i fenomeni d’incontro, di collaborazione e scontro della creatività secondo il rapporto fra centro e provincia, per evidenziare sia la paradossale posizione centrale di questa terra di confine nell’ambito della cultura italiana, sia l’appartenenza alla civiltà mitteleuropea.

La prima sezione della ricerca parte dall’idea che lo spazio in questione offre condizioni ideali per lo studio dei fenomeni di interferenza culturale e di ricostruzione dell’identità, individuale e collettiva, dato l’assetto multietnico, le pressioni che il passato ha esercitato nella sua configurazione, facendolo cambiare periodicamente, nonché il particolare inserimento, determinato geograficamente e storicamente, in una problematica specifica dei rapporti fra centro e provincia.  

Per avviare tale discorso faremo appunto riferimento ai due concetti soprammenzionati, ricchi di significato – «centro» e «provincia» – che furono messi in relazione grosso modo negli anni del dominio napoleonico e della Restaurazione, quando vennero effettivamente poste le basi per un superamento dell’«ancien régime», oppure, con la terminologia italiana, dell’antica Italia statale-regionale. In questo modello, il centro appare essenziale per sottrarsi all’arretratezza provinciale e per entrare in un circuito culturale di ampio respiro, nazionale ed europeo, mentre la periferia, la regione, la città chiusa dentro le mura, il borgo, sono il limite, la prigione, l’orizzonte limitato.

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La contemporaneità, invece, rimette in discussione i concetti, rilevandone la dinamica fluttuante, in una prospettiva flessibile e aperta, in conformità alla quale i margini diventano tanto interessanti e consistenti quanto i centri. Cosicché il modello «centro versus provincia» presenta dei risvolti particolari, ogni città è un punto centrale rispetto alla regione che la circonda, ovvero la centralità varia a seconda dell’epoca storica. Il binomio originario non si dimostra più funzionale, «centro» e «provincia» possono essere dappertutto. C’è in quest’accezione una tendenza a difendere le aree marginali contro il centro e contro qualsiasi modello standard. “Ho lottato contro i «centralismi» politici e culturali – affermava Guy Scarpetta; di qui sono usciti i moti difensivi delle minoranze, dei marginali, delle comunità uniformate o sfruttate”[1]

In questo ambito, la provincia stenta a definirsi in termini positivi; diventa più facile esprimere ciò che non è: non si trova in relazione ad un centro solo, non si mostra, dunque, provincia sempre dello stesso centro. Ad un simile modo di interpretazione si potrebbe richiamare la seguente affermazione di Fulvio Tomizza sulla sua terra nativa – Materada: “Io appartenevo a questo paese mistilingue, trascurato, forse un po’ deriso dai centri (in questo caso il centro più vicino era Umago)”[2]. Ciò in confronto a Trieste: “Era motivo di vergogna se uno di Materada non è mai stato a Trieste. Non si trattava di una lacuna ma di una grossa sottrazione per quell’individuo”[3]. Sottrazione, quindi, anche in termini d’identità.

Una specie di dialettica altrettanto avvertibile viene a caratterizzare la vera funzione di Trieste, in quanto “città cresciuta in modo bivalente e dialettico”[4]. I due concetti dei quali stiamo trattando determinarono, infatti, lo svolgimento storico della città sotto il segno dell’ambivalenza. È così che, all’inizio castelliere, la troviamo poi come colonia romana (probabilmente una delle più antiche, col nome di Tergeste, Tergesteum o Tergestum), non soltanto nel senso proprio della parola, secondo l’organizzazione politica romana, ma colonia quale «centro di vita sociale e politica», dedotto e ricostruito in base alle caratteristiche proprie di un altro centro, da cui trae, se non sempre le origini materiali, lo spirito vivificatore; non centro a sé, ma uniformantesi al tipo e all’aspetto, alle leggi, ai costumi infine di un nucleo, a cui si sente legato da eventi, che prima o poi permisero lo sviluppo di una tradizione di reverenza[5].

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L’aspetto di colonia si manterrà, rendendosi più evidente, nel periodo successivo, l’età bizantina, quando a Roma si sostituisce, nell’Istria, Venezia, rappresentante della nuova nazione italiana. D’altro canto, come «numerus» militare bizantino, la città adriatica sembrò per la prima volta assolvere una funzione che si potrebbe chiamare di mediazione fra Occidente e Oriente.

Il Medioevo apre, nel secolo XIII, coll’assurgere a comune indipendente, una nuova epoca della sua evoluzione. Il secolo successivo trova il comune triestino compiutamente costituito, del tutto indipendente nel regime interno e tributario di Venezia e Aquileia nei rapporti internazionali. Si deve inoltre notare che lo spirito politico cittadino permise di conservare, nella tradizione autonomista, il carattere inalterato di colonia latina e italiana. Lo storico Fabio Cusin considerava appunto che “la coscienza del diritto all’esistenza pone la piccola città sull’eguale piede delle più potenti vicine e sorge quel vivo senso della patria, limitata alla breve cerchia delle mura”[6].

Nell’ambito dell’Impero absburgico, il Settecento segnò la storia moderna di Trieste, con la proclamazione del «portofranco» il 18 marzo 1719. In seguito all’istituzione del portofranco, sotto Carlo VI, la città cambiò statuto ed assurse al principale sbocco al mare dell’Impero e ad emporio cosmopolitico. Ciò significa che “non doveva più essere un piccolo centro di pescatori e marinai, condotti da qualche mercante o impresario di aziende a partecipazione, il cui commercio servisse sia a smerciare i prodotti della campagna sia a portare dalle coste occidentali dell’Adriatico il sostentamento necessario per sé e per un piccolo retroterra. Doveva elevarsi a centro, dove si sarebbe radunato tutto il traffico dell’Adriatico, una specie di mercato permanente, dove, per la quantità delle merci poste a disposizione e per la forte concorrenza, tutti gli abitanti dell’interno avrebbero trovato da rifornirsi a buon mercato, arricchendo d’altra parte un largo ceto di mercanti e mediatori”[7].

Un ulteriore incremento allo sviluppo commerciale viene dall’Imperatrice Maria Teresa, figlia di Carlo VI, che, continuando la politica di sostegno della città e del suo porto, fa della nuova Trieste una palestra per gli architetti e gli urbanisti dell’Impero. Nuovi borghi s’innestano intorno al nucleo originario arroccato sul Colle di San Giusto. La città, che all’inizio del Settecento contava poche decine di migliaia d’abitanti, a seguito di questo disegno politico-economico attira sempre più traffici, lavoro, imprenditori da ogni parte dell’area mediterranea e del centro-est europei: alla fine dell’Ottocento gli abitanti sono duecentomila. Mutano così, in relazione a questo nuovo ruolo economico assunto dalla città, la natura stessa e il

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volto secolare di Trieste. Come notò Alberto Spaini, “Trieste non si sarebbe mai sognata di voler rappresentare un centro di cultura internazionale ma, senza volerlo essere programmaticamente, lo era di fatto”[8].

L’arrivo di sempre più cittadini di nazioni diverse fa sì che accanto al vecchio borgo sorge la città nuova. Il comune latino, che aveva conservato il suo carattere originario attraverso secoli di stasi, si scioglie così anche amministrativamente nella città più grande, che ingloba accanto ai vecchi abitanti i nuovi insediamenti, inserendosi nelle correnti più vivaci del tempo, nello stesso frangente in cui perde la caratteristica originaria di autonoma individualità politica. Il nuovo volto storico ed etnico della città viene a essere un fenomeno coincidente con il manifestarsi di un differente legame con il territorio che la circonda e con tutta la monarchia absburgica. E la conseguenza di tale fenomeno è che nasce, con l’arrivo di gente straniera, accorsa a Trieste in cerca di lavoro e di fortuna, la realtà e insieme il mito della città cosmopolita[9].

Le popolazioni immigrate dagli altri paesi, per conservare e usare la propria lingua d’origine, le proprie tradizioni culturali e i propri credo religiosi si riuniscono in comunità. Contemporaneamente sorgono numerose chiese dedicate ai vari culti, che fanno di Trieste un esempio di felice convivenza religiosa.

Accanto, però, a questa configurazione etnica più composita rispetto a quella che l’aveva contraddistinta per secoli, la città adriatica è esposta, come tutto l’impero – e in particolare il suo corpo centrale, i domini ereditari – a una pressione che mira a rafforzare le posizioni tedesche. Con la dovuta menzione che non si tratta di un’azione germanizzatrice e snazionalizzatrice, ma di un tentativo di utilizzare le potenzialità unificatrici del germanesimo, inteso non come fattore nazionale, ma come forza statale[10].

Un breve iato nell’ascesa della città è rappresentato dalle tre occupazioni napoleoniche (1797, 1805-1807, 1809-1813), ma la regione, rioccupata dall’impero austriaco, vide l’aggiunta delle provincie ex venete e Trieste ne diviene la capitale morale.

Una koiné linguistica di indubbia ascendenza italica accomuna gli abitanti antichi e nuovi e determina l’affermarsi dell’irredentismo triestino, in quanto il movimento risorgimentale, la nascita del regno d’Italia non potevano rimanere senza echi neppure nell’appartata e periferica italianità triestina. Suggestivo è, in questo senso, il commento di Alberto Spaini:

 

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“C’è un’apparente contraddizione in quello che andiamo dicendo: come mai questi immigrati, di così diversa origine, che avevano il mezzo ed innegabilmente anche la volontà di conservare i loro caratteri nazionali (visto che organizzavano con forti spese scuole e istituti di cultura) – diventavano poi italiani? Com’è che tedeschi e slavi, inglesi e greci, parlavano tutti triestino? Fenomeno che a Trieste si è ripetuto per quasi due secoli. I più lesti a diventar triestini erano forse i tedeschi, che pure arrivavano a Trieste coll’orgoglio della nazione guida, ed avevano tutto un apparato di scuole statali di primo ordine (gli italiani le scuole dovevano mantenersele colle risorse del Comune). Per di più i tedeschi avevano istituti di cultura attrezzatissimi, sorti col preciso scopo, prima di tutto politico, di essere una solenne affermazione di germanismo – eppure sono pochi i tedeschi ripartiti da Trieste sottraendosi al fascino della città.”[11]

 

A questo punto interviene l’affermazione che potrebbe aprire il discorso sull’irredentismo triestino: “I soli che hanno resistito a questo fascino sono gli slavi; anzi gli sloveni, i vicini immediati”[12]. In tale particolare situazione, la coscienza nazionale si sviluppa forse soprattutto per contrasto, di fronte a quella che la popolazione italiana avverte come la “minaccia” slovena.

Vale lo stesso sottolineare, con riferimento ai concetti in questione, che Trieste acquista per gli sloveni un significato centrale e simbolico nella fase della propria riscossa nazionale e sociale, non solo per il suo prestigio e il suo fascino di città ricca e moderna, ma anche perché, considerando sia la città sia gli immediati dintorni, essa è la maggiore città slovena, ha cioè una popolazione slovena che nel censimento del 1910 sarà superiore a quella di Lubiana. Trieste è ritenuta il centro di una regione prevalentemente slovena, isola cittadina italiana sperduta in una campagna slovena. La città adriatica assume quindi per gli sloveni il significato di capitale morale e naturale della Slovenia, di simbolo della sua riscossa nazionale, di meta a cui tendere.   

Quanto al rapporto Trieste-Austria multinazionale, esso si sviluppa continuamente fino al 1918, quando la dissoluzione dell’Impero absburgico, che ne segnò il distacco da un mondo al quale aveva appartenuto per secoli, trasforma in maniera radicale e irreversibile la posizione e il ruolo storico della città adriatica. Si rompe il legame politico con lo hinterland danubiano-balcanico, quel vincolo che aveva dato a Trieste prosperità e grandezza, che aveva determinato la sua dimensione europea. 

Nello sviluppo storico che stiamo descrivendo, l’incrociarsi di etnie e le appartenenze geopolitiche fluttuanti si sono mostrate come una chance della diversità culturale ma, in uguale misura, anche quale fonte di emergenze

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nazionalistiche. Di seguito, alla fine della prima guerra mondiale, nell’ambito della polemica italo-jugoslava e del contrasto italo-slavo nella regione Venezia Giulia, di cui centro è Trieste, la città diventa però un centro periferico, situato all’estremo confine orientale d’Italia, si trasforma in una città di provincia italiana: inizia quella frattura, psicologica e reale nello stesso tempo, fra l’aspirazione di grandezza, che è anche un richiamo a un passato scomparso e irripetibile, e la realtà di un presente più prosaico e più angusto. Trieste diventa così una «marca di frontiera» e tale concetto, data la sua complessità, si presta ad un’analisi distinta..

Dobbiamo però far risaltare che, rispetto all’Istria, Trieste rimane una vera e propria «capitale morale», come risulta dagli scritti di Tomizza: «La successiva perdita dell’Istria, culminata con l’esodo di due terzi dei miei conterranei riversatisi in primo luogo nella loro capitale morale, rinfocolava tra le due etnie un rancore che tuttora stenta a placarsi»[13].

Nel rapporto con la confinante Jugoslavia, Trieste appare come «capoluogo commerciale» e «oasi di pacifico ritrovo» di tutti i cittadini del paese: “Più temeva di venir fagocitata dalla confinante Jugoslavia e più diventava capoluogo commerciale e oasi di pacifico ritrovo di sloveni, croati, serbi, bosniaci, macedoni e montenegrini, notoriamente in cattivo rapporto dentro il loro territorio.”[14]

Per tornare al punto di partenza, vogliamo sottolineare che allo stesso rapporto centro-provincia si richiama ciò che venne definito come «particolarismo triestino». Ricordiamo il già citato Cusin, il quale faceva riferimento alla reale caratteristica della storia triestina, di aver avuto cioè la città una speciale tendenza a rimanere separata dai grandi centri di pensiero e di vita politica. Un assieme di cause geografiche e storiche concorsero a distaccare questo piccolo centro e ad isolarlo in modo da renderlo alieno da forti influenze, che ne determinassero una caratteristica particolare, mentre la povertà della vita locale non ne permise uno sviluppo autonomo. L’analisi prosegue segnalandone la presenza di alcune « stonature » di fronte allo sviluppo delle terre vicine, degli sforzi di adattamento per vivere in unisono con esse e spesso dei movimenti strani, che manifestano come un’incomprensione dei tempi, delle forze spirituali e più ancora delle tendenze generali proprie delle diverse epoche[15] (incomprensione, che del resto si riscontra sempre nelle posizioni periferiche, rispetto ai centri di irradiazione del pensiero nuovo).

Nel passare dal piano storico a quello culturale, in una prospettiva sempre attuale, prenderemo in considerazione il rapporto spazio–tempo all’interno di

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quello in discussione. Si nota che se la provincia vive un tempo medio o lungo rispetto al centro sottomesso, invece, al tempo breve, evenemenziale, essa conosce però «la jouissance de la culture», la sua elaborazione privata – la provincia è strapiena di eruditi, che non si incontrano nell’agitazione delle grandi metropoli – ed anche la sua integrazione in forme comunitarie difficili da immaginare al centro di tutti gli individualismi, oppure il suo « immettere » in uno stile di vita personale, vetusto forse, ma che arricchisce il quotidiano con norme e atteggiamenti considerati «desueti»[16] – e, quindi, ignorati dal centro.

Nel mondo contemporaneo, l’intelligenza, nei grandi centri, rischia di perire, soffocata dall’ansioso incalzare dell’industria culturale, che stritola l’individuo condannandolo al ritmo di una prestazione intellettuale senza posa, che gl’impedisce di rinnovarsi e finirà per condurlo all’analfabetismo. La periferia e la provincia potrebbero offrire all’individuo le condizioni per la sua sopravvivenza spirituale, se egli sapesse godere la vita e la pausa per trasformarsi e rinascere anziché sentirle, come spesso avviene, quale esclusione ed inferiorità, che lo inducono a mimare quella frenesia con un’attività altrettanto frenetica e ancor più alienante, perché rivolta a problemi minori[17]. Di conseguenza, l’integrazione della cultura nella vita può essere più profonda in provincia che al centro.

È questo forse uno dei motivi per i quali Trieste si dimostra una «città di scrittori», oppure, in un’altra espressione memorabile, “Trieste: più scrittori che abitanti”[18]. Si può, infatti, rilevare che ancor oggi, rispetto al numero dei suoi abitanti ed al modesto livello delle sue istituzioni letterarie, Trieste produce un numero proporzionalmente alto di notevoli scrittori e soprattutto una discreta qualità di vita privata e di cultura individuale[19]. Come aveva scritto Claudio Magris: “Crescere a Trieste significava – e significa ancora – accorgersi di vivere in una città di carta, coperta dalla letteratura come l’impero, in una parabola di Borges, è coperto dalla sua mappa disegnata dai cartografi”[20].

Il rapporto spazio-tempo si dimostra essenziale non solo in relazione a quello tra centro e provincia, ma anche all’interno del fenomeno letterario, aspetto messo in evidenza da Czeslaw Milosz, il quale sosteneva che la caratteristica più evidente della letteratura mitteleuropea è rappresentata dalla «coscienza della storia» – sia come passato, sia come presente. Essa sembra dettare la trattazione di

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tutta una serie di argomenti, non necessariamente storici, che possono essere osservati con la stessa facilità in un romanzo oppure in una poesia d’amore. L’io narrante ed i personaggi che compaiono nelle opere degli autori mitteleuropei vivono in un tempo modulato diversamente rispetto ai loro omologhi occidentali. Gli eventi politici del decennio in cui vivono i personaggi, quelli degli anni in cui questi autori si sono formati e dei quali portano le tracce, e perfino quelli della vita dei loro genitori, sono sempre presenti sullo sfondo, conferendo a tali opere una dimensione raramente riscontrabile nella letteratura occidentale. Lì, in Occidente, il tempo è neutro, incolore, imponderabile – corre senza alcun zigzag, senza curve inattese e senza cascate. Nell’Europa Centrale invece, il tempo è intenso, spasmodico, pieno di sorprese, è un partecipe attivo alla storia. E questo perché il tempo è sempre associato ad un pericolo che minaccia l’identità della comunità nazionale della quale fa parte lo scrittore[21]. Una storia triste e piena di drammaticità, come accade anche nel caso di Trieste. 

Relativamente alla «cultura di provincia», essa non è, per definizione, inferiore a quella del centro, ma un altro tipo di cultura, in quanto vissuta in modo diverso nella provincia rispetto al centro. Le culture di provincia, contrariamente a quelle del centro, sono molteplici in Europa e l’irradiazione alla quale furono esposte ha a che fare con il flusso storico dei centri di potere politico e culturale. Cosicché le onde viennesi sono arrivate a Trieste, Udine, in Slovenia oppure in Banato e Transilvania. Perciò, le culture provinciali sono sostanzialmente culture d’interferenza, ovvero culture plurali.

In via di esempio citiamo uno dei maggiori scrittori contemporanei del Banato, Cornel Ungureanu, il quale espresse in maniera plastica tali idee:

 

“Vivere a Timiºoara significa essere assieme agli scrittori che qui devono creare una buona letteratura. Prima di appartenere ad una generazione, appartengo ad una provincia letteraria. E lo dico senza orgoglio, ma anche senza umilianza, quasi stupito di dover rispondere a tale domanda. Prima di appartenere ad una generazione letteraria, appartengo ad una generazione di feuilleton”-isti ai quali fu affidato il feuilleton quando loro, ancora giovani, erano in grado di dimostrarsi maturi, sapevano diventare vecchi, potevano sopportare... Vivo in una città che, cinquecento anni fa, era la capitale di un regno: permettetemi di dirlo: la capitale di un impero. [...] Certamente, sono un provinciale come tanti altri, un abitante della provincia, che conserva intatte tutte le adorazioni e tutte le sue idiosincrasie, così come non sarò mai nient’altro che uno scrittore della provincia. Di questa città che è da lontano la più bella della Romania. Mi siano concessi questi piccoli eccessi, ma se qualcuno tentasse, con domande alquanto imprudenti, alla mia esistenza privata, gli

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direi: signore, questa città è stata la capitale di un impero! E i vecchi “timiºoreni” sono stati, ai loro tempi, centinaia d’anni fa, al centro dell’Europa, luogo d’incontro per i destini del mondo. Siccome io, il provinciale, ne vivo un’altra superstizione, quella dell’albero genealogico, mi dico – ogni volta che devo scrivere Provincia: il mondo comincia da qui, signore, non c’è verso.”[22]

 

Con riferimento alla cultura triestina, il critico Bruno Maier rivela la sua peculiarità nell’ambito della tradizione nazionale italiana: “La cultura triestina era nata periferica e tale seguitava a essere; ma proprio perciò aveva saputo conservare dei caratteri autonomi e autoctoni, che costituivano il fondamento della sua originalità e della sua importanza.”[23]

        Come «letteratura regionale», la giuliana (cioè triestina) «ha due facce»: “una segna l’impronta italiana della coltura regionale, italiana e per nient’affatto differente da quella delle altre regioni” e “l’altra segna una modernità, una spregiudicatezza, una larghezza d’orizzonti che è più propriamente nostra e che interpreta l’anima di una popolazione, la quale, per essere ai margini della nazione, riesce meglio a salvarsi dall’angustia mentale del provincialismo e dalla stasi del conservatorismo accademico.”[24]

Lo stesso carattere ambivalente della letteratura triestina compare in Ara e Magris: “al pari di Dublino, Trieste diviene una capitale della poesia grazie alla sua povertà di tradizioni culturali ottocentesche; periferica rispetto ai grandi filoni della civiltà ottocentesca, ad esempio l’idealismo, diviene una punta avanzata della cultura analitica che nasce dalla crisi di quella civiltà unitaria.”[25]

In questo modo, come scriveva Giulio Caprin nel 1933, “il genius loci nelle province lungo il confine nuovo promette le virtù particolari che gli vengono dall’essere sul confine: costretto più che altrove a sorvegliarsi, ma anche più pronto a spaziare oltre le angustie provinciali.”[26]

Da quanto esaminato risulta indubbiamente che il contesto storico che ha fatto esaltare la città nell’ipostasi di «centro» non è altro che quello asburgico, nell’arco di tempo e significati teso tra i suoi poli metaforici – il paradiso e l’apocalisse. Il centro in assoluto dell’Impero era senz’altro Vienna, ma c’è da

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notare che il suo spirito si è propagato anche verso i margini, moltiplicandosi, amplificandosi. Le provincie imperiali esistite fino alla prima guerra mondiale sembrano rivivere i ritmi della metropoli-madre. In un frammento di una vasta ricerca consacrata alle provincie imperiali, il critico letterario Cornel Ungureanu, specialista nello studio comparato delle culture centroeuropee, afferma appunto che la lezione di Vienna stimola le lezioni sull’Impero, il quale viveva essenzialmente attraverso i suoi margini. Non si può capire niente della «struttura imperiale» senza studiare i margini[27].

Dato che intendiamo l’ambito mitteleuropeo, riportiamo a questo proposito un frammento autobiografico di Elias Canetti: “Sull’influsso che l’Austria esercitava su di noi, già fin da quei tempi lontani di Rustschuk, ci sarebbero molte cose da raccontare. Non soltanto entrambi i miei genitori erano andati a scuola a Vienna, non soltanto fra loro parlavano tedesco: mio padre leggeva ogni giorno la Neue Freie Presse ed era sempre un momento solenne quando spiegava lentamente il giornale”[28].

Joseph Roth, con il suo straordinario spirito di osservazione, notava che gli unici che credono ancora nell’Imperatore sono le nazioni dei «margini», che solo i ruteni, gli ebrei, gli sloveni, gli slovacchi cantano ancora l’inno nazionale austriaco, Gott erhalte. I viennesi però, cantano senza vergogna Wacht am Rhein, l’inno tedesco. “L’anima dell’Austria non è il centro, ma la periferia. La sostanza dell’Austria viene nutrita e incessantemente rigenerata dai territori della Corona.”[29]

Quelli che credevano nell’Imperatore come nel rappresentante di Dio sulla terra, quelli che vivevano la religione dell’Impero erano i «marginali», le popolazioni delle zone arcaiche, e perciò più conservatrici. Presentiamo in merito, con i mezzi specifici della letteratura, un quadro suggestivo di Carolus Cergoly:

 

“A proposito di Trieste la città gentilissima e mercantile e immediata all’Impero era bello veder camminare per le strade e per le vie della città tanti e tanti sosia dell’Imperatore tanti Franceschigiuseppi. Quando dai portoni della Posta Centrale uscivano i portalettere sembrava l’uscita dalla Hofburg di tanti Imperatori tutti naturalmente dal passo elastico. I portalettere nelle loro irreprensibili monture cercavano di rassomigliare al sublime collega dalle braghe rosse e dal Toson d’Oro. La gran bella e forte borsa di cuoio con nella tracolla ben fisse due matite copiative con relativi copripunta e sulla patuella ben fermata con borchie d’ottone lucido l’aquila imperiale con le teste incoronate e linguate di rosso. Anche molte delle signore guardie e specialmente le guardie di quartiere portavano

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baffi e barba all’imperatora. Anche quasi tutti i gendarmi dall’elmo color giallo argilla avevano la faccia in stile dall’Imperatore.”[30]

 

Le città provinciali affermavano, quindi, un policentrismo spettacolare. Erano «dedicate a Vienna», credevano nella famiglia e nei valori imperiali, ma anche in quelli nazionali, che cercavano di conservare e di affermare. Ogni città di provincia aveva una simile stazione, caffè, posta, caserma, ogni funzionario assomigliava all’imperatore e ogni singolo centro amministrativo ripeteva l’immagine del Centro, cioè ricreava, con un’ubbidienza specifica, la sua sacralità. Ecco un altro esempio – Cernovcy (rom. Cernãuþi), città dell’Ucraina, presso il confine con la Romania, la quale «sembrava una Vienna in miniatura»[31], con la sua università, teatri e opera e tutti gli attributi di una metropoli regionale. Per lungo tempo, fino alla prima guerra mondiale, la vita culturale germanofona della Bucovina rimase conformista e conservatrice, pronta a seguire l’ultimo grido viennese ma lasciando che altri nutrissero le avanguardie.

Disposte in cerchi concentrici che potrebbero far pensare agli «scalini» di una possibile gerarchia, queste provincie stanno spesso sotto il segno di alcune grandi città. Così come le rivivono in memoria Cergoly oppure Urzidil, Trieste e Praga irradiano, quali potenziali nuovi centri, una straordinaria forza, essenzialmente culturale. E abbiamo messo Praga accanto a Trieste perché anch’essa è città di tre popoli (il ceco, il tedesco, l’israelitico), come la città adriatica, col suo trittico italiano, slavo e tedesco.

        È così che troviamo Trieste quale “capitale finanziaria dell’impero absburgico, uno dei centri più ricchi d’Europa, una delle città più disinvolte d’Europa.”[32]

        Un’altra formulazione letteraria celebra “il gran porto di mare, il porto che serviva tutto l’entroterra dell’Impero, il gran porto austriaco pieno di vita, di giovinezza e di mare. Trieste un’immagine del mondo, Trieste città gentilissima e mercantile, città ponte, odori di spezie e di coloniali, Trieste pacifica e domestica, ombelico del mondo.”[33]

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        C’è anche un antico detto triestino che ne conferma la posizione: Tedesca slovena italiana – Trieste xe una splendida sovrana, come l’ha fatto anche il francese Valéry Larbaud: “C’est vraiment Trieste, et non Venise la capitale de l’Adriatique.”[34]

È ben noto il fatto che la fama e la bellezza della città adriatica sono per sempre legate ai due secoli di sviluppo economico, urbanistico e demografico tra il 1719 (l’anno in cui Trieste, come Fiume, ottenne i diritti e i privilegi di portofranco) ed il 1918 (la dissoluzione dell’impero austroungarico). Si potrebbe proprio affermare che Trieste ricostituisce, in un mise en abyme, tutta la storia absburgica, in quanto città attraverso la quale l’Impero ha imparato a sopravvivere, aprendosi al mare e comunicando così con il resto del mondo, ma dove è anche venuto a sapere come si può agonizzare e proprio morire.

Alla città di Trieste fu conferito da Francesco I, il 9 dicembre 1819, l’appellativo di fedelissima e poi, nel 1850, grazie all’opera di Bruck, fu dichiarata da Francesco Giuseppe città immediata dell’impero, venendo sottratta a ogni eventuale futura subordinazione provinciale – “fedelissima e immediata all’Impero dell’Imperatore dalle braghe rosse e dal Toson d’Oro come un piccolo sole.”[35] Sempre in Carolus Cergoly troviamo che “Trieste fu proclamata città fedelissima e immediata all’Impero e gli Imperatori assunsero il titolo di «Signore di Trieste», lo stemma di Trieste con l’alabarda d’argento ebbe la concessione del capo imperiale ch’è d’oro all’aquila bicipite di nero spiegata e linguata di rosso e coronata d’oro.”[36]

La letteratura propone quindi, in tutto lo spazio centroeuropeo, un ampio discorso rievocativo del mondo imperiale. Nel territorio oggetto della nostra ricerca, “i sedimenti e i detriti del passato absburgico costituiscono certo un humus di Trieste, nel quale la letteratura può affondare le sue sonde e dal quale può trarre le sue linfe.”[37]

In ciò che segue, cercheremo di ricuperare l’immagine della Trieste mitteleuropea, così come viene rappresenta nella letteratura della zona, per poi esaminare alcuni aspetti della sua evoluzione storica.

        Scrittore triestino ed esperta nei problemi della Mitteleuropa, Claudio Magris realizza una correlazione che lega in maniera inconfondibile la città adriatica a tale spazio, affermando di essere convinto che Trieste gli ha suscitato, senza che se ne accorgese per molto tempo, l’interesse e la comprensione della

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Mitteleuropa, per il suo incrocio di cultura tedesca, slava, romanza ed ebrea. L’autore aggiunge che non a caso, nel suo primo libro, scritto tra venti e ventiquattro anni, si era occupato del mito absburgico o che, più tardi, aveva scritto Lontano da dove, un libro su Joseph Roth e la grande tradizione letteraria ebreo-orientale, con la sua dimensione del soprannazionale, con il tema dell’esilio e dello sradicamento, ma anche con la forza di resisterne[38].

        Al ruolo storico di Trieste in prospettiva mitteleuropea si riferiva pure Carolus Cergoly quando sosteneva che “era e deve essere una città ponte una città d’incontri delle tre grandi culture: italiana, slava e tedesca”[39], come la vedeva anche Ferruccio Fölkel, “in un poligono di fuoco del Vecchio Continente, spartiacque ma anche punto di aggancio fra Europa settentrionale e Europa mediterranea, fra un Occidente decaduto e un Oriente indecifrabile, convegno di popoli dalle tradizioni e dalle culture opposte, localizzata in un’area sove si sono mischiate le lingue del da, del ja, del sì.”[40]

A sua volta, Fulvio Tomizza si esprime pressoché nei termini di una definizione: “Per noi triestini, e giuliani in genere, Mitteleuropa è quasi una dichiarazione d’ufficio della nostra non intera appartenenza italiana, in nome di una diversa mentalità, di un rigore morale di origine non esclusivamente religiosa, di un differente modo di sentire il rapporto con chi ci governa e con chi ci passa accanto.”[41]

Lo scrittore porta a termine l’idea aggiungendone delle sfumature: “Un attestato tuttavia destinato a rimanere vago e vano, fino ad avvilire maggiormente la nostra particolarità, se per caso ci ponessimo in mente di adoperarlo come passaporto per cercare nei più vicini paesi d’oltreconfine la contrada ideale nella quale riconoscerci completamente. Il dramma di Trieste conosce anche questo doloroso risvolto, ché altrimenti non di dramma si tratterebbe ma di ritardo di una giustizia che non manca mai di venire.”[42]

In un’altra prospettiva, Giorgio Voghera trova che Trieste “«interpretava» il mitteleuropeismo in chiave italiana, ovvero dava alla sua indubbia italianità una coloritura mitteleuropea che la distingueva dall’italianità delle città sorelle al di là del confine del 1915; e ciò si poteva notare anche diversi anni dopo che questo era stato rimosso.”[43]

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Enzo Bettiza, facendo riferimento alla stessa Trieste mitteleuropea, ma dal punto di vista della sua ambivalenza costitutiva, afferma che “ha desiderato l’Italia vivendo da viennese e odiato Vienna non potendo vivere da italiano; ha dato vita, sul Mediterraneo, a una borghesia mercantile di mentalità e costume piuttosto anseatici che mediterranei»; in più, «ha creato una letteratura scritta in italiano ma pervasa dalle inquietudini che scendevano da Vienna e da Praga.”[44]

La cultura triestina mitteleuropea, che trae alimento dall’incontro con la grande cultura “storica” della monarchia absburgica, quella tedesca, e dal fatto di trovarsi naturalmente inserita in uno “spazio” geograficamente più ampio rispetto alle culture nazionali e in conseguenza ricco spiritualmente di diversità, di tensioni e di fermenti, che le dànno una vastità di orizzonti e di riferimenti del tutto particolare nella cultura italiana del tempo[45], tale cultura triestina dispone, quindi, sul piano linguistico, di un patrimonio considerevole e multiforme.

Riportiamo, a questo proposito, le parole di uno storico della medicina, Loris Premuda, con le quali commemora la figura di un eminente esponente triestino della scuola medica di Vienna, Constantin von Economo: “Parlava greco con il padre, tedesco con la madre, francese con la sorella Sophie e con il fratello Demetrio, triestino (cioè: italiano) con il fratello Leo. Forse e proprio in questo tipo di atteggiamento linguistico si possono riconoscere – se realmente e in senso generale esistono i connotati concreti, e non mitologici, di una cultura triestina squisitamente mitteleuropea... – le radici e l’essenza di una mitteleuropäische Bildung.”[46]

In questo contesto ci vuole, però, una precisazione secondo la quale, arricchita e sensibilizzata da diverse suggestioni linguistiche e culturali, inserita in uno stato multinazionale, considerata come sbocco al mare di tutta la monarchia e quindi in un certo modo città comune a tutti i popoli dell’Austria, Trieste è nello stesso tempo una città che ha, e ancora più cerca di darsi, una superficie unitaria. Si tratta del fatto che non possiede quel naturale pluralismo linguistico e culturale, diffuso a diverso livello in tutti i ceti sociali, che caratterizza invece la vicina e rivale Fiume, la città in cui, come sentirà dire arrivando a Fiume in piena ebbrezza dannunziana il futuro cardinale Celso Costantini, anche “il «più stupido omo» nasceva con quattro lingue”. Di conseguenza, la “multinazionalità” di Trieste va forse più esattamente ridotta alla dimensione dell’incontro tra culture diverse

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(incontro che è particolarmente fecondo in alcuni settori specifici) in un ambiente che è però essenzialmente italiano.

Sempre con riferimento alla cultura mitteleuropea triestina presentiamo una descrizione plastica realizzata da Carolus Cergoly: “Ma a Trieste la civilissima non si pensava solo ad aprir bottega o a riempire fondaci e magazzini di «roba» buona o a varare vapori e a far «zoghi» di borsa a fare insomma «comerzi e boni afari» nei «scritoj» di Agenzie Marittime o di Import-Export; ma si faceva anche della gran bella cultura, si leggeva molto e in molte lingue, si faceva musica tanto classica che di divertimento, e tutti sapevano quello che d’interessante nasceva a Vienna, a Parigi, a Milano, a Londra, a Zagabria e a Monaco di Baviera. E questo perché la città è stata sempre una città di cultura mitteleuropea per non dire cosmopolita. Solo in questa atmosfera potevano nascere uno Slataper, uno Svevo, un Saba, un Giotti.”[47]

Carolus Cergoly, citato qua sopra, è forse il più fedele esponente della città «immediata all’Impero» e della Cacania. Nel suo stile caratteristico, lo scrittore ricompone l’immagine di un vero e proprio «ombelico del mondo», nonché della «più vicina al centro Europa». Ecco qualche altro «pezzo» costitutivo di tale immagine:

 

“Hinzelman planò su Trieste che è un canestro di mazzi di fiori freschi come la primavera che posa su d’uno scoglio. E subito Hinzelman capì che la città era una città meno antica di Rodi ma assolutamente più moderna di Varasdin. Una finestra sull’Adriatico per l’Europa centrale. [...] Hinzelman sgamba veloce verso l’interno della città fedelissima e immediata all’Impero dell’Imperatore dalle braghe rosse e dal Toson d’Oro come un piccolo sole. Questa città che ha l’Imperatore come paterno Signore di Trieste. [...] Questa città che è l’ombelico del mondo Trieste. Situazione geografica 45°38’5’’ di latitudine nord e a 11°26’17’’ di longitudine sud orientale e di tutto il Mediterraneo la più vicina al centro Europa. [...] Sempre più interessante sempre più poliedrica questa Trieste in posizione veramente privilegiata. Città tirata su dal caro dio solare Triopa tra est e ovest. Città adriatica città mediterranea città crocevia città viva anzi vivissima con il suo grande retroterra che vuol dire Mitteleuropa.”[48]

 

         Sul piano della storia mitteleuropea e, implicitamente, triestina, una figura ragguardevole è quella di Karl Ludwig von Bruck, il cui destino si intrecciò felicemente con quello della città adriatica. Nato a Elberfeld il 18 ottobre 1798, dopo lunghe vicende giunto a Trieste nel 1821 allo scopo di raggiungere la Grecia dove si sarebbe unito ai combattenti per la libertà, egli venne convinto dal console di Prussia, K. F. Brandenburg, a rimanerci a lavorare presso di lui. Dopo un lungo

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servizio presso varie società assicuratrici, fu tra i promotori della costituzione del Lloyd Austriaco, alla fine del 1832. Rilevata all’assemblea generale del gennaio 1835 la prevalenza d’affari concernenti attività marittime ed il notevole movimento navale nel porto di Trieste, venne inoltrato all’imperatore Ferdinando un memoriale, il 30 luglio 1835, in cui si chiedeva di modificare lo statuto sociale e di disporre d’un pubblico sostegno per una società di navigazione destinata non solo al porto di Trieste, ma all’intera monarchia. Le richieste, dato l’alto costo dell’iniziativa, furono ascoltate solo in parte; tuttavia, il 2 agosto 1836 venne costituita la seconda sezione del Lloyd, destinata a fama mondiale, e Bruck ne diventò il direttore. Prese a nolo sei navi e, affidato ad un cantiere di Londra l’incarico di costruire il primo battello di proprietà della società, la navigazione ebbe inizio nel 1837 con l’esercizio di quattro linee. Per il successo dell’impresa, Bruck assurse alla condizione nobiliare.

È importante notare che la sua idea di Mitteleuropa nasce dalla constatata possibile convivenza tra il modo nuovo di concepire l’attività imprenditoriale e l’accettazione della cornice politica, in cui si tramanda l’eredita imperiale. Operatori politici ed economici, guidati da quest’idea, possono ripartirsi in piena armonia i compiti specificamente loro spettanti. Una compiuta teorizzazione viene tentata solo dopo il 1848, ma intanto, in linea di fatto, Bruck vede operante a Trieste la soluzione del problema, prima ancora che esso venga impostato, con tutte le sue implicazioni, nelle restanti parti dell’impero[49].      

Ulteriormente, una vera e propria perorazione per Trieste viene da parte di Lorenz von Stein. Nel 1856 egli propose il modello di Trieste come necessario e naturale “incontro di tutte le nazionalità del Mediterraneo, giacché per tutte, egualmente, essa deve essere il punto unico d’un traffico immediato con i territori di produzione e di consumo della Mitteleuropa. Essa non poteva essere italiana come Venezia; altrettanto poco essa poteva diventare puramente tedesca o puramente greca. Essa doveva avere origine dall’afflusso di tutte le stirpi, dove tutte si incontrano, ciò che accadeva nel punto terminale di quell’unica linea di comunicazione col Nord.”[50]

Nell’individuare la vera funzione di Trieste, von Stein ricorre per primo al «criterio naturalistico», di carattere geografico. Non si devono aprire sbocchi al mare dove essi sono impossibili: se, in generale, pare quasi che la natura abbia voluto separare l’Europa Centrale dall’Adriatico, non manca un’eccezione, un punto, partendo dal quale si può arrivare a Nord fino a Vienna. “La fine di questa via, il punto d’unificazione delle linee che vanno da Nord a Sud ed all’inverso, al

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tempo stesso l’intera costa marittima meridionale della Mitteleuropa, condensata in una sola città, è Trieste.”[51]

Nella dimostrazione, viene poi invocato come argomento, sul piano storico-politico, il passato medioevale di Trieste: “Accade di raro, e rarissimamente in Italia, che una città si assoggetti durevolmente ad un corpo statale maggiore, non una sola volta ad uno italiano e men che meno ad uno tedesco. Allorché però nel 1382 Trieste liberamente si diede all’Austria, null’altro fece che ciò che richiedeva la natura della cosa. Da quell’epoca è indissolubilmente legata a quest’ultima; la sua sottomissione non è in effetti nient’altro che la dichiarazione in base alla quale il fondamento della sua esistenza va ricercato nei suoi rapporti con la Mitteleuropa, e che in essa lo ha trovato. E questa coscienza le è rimasta fino al giorno d’oggi e le rimarrà.”[52]

Lo sviluppo di tale coscienza è circoscritto in seguito alla funzione economico-commerciale, che per Stein appare come solo fondamento valido, il cui punto fermo rimane il Lloyd. L’analisi consente che si sovrappongano e proprio si identifichino il discorso sulla città e quello sulla compagnia di navigazione: “Trieste non costituiva naturalmente unità alcuna nella sua popolazione; essa non viveva nelle sue memorie storiche[53]; quest’unità le doveva venir assegnata per la prima volta. Al fine di costituirla, occorreva però un’idea che comprendesse, con intelligenza profonda, l’elemento massimo e quello minimo delle cose umane, da un lato la grande configurazione politico-commerciale d’Europa e dell’Oriente e dall’altro l’interesse calcolato con grande cura dell’impresa commerciale. Da entrambi questi elementi è formato il Lloyd; su entrambi riposa il suo avvenire.”[54]

Nella visione di Stein, il Lloyd – destinato a diventare la grande società di navigazione nota dopo il 1918 con il nome di Lloyd Triestino – occupa un posto centrale: “esso è il punto d’incontro con il sistema ferroviario d’Austria e Germania nel loro insieme. Rappresenta la medesima funzione, solo trasferita sul mare. È una vita per sé.”[55]

Una volta che il Lloyd diventa elemento principale della vita di Trieste e riesce con le sue navi a penetrare nei mari più lontani, ad attraccare nei porti dei continenti più lontani, a stabilire contatti con tutto il mondo, mutano pure le dimensioni della città. Quello che era uno dei tanti porti, diventato grazie al Lloyd

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«organo della Mitteleuropa»[56], cessa d’essere parte d’una storia commerciale ristretta, come può essere quella dell’Adriatico o del Mediterraneo, per appartenere alla storia commerciale mondiale. L’espansione della vita europea avviene per mezzo del Lloyd, che “era già diventato un elemento integrante della vita commerciale dell’intero Oriente”, adeguandosi “alla prima parte della grande idea che sta a suo fondamento” e facendo di Trieste, con la riduzione della sua distanza dall’Oriente, una «città emporiale mondiale»[57].

È interessante sottolineare che, in Stein, la stessa Vienna è idealizzata in un legame che la identifica a Trieste: completa la ferrovia meridionale, “Vienna e Trieste saranno una grande città.”[58]

In questo suo grandioso disegno Stein non può che esprimere l’auspicio di sviluppi futuri per la città adriatica: “Quale città d’Europa può misurarsi su tali fondamenti col futuro di Trieste!”[59], esclamazione che viene a potenziare l’idea.

In tal punto si potrebbe affermare che lo statuto ambivalente di Trieste si riflette benissimo nel suo mito che presenta più volti: economico, legato alla gloria emporiale del primo porto dell’impero austriaco; politico, legato alle lotte nazionali e all’aspetto del tutto particolare dell’irredentismo triestino; culturale, legato alle diverse componenti etniche della città e, infine, letterario, che riassume tutti gli altri. E tale volto letterario del mito, in cui convergono e si sublimano tutte le componenti che costituiscono il tessuto storico così complesso della città, rappresenta il riflesso di un fenomeno ben definito per opera dei poeti, romanzieri e saggisti che hanno dato al loro discorso artistico una dimensione di ampio respiro, inserendolo in un’area culturalmente “promiscua, fertile, meticcia, unica in Europa per la sua ricca trama pluripsicologica”, l’area di quella categoria sovranazionale, quella «strana massoneria dello spirito»[60], che è la cultura mitteleuropea.

Il famoso mito della Trieste imperiale è, quindi, indissolubilmente legato all’ancor più famoso «mito absburgico», con tutta la sua complessità che continua ancor oggi a suscitare l’interesse. Ci sarebbero infatti due punti di vista antinomici, un’ambivalenza cioè dell’eredità della monarchia absburgica, che vengono a determinare la riflessione attuale sull’identità politica dell’Europa.

Il «mito absburgico», per riprendere la nota espressione di Claudio Magris riferita ad un contesto che riguarda appunto l’ordinamento europeo, trova attualità, secondo alcuni autori, nella nostalgia per una confederazione cementata da un

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principio dinastico che, in mancanza di meglio, continua ad apparire un’età dell’oro perduta. La convinzione che l’Europa Centrale absburgica formasse un tutto organico (ein Totum) costituisce l’elemento centrale del mito.

        Secondo altri, il bilancio della monarchia austroungarica è molto più limitato e il principio di sovranazionalità figura tra le belle menzogne dell’ideologia ufficiale che nascondono in realtà l’egemonia delle nazionalità tedesca e ungherese ed una pericolosissima tendenza a esacerbare nazionalismi e razzismi di ogni genere.  

        In ciò che segue tenteremo un’analisi letteraria della monarchia absburgica tra mito e realtà, a partire proprio dalla soprammentovata ambivalenza. Gli «austriachisti», come i «germanisti», hanno il loro Historikerstreit. La «controversia degli storici» riguarda, come abbiamo già illustrato, la diversa valutazione della politica absburgica nei confronti delle nazionalità e il ruolo dell’Austria-Ungheria nell’equilibrio (e negli squilibri) europeo prima del 1914. È da qui che sorgono due possibili domande: Il regime di Francesco Giuseppe I conteneva in germe una prospettiva «centroeuropea»? O, invece, la «prigione dei popoli» era inevitabilmente la «polveriera dell’Europa»?[61]

        Facendo riferimento, sulle tracce di Claudio Magris, all’origine del mito absburgico e alla sua funzione politica, dobbiamo notare che tale processo di mitizzazione della concreta realtà storica incomincia nei primi anni dell’Ottocento. Si tratta di un mondo, di una civiltà – e di una trasfigurazione di questa – legati agli Absburgo del «danzante» Congresso di Vienna, della Metternicherei della duplice monarchia imperialregia; legati insomma all’ultimo atto della secolare storia absburgica, che ha una sua precisa fisionomia rispetto agli Absburgo delle lotte svizzere e dei fasti di Carlo V, del secolo d’oro della Controriforma e delle complicate vicende della Prammatica Sanzione[62].

        Tale passato – per quanti sforzi abbiano fatto storici eminenti come il von Srbik per dimostrare l’unità nella storia austriaca – è soltanto preistoria rispetto al mito della Cacania “col suo odore di sego, col suo esercito di soldati in piedi, preti in ginocchio e funzionari seduti e con i suoi valzer spumeggianti”[63]; diventa «cacanese» solo nella rievocazione trasfigurante di poi, nel mito dell’epoca posteriore che è appunto oggetto della nostra analisi.

        La data di nascita del mito, “arbitraria come ogni tentativo di stabilire una svolta precisa nelle vicende della storia, ma utile e chiarificatrice”[64], potrebbe

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essere l’anno di grazie 1806, in cui Francesco II imperatore del Sacro Romano Impero di Nazione Germanica diventava Francesco I imperatore d’Austria. Tale certificato di nascita fa intuire immediatamente il carattere di «surrogato», di ripiego, il carattere autunnale che contrassegnerà fin dall’origine questo mito.

È allora che gli Absburgo, estromessi con le guerre del Settecento e con quelle napoleoniche dal predominio in Germania, si svolgono a cercare un altro modo di vita e un’altra ragione di esistenza e di coesione della monarchia. Ed è allora che nasce l’ideale dell’impero sovranazionale, della «grande Svizzera», dei «miei popoli» legati al vincolo dinastico del paterno sovrano; popoli, come ci si preoccupava di dire, cioè razze e gruppi etnici e non individualità nazionali.   

Sorge così il mito della monarchia popolare, in un senso ben diverso da quello che la parola poteva significare in riferimento allo sforzo dell’assolutismo illuminato di stabilire affettivi nessi tra le forze dello stato, nel senso cioè tradizionalistico e «paesano» di bonari e sentimentali legami. Ma questo ideale che determinerà in modo così penetrante l’atmosfera e il Gemüt austroungarici, non è, in fondo, che un surrogato di quelle forze vitali che all’Austria erano negate, e che invece vivificano altri stati, come la Prussia; un tentativo incerto di estrarre dalla situazione di fatto delle ragioni che la giustificassero e addirittura di mitizzare come ideali le sue debolezze[65]. 

Il termine mito, che di per sé indica un’alterazione e una deformazione della realtà dovute appunto al desiderio di estrarre da questa una sua pretesa verità essenziale, un suo ipotetico nucleo metastorico che ne riassuma il più vero significato, acquista in questo caso una particolare accezione. Il mito absburgico non è cioè un semplice processo di trasfigurazione del reale, proprio di ogni attività poetica, ma è la completa sostituzione di una realtà storico-sociale con un’altra fittizia ed illusoria, è la sublimazione di una concreta società in un pittoresco, sicuro e ordinato mondo di favola.

E poi chiaro che questa mitizzazione non è un’astratta fantasticheria, e che quindi è capace talvolta di cogliere alcuni aspetti reali della civiltà absburgica, e di coglierli con particolare finezza di penetrazione. Com’è altrettanto chiaro che non tutti gli scrittori si sono limitati a una superficiale «laudatio» del buon tempo antico austriaco; con la menzione però che anche l’analisi più feroce di un Musil e l’umorismo disincantato di un Doderer sono rimasti in un certo senso all’interno di un determinato modo di vedere, e prigionieri, anche se critici dispettosi, di quella favolosa e struggente trasfigurazione dl mondo danubiano, di quella suggestiva

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alienazione[66] ch’era stata per più di un secolo l’effettivo strumento di potere e il più valido sostegno spirituale dell’impero absburgico.

Un’idea altrettanto significativa riguarda il fatto che la mitizzazione del mondo absburgico, che si riscontra nelle pagine scritte dopo il suo sfacelo, non è una semplice rievocazione del passato, ma s’inserisce in una lunga tradizione, in un processo storico di deformazione della realtà austroungarica: processo di cui gli scrittori contemporanei rappresentano l’ultima fase, il capitolo finale e più esemplare, giacché il fatto di descrivere quella società dopo la sua scomparsa accentua il carattere di evasione e di fuga dalla realtà che aveva sempre contraddistinto la visione delle cose austriache, il mito absburgico. Questo era stato soprattutto un sapiente, efficacissimo strumento di un’accorta alienazione politica, lo sforzo di trovare delle ragioni di vita a una compagine statale sempre più anacronistica e impossibile[67], e di distrarre in tal modo le energie della concreta percezione della realtà.

Questo sforzo patetico, sorto da un sincero e appassionato attaccamento ai valori che si volevano difendere, non era rimasto sul piano di una generica propaganda politica ma era sceso sul piano dei sentimenti e dei valori quotidiani, dello stile di vita. Così il «sistema» si era tradotto in un complesso di abitudini e di ideali non solo politici, ma anche personali, in una particolare atmosfera spirituale. Gran parte della letteratura austriaca e mitteleuropea dell’ultimo secolo di storia absburgica era nata in questo clima, e la profonda carica umana che animava questo tentativo di impossibile conservazione si è tradotta spesso in pagine di commossa umanità e di viva poesia. Il mito absburgico aveva raggiunto una notevolissima capacità di diffusione e penetrazione, aveva permeato coscienze e sensibilità, ed era riuscito quasi completamente a trasformare la contraddittoria realtà austriaca in un mondo tranquillo e sicuro. A questo proposito, lo scrittore triestino più fedele alla memoria absburgica, Carolus Cergoly, nota che «l’Impero Austriaco era l’Impero della sicurezza o dell’ottimismo e dal lento progresso verso le cose moderatamente moderne»[68].

Tale, infatti, lo ricordano anche gli scrittori, austriaci e mitteleuropei in generale, superstiti al suo crollo e innamorati di quell’epoca immobile in cui, quando gli eventi incalzavano e si aveva bisogno di pace “si poteva [...] scendere dal treno del tempo, salire su un treno comune di una ferrovia comune e ritornare in patria.”[69]

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Un senso di smarrimento per la ferma sicurezza distrutta e per la perduta gerarchia dei valori si avverte nelle pagine dei contemporanei rievocatori della Cacania, sotto il segno delle famose parole di F. Palacky: “Se l’Austria non ci fosse, bisognerebbe inventarla”, oppure delle cinque «vocali d’oro», A.E.I.O.U., Austriae Est Imperare Orbi Universo, mentre nella variante più ottimistica sarebbe proprio Austriae Erit In Orbe Ultima. E la dissoluzione di questo mondo sembra aver sconvolto la loro vita e i loro sentimenti, la loro stessa visione del mondo:

 

“Austria: il nome evoca due immagini molto diverse. L’immagine del grande Impero degli Habsburg, e quella della piccola repubblica inventata dal trattato di Sain Germain.

Resta una caricatura tragica, un esempio di stultitia. Se fosse esistita prudentia, le aspirazioni nazionali avrebbero cercato di svilupparsi in direzione di uno Stato plurinazionale. Invece si sono fatte rottami e schegge perseguitate.

L’Austria era un piccolo mondo nel quale il grande mondo avrebbe dovuto fare la sua prova generale. Quel paese, l’Austria degli Habsburg, è scomparso nel 1918, ma più che una scomparsa è stata una catastrofe del buon senso, il trionfo del tumultus.

La storia di questo Impero scomparso non è soltanto storia austriaca: è storia europea. Era un Impero che pochi apprezzarono e compresero, finché si era in tempo; poi, quand’era troppo tardi, avvenne proprio tutto il contrario.”[70]

 

La Mitteleuropa absburgica significò indubbiamente qualcosa, se lasciò una così forte impronta nella coscienza di tanti scrittori anche lontani, per formazione e ideologia, dalle premesse spirituali di quel mondo. È significativo in questo contesto che gli scrittori triestini, che avevano combattuto sul Carso per abbattere l’impero absburgico, abbiano sentito profondamente il lato positivo della compagine austroungarica e l’abbiano vista più tardi, ricordando in tristi momenti storici la loro giovinezza degli anni precedenti la guerra, quasi come il simbolo di una comunità europea[71].

Così lo è Scipio Slataper, in cui il mito dell’opulenza di Trieste emporiale assurge a patos poetico nella conclusione de Il mio Carso: “E levan l’ancora i grossi piroscafi nostri verso Salonicco e Bombay; e domani le locomotive rintroneranno il ponte di ferro sulla Moldava e si cacceranno con l’Elba dentro la Germania.”[72]

Ci sarebbe poi, sempre in via di esempio, anche Umberto Saba, con i suoi Riccordi-Racconti che tradiscono, oltre le sue opzioni ideologiche diverse, anche una certa valutazione positiva dell’impero: “Lettore buon repubblicano, non ti

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allarmare. Il vecchio che scrive i ricordi di un mondo che egli si ostina a vedere meraviglioso, non desidera e non teme più di te un ritorno della Monarchia. Ma, educato sotto Francesco Giuseppe, che (a torto) odiava, egli sospirava, nella sua prima giovinezza, per il re d’Italia. Più precisamente, per il re d’Italia a Trieste.”[73]

In un articolo del 1946, intitolato Inferno e paradiso di Trieste, i ricordi di Saba si muovono, in una suggestiva allegoria, nella stessa direzione austroungarica:

 

“Trieste era, ai tempi della mia giovinezza, molte cose. Era anche come una bella donna, sposata a un ricco banchiere. Il banchiere era, anzichenò, anziano; e non si può dire che fra i due corressero rapporti d’amore propriamente detti. Ma la donna non poteva lamentarsi troppo del suo primo marito. Questi l’amministrava bene, e, senza chiederle troppo, non le faceva mancare né il superfluo né il necessario. La donna aveva, come usa in questi casi, l’amante del cuore. Quando il vecchio, che si chiamava Austria, volle, contro ogni consiglio dell’inutile saggezza, fare cosa contraria alla sua età e andare in guerra, finì, dopo qualche effimero successo, male: fece un clamoroso fallimento e morì – pace all’anima sua – di morte violenta.”[74]

 

Più avanti, lo scrittore cerca di immaginare che Trieste ridiventi portofranco:

 

“Immagino volentieri di passeggiare per le sue belle contrade, come passeggiavo al tempo della mia giovinezza, quando a Trieste composta in una sua strana unità, c’era l’Austria, c’era l’Italia, c’era la Balcania, c’era l’Oriente vicino; così che a volte, svoltando una strada, avevi l’impressione di cambiare paese, o addirittura continente. Immagino, non spero. Gli uomini e le loro disgraziate azioni ci sono troppo noti per sperare che il lieto miracolo possa ripetersi.”[75]

 

I temi e i motivi delle moderne rievocazioni dell’impero non nascono dunque con i loro moderni autori, ma si ricollegano a una particolare tradizione. Anzi, negli scrittori contemporanei che nelle loro opere richiamano in vita l’ambiente e l’umanità della monarchia imperialregia, i vecchi aspetti del mito acquistano una maggiore evidenza, si chiarificano meglio e si staccano con un più preciso rilievo, sicché proprio in queste opere più recenti si può cogliere meglio il lungo sforzo dell’impero di mascherare e idealizzare la propria esistenza. Ciò che prima si era pateticamente predicato e che si era confuso con la realtà effettuale del sistema absburgico, ora appare nel chiaro e trasparente volto del mito, della proiezione fantastica e sentimentale, ripetendo ormai soltanto nell’ambito della memoria e della riesumazione del passato i vagheggiamenti e la trasfigurazione che

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un tempo erano stati proiettati su una ben diversa realtà contemporanea. Disorientati nel nuovo caotico mondo sorto dalle rovine del 1918, gli intellettuali austriaci e mitteleuropei in generale si sono aggrappati a quella tradizione absburgica idealizzante e ammaliatrice, accettando o almeno subendo l’alienatrice mitizzazione della realtà storica che aveva caratterizzato l’epoca di Francesco Giuseppe[76].      

Ed è proprio lui, il celebre Francesco Giuseppe, la figura rappresentativa del mito absburgico. Per Carolus Cergoly, l’immagine del Centro è ricuperata in maniera integrale, di apoteosi appunto, dall’Imperatore. In un testo esaltato, quasi al limite del parodico, l’autore realizza quello che si potrebbe definire un vero e proprio panegirico, mentre il romanzo stesso, Il complesso dell’imperatore, con l’ambivalenza della costruzione, costituisce realmente ciò che la psicanalisi chiama «complesso»:

 

“E Francesco Giuseppe uscì dalla matrice e tuonarono i cannoni e suonarono le campane le trombe diedero fiato alle più belle marce e meravigliosi fuochi d’artificio illuminarono i cieli dell’Impero e i popoli cantarono nelle plurilingue dell’Impero il Serbi Iddio l’Austriaco Regno. Vegli il nostro Imperator e Bog oèuvai Bog oh ràmi e poi tutti nella Weltsprache Gott erhalte Gott beschütze unsern Kaiser unser Land.

Dentro la cuna il Porfirogenito sul materasso pieno di piume d’ali di Cherubini e fuori della cuna nuvole di merletti d’Idria e di Burano delle Fiandre e delle Dalmazie.

E ancora la voce del Plurinome truccato da Joshua generato da Maria disse Tu sarai il più caro il più amato Imperatore del mondo.

I tuoi occhi saranno azzurri come l’Adriatico le tue mani saranno bianche come le rocce delle Dolomiti e le tue dita saranno lunghe e affusolate come quelle del suonatore di cetra Davide l’irlandese.

E quando saranno passate tante primavere e saranno passati autunni e inverni io ti nominerò Apostolico affinché tu sia pari agli Apostoli della buona novella.”[77]

 

Il primo motivo fondamentale del mito absburgico, strettamente legato alla sua stessa origine, come abbiamo già illustrato, è quello sovranazionale. Si può infatti affermare che l’ideale sovranazionale, che si esprimeva fin nel paterno e rigido inizio dei proclami di Francesco Giuseppe, Meine Völker, era stato il fondamento ideologico della monarchia danubiana, il suo sostegno spirituale e propagandistico nella lotta contro il moderno risveglio delle forze nazionali, era stato quindi un’arma della lotta absburgica contro la storia.   

Nella letteratura triestina, il motivo è ampiamente evocato dal già citato Carolus Cergoly, sulle tracce, però, dello scrittore austriaco Franz Werfel. Per

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quest’ultimo, ebreo cosmopolita e Weltfreund[78], l’impero si configurava come uno stato sovranazionale, una «Grande Svizzera» civile e armoniosa, pittoresco e composito mosaico che riuniva “le Alpi del Tirolo, i laghi del Salzkammergut, i dolci orizzonti della Boemia, gli altipiani selvaggi del Carso, le rigogliose contrade dell’Adriatico, i palazzi di Vienna, le chiese di Salisburgo, le torri di Praga [...] le vaste steppe della Puszta [...] gli alti pascoli dei Carpazi e i bassipiani del Danubio, con tutte le meraviglie del suo bacino fluviale, con le sue praterie selvagge ricche di uccelli e le grandi isole popolose del suo affluente, il Tibisco“[79].

Se questa è la nota più suggestiva e ricca di fascino mitteleuropeo, nota che accompagna sempre con una sorta di profumo slavo l’evocazione dell’impero, ben più importante è il significato politico-religioso che Werfel attribuiva alla compagine absburgica. L’impero gli appariva un regno fondato «nel segno di un’idea superiore» e lo opponeva ideologicamente agli “Stati nazionali (che) sono nella loro intima essenza unità demoniache; come tutto ciò che è demoniaco e idolatrico, sono suscettibilmente «dinamici», minacciosi e minacciati.”[80]

Per Werfel, che scriveva in un’Europa già sconvolta dal nazismo, quell’universalismo medievale e feudale si trasforma in una moderna civiltà europea, in un armonioso superamento dei contrasti nazionali. L’impero absburgico chiedeva che il suo suddito “non fosse soltanto un tedesco, un ruteno, un polacco, ma qualcosa di più, qualcosa al di sopra”; richiedeva “un vero e proprio sacrificium nationis”, una “rinuncia a una comoda affermazione di se stessi, rinuncia all’eccitante abbandono agli istinti del proprio sangue“, per cui l’uomo “si trasforma, da tedesco o ceco che era, [...] nell’austriaco.”[81]

Per tornare a Carolus Cergoly, riportiamo in seguito la sua teoria sul carattere sovranazionale dell’impero absburgico, presente nel romanzo Il complesso dell’imperatore:

 

“L’Impero del mondo di ieri era un impero sovranazionale e tutti avevano il diritto anzi l’obbligo di esprimersi nella lingua che la madre gli aveva messo in bocca e poi nella lingua d’uso ch’era la lingua tedesca considerata una specie d’esperanto una Weltsprache insomma.

L’impero era un impero sovranazionale ma non internazionale. Perché essere sovranazionale è cosa ben diversa che essere internazionale.

I due concetti come diceva il conte Arturo Polzer-Hoditz si escludono a vicenda.

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Il sovranazionalismo apprezza e tutela qualsiasi caratteristica individuale e la vuol conservata e tutelata in tutti i popoli. L’internazionalismo all’opposto si mette al di sopra delle caratteristiche nazionali e cerca di cancellarle. Il sovranazionalismo rifugge dalle perequazioni tanto in senso nazionale che in senso internazionale. Un popolo conserverà intatta la sua lingua e le caratteristiche se esso avrà per gli altri popoli il rispetto stesso che esige per sé e se terrà conto dei diritti nazionali altrui nella misura stessa in cui vuole siano tenuti i suoi propri.

Internazionalismo è un vertice ingannevolmente uniforme steso sopra una civiltà uniforme frutto del grande capitalismo internazionale una pseudociviltà ma è anche al tempo stesso l’uniforme di color grigio di tutto il proletariato visto con gli occhi di un marxista.

Il sovranazionalismo è al contrario ricerca di differenziazione di individualismo nazionale. Dico ricerca perché una vera civiltà può avere le sue radici solo nel popolo e nelle caratteristiche di esso.”[82]

 

In un’altra opera, intitolata Il pianeta Trieste, Cergoly sottolinea lo stesso carattere sovranazionale, questa volta con riferimento al porto adriatico:

 

“La città è veramente e genuinamente una città sovranazionale con forti influssi di civiltà mitteleuropea e italiani, tedeschi, slavi, greci, turchi, ebrei, inglesi, francesi e americani lavorano per l’interesse personale e per quello dell’Impero.”[83]

 

Il secondo motivo fondamentale del mito absburgico sarebbe quello burocratico, caratterizzato dal senso dell’ordine e della gerarchia, “perché in questo Impero tutto era previsto e calcolato e niente era lasciato al caso che gli scettici chiamano l’uomo d’affari del buon Dio; [...] tutto era prestabilito e tutto era preordinato”[84].

Basterebbe farne un solo esempio a questo proposito per far capire le dimensioni e le implicazioni del fenomeno che riassume l’essenza dell’impero:

 

“Già nelle scuole cittadine gli scolari apprendevano con testo approvato con riverito decreto dell’Eccelso I. R. Ministro del Culto e dell’Istruzione d.d. Vienna 14 giugno 1897 n. 15459 come si scrivono lettere obbligazioni quietanze cambiali e telegrammi.

 Esempio. Le istanze vanno scritte in carta di cancelleria. Il foglio viene piegato a metà e a sei centimetri di distanza dall’orlo superiore si scrive l’intestazione (Inclita I. R. Direzione di Finanza Eccelsa I. R. Luogoteneza ecc.).

Altri quattro centimetri più sotto nella metà a destra si comincia lo scritto con capoverso. Alla fine dell’istanza si scrive a destra il proprio nome e cognome e a sinistra la data. A sinistra dell’intestazione si mette il bollo di una corona. Ogni documento allegato all’istanza deve avere un bollo da trenta centesimi se non ha già il proprio bollo.

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L’ultima pagina del foglio serve per il così detto rubro o specchietto dove in poche parole sotto l’indirizzo si scrive lo scopo dell’istanza e si nota il numero degli allegati.

Così tutte le istanze che si scrivevano nell’Impero dovevano essere compilate come erano stampate e modello in una delle tredici lingue che si parlavano nell’Impero.”[85]

 

A questo tema burocratico è direttamente connesso il mito di Francesco Giuseppe, così vivo negli scrittori legati al mondo k.u.k. Sommerso dal tempo e consapevole della fine vicina, chiuso nella sua solitudine come una vecchia quercia percossa dagli anni e dalle amarezze, l’imperatore sembra incarnare, per questi rievocatori, l’eroica mediocritas. Secondo Werfel, egli si era consacrato alla “prammatica del servizio [...] costringendosi all’impersonalità, all’ordine e alla regola”, s’era opposto all’esibizionistico individualismo dell’epoca con misurato riserbo, che gli vietava “di pronunciare, in occasione di un’esposizione d’arte o di una serata a teatro, un giudizio di carattere personale. Così nacque la frase spesso schernita nei giornali umoristici: «È stato molto bello. Mi ha fatto molto piacere».”[86]

Carolus Cergoly porta nella letteratura triestina la stessa idea guida:

 

“L’Imperatore è riservatezza non deve esprimere mai opinioni in pubblico e mai concedere interviste deve passeggiare solo primo fra tutti coloro che passeggiano anche con passo elastico.”[87]

 

In questo ambito, la parola d’ordine è la misura:

 

“L’Imperatore deve avere sempre la misura di tutto e per tutti.

E l’Imperatore aveva questa misura e tutti ammiravano e cercavano d’imitare questa misura e tutti lo vedevano e lo consideravano un vero e autentico stupor del mondo austriaco.”[88]

 

La soprammenzionata «prammatica del servizio» diventa modello di burocrazia per definizione in tutto l’impero:

 

“Lo stile e il vivere dell’Imperatore modellò lo stile e il vivere di tutto l’Impero.

La prammatica di servizio. Altra stella con i raggi a sei punte brillanti su tutti i cieli dei ventiquattro paesi dei tredici popoli delle tredici lingue per tacer dei dialetti e su il velario teatro Habima.

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La prammatica del servizio cioè amministrare il modo perfetto e onesto il mio il tuo e il suo.

La prammatica del servizio una burocrazia estremamente pratica semplice snella.

Un esempio ancor valido oggi per tutta l’Europa e dintorni. Lo stile dell’Imperatore era l’Austria e l’Austria era lo stile dell’Imperatore.”[89]

 

Si arriva, di conseguenza, ad una vera trasposizione della mentalità burocratica sul piano dei costumi e perfino dei sentimenti:

 

 “C’era uno stile nel salire e nello scendere dal treno dalla carrozza dal tramwai.

Nel salutare a seconda delle condizioni sociali di chi si salutava.

Nel prendere congedo dalle persone La prego di ricordarmi alla sua signora mamma e al suo signor papà.

Grazie non mancherò e parimenti.

Nei negozi i commessi e le commesse Cosa la comandi in che posso servirla e dopo comandato e servito vicendevoli complimenti e ringraziamenti.

Non era assolutamente fine indicare i prezzi delle merci esposte nelle vetrine.

In quasi tutti i negozi era ben visibile una tabella in vetro con fondo nero e con le parole in foglia d’oro PREZZI FISSI.

L’ospite fumatore in tutte le case di qualunque condizione sociale chiede il permesso di fumare la sigaretta o il sigaro mai però fuma la pipa.

Il fumo non le disturba? No grazie anzi mi piace gustare l’aroma del tabacco.

E la cerimonia si ripeteva tanto alla fine del pranzo che alla fine della cena.”[90]

 

Alla dimensione solare di un mondo che si trova nei suoi momenti aurorali e di «mezzogiorno» sereno, si aggiunge, quindi, l’altro versante dello spirito mitteleuropeo, che sta sotto il segno del crepuscolo, dell’agonico, del malaticcio. Tutto ciò irradia dal Centro (reale e simbolico) chiamato Vienna verso le province imperiali. “Il mito della Vienna paradisiaca è sempre compromesso da un’altra, una città infernale, sottomessa ad una triplice maledizione – dell’antisemitismo, della Casa imperiale degenerata e del kitsch[91]. L’analisi dei volumi di Jacques Le Rider, Michael Pollak o W. M. Johnston consacrati alla modernità viennese comprende pagine sostanziali sulle cause (politiche, sociali, economiche, culturali) che hanno generato la crisi di massima acuità, ripercossa nel primo decennio del XX secolo su tutto l’Impero, fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Esso non ha fatto che mettere in scena, facendole scattare con massima violenza, le energie latenti, centrifughe, dissolutive. Intuiscono queste cause e le descrivono con una sensibilità

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ipertrofica i grandi scrittori del primo Novecento. Alcune sono cause obiettive, che riguardano un intero sistema (economico, politico, sociale), annientando perfino l’individuo. Altre trovano l’origine in una sensibilità individuale sempre più fragile, più vulnerabile, che vive con intensità esacerbata le forme della crisi.

Il deterioramento del modello imperiale (la decrepitezza dell’imperatore stesso, la degenerazione morale della sua famiglia, colpita da una fragilità parossistica), l’incapacità del sistema di regolarsi, di rimediare le proprie carenze e le imperfezioni sempre più acute (generate sostanzialmente dalla pressione delle tendenze emancipatrici delle nazioni), il decadimento della rigorosità legislativa, amministrativa e militare, fatto che portò a ciò che gli scrittori austriaci chiamano Schlamperei (una perdita sempre più accentuata dell’energia ordinatrice, della volontà di rigore), l’affondare voluttuoso in un edonismo collettivo tanto facile quanto inconscio, d’altra parte, la tendenza di rifugiarsi, come una specie di soluzione compensativa o proprio terapeutica, nella cultura, sia nelle sue forme minori, di consumo, sia nelle più elitarie manifestazioni artistiche, tutto ha contribuito, secondo numerosi storici, alla «devitalizzazione» politica dell’impero austroungarico. Il paragone con la Germania, realizzato, ad esempio, dallo scrittore austriaco Karl Kraus (ma non solo da lui), è nettamente a favore di quest’ultima. Lo spirito tedesco ha più forza e vigore, è più pragmatico, non ha estetizzato le proprie energie vitali. Da cui deriva, in rapporto all’Austria, la sua straordinaria espansione, non solo economica, ma anche politica e culturale.

Lo stesso Kraus ha la forza visionaria di formulare una grande verità. Questa parte dell’Europa è stata «il laboratorio in cui si è sperimentata la fine del mondo». Da qui, un acuto sentimento dell’apocalisse, vissuto, paradossalmente, nella memorabile espressione di Hermann Broch, come «apocalisse gioiosa». Secondo una storia del romanzo novecentesco, firmata da Felix Stoessinger, ci sarebbero ben quattro Apocalissi nella letteratura contemporanea austriaca: quella a livello mondiale, rappresentata ne Gli ultimi giorni dell’umanità di Kraus; l’Apocalisse del germanesimo, ne I sonnambuli di Broch; l’Apocalisse dell’Austria, ne L’uomo senza qualità di Robert Musil, l’Apocalisse del mondo occidentale, ne La torre di Hugo von Hofmannsthal.

Un altro motivo fondamentale del mito che stiamo analizzando riguarda appunto la cosiddetta «apocalissi absburgica», il finis Austriae, con le cause e le sue conseguenze. Secondo un anziano impiegato di corte, «rigorosamente parlando, l’imperatore Francesco Giuseppe regnò fino alla morte di Johann Strauss». L’ultima fase della civiltà absburgica appare infatti compresa tra due poli opposti, tra una malinconica consapevolezza del declino, sopportato con tacita dignità, e

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una leggerezza spensierata e operettistica. Due poli che sono le due facce di una stessa medaglia, due volti dell’ultima illusione mitteleuropea[92]. 

Le implicazioni della «catastrofe» (die Katastrophe) sono profonde:

 

“La corsa del Tempo tutta color di sangue si ferma nel 1918 e l’ultimo Asburgo il giovane imperatore Carlo I cerca di salvare il salvabile ma non riesce a salvare niente anche quello che ragionevolmente poteva salvare. Guai ai vinti, crolla l’antico mutano i tempi ma qual vita nuova fiorirà tra le rovine?

Le vocali d’oro A.E.I.O.U. si modificano come d’incanto in “Austria Erit In Orbe Ultima”.

Dalla catastrofe (die Katastrophe) nascono tanti stati nazionali con forti minoranze linguistiche mal tollerate e perseguitate o semplicemente ignorate perché falsamente non esistenti.”[93]

 

In contrasto con la catastrofe e l’odio rimane per la posterità l’idea di amore specifica alla civiltà imperiale. Il tono stesso del testo sembra animato da  “un cuore perdutamente innamorato d’amore”:

 

“Dopo la catastrofe gli uccellini di razza artista volarono per tutto il mondo e il mondo conobbe finalmente che cosa voleva dire civiltà austriaca o mitteleuropea, una civiltà da vedere, toccare, gustare con un cuore perdutamente innamorato d’amore.”[94]

 

In tal modo si configura il mondo austroungarico nella memoria e nella rappresentazione degli scrittori che Claudio Magris chiamava «esuli», dato che dopo il crollo del 1918 si trovarono senza patria. E il ricordo lasciato dal vecchio impero è veramente di notevolissima portata, cosicché “ancora il mondo austriaco o se si vuole il mondo della Mitteleuropa danno fascino vivo, moderno e pieno di raffinatezze tanto alle persone di una certa età quanto ai giovani di belle speranze.”[95]

A questa prospettiva tonica, fiduciosa nell’idea di Mitteleuropa si oppone un altro punto di vista, segnalato da Daniel Beauvois, in uno studio che ha suscitato parecchi dibattiti[96]. Non è, ovviamente, il solo. Per lui, lo stesso paradigma può essere una trappola del passato nel momento in cui viene pensato come progetto culturale di prospettiva. Non a caso egli cita Alain Minc, col suo disputato volume

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del 1989, La grande illusion. Entrambi riconoscono quanto sia stato importante per gli intellettuali mitteleuropei affermare una particolare identità, sia in rapporto all’Occidente, sia all’Est europeo, un’identità costruita in nome di un passato culturale. Solo che la realtà (la fine degli anni ottanta) dimostra tutt’altra cosa: “L’Europa è fatta di spazi disgiunti, e le sue attuali frontiere non hanno alcun significato; il vecchio cerchio europeo, al quale andava bene il nome di Mitteleuropa, è rotto. Dietro alla rinascita del mito viennese, cioè di Vienna tra il 1850 e il 1917, commemorato, festeggiato, animato attraverso mostre, colloqui, libri, si manifesta in realtà la nostalgia per quella Europa culturale: un territorio sacro, confinato da Monaco, Berlino, Vienna, Praga, Varsavia, Trieste, Venezia. Questa Europa dello spirito è morta: la Cortina di Ferro l’ha fatta emiplegica; il destino della Germania le ha tolto qualsiasi influenza culturale; Vienna è una città di provincia, Belino – un essere distinto, Praga – una città morta... La riconquista lenta, da parte dell’Europa Centrale, della sua propria identità, fa intravedere, certamente, la porta di una rinascita culturale. Non è un caso il fatto che i segni della Mitteleuropa hanno spesso preso la forma dei pretesti culturali, commemorazioni, mostre, colloqui... In questo mondo, la cultura è all’unisono con la deriva strategica del continente: la prima ha solo da approfittare di quest’ultima, la precede graziosamente e le ritma il progresso.”[97]

Continuando l’idea di Minc (emendabile e già emendata), Daniel Beauvois si chiede: “Ma perché questa rinascita culturale dovrebbe limitarsi a auto-celebrare un’identità? «La rinascita» non dovrebbe piuttosto significare rigetto radicale della chiusura imposta più di cinquant’anni, ed un’apertura verso una concezione tutta nuova dell’Europa?[98]

In nome dello stesso spirito critico (o «acutamente critico»), che rifiuta di idealizzare il passato e di immaginare, su questa base, un possibile modello culturale, ci sarebbe da rivalutare la stessa relazione tra culturale e politico, tra «il criterio culturale e l’esigenza politica», per utilizzare proprio il titolo di uno dei capitoli del testo citato. “È illusorio credere che potremmo accontentarci di un legame comunitario lasso, di tipo culturale, costruito più che altro sui rapporti interpersonali che non sulle istituzioni politiche. Un’Europa Centrale e dell’Est ispirata da questi principi non è che un bel sogno del passato, in quanto chi potrebbe esserne interessato? [...] Questo archetipo di un’Europa della cultura, seducente a livello estetico, ha l’origine nell’Europa francese dei Lumi, ma dubito che i risultati straordinari che essa ha avuto – e penso, ad esempio, all’eccezionale

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mostra Vienna 1900 – possano portare ad un modello sociale per la nostra epoca. La formazione di alcune scuole artistiche o intellettuali, che ha focalizzato ad un certo punto l’attenzione su Praga, Budapest, Vienna, Cracovia o Berlino, ha sempre avuto ragioni congiunturali e non ha mai coinvolto la totalità, in senso geografico, dell’Europa centrale.”[99]

Il punto di vista di Daniel Beauvois, lontano dall’essere singolare, deve essere attentamente esaminato. Esso sostiene esplicitamente l’idea di una «sola Europa». Il paradigma «Mitteleuropa» gli sembra passatistico, inoperante teoricamente e inefficace, sul piano pratico, «per i nostri tempi». Se dal punto di vista politico, economico, sociale, civilizzatore, il suo progetto globalizzante, integratore, si potrebbe convalidare, dal punto di vista culturale sembra rischioso. La cultura europea – anche nelle epoche che hanno affermato programmaticamente un ideale universalista ed unificatore di umanità (ad esempio, il Rinascimento e i Lumi) – ha provato una delle sue vocazioni fondamentali: la diversità, la pluralità, la molteplicità. Un’Europa monolitica dal punto di vista culturale, uniforme ed uniformante, monotona e, di conseguenza, scialba, verrebbe ad annullare la sua propria identità. Un’occidentalizzazione culturale senza sfumature, senza diversità, senza specificità zonali, potrebbe perfino annullare l’idea stessa di cultura europea.

Non ancora del tutto esaurito, l’argomento conserva intatto l’interesse dei ricercatori e il discorso sull’idea di Mitteleuropa e di cultura mitteleuropea rimane sempre attuale, data l’evoluzione dei paesi che appartengono a questo spazio, con le mutazioni storiche, economiche, sociali, nonché il ridimensionamento a livello mondiale dello stesso concetto di cultura.

 

 

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[1] Guy Scarpetta, Eloge du cosmopolitisme, Parigi : Grasset & Fasquelle, 1981 : 17.

[2] Fulvio Tomizza, Destino di frontiera. Dialogo con Riccardo Ferrante, Genova: Marietti, 1992: 49.

[3] Ibidem: 133.

[4] Enzo Bettiza, Mito e realtà di Trieste, Milano: All’Insegna del Pesce d’Oro, 1966: 50.

[5] Fabio Cusin, Appunti alla storia di Trieste (con saggio introduttivo di Giulio Cervani), Udine: Del Bianco, 1983: 87.

[6] Ibidem: 109.

[7] Ibidem: 193.

[8] Alberto Spaini, Autoritratto triestino, Milano: Giordano, 1963: 33.

[9] Angelo Ara e Claudio Magris, Trieste. Un'identità di frontiera, Torino: Einaudi, 1987: 20-21.

[10] Ibidem: 22.

[11] Spaini, op. cit.: 31.

[12] Ibidem: 32.

[13] Tomizza, Alle spalle di Trieste (Scritti 1969-1994), Milano: Bompiani, 1995: 36.

[14] Ibidem: 37.

[15] Cusin, op. cit.: 60.

[16] Cfr. Sorin Alexandrescu, “Europele provinciale”, in Secolul XX, n. 10-12/1999, 1-3/2000: 37.

[17] Ara e Magris, op. cit.: 202.

[18] Tomizza, Destino di frontiera, cit.: 44.

[19] Ara e Magris, op. cit.: 202.

[20] Apud Tomizza, op. cit.: 44.

[21] Czeslaw Milosz, „Atitudini central-europene” nel vol. Europa Centralã. Nevroze, dileme, utopii (vol. coordinato da Adriana Babeþi e Cornel Ungureanu), Iaºi: Polirom, 1997: 257-258.

[22] Cornel Ungureanu, Timpul îndreaptã erorile..., intervista realizzata da Vasile Sãlãjan, nella rivista Tribuna, Sibiu, 15.09.1977.

[23] Bruno Maier, Scrittori triestini del Novecento, Trieste: LINT, 1991, Prefazione alla seconda edizione: V-VI.

[24] Ferdinando Pasini, Mondo letterario giuliano del dopoguerra, nell’antologia Scrittori giuliani (a cura di Donatello D’Orazio e di Guido Sambo), Trieste: Triestina Moscheni & C, 1935: 24-25.

[25] Ara e Magris, op. cit.: 73.

[26] Nel “Corriere della Sera” del 16 aprile 1933.

[27] Ungureanu, Mitteleuropa Periferiilor, Iaºi: Polirom, 2002: 12.

[28] Elias Canetti, La lingua salvata. Storia di una giovinezza (traduz. it. di Amina Pandolfi e Renata Colorni), Milano: Adelphi, 2001: 43.

[29] Joseph Roth, La cripta dei Cappuccini (traduz. it. di Laura Terreni), Milano: Adelphi, 1979: 23.

[30] Carolus Cergoly, Il complesso dell’Imperatore (Collages di fantasie e memorie di un mitteleuropeo), Milano: Mondadori, 1979: 193.

[31] Jacques Le Rider, Mitteleuropa. Storia di un mito (traduzione italiana di Maria Cristina Marinelli), Bologna: Il Mulino, 1995: 95 [Edizione originale: La Mitteleuropa, Parigi: Presses Universitaires de France, 1994; versione romena: Mitteleuropa (trad. di Anca Opric, prefazione di Andrei Corbea), Iaºi: Polirom, 1997].

[32] Ferruccio Fölkel, “Giallo e nero era il mio impero”, in F. Fölkel, C. L. Cergoly, Trieste provincia imperiale – splendore e tramonto del porto degli Asburgo, Milano: Bompiani, 1983: 30.

[33] Cergoly, “Il pianeta Trieste”, in Fölkel, Cergoly, op. cit.: 268.

[34] Apud Fölkel, Cergoly, op. cit.: 286.

[35] Cergoly, Il complesso dell’imperatore, cit.: 19.

[36] Idem, Il pianeta Trieste, cit.: 280.

[37] Ara e Magris, op. cit.: 199.

[38] Magris, Danubius (traducere, note, capitol post-ultim de Adrian Niculescu), Bucarest: Univers, 1994: 425.

[39] Cergoly, Il pianeta Trieste, cit.: 285. 

[40] Fölkel, Giallo e nero era il mio impero, cit.: 9.

[41] Tomizza, Alle spalle di Trieste, cit.: 18.

[42] Ibidem: 19.

[43] Giorgio Voghera, Gli anni della psicanalisi, Gorizia: Goriziana, 1980: 111. 

[44] Bettiza, Mito e realtà di Trieste, cit.: 50-51.

[45] Ara e Magris, Trieste. Un’identità di frontiera cit., p. 45.

[46] L. Premuda, “La formazione intellettuale e scientifica di Constantin von Economo”, Rassegna di Studi Psichiatrici 6 (1977): 1327.

[47] Cergoly, Il pianeta Trieste, cit.: 288.

[48] Idem, Il complesso dell’imperatore, cit.: 18, 19, 82 e 139.

[49] A. Agnelli, La genesi dell’idea di Mitteleuropa, Milano: Dott. A. Giuffrè, 1971: 124.

[50] Lorenz von Stein, Oesterreich und der Frieden, Vienna, 1856: 47.

[51] Ibidem.

[52] Ibidem: 48.

[53] Aggiungiamo qui la giusta osservazione di Agnelli che « mentre la prima negazione steiniana appare ben fondata, altrettanto non si può dire della seconda », in La genesi dell’idea di Mitteleuropa, cit.: 249.

[54] von Stein, Oesterreich, cit.: 53.

[55] Ibidem: 54.

[56] Agnelli, La genesi dell’idea di Mitteleuropa, cit.: 250.

[57] von Stein, Oesterreich, cit.: 54.

[58] Ibidem: 52.

[59] Ibidem.

[60] Bettiza, Mito e realtà di Trieste, cit.: 43.

[61] Jacques Le Rider, Mitteleuropa, cit.: 58.

[62] Magris, Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, cit.: 27.

[63] Ibidem.

[64] Ibidem: 28.

[65] Ibidem.

[66] Ibidem: 15.

[67] Ibidem.

[68] Cergoly, Il complesso dell’imperatore, cit.: 194.

[69] R. Musil, L’uomo senza qualità (trad. it. di A. Rho), vol. I, Torino, 1957: 36.

[70] Cergoly, Il pianeta Trieste, cit.: 229.

[71] Magris, Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, cit.: 255.

[72] Scipio Slataper, Il mio Carso, cit.: 104.

[73] Umberto Saba, Personaggi regali, in Prose, cit.: 199.

[74] Idem, Inferno e paradiso di Trieste, in Prose, cit.: 817.

[75] Ibidem: 822.

[76] Magris, Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, cit.: 17.

[77] Cergoly, Il complesso dell’imperatore, cit., 148.

[78] Titolo di una raccolta lirica di F. Werfel del 1911.

[79] F. Werfel, Aus der Dämmerung einer Welt, 1936 (trad. it. di C. Baseggio), Milano, 1950: 13 e 16.

[80] Ibidem.

[81] Ibidem: 19-20.

[82] Cergoly, Il complesso dell’imperatore, cit.: 189.

[83] Idem, Il pianeta Trieste, cit.: 283.

[84] Idem, Il complesso dell’imperatore, cit.: 188 e 194.

[85] Ibidem: 188.

[86] Werfel, op. cit.: 24-25.

[87] Cergoly, Il complesso dell’imperatore, cit.: 190.

[88] Ibidem.

[89] Ibidem: 191.

[90] Ibidem.

[91] Ungureanu, “Europa Centralã ºi Europa periferiilor”, postfazione al vol. Europa Centralã. Nevroze, dileme, utopii, cit.: 414.

[92] Magris, Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, cit.: 185.

[93] Cergoly, Il pianeta Trieste, cit.: 267.

[94] Ibidem: 265.

[95] Ibidem: 266.

[96] Daniel Beauvois, L’Europe du milieu, Presses Universitaires de Nancy, actes du colloque organisé par le Groupe de recherche sur l’Europe Centrale de l’Université de Nancy II, sept. 1989.     

[97] Beauvois, “Sã nu ne înºelãm asupra paradigmei”, nel vol. Europa Centralã. Nevroze, dileme, utopii, cit.: 90.

[98] Ibidem.

[99] Ibidem: 94-95.