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Il locus amoenus in Petrarca

ossia la metafora di uno spazio

 

Monica Fekete

Università di Cluj

Valchiusa! Il nome che si associa spontaneamente a questa località della Provenza è quello del poeta, studioso, trattatista Petrarca. Ma che cos’è Valchiusa? Rispondere alla domanda si rivela difficile. Non credo esista un’unica risposta, dubito che questo spazio talmente aperto e contemporaneamente tanto chiuso, che sovrasta a tanti altri possibili ritiri, abbia un solo significato. Si tende verso la polivalenza che permette il connubbio tra reale e immaginario. Ma esiste un confine determinabile tra i due estremi? È veramente Valchiusa per Petrarca la grande scoperta della natura? O è un semplice scenario della solitudine? Oppure è la condizione sine qua non dell’otium letterario, o la cornice oltremodo stilizzata, idonea alla bellezza femminile?

Indifferentemente dal senso attribuito alla terra petrarchesca, rimane indubbio il fatto che il paesaggio provenzale si converte in un locus amoenus, nettamente definibile in quanto tale non esclusivamente nel Canzoniere, ma anche nel De vita solitaria, in alcune delle Familiari, in numerose epistole metriche, e nei Trionfi. La presente relazione si soffermerà sulle prime due opere menzionate nonché su alcune epistole metriche.

Il De vita solitaria regala al lettore luoghi indimenticabili per comprendere il significato profondo della solitudine in cui si ritira deliberatamente Petrarca. Infatti non si può che concordare con l’opinione di Giorgio Ficara che immagina Valchiusa come il "teatro della solitudine" [1] considerandola il più raffinato, bello, armonico palcoscenico dell’umanista, ansioso di rifugiarsi in mezzo alla natura e di tornare indietro nel tempo per scoprire la serenità degli antichi, per penetrare nella profondità della cultura classica.

In un certo senso Petrarca rifà qui l’iter della "bella scuola" (il sintagma dantesco rafforza la necessità dell’esistenza di un canone degli auctores e l’obbligo a ricorrervi), anche se gli intenti dei due poeti differiscono. Ma perdura sia in Dante sia in Petrarca l’ammirazione per gli spiriti magni e, non esclusivamente, dato che la loro collocazione in un luogo ideale, anzì in un’utopia personale, diventerà un saldo punto comune che collegherà le loro affinità nella predilezione per un mondo letterario scomparso ma rinato per la forza della riscoperta e della fantasia. Sebbene Dante collochi idealmente il suo primo locus amoenus nel luogo consacrato alla punizione umana, cioè nell’ Inferno, nonostante questa sistemazione curiosa, è ben presente tutto l’armamentario tipico del topos:

Venimmo al piè d’un nobile castello

sette volte cerchiate d’alte mura,

difeso intorno d’un bel fiumicello

[]

Giugnemmo in prato di fresca verdura [2].

riuscendo ad illuminare le tenebre infernali grazie alla luce della sapientia, e al tempo stesso a conciliare la dualità del poeta e quella del cristiano. Sebbene il dissidio interiore non sia estraneo neppure a Petrarca, le sue ragioni di ‘creare’ uno spazio ideale si allontanano da quelle dantesche. Il termine ‘creare’ può essere giudicato sbagliato da un certo punto di vista, poiché Valchiusa esiste, è uno spazio concreto, rintracciabile sulla carta geografica – una piccola valle solitaria e amena, a 15 miglia da Avignone, dove nasce la Sorga; le descrizioni fatte dal poeta stesso sono numerose, ne riporto due: "in quella mia campagna che t’ho detto, che si nasconde presso la sorgente limpida e sonante della Sorga a una distanza di quindici miglia" [3] o "[…] su un’orrida rupe, Avignone, una volta Avenione, dove oggi il Romano Pontefice Massimo, abbandonata la propria sede e a dispetto della stessa natura, si sforza di costruire immemore del Laterano e di Silvestro, la capitale del mondo. Di qui, sempre risalendo la corrente tre miglia o poco più, ti verrà incontro, a destra, limpido come argento, un altro corso d’acqua; piega il tuo cammino: è la Sorga, il più tranquillo dei fiumi" [4]. Ma questo spazio viene rivestito da artifici poetici che lo proiettano in una dimensione idealizzata. Petrarca è alla ricerca di una conferma. Perciò ricorre ad un lungo elenco di nomi dei diversi "solitari" (scrittori, filosofi, religiosi, imperatori, settanti esotici appartenenti a terre lontane, mitiche) disposti ad autorizzare la sua propria solitudine, mai minacciata dall’anxietas, dal tedium e dall’assenza della cultura. Di conseguenza Valchiusa si trasforma nella cornice adatta al ritiro dal mondo, in un locus amoenus che propone l’alternativa, che diventa l’"altrove" tanto desiderato in mezzo al caos, alla "confusione infernale" [5]. Alla fuga dalla curia avignonese subentra l’"angelica solitudine" [6] e la libertà conquistata. La netta contrapposizione tra città e campagna [7] (in quanto luogo appartato) viene dichiarata sin dal proemio; vengono palesati tanto gli effetti malefici della prima quanto quelli benefici della seconda: "infelice abitatore delle città"/"l’uomo solitario e libero da affari, sereno"; il cittadino viene "trascinato, spinto, accusato, diffamato"/ il solitario, allegro, si reca "nel bosco vicino, libero e tranquillo", e si ferma "non appena raggiunto un sedile di fiori" e "prorompe con devozione, nelle quotidiane lodi di Dio (tanto più amabilmente se il lieve mormorio di un ripido torrente o dolci richiami di uccelli si accompagnano ai sospiri devoti)" [8].

Petrarca si reca a Valchiusa nel 1337 e acquista una casetta presso la Sorga; la le necessità del ritiro a 34 anni (quasi "Nel mezzo del cammin di nostra vita") sorge da motivi personali, che il poeta fa coincidere con la nascita di suo figlio da una donna che rimane sconosciuta e con la morte della donna amata da Gherardo. Le vere ragioni invece sembrano dipendere piuttosto dal bisogno urgente dell’otium dedicato alle lettere, di reperire "un luogo di pace adatto alla missione dell’intellettuale e dell’umanista" [9]. Il rifugio presso la Sorga, lontano dal chiasso cittadino, si offre al poeta come l’unico luogo veramente propizio per il compimento degli studi e per la scrittura, poiché la sua attività letteraria risalente ai vari soggiorni valchiusani è impressionante (Africa, Bucolicum Carmen, Epystole, De viris illustribus, De vita solitaria, De otio religioso, Rime). Perciò l’alternativa non soltanto si fa possibile, bensì diventa reale e duratura. Non si tratta solo di un mero artificio poetico alla ricerca dell’idillio e destinato ad una vita effimera, atto a proporre l’ 'altro mondo', contrapposto a un presente ingombrante che schiaccia l’individuo. Quasi sempre l’alternativa contiene in sé, sin dall’inizio, i germi della sua scomparsa imminente. Eppure, paradossalmente, non ne è esente nemmeno Petrarca: si tratta del Petrarca poeta dell’amore risentito per Laura (è un discorso però che deve esser fatto quando tratteremo del Canzoniere) e dell’io diviso e frammentato che sta alla base delle sue rime (si parla addirittura dell’assenza della natura e della presenza esclusiva degli stati d’animo che modulano il paesaggio già stilizzato).

Riprendendo il filo del nostro discorso, la vita solitaria si offre come una sorta di medicina per l’anima sopraffatta dal chiasso cittadino, è il conforto che necessita per acquisire la libertà spirituale. Siccome Petrarca abbandona fisicamente il frastuono, si rende urgente la scoperta di un altro luogo: come la solitudine sine literis è simile alla morte (afferma lo stesso Petrarca nelle Seniles, 82, 4), allo stesso modo diventerebbe angosciosa una solitudine senza un luogo sicuro di approdo. A questo punto si apre un gran divarico tra Petrarca e i suoi cari antichi; secondo questi ultimi (certamente si tratta solo di una parte di loro) la solitudine si può godere, anzì si deve godere dovunque: può esistere un ritiro immaginario possibile sia in mezzo al caos sia nel seno della natura. L’atmosfera inquinante si può allontanare tramite un semplice distacco mentale. La contraddizione diventa palese, se si confrontano le opinioni di Quintiliano con quelle petrarchesche. Nonostante tutti e due accettino l’idea di una solitudine proficua e adatta ai dotti, realizzata in un luogo appartato, "non si deve – secondo Quintiliano - […] dare ascolto a quanti ritengono luoghi adattissimi per questa attività boschi e selve, perché il cielo aperto e l’amenità dei luoghi innalzano l’animo e rendono più lieto lo spirito; questo genere di ritiro mi sembra davvero piuttosto una cosa piacevole che un incentivo agli studi" […] "Pertanto l’amenità delle selve e il vicino scorrere dei fiumi e il fruscio del vento tra i rami degli alberi e il canto degli uccelli e la stessa libertà di guardarsi attorno […] attraggono a tal punto che questo piacere mi sembra che attenui più che aumentare la concentrazione del pensiero" [10]. Petrarca confuta questa tesi, servendosi sempre dei classici per cui il luogo ameno si rivelava tutt’altro che dannoso allo studio. In questo senso bastano due nomi a convincerci: Marco Tullio e Virgilio Marrone, il primo cercava "querce frondose e ameni recessi […], un isolotto posto nel mezzo di un fiume", mentre il secondo si recava spesso "sui monti e nei boschi, aggirandosi tra il denso fogliame" [11].

Infatti secondo Petrarca nulla è più caro alle Muse che il ritiro nei boschi, "in luoghi verdeggianti e in riva a un gorgogliante ruscello" [12] (Valchiusa!). Di conseguenza, garantita sempre dall’autorità degli antichi, Petrarca propone la propria "alleanza tra bellezza dei luoghi e bellezza dell’anima" [13], un compromesso ideale perché l’uomo possa realizzare le sue più autentiche aspirazioni, perché possa liberarsi dall’alienazione e possa sentirsi più vicino a Dio e a se stesso.

La grande difesa della solitudine e, conseguentemente, del locus amoenus, continua trovando conferma in un lungo elenco di nomi illustri. Petrarca combatte con veemenza l’opinione secondo cui la solitudine non sarebbe altro se non un nido di azioni malvagie, di empie passioni. La conclusione è che la solitudine è una condizione sina qua non del dotto, dello studioso, del poeta perché goda di uno stato di dedizione totale allo studio delle lettere. Ovviamente si tratta di un topos ricorrente della letteratura latina; la condanna della vita affannosa della città e l’esaltazione della vita semplice della campagna torna più volte nelle pagine di Virgilio, Orazio. La differenza risiede nella prospettiva: Petrarca non si limita a riprendere quella classica, ma anche quella cristiana. Si ristabilisce così, in un certo senso, sulle tracce dantesche, la continuità tra classici e verità cristiana. Se Dante affidava a Virgilio il compito d’ illuminare la strada dei suoi successori, in Petrarca, la stessa parte sarà recitata da un coro intero di dotti.

Petrarca propone un processo d’ interiorizzazione assoluta della sapienza, attuabile solo, secondo Marco Ariani, tramite "l’elezione di un luogo segreto del cuore in cui conversare con gli antichi, lontano dagli smodati desideri, dal tempo, in cui si plachi l’inquietudo animi e rinasca dal profondo di una vocatio assoluta, l’angelicus homo" [14].

Tuttavia, per creare la disposizione necessaria al colloquio con gli antichi nonché alla composizione letteraria propria, la sola cornice idillica non si rivela sufficiente; Petrarca vi aggiunge ancora due elementi non trascurabili: la presenza indispensabile degli amici, e la sottrazione alle lusinghe femminili. Le visite degli amici con cui condividere i propri pensieri e la dotta conversazione con la folla degli auctores, diventano fattori essenziali al poeta solitario, che, pure isolato dal male cittadino, non può rinunciare alla comunicazione. Egli non si trasforma in un selvaggio, mantiene invece la "giusta misura" ciceroniana. Ma ovviamente si tratta di un universo chiuso e il criterio di selezione è severo – si tratta di un gruppo di amici, una sorta di élites che si rendono compartecipi degli stessi gusti. Proprio quella mancanza della giusta misura viene rimproverata ai bramani che, sebbene siano citati come modello di una razza che vive in una regione solitaria, oltre il Gange, dove "l’aria è assai salubre, non molto lontano […] da quei luoghi in cui si crede sorgesse il paradiso terrestre" [15], mena una vita paragonabile a quella degli animali. Pare si tratti di una setta che ha addirittura scoperto il paradiso: filosofavano andando nudi per le più remote solitudini, "il loro cibo è costituito da erbe o bacche, le loro vesti, se pure ne hanno, sono fatte di fronde; le loro case infine sono di rami, i letti di fiori; si dissetano alle sorgenti" [16]. Il giardino edenico sembra rinascere in questa terra lontana, proprio dalle costanti del locus amoenus, costanti tutte presenti e tali da portare chi ci vive a un modo di vita primigenia, anche se paradossalmente non priva però di cultura. Petrarca avverte i lati positivi dei bramani, ma non si può astenere da un giudizio negativo che accusa i settanti di una trascuratezza rozza e disumana, che si manifesta nella loro nudità e nella loro indifferenza al cibo. Ci si imbatte in una sfumatura di contraddizione nelle affermazioni di Petrarca, dato che lui rinuncia al lusso cittadino, considerato contrario alle sue preoccupazioni, tuttavia in mezzo alla cornice idillica valchiusana Petrarca trasferisce un minimo di conforto, concretizzato nella casetta e pure nel cibo, anche se frugale e sobrio.

L’altro elemento costitutivo della vita solitaria – la mancanza della presenza (forse tentazione) femminile provocherà un altro contrasto. L’affermazione che le persone per cui il principale diletto sono i boschi e i prati devono assolutamente evitare le lusinghe femminili perché "chi trascurerà di fare ciò, sappia che dovrà essere scacciato dal paradiso della solitudine per quella stessa ragione per cui il primo uomo fu cacciato dal paradiso della gioia" [17]; non farà altro che urtarsi violentemente contro il senso originario di Valchiusa, contro a quello che suppone la sua esistenza, cioè Laura. La teoria sarà dunque lodevole, ma la messa in pratica invece viene spesso intrappolata dal dissidio interiore. Benché Laura manchi nell’elogio della vita solitaria, il suo nome è indissolubilmente legato ai dintorni della Sorga e, implicitamente, non di rado, il rifugio isolato del poeta sarà affollato dai fantasmi e dalle epifanie della donna. In un certo senso Valchiusa diventa un vero e proprio paradiso grazie all’assenza-presenza femminile.

Nonostante la compagnia scelta degli amici e il fantasma femminile, Valchiusa resta un nido della solitudine. Come paesaggio, stilizzato, il locus amoenus esteriore ("Ti scorre accanto il tuo Sorga, re delle sorgenti, […] vicino a te è il rifugio di Valchiusa, assai vasto e ameno; così infatti la chiama la gente del luogo, così la natura ha voluto che si chiamasse quando, circondata da colline, l’ha posta fuori da ogni strada e da ogni concorso d’uomini" [18]) è trasfigurato in uno interiore, dell’anima. Desiderato da molti, è raggiungibile da pochi eletti. Gli ingredienti di questo giardino mentale lussureggiante sono "un buon numero di libri, una dolce passione per la lettura e la capacità di comprendere e di ricordare accordatati dal Cielo e sviluppata da uno studio che non conosce soste" [19].

Il paradiso interiore, rafforzato e rallegrato dalle bellezze della natura, si impegna a compiere la via purificativa tramite la meditazione e la preghiera, e a far raggiungere allo stesso tempo l’intento massimo del Petrarca umanista e cristiano, vale a dire quello dell’elevazione dell’anima mediante lo studio dei classici e il virtuosismo della poesia, un’esperienza unica e personale, condivisa con il cerchio ristretto degli amici eletti.

La barriera che si apre e si chiude a seconda del criterio dell’amicizia e che permette l’accesso al mondo culturale e interiore di Petrarca, funziona anche a livello dello spazio. Quest’ultimo si configura come un luogo chiuso, cioè un giardino. Se tutto il libro contiene allusioni in questo senso, esse si trasformeranno in chiusura del trattato in una vera e propria affermazione: "lì nel mio giardinetto" [20]. Il fatto è essenziale. Non si può negare in Petrarca una grande novità: è lui che scopre veramente, da un certo punto di vista, la natura, più concretamente il paesaggio del giardino. Si riconosce in lui uno degli anticipatori del grande mito del giardino, così caro al Rinascimento.

Che il giardino del De vita solitaria sia popolato dai fantasmi del passato, dagli spiriti antichi che elogiavano la sapienza, è innegabile, però il Petrarca cristiano non può chiudersi nel cerchio dei dotti e trascurare un altro lato, non meno importante, che viene varie volte esplicitato nel libro. Il Parnaso solo è insufficiente, la perfezione viene offerta da una sorta di dedica: Petrarca investe il suo giardino di sacralità e lo offre, solenne e reverente, a Maria, "il cui parto ineffabile e la cui feconda verginità abbatterono tutti gli altari e i templi degli dei" [21]. La lode della vita libera di incombenze e della sua componente essenziale, il giardino, si conclude in chiave cristiana. La fede di Petrarca, definibile come ascesi alle verità eterne tramite la cultura e l’esercizio poetico, acquista in questo modo la sua maggiore intensità.

Se il paesaggio di Valchiusa viene circoscritto nel De vita solitaria in quanto giardino, sempre in questa direzione vanno varie altre definizioni estratte dai suoi scritti. Ne offriamo un assaggio brevissimo, ma altrettanto squisito:"orto pieno di fiori" (Epistole metriche, III, 3); "questo mio orticello", "mio orto" (Epistole metriche, III, 1); "piccolo ombroso giardino" (Le Familiari, VI, 3).

Per guadagnarsi il luogo privilegiato c’è da percorrere una strada abbastanza lunga e difficile. La natura non si offre di per sé come locus amoenus, come giardino meraviglioso, tutt’al contrario, le forze naturali si oppongono acerbamente ai vari tentativi di appropriazione, intrapresi del poeta, di quella intima parte dell’immensità naturale. Petrarca si trasforma in un vero e proprio guerriero e compie delle gesta straordinarie, che si concretizzano in ripetute battaglie, combattute al fine di domare la natura. Una delle epistole metriche rende mirabilmente questo sforzo sovrumano: si tratta della III, 1, indirizzata al cardinale Giovanni Colonna, generoso prottetore di Petrarca. Vi si narra della lotta con le Ninfe della Sorga, deputate a raffigurare gli elementi naturali che resistono alla volontà ricreatrice. Il paesaggio di Valchiusa comporta in sé l’aspetto essenziale dell’evasione: si configura come uno spazio appartato, desiderato tanto dall’anima irrequieta e malata, nauseata dal tumulto cittadino. Ma era contemporaneamente un luogo selvaggio che disponeva delle proprie leggi. Nel momento in cui le leggi della natura vengono infrante, la dura e intempestiva replica non tarda a venire.

Un giardino mentale preesiste nella mente del poeta-costruttore, e quest’immagine si sovrappone a quella reale: Petrarca scopre e visualizza. Quello che gli si affaccia agli occhi è un "campicello irto di sassi" [22] su cui viene proiettato un paesaggio ideale. Il piccolo campo diventa motivo di lite, di guerra, dato che la fantasia poetica avverte l’unicità del luogo, prescelto a servire il ritiro del poeta insieme al coro delle Muse. La lotta sta per iniziare: la resistenza della natura-nemica dev’essere stroncata per rendere questo paesaggio, che rispondeva alle necessità del poeta, da selvaggio e aspro a mite, cioè per trasfigurarlo in un giardino inaccessibile, nascosto allo sguardo del volgo sciocco e, nello stesso tempo, capace di ridiventare un nuovo paesaggio edenico. La battaglia dunque non si può mancare, e si rivela molto acerba; la natura non si lascia vincere facilmente. Tutto si configura in attacchi rinnovati fino alla vittoria definitiva del poeta e, sostanzialmente, fino alla grande rivincita dell’antichità. Il linguaggio guerriero, adoperato nei tentativi di adattare la natura alle esigenze di un appassionato letterato-umanista, si contrappone a quello celebrativo della vittoria, il cui frutto intensamente desiderato consiste nella creazione-ricreazione di un giardino edenico, tutto suo e delle sue care Muse (il suo Elicona, il suo Parnaso), dove "celebrare i trionfi della sacrosanta antiquitas" [23].

Petrarca lancia un caloroso invito a Giovanni Colonna per convincerlo dell’esistenza di un mondo ideale e un eterno presente, lontani e separati dal tempo storico con le sue ostilità, generati con e per gli antichi come "scena di un rito del e per l’antico" [24], e dallo stesso impeto di sconfinata ammirazione, espressa nel De vita solitaria.

Il giardino assume tutte le caratteristiche di un luogo ameno: "Un giaciglio ti darà l’erba, un tetto gli alberi coi loro verdi rami, e la cetra l’usignolo, che non ancora cedé all’amore e gorgheggiante canta […] Io, se vuoi, ti offro i miei facondi libri e i cori dele Muse e un sedile che sovrasta le domate Ninfe, anche ti offro colli coperti di pampini e di gremiti grappoli, e dolci fichi, acqua or ora attinta dal mezzo della fonte e canti d’uccelli innumerevoli e rifugi tra i monti e curvi recessi e la fresca ombra dei boschi nelle valli irrigue" [25]. Ma per poter acquisire questa natura ‘aggiustata’, lo scontro tra uomo-natura, tra inverno-estate si rinnova ogni anno. La motivazione è talmente forte che cancella i dubbi e le esitazioni: le lotte ripetute si giustificano, dato che l’esito è chiaro: le stagioni scompaiono e si raggiunge la primavera eterna, fissata già dentro lo spazio del locus amoenus da Virgilio e da Teocrito. Si prefigura l’arte del giardino, a cui si concedono presenze e sfumature diverse nel Medioevo italiano, anticipando l’immensa fortuna di cui goderà nell’Umanesimo e nel Rinascimento; essa è d’altronde inseparabile dall’arcadia letteraria, dal luogo di delizie degli dei e delle ninfe. Petrarca scaccia le presenze tradizionali e vi colloca i propri dei. È interessante vedere quanto siano complessi i rapporti che si stabiliscono tra la parola letta, da una parte, e la visualizzazione, dall’altra; quanto sia importante ricorrere al modello dell’innocenza, della pace di questi giardini nei quali tutto diventa possibile perché qualcuno si ritira dal mondo per poter godere di quello che gli altri ignorano. Nel momento in cui la scrittura-modello coincide con la visualizzazione ideale nasce l’arte del giardino. Come scrive Giulio Carlo Argan: "l’idée selon laquelle le jardin est un lieu naturel modifié par l’intervention de l’homme à des fins esthétiques naît du concept de la propriété privée des biens naturels et de la convinction que le beau naturel peut être perfectionné par l’action humaine" [26]. Pure in Petrarca il giardino concorre alla perfezione del luogo, attuando il sogno umanistico dell’evasione, sempre contrapposto alla malvagità della città. La separazione è sorprendentemente forte e rafforzata non solo spiritualmente, ma anche materialmente, dato che il suo "orto pieno di fiori vari" è recintato "una parte […] dal fiume profondo, un’altra dalle rupi scoscese di un freddo monte.[…] Un altro lato […] da un rustico muro, che impedisce l’accesso agli animali e agli uomini " [27]. L’ingresso è chiuso, la proprietà è davvero privata e vengono protetti i beni naturali, ma quest’ultimi non rendono il senso a cui allude Argan. I beni materiali sono ignorati, la fortuna è quella spirituale, che può essere, sì, condivisa, ma solo dagli iniziati.

In un’altra epistola, indirizzata allo stesso Giovanni Colonna, in ringraziamento per avergli regalato un cane, Petrarca con il pretesto della bestiola, torna al suo argomento prediletto: Valchiusa. Riappaiono nello stesso cumulo tempestoso le fresche fonti, gli uccelli, i prati, il limpido fiume che preservano l’armonia, la letizia, la pace e la solitudine dello studioso. Sorprendentemente quel cane non diventa solo il suo compagno perfetto, ma si rallegra di quello spazio, ci vive felice e libero, e si trasforma in un vero e proprio cerbero, in un guardiano arcigno che pare aver compreso i pensieri del padrone che vuole conservare intatto l’eden ricreato, cioè il luogo deputato dello studio e dello scrivere.

Nello stesso discorso si può inserire anche la III, 3 delle Metriche, inviata a Guglielmo da Verona, celebre oratore a cui lo legava un’affettuosa amicizia. Benché la ragione della lettera sembri essere l’incontro di Petrarca con la donna che l’amico aveva amata ad Avignone dieci anni prima, l’incipit, che mette in rilievo per l’ennesima volta l’opposizione città-campagna (torbida la prima, amena la seconda), introduce il sempre vaggheggiato sogno umanistico: "le mie lucide fonti e la mirabile sorgente del Sorga, che suol essere di valido sprone ai poeti e crescer l’ali al loro estro" [28], Valchiusa un’altra volta, cioè indelebilmente il più amato dei suoi piacevoli rifugi. La sua avversione per la città provoca necessariamente l’alternativa dell’evasione, e si esprime nell’odio risentito verso Avignone, un luogo-inferno (c’è un ossimoro velato – la città provenzale era pur sempre la sede papale) senza il quale Petrarca si sarebbe trovato sprovvisto tanto dei vari e noti incontri con studiosi e scrittori che venivano da tutta l’Europa, quanto delle occasioni di studio e di lettura che gli offrivano le biblioteche private – due aspetti determinanti per la sua attività intellettuale. Petrarca deve tanto ad Avignone, ne è cosciente eppure la rigetta con ostinazione ed ostilità, parzialmente sofferta, parzialmente metaforica.

Di conseguenza si leggittima un’altra volta il rifugio del solitario in mezzo al giardino inattaccabile e lontano dalle insidie. La libertà e la pace vengono offerte, come al solito, dalle costanti del locus amoenus seminatevi con tanta cura e passione da suscitare l’estasi contemplativa al veder e al sentir dello spettacolo naturale estremamente coinvolgente. L’anima si rende subito compartecipe della gioia, non può rimanere indifferente di fronte a tante bellezze. E la rimembranza di un giorno passato insieme, soggiogati dall’otium letterario, si addolcisce sempre più. Tutti gli elementi naturali sembrano rispecchiare il volto dell’amico e il ricordo del dolce incontro: "Su questo balzo stanchi sedemmo, su queste erbe taciti ci adaggiammo; qui piacevolmente ragionammo mentre le pure onde scorrevano sotto di noi; qui ci fu dolce richiamare dal lungo esilio le Muse e insieme confrontare tra loro i greci e i latini poeti, e ricordare le loro sacre fatiche, dimentichi delle nostre […] l’uno e l’altro ristorandoci con alterno colloquio" [29]. Al paesaggio di Valchiusa si affida il valore di simbolo dell’attività spirituale indipendente, libera da condizionamenti, dedita al culto della poesia, alla "riconsacrazione" dell’immortalità della letteratura classica. In essa e nei suoi autori Petrarca avverte un modello insuperabile di sapienza, di perfezione stilistica. Perciò li guarda con un sentimento misto di venerazione e di nostalgia, perché vede quanto quel modello sia distante dalla realtà ingombrante del presente. La stessa lontananza e il rimpianto per un mondo perduto vengono espressi nello sforzo di ricreare mediante l’arte della retorica un luogo paradisiaco che funga da cornice idonea all’appuntamento col Modello. Dalle epistole scaturisce dunque lo stesso significato, concesso già al paesaggio-giardino nel De vita solitaria, dell’utopia petrarchesca. Ma è il profondo senso del giardino che conduce le ripetute raffigurazioni oltre il mero artificio e la vuota stilizzazione.

La più stupenda esaltazione del suo rifugio ci viene tuttavia da un’altra epistola (I, 4) mandata a Dionigi da Borgo di San Sepolcro, col motivo di invitarlo a visitare Valchiusa. La lettera offre la più sostenuta descrizione del paesaggio, nella quale, anche se ci sarà una forte stilizzazione della natura, si avverte paradossalmente anche la grande scoperta protoumanistica e umanistica del paesaggio. Petrarca diventa veramente un promotore: "Se non ti alletta il limpido specchio di questa fresca sorgente; o gli arcani recessi di questi boschi chiusi in ombrose valli, ma ben nota dimora alle mansuete fiere e alla schiera delle Driadi e dei Fauni; o questi antri così cari ai sacri poeti che si aprono sotto apriche rupi; se non ti attrae quest’aria così clemente […]; se no ti piace la bacchica vite o l’albero caro a Minerva o a Venere; se l’occhio tuo non muovono i prati che cuoprono l’una e l’altra riva, ombrati dall’albero sacro a Ercole e costellati di mille fiori e d’erbe soavemente verdeggianti; o questo fiume che attraversa i campi e scendendo da fonte perenne riempie Valchiusa del suo mormorio che invita al sonno, vedendo qua e là mille danze di Ninfe e ascoltando il canto delle Muse; o la tortora che piange la morente amica […]; o Filomela, che canta il suo triste fato […]; o la rondine, che appena fa giorno s’alza a volo e piange la ferocia del marito […]; se tutto ciò non ti alletta, e neppure i molti fiori del giovinetto Narciso, che pieno di stupore ammira nel fonte il suo bel viso e innamorato si china sullo specchio delle acque; o Atteone che, alte le corna, per aspri selvosi sentieri fugge i compagni e i cani; o colei, cui si dice spiccasse dalla testa del padre il purpureo capello e col suo tremulo canto s’alza fino alle nubi per osservare dall’alto Niso vendicatore […] tutte le mie preghiere furono vane!" [30].

Il gusto della contemplazione è fatto qui più vivo che mai: ci si immerge nella vera e propria estetica del paesaggio, la cui bellezza acquista senso di per sé. Mancano i significati nascosti, il giardino-paesaggio offre uno spettacolo naturale in cui niente si inserisce a turbare la bellezza immemore ed arcana. Il tempo viene cancellato, o piuttosto sostituito con la dimensione estetica. Valchiusa si tramuta in un giardino dei sensi, la vista, l’udito, l’olfatto sfruttano massimamente le meraviglie sciorinatevi. È un paesaggio reale o ideato? Né l’uno né l’altro, oppure tutti e due? Non è facile rispondere. In un certo senso lo stesso dubbio assaliva la nostra mente anche nel caso del De vita solitaria, e non si può che riconfermare l’esistenza concreta di Valchiusa e il suo combaciare con la sua bellezza naturale. Petrarca celebra la realtà, però intesse il suo inno con un sostegno stilistico: il locus amoenus è sottoposto al procedimento retorico, caro al Rinascimento, dell’ amplificatio. E c’è la presenza, altrettanto gradita dagli stessi rinascimentali, della mitologia. La descrizione è cosparsa, come si può notare, di ripetute presenze mitologiche, il cui compito essenziale coincide con l’esaltazione della ricchezza vegetale e animale dello spazio prediletto. Petrarca non si limita a un semplice elenco dei personaggi mitologici, ma si addentra nella profondità del mito, che espone con i vari dettagli. L’elevatezza del lavoro artistico si manifesta tramite queste figure che nascondono personificazioni di fiori, alberi, animali. Vengono riattuati i miti di Narciso; di Procne, e Filomela trasformati in rondine e usignolo; di Atteone trasformato in cervo da Diana per averla sorpresa mentre si bagnava nuda; di Ciris trasformata in allodola; di Esaco, colpevole della morte della ninfa Esperia, subendo la metamorfosi in uccello marino che porta il nome della ninfa ecc [31].

La stessa modalità della descrizione del giardino-locus amoenus sarà ripresa poi da Poliziano nel suo giardino di Venere. La differenza che lo separa da Petrarca si palesa al livello delle sfumature. Anche le personificazioni polizianesche celano i fiori del giardino – Narciso, Clizia, Adone -, però denotano allo stesso tempo il loro statuto di vittime d’amore. Nel caso di Poliziano, dato che il giardino di Venere rappresenta il mito stesso, questa tecnica mi sembra più plausibile, mentre in quello di Petrarca, anche se si rivelano indubbiamente il gusto estetico e l’impegno artistico, mi sembra forse un po’ forzato. Voglio dire che in Petrarca da un lato si conservano gli elementi naturali, dall’altro, la stilizzazione è estrema. Antonio Prete affermava [32] che l’arte occidentale dei giardini si esprimeva in forma artificiale: aiuole, prospettive, giochi d’acqua, fontane, grotte, simmetrie, decodificabili in analogia a quello che nella retorica sono gli stili. Si trattava cioè di una "coltivata disciplina del piacere e del naturale". L’osservazione è giusta se prendiamo in considerazione Poliziano, Ariosto, Tasso. Mentre Petrarca si trova a metà strada, poiché nella sua epistola si ritrova un paesaggio naturale, concreto e reale che viene investito parzialmente dell’artificio. I grandi poeti rinascimentali emulano solo la parte dell’artificio, visto che i loro giardini sono ricostruzioni di varie isole mitiche; l’eccezione si fa sentire solo in Ariosto e nella descrizione dell’isola di Belvedere (un’isola veramente esistita, creata dalla casa D’Este, e resa in modo raffinato dal poeta nel suo Orlando Furioso). Menzionando Ariosto, pare doveroso metter in risalto un altro possibile legame tra lui e Petrarca: nello spazio dedicato al locus amoenus si ricrea la corte imperiale. Se si continua la lettura della stessa epistola inviata a Dionigi, si nota un’interessante allusione: Petrarca, dopo il tentativo di attirare il destinatario con il miraggio di un paesaggio allettante, dichiara che le lodi di Valchiusa sono state già stese dal "gran" Roberto d’Angiò, che vi aveva fatto una sosta con il suo corteo. L’immagine del re è quella stessa di Petrarca, solitario, pensieroso, appartato dal gruppo rumoroso e giocondo che riempie il silenzio del paesaggio con il rumore dei giochi mondani. Quello che si trova in germe qui, acquisterà una grande voga alle corti cinquecentesche: crearsi rifugi naturali, giardini per evadere dalla città, dai doveri. In pratica si realizzava non la solitudine, ma solo il trasferimento della vita mondana in mezzo ad una natura idillica. L’esito differiva dall’intento: l’essenza edenica del giardino si trasformava nell’elogio della vita in villa. In un certo senso questo è valido anche per Petrarca, che dispone di un suo intimo e chiuso giardino e, al tempo stesso, di una villa, anche se di modeste condizioni in confronto a quelle cinquecentesche.

Se due delle possibili accezioni di Valchiusa sono state esplicitate mediante il De vita solitaria e le varie epistole selezionate, non si può fare a meno della terza che inserisce all’interno del topos del locus amoenus l’idillio amoroso. Prima di avviare il discorso sul Canzoniere che realizza questa terza fase, lasciamo che l’ epistola Al suo Lelio (I, 8) ci faccia da tramite: "Questo mio orticello risveglia in me l’estinto amore, rinnovando i dolci sospiri del tempo passato, ora con i fiori primaverili che ne dipingono le aiuole, or con folte ombre estive […] e più, con i dolci lamenti degli uccelli variopinti nascosti tra i rami. Ivi modula il suo canto l’usignolo […]" [33]. Un grande pericolo minaccia il luogo prediletto del solitario, e la minaccia latente si trasforma in una forza travolgente che annienta lo status quo iniziale. L’angolo felice e isolato dalle insidie sta per scomparire: si preannuncia la rinascita imminente del sentimento amoroso, creduto spento. Il giardino gode della stessa forza evocatrice, però non rinvia più alla rassicurante vita campestre, ai pacati colloqui con gli antichi, soffre invece un cambiamento notevole e allude a un ben diverso connubbio: Valchiusa-Laura. Se il compito di Valchiusa era quello di far dimenticare le antiche ferite e di offrire la cornice adatta allo studio, adesso traspare solo un fallimento doloroso, perché invece di fornire il rimedio, concede solo una medicina amara. Il bel giardino rinnega il proprio padrone, la coesistenza amichevole sparisce dietro l’ostilità. Un nuovo sovrano invade il palcoscenico, la cui potenza è sconfinata, sottomettendo alla propria volontà paesaggio e poeta. Non si può fare a meno di ubbidirgli. L’orto di Valchiusa sarà dominato non da Petrarca, bensì da Amore che pare sia adesso l’unico signore del luogo ameno. Il giardino, diventato cornice della presenza della donna, tormenta, tortura il poeta e, sotto l’influsso del nuovo padrone, Amore, raddoppia gli assalti. Amore con i suoi nuovi alleati riapre l’antica ferita "tanti sono gli alleati che combattono in suo favore: lo stesso aspetto dei luoghi invita alla contesa; così gareggiano il mormorio dei venti col canto degli uccelli, i bei colori con i grati odori, le erbe con le fronde, i fiori con le erbe, i gigli con i narcisi, le rose con le viole. Che dirò dei dolci riposi sulle verdi sponde dei rivi, e dei leggeri sonni sull’erba, e del mormorio delle acque fuggenti e dei gorghi sonori" [34].

Gli elementi naturali sembrano trasformarsi in altrettanti dardi lanciati da Cupido. Lo stesso paesaggio è già stato colpevole delle ferite provocate, e sembra addirittura una fonte perenne e responsabile di quelle sempre rinnovabili. Giorgio Ficara definiva giustamente la presente epistola una "palinodia del locus amoenus, reo di evocare al solitario l’antica passione amorosa" [35].

La natura amena e primaverile pervade il Canzoniere, perdendo del tutto le connotazioni allegoriche che prevalgono in Dante o Boccaccio. Il paesaggio non acquista indipendenza, visto che la sua esistenza è strettamente legata alla presenza della donna, implicitamente quindi dell’ amore. Il locus amoenus è ora una cornice, un’eco della bellezza femminile, forse un semplice elemento costitutivo del mito di Laura. Ma si tratta veramente di una mera cornice, di un elemento che contribuisce all’aura mitica della donna, distante, evanescente, che, dopo la morte, darà vita ad una donna più sensibile, se non sensuale, almeno consolatrice? L’amore non è l’unico "errore" della giovinezza del poeta, ma nel Canzoniere è certamente il più rilevante. L’innamorato è diviso perchè in preda alle oscillazioni interiori – speranza, paura, gioia, e così la sua anima viene frammentata a seconda degli impulsi, di sentimenti talmente contrari. Tutte queste perturbazioni dell’anima si riflettono nella natura circostante, cioè il rapporto amante-natura riflette il dissidio interiore, i sentimenti avversi del giovanile errore. Si forma in questo modo un triangolo, reso immortale, tra poeta-natura-donna, che differisce da quello classico, dato che il poeta potrebbe recitare piuttosto la parte dell’uomo tradito o escluso, considerando la sua gelosia risentita per l’invidiato rapporto intimo che si stabilisce tra bella donna e natura fiorente.

Un primo contatto con la natura primaverile si ha nel sonetto 68 e nella canzone 71, componimenti in cui prevale il ricordo. Il poeta, trovatosi solo in un paesaggio estremamente stilizzato e artificioso, richiama in un rapido e conciso elenco gli elementi naturali a testimoniare la propria vita travagliata. Boschetti, colli, erbe, valli, fiumi, selve, campi impersonano altrettante figure che testimoniano il tormento provocato dalla sua assenza. Basta un’unica apparizione della donna perché la sua essenza si incida profondamente ed irrevocabilmente sul paesaggio di Valchiusa. Pare un essere divino che sovrasta tanto la natura quanto il cuore dell’innamorato; la sua forza è tale che dominerà tutto. Difficilmente rimarrà riconoscibile il paesaggio valchiusano da cui influiva quella serenità e quasi santità tanto indispensabili alla vita solitaria. Il fugace richiamo derivato dalle due poesie anticipa proprio la situazione contraria: da un lato si immagina la bellezza di Laura (solo una bellezza straordinaria si suppone abbia una tale forza evocatrice), dall’altro la bellezza del luogo. Un simile fascino femminile esige un ambiente naturale della stessa proporzione. Ed un unico luogo, quello ameno, potrà adempire ai criteri necessari.

L’immagine fantasmatica di Laura assente all’interno dell’ambientazione campestre continua pure nelle canzoni 125, Se’l pensier che mi strugge; 126, Chiare fresche et dolci acque; 127, In quella parte dove Amor mi sprona. Prosegue dunque l’evocazione della natura provenzale sacralizzata dalla presenza di Laura:

"Qui percosse il vago lume.

Qualunque herba o fior colgo

credo che nel terreno

aggia radice ov’ella ebe in costume

gir fra le piagge e’l fiume,

et talor farsi un seggio

fresco, fiorito et verde [36].

Chiare fresche et dolci acque,

ove le belle membra

pose colei che sola a me par donna;

gentil ramo ove piacque

(con sospir’ mi rimembra)

a lei di fare al bel fiancho colonna;

herba et fior’ che la gonna

leggiadra ricoverse

co l’angelico seno,

aere sacro, sereno,

ove Amor co’ begli occhi il cor m’apperse:" [37]

Sono componimenti di carattere idillico che si riportano, secondo Marco Santagata, alla pastorella provenzale e a quella stilnovistica (ambiente primaverile e contenuto erotico). Lo stesso Marco Santagata [38] ne addita anche lo scarto intervenuto per una trasformazione interna operata mediante la negazione dell’elemento costitutivo della pastorella, cioè l’esplicitazione del desiderio. L’opinione del critico è da condividere poiché l’allusione sensuale traspare dal supposto bagno della donna, che potrebbe in realtà indicare un gioco mondano, tipico ai gruppi di gentildonne e gentiluomini. Poi la continua presenza-assenza della figura femminile (lei è sempre altrove, il primo incontro con Laura nell’ambiente di Valchiusa dimostra pienamente la sua forza per gli ulteriori richiami) riesce talmente rarefatta che i vari particolari riferiti alla bellezza fisica sembrano proiettati su un piano puramente stilistico. I già arcinoti tratti fisici: i "capei d’oro", il "vago lume" dei "begli occhi", il "dolce riso", le "rose vermiglie" delle labbra, la "neve" del viso, il "giovenil petto", il "bel fianco", il "bel piè" ecc. non costituiscono un ritratto definito, ma rispondono ad un esemplare processo di stilizzazione dietro il quale si dissimula la lunga tradizione della poesia d’amore. Convenzionalità della donna che implicitamente tralascia la convenzionalità del paesaggio. Con la stessa arte dissimulatoria, dovuta sempre alla tradizione, Valchiusa si nasconde dietro le componenti abituali del locus amoenus: erbe, fiori, fronde, acque ecc.

La definizione che ne deriva, non può essere diversa da quella offerta da Roberto Antonelli che, seguendo la divisione bipartita delle Rime, stabilisce in una delle definizioni più concise, ma al tempo stesso più esatte che il Canzoniere è: un "libro-canzoniere unitario […] per la palinodia che lo bipartisce e disloca lungo l’asse della memoria della poesia (tutto ciò che precede la morte di Laura) e lungo quello della poesia della memoria (tutto ciò che segue)" [39]. Ed è proprio quello che succede: la natura oltremodo stilizzata richiama alla memoria un paesaggio consacrato e collaudato da una lunga serie di poeti (prima parte) per poi sfumarsi delicatamente nella realtà naturale, evidentemente quella valchiusana, recuperata dalla memoria dei tanti amati luoghi solitari, che è in grado di proporsi quale rimedio e conforto (seconda parte).

La donna si connette indivisibilmente al locus amoenus, anzì lei stessa diventa un hortus deliciarum, poiché la sua presenza, il più delle volte, non viene suggellata dal nome stesso, bensì da vari senhal, derivati sempre dalla tradizione provenzale e stilnovistica. Lei è l’aura, l’aurora e il lauro [40]. Di conseguenza l’ambiguità di cui il nome s’investe, porta alla possibilità di una decodificazione altrettanto variegata. Il gioco linguistico che mette in rilievo un Petrarca raffinato ed intellettualistico, ci porta ora all’identificazione della donna con la poesia (lauro), ora a quella con la natura idillica (aura, aurora costituiscono praticamente degli elementi consacrati del topos). Un simile gioco letterario si rinnova anche al livello delle confluenze di modelli e della molteplicità delle forme paesaggistiche amene, a seconda delle quali la figura femminile diventa locus amoenus e, forse, paradiso. Sembra esser nata nel Paradiso [41], godere di un’essenza divina ossia di una bellezza divina in grado di conferire al quadro naturale un’aura di divinità investendosi di sovranaturale. È una Dea che regna magistralmente sullo spazio; sono queste le idee desanctisiane [42] che possono essere sostenute dai versi petrarcheschi:

"Lieti fiori et felici, et ben nate herbe

che madonna pensando premer sole;

piaggia ch’ascolti sue dolci parole,

et del bel piede alcun vestigio serbe;

schietti arboscelli et verdi frondi acerbe,

amorosette et pallide viole

[]

o soave contrada, o puro fiume,

che bagni il suo bel viso e gli occhi chiari

et prendi qualità dal vivo lume" [43]

ossia

"L’erbetta verde e i fior’ di color’ mille

sparsi sotto quel’elce antiqua et negra

pregan pur che’l bel pe’ li prema o tochi" [44]

Tutto è immerso in un’armonia pura: canti d’uccelli, fruscio d’erbe, sussurio di foglie, fremiti di rami, fiori variopinti, cioè un intreccio perfetto di elementi visivi, uditivi e olfattivi. Tutto è bello, pare, perché Laura anima e abbelisce la natura che diventa in seguito all’azione benefattrice semplice scenario. Le parti sono cambiate: la natura idillica perde il suo statuto di modello di perfezione da seguire, e lo perde a favore della donna. Infatti è adesso la donna che diventa l’elemento vagheggiato dalla natura, ma proprio questo dominio della bellezza femminile sulla natura amena mette in dubbio l’origine paradisiaca dello scenario naturale. Si tratta di una dimensione esclusivamente profana, e le allusioni al paradiso denotano una metafora svuotata da ogni connotazione teologica (a differenza di quanto avveniva in Dante e, implicitamente, Beatrice): Laura è una bella donna, un paradiso piuttosto terreno (v. son. 173).

Secondo Antonio Prete due movimenti contrari sovrastano la rappresentazione naturale: da una parte, "ogni elemento è compendiato e riflesso nel viso della donna", "il visibile si dispiega come un eden lussureggiante, multiforme osservato prima e dopo la caduta" [45]. Perciò il paesaggio valchiusano serba e riflette dappertutto le impronte così care di Laura, perciò gli elementi naturali vengono invidiati dal poeta; lo spazio custodisce dunque gelosamente l’intimità goduta, tanto desiderata e mai raggiunta dall’amante:

"Come’l candido pié per l’erba fresca

i dolci passi honestamente move,

vertù che’ ntorno i fiori apra et rinove,

de le tenere piante sue par ch’esca.

[].

Di tai quattro faville, et non già sole,

nasce’l gran foco, di ch’io vivo et ardo,

[...]" [46]

In questa nuova prospettiva lo statuto di ornamento della natura, che è pure innegabile, acquista anche un senso positivo, perché questo scenario non è inteso in senso passivo, visto che la natura non è solo un quadro meramente inerte, ma si anima sotto l’influsso benefico della donna. Significativi sono gli esempi citati, che illustrano perfettamente il rapporto profondo stabilito tra natura e donna. Rimane però indelebile anche il rapporto di dipendenza. La natura amena viene condizionata dall’esistenza della donna. L’altro rapporto, quello tra uomo e natura, è sostanzialmente definibile anch’esso in chiave di dipendenza. Si può richiamare il passo di Amiel: "Un paysage quelconque est un état de l’âme […]" e proprio nella sua accezione "sbagliata", secondo Andrei Pleşu [47]. Il paesaggio sarebbe lo specchio degli stati d’animo del contemplatore, ed è esattamente quello che fa Petrarca, perché le visioni di Laura rappresentano i moti dell’anima destati dalla figura splendente della donna. Petrarca rende così la natura partecipe delle sue emozioni. Gli elementi naturali assumono la funzione di "segni allusivi di un segreto codice di emozioni, di stilizzati e preziosi emblemi" [48].

L’assiduo e incessante richiamo a piagge, fiori, erbe, fiume, valli prosegue anche nella seconda parte del libro, e mediante questo gesto reiterativo si affida al paesaggio idillico la funzione di apportare l’"unità di luogo alla storia d’amore", affermava a ragion veduta G. A. Cesareo. E continuava lo stesso critico, "il carattere stesso dell’amore che [Petrarca] intendeva rappresentare, puro, contemplativo ed idillico, s’accordava meglio con la freschezza e selvatichezza d’un paesaggio rurale" [49] tale Valchiusa.

La bella statua refrattaria a tutti gli atti benevoli e adulatori dell’innamorato si sottomette a un notevole cambiamento nella seconda parte del libro, in un certo senso diventa più umana, quasi affettuosa. Ma la grande svolta è possibile solo quando Laura è morta:

"Se lamentar augelli, o verdi fronde

mover soavemente a l’aura estiva,

o roco mormorar di lucide onde

s’ode d’una fiorita et fresca riva,

là’ v’io seggia d’amor pensoso et scriva

[]

"Deh, perché inanzi’l tempo ti consume?

- mi dice con pietate – a che pur versi

degli occhi tristi un doloroso fiume?" [50]

È un sonetto di consolazione che si apre con un paesaggio idillico, evocato, con linee estremamente stilizzate, che richiama tanti altri paesaggi. La novità si deve cercare nel fatto che, se fino a questo punto il paesaggio portava, sì, i segni palesi della figura femminile, adesso la sua forza viene talmente rinvigorita da far scaturire una vera e propria visione. Per la prima volta la donna appare, benigna, al poeta, anzì gli parla, lo conforta per la perdita sofferta. Si tratta dell’accettazione della morte da parte di Petrarca, una presa di coscienza che circoscrive la vera essenza del trapasso: morire significa rinascere in una vita più autentica.

Il poeta riesce a rivedere Laura meglio con l’immaginazione solo a Valchiusa, la sua Valchiusa che supera in bellezza la mitica isola di Cipro (la cui descrizione nei Trionfi [51] ricalca manifestamente l’elogio allettante del suo paesaggio-giardino dell’epistola metrica inviata a Dionigi da Borgo di San Sepolcro). Tutto ciò perché:

"L’acque parlan d’amore, et l’ora e i rami

et gli augeletti e i pesci e i fiori et l’erba,

tutti insieme pregando ch’i’ sempre ami." [52]

Il sonetto è decisamente d’ambientazione valchiusana poiché il topos della natura che invita ad amare pervadeva un’altra delle sue epistole (Al suo Lelio, I, 8), in cui tutto il paesaggio era letteralmente soggiogato dalla forza travolgente di Amore, il quale ha stretto un così saldo patto con i suoi alleati della natura che l’uomo solitario alla ricerca della tranquillità non poteva che capitolare.

Benché sembrasse che l’innamorato avesse accettato la morte dell’amata, il dolore e la sofferenza tornano, e sconvolgono l’anima del poeta. Il conforto viene cercato invariabilmente all’interno del luogo ameno, il quale, anche se non si spoglia delle stilizzazioni richieste, comincia ad acquistare sempre più impronte alludenti alla realtà del paesaggio di Valchiusa, le cui componenti continuano a recitare la loro parte di testimoni, una volta servi felici della donna, ora quelli della sofferenza del poeta:

"Non è sterpo né sasso in questi monti,

non ramo o fronda verde in queste piagge,

non fiore in queste valli o foglia d’erbe,

stilla d’acqua non vèn di queste fonti,

né fiere àn questi boschi sì selvagge,

che non sappian quanto è mia pena acerba." [53]

Gli elementi del locus amoenus sono i testimoni per eccellenza di tutta la vicenda amorosa. Il poeta, malato e infastidito dichiara:

"Valle che de’ lamenti miei se’ piena,

fiume che spesso del mio pianger cresci,

fere selvestre, vaghi augelli et pesci,

che l’una et l’altra verde riva affrena,

aria de’miei sospir’ calda et serena,

dolce sentir che sì amari riesci,

colle che mi piacesti, or mi rincresci." [54]

La stessa bipartizione antitetica che rafforza l’incapacità della forza consolatrice della natura rinnovata, bella e felice, si delinea anche nel notissimo sonetto Zephiro torna. La ressurezione ciclica del cosmo in primavera concede al paesaggio la medesima gioia e serenità di sempre, ma il poeta pare esserne escluso. La sua sofferenza viene acutizzata dallo slancio vitale della natura. La rappresentazione del paesaggio primaverile sale alle vette massime di stilizzazione e si impreziosisce ancor di più tramite i rimandi mitologici:

"Zephiro torna, e’l bel tempo rimena

e i fiori et l’herbe, sua dolce famiglia,

et garrir Progne et pianger Philomena,

et primavere candida et vermiglia." [55]

E l’esclusione diventa totale ed irremediabile, espressa stupendamente sotto la forma di un plazer rovesciato, che coincide piuttosto con un locus amoenus negato:

"né d’aspettato ben fresche novelle

né dir d’amor in stili alti et ornati

né tra chiare fontane et verdi prati

dolce cantare honeste donne et belle;

né altro sarà mai ch’al cor m’aggiunga." [56]

Petrarca sceglie Valchiusa per liberarsi dal giogo amoroso; il suo intento è esposto in una lettera indirizzata a Giovanni Colonna (Epist. Metr., I, 7). Ma l’esito non sembra affatto accordarsi all’idea iniziale, la soggezione all’amore non pare diminuire nella solitudine dei luoghi ameni, anzì secondo Enrico Carrara "la solitudine campestre è un rimedio peggiore del male" [57].

[1] Giorgio FICARA, Introduzione, a Francesco PETRARCA, De vita solitaria (a cura di Marco NOCE), Milano: Mondadori, 1992: V.

[2] Dante ALIGHIERI, La Divina Commedia, Inferno, c. IV, vv. 106-18 e 111, in Tutte le opere (a cura di Italo BORZI, Nicola MAGGI e Silvio ZENNARO), Roma: Grandi Tascabili Economici, Newton, 1997.

[3] Francesco PETRARCA, Le familiari (introduzione, traduzione, note di Ugo DOTTI), Urbino: Argalia Editore, 1974, libro XI, 6: 1168.

[4] Ibidem, libro VI, 3: 660.

[5] IDEM, De vita solit. (traduzione di Marco NOCE), cit., libro I, cap. I: 19.

[6] Ibidem: 19.

[7] Per l’avversione alla città, Petrarca risale certamente al filone biblico della città come Babilonia, un tema che sarà varie volte ripreso nel Canzoniere (Babilonia-Avignone/Gerusalemme-Roma, v. sonetti 114, 137, 138 e 139).

[8] F. PETRARCA, De vita solit, cit., libro I, cap. II: 25.

[9] Ugo DOTTI, Vita di Petrarca, Bari: Laterza, 1987: 48.

[10] Le citazioni di Quintiliano dall’ Institutiones oratoriae sono riprese dal De vita solit., cit., libro I, cap. VII: 93-95.

[11] F. PETRARCA, De vita solit., cit., cap. VII: 99.

[12] Ibidem: 97.

[13] Giorgio FICARA, Introd., cit.: VI.

[14] Marco ARIANI, Petrarca, Roma: Salerno Editrice, 1999: 135.

[15] F. PETRARCA, De vita solit., cit., libro II, cap. XI: 263.

[16] Ibidem: 263-265.

[17] Ibidem, libro II, cap. IV: 175.

[18] Ibidem, libro II, cap. XIV: 323.

[19] Ibidem: 319.

[20] Ibidem: 323.

[21] Ibidem: 323-325.

[22] IDEM, Epistole metriche, III, 1, in Rime, Trionfi e poesie latine, Milano-Napoli: Ricciardi, 1951: 767.

[23] Gianni VENTURI, "«Picta poësis»: ricerche sulla poesia e il giardino dalle Origini al Seicento, in Storia d’Italia, Annali 5, Il paesaggio (a cura di Cesare De SETA), Torino: Einaudi, 1982: 683.

[24] Ibidem: 684.

[25] F. PETRARCA, Epist. metr., cit, III, 1: 773.

[26] Giulio Carlo ARGAN, "L’architecture du jardin e l’architecture dans le jardin", in Histoire des Jardins, de la Renaissance à nos jours (a cura di Monique MOSSER et Georges TEYSSOT), Parigi: Flammarion, 1991.

[27] F. PETRARCA, Epist. metr., cit., III, 3: 785.

[28] Ibidem.

[29] Ibidem: 785-787.

[30] Ibidem, I, 4: 721-723.

[31] Si tratta di metamorfosi attinte chiaramente da quelle ovidiane, che vengono parzialmente riprese anche nelle Rime, per esempio nel sonetto 310.

[32] Antonio PRETE, Prosodia della natura. Frammenti di una Fisica poetica, Milano: Feltrinelli, 1993: 115.

[33] F. PETRARCA, Epist. metr., cit., I, 8: 741.

[34] Ibidem: 743.

[35] G. FICARA, Introd., cit.: VI.

[36] Francesco PETRARCA, Canzoniere (a cura di Marco SANTAGATA), Milano: Arnoldo Mondadori Editore, 1996, canz. 125, vv. 68-74: 574.

[37] Ibidem, canz. 126, vv. 1-11: 583.

[38] V. nota p. 586 dell’edizione citata.

[39] Roberto ANTONELLI, "Rerum vulgarium fragmenta di Francesco Petrarca", in Letteratura italiana. Le opere, vol. I, Dalle Origini al Cinquecento, Torino: Einaudi, 1992: 408.

[40] V. sestina 239 (Là ver’l’aurora, che sì dolce l’aura, v. 1) o sestina 142 (l’aura amorosa che rinova il tempo, v.5; Un lauro mi difese allor dal cielo, v. 13).

[41] Parafrasi del celebre verso della canz. 126: Costei per fermo nacque in paradiso.

[42] Francesco De SANCTIS, Saggio critico sul Petrarca (a cura di Benedetto Croce), Napoli: Alberto Morano Editore, s.a.: 100.

[43] F. PETRARCA, Canz., cit., son. 162, vv. 1-6; 9-11.

[44] Ibidem, son. 192, vv. 9-11: 832.

[45] Antonio PRETE, Prosod., cit.: 24.

[46] F. PETRARCA, Canz., cit., son. 165, vv. 1-4; 12-13: 751.

[47] Andrei PLEŞU, Pitoresc şi melancolie. O analiză a sentimentului naturii în cultura europeană, Bucarest: Editura Univers, 1980: 57. L’autore attira l’attenzione sull’interpretazione sbagliata della citazione, a sua opinione troppo antropomorfica. Sottolinea il fatto che nella citazione viene invocato il temperamento stesso della natura.

[48] Raffaele AMATURO, Petrarca, Bari: Editori Laterza, 1971: 299.

[49] G. A. CESAREO, Su le "Poesie volgari" del Petrarca, Nuove Ricerche, Rocca S. Casciano: Licinio Cappelli Editore, 1898: 260.

[50] F. PETRARCA, Canz., cit., son. 279, vv. 1-5; 9-11: 1114.

[51] IDEM, Rime, Tionfi, cit., Triumphus Cupidinis, IV, vv. 100-130,: 505-506.

[52] IDEM, Canz., cit., son. 280, vv. 9-11: 1117.

[53] Ibidem, son. 288, vv. 9-14: 1135.

[54] Ibidem, son. 301, vv.1-7: 1167.

[55] Ibidem, son. 310, vv. 1-4: 1190.

[56] Ibidem, son. 312, vv. 5-9: 1196.

[57] Enrico CARRARA, Studi petrarcheschi ed altri scritti, Torino: Bottega d’Erasmo, 1959: 83.

 

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