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p. 275
Il “giardino”
incantato della giovinezza
e il giardino di
Venere
Università di Cluj
Se l' ideale rinascimentale
si concretizza in due momenti, come suggeriva W. Tatarkiewicz[1],
cioè in una renovatio hominis intesa
come movimento verso un livello superiore, e una renovatio antiquitatis come risurrezione del mitico passato e della
cultura classica, Poliziano realizza perfettamente questo ideale.
L’intento
delle Stanze per la giostra
corrisponde perfettamente a un diffusissimo costume letterario quattrocentesco,
quello encomiastico: Poliziano ripropone di celebrare le prodezze di Giuliano
de’ Medici. Lo stesso stampo umanistico viene impresso nel motivo della poesia
come unica possibilità di sottrarre al potere del tempo, le grandi
imprese. Accanto, però, al tema delle armi si affianca subito quello
dell’amore (che prenderà il sopravvento, grazie anche all’incompiutezza
dell’opera): il celebre binomio armi-amore, già consacrato dalla tradizione
e rivisitato, con vigore sostenuto, nel Cinquecento epico da Ariosto e Tasso,
spunta, secondo Ruggero M. Ruggieri[2], in
Poliziano con forme epico-cavalleresche, anhe se non integralmente
riconducibili all’autentica tradizione.
L’humanitas scoperto da Petrarca
conoscerà una fioritura particolare nel Quattrocento: gli autori
classici tornano alla vita con tutti gli ideali di una esistenza virtuosa. Si
propone l’immagine del perfetto cavaliere-cortigiano, i cui tratti devono
apparire non soltanto dalle opere letterarie, ma nella vita reale. L’ideale
dell’educazione rinascimentale risiede nell’educazione armoniosa del corpo e
dello spirito. Lo scopo della cultura diventa la formazione dell’uomo. Il
rapporto stretto con i classici è il fondamento della nuova concezione,
e le loro opere vengono esaltate quali fonti per la formazione dell’uomo
nell’armonia perfetta delle sue facoltà, fonti che fanno di lui una
creatura privilegiata, separata dal mondo dei bruti. Si tratta di nozioni ben
conosciute, ma vale la pena di ricordarle ome premessa essenziale all’opera di
Poliziano, nella quale appaiono sia in maniera palese sia in form idealizzata e
filtrata.
La prima tappa dell’educazione di Iulio
si concentra nell’esercizio del corpo, rappresentata nella scena della caccia.
Questo primo momento fissa la dimensione spaziale idonea all’attività:
la campagna e il bosco, che si trovano in netta contrapposizione con la
città (uno spazio che viene decodificato tramite l’immagine della corte
e, implicitamente, come territorio dell’amore). È una sorta di fuga, di
evasione; si va fuori delle mura della città (mura-amore, cioè
costrizione) verso l’aperto, verso uno spazio sconfinato, verso la
libertà tanto del corpo quanto dello spirito.
Dunque l'aspirazione di evadere dalla
squallida realtà quotidiana per rifugiarsi nel clima di eterna ed ideale
bellezza, creato dai poeti classici, rappresenta non soltanto la meta del poeta
ma anche del suo personaggio maschile. L’ attività che permette questa
fuga si rivela essere esclusivamente la caccia, che unisce tre motivi basilari:
la virilità, il piacere e
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la
libertà. È l'unico modo di vita paragonabile, anzi
identificabile, con l' esistenza mirabile dell' età dell' oro. Il
sentimento idillico è uno dei sentimenti naturali del mondo
polizianesco: la pace, il ritiro dal mondo, il contatto con la natura vergine
sono i motivi indispensabili per l’elogio della vita rusticale, che avviene
attraverso l’immersione nostalgica nel passato:
"veder la valle e'l colle e l'aier puro,
l'erbe e' fior, l'acqua viva, chiara e ghiaccia;
udir li augei sventar, rimbombar l'onde,
e dolce al vento mormorar le fronde!
Quanto giova a mirar pender da un'erta
le capre, e pascer questo e quel virgulto;
e'l montanaro all'ombra più conserta
destar la sua zampogna e'l verso inculto;
veder la terra di pomi coperta,
ogni arbor da suoi frutti quasi occulto
veder cozzar monton, vacche mugghiare
e le biade ondeggiar come fa il mare!"[3]
Tramite
i motivi fondamentali del topos del locus
amoenus, fissati poi da Curtius[4],
il poeta intona un vero e proprio inno e glorifica, al contempo, gli ideali di
bellezza e giovinezza. L' evocazione dell' età primitiva e della natura
verginale viene avvolta in un' aura mitica e, sebbene si tratti di imitazione
palese (Poliziano fa ricorso a un’ampia tradizione georgica e bucolica[5]),
come è nel canone del Rinascimento, il poeta ci si rivolge per il
bisogno assoluto di isolare la propria realtà sentita diametralmente
opposta a quella esistente. La nota fondamentale di Poliziano, secondo L.
Malagoli, non è tanto “l’ispirazione mitica come carattere della poesia
ma l’ideale mitico come sostegno del suo mondo: piuttosto l’ideale mitico
è la realtà concreta, Poliziano sottopone tutto a quel suo modo
lieve di considerar le cose, che dà una tinta d’irrealtà anche
alle cose più vive, ma pur così restan in lui concretissime”[6].
Quindi il mondo polizianesco trova la propria interpretazione e definizione
all' interno di termini leggermente paradossali, cioè
nell'idealizzazione di un mondo già ideale. È un mondo ancora
immune dal peccato, in cui regnano la giustizia e il piacere innocente. Come
ricorda Harry Levin[7]
la purezza caratterizza l' età dell' oro soltanto sotto la direzione di
Saturno, però il male vi penetrerà nel momento in cui Giove e i
falsi dei disperderanno l’ armonia e la pace perfette, tramite l' ingerenza dei
vizi.
Il protagonista fa la sua lucida scelta per una vita agreste, libera da ogni costrizione amorosa, priva dunque di lussuria, di invidia. Nella lunga descrizione volta a
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rappresentare un sogno contemplativo, le varie
reminiscenze classiche (Virgilio, Ovidio, Seneca) riportano la vagheggiata
età dell’oro, senza però una concreta determinazione. Tutto
ciò viene sostenuto, come si è sottolineato prima, da un chiaro
richiamo alla retorica, all’uso del locus
amoenus, senza la quale ogni tentativo di ricostruzione sarebbe destinato a
fallire. Le finissime allusioni al periodo della felicità semplice,
perfetta e suprema si convertono nelle stanze seguenti (stanze 20-22) nella sua
vera e propria definizione e descrizione. Accanto ai modelli classici
rappresentanti il canone da seguire, già ricordati, Poliziano si attinge
anche a due insigni autori del Trecento volgare: Boccaccio e Petrarca.
Boccaccio, a cui Poliziano fa un ricorso sostanzioso, nell’Elegia di Madonna Fiammetta, aveva messo in bocca della sua
protagonista la stessa distinzione tra la vita cittadina e quella campestre:
mentre la prima è implacabilmente insidiata dal distruttivo furore
amoroso, la seconda rispecchia la felicità pura e la vita primitiva ma
ricca del secolo d’oro. Nelle Stanze
si possono identificare in filigrana le stesse idee e descrizioni. Per avere un
breve confronto tra i due testi, ne riporteremo in nuce i brani in questioni: “Oh, felice colui il quale innocente
dimora nella solitaria villa, usando l’aperto cielo! Il quale, solamente
conoscendo di preparare maliziosi ingegni alle selvatiche fiere […] e se greve
fatica per avventura sostiene, incontanente sopra la fresca erba riposandosi la
ristora, tramutando ora in questo lito
del corrente rivo, e ora in quell’altra ombra dell’alto bosco li suoi luoghi,
ne’quali ode i queruli uccelli fremire con dolci canti, e i rami tremanti e
mossi da lieve vento”.[…] “Ohimè! Niuna è più libera né
senza vizio o migliore che questa, la quale li primi usarono […] Oh felice il
mondo, se Giove mai non avesse cacciato Saturno, e ancora l’età aurea
durasse sotto caste leggi! […] Ohimè! Che chiunque è colui li
primi riti servante, non è nella mente infiammato dal cieco furore della
non sana Venere […]; né è colui che sé dispose ad abitare ne’colli
de’monti, suggetto ad alcun regno: […] non all’infido vulgo, non alla
pestilenza invidia….”[…] “Ohimè! Che l’empio furore del guadagnare, e la
strabocchevole ira, e quelle menti, le quali la molesta libidine di sé accese,
ruppono li primi patti così santi […], dati dalla natura alle sue
genti”.[8]
“In cotal guisa già l’antiche genti
si crede esser godute al secol d’oro
……………………
lor case eron fronzute querce e grande,
ch’avean nel tronco mèl, ne’ rami ghiande.
……………………..
Non era ancora la scelerata sete
del crudele oro entrata nel bel mondo;
viveansi in libertà le genti liete,
e non solcato il campo era fecondo.
Fortuna invidiosa a lor quiete
ruppe ogni legge, e pietà misse in fondo;
lussuria entrò ne’ petti e quel furore
che la meschina
gente chiama amor.”[9]
Anche Petrarca aveva
separato nel De vita solitaria la
vita cittadina (corruzione, inferno) da quella isolata nella valle della Sorga
(pace, serenità, paradiso), quest’ultima
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dedita agli studi. G. Getto[10],
sottolineando il contrasto fra città e campagna, tra spazio chiuso e
aperto, tra civiltà e cultura, afferma che il Quattrocento ha riscoperto
la natura. Quest’opinione era già stata espressa da A. Momigliano,
secondo il quale “le Stanze e le ballate dell’uccello e delle rose fanno parte
di questa scoperta della natura, di questo movimento della Rinascenza che
aggiunge all’uomo come motivo di poesia la natura”[11].
È evidente che le descrizioni naturali, piuttosto rare e limitate a
pochi elementi nel Medioevo, irrompono sul palcoscenico rinascimentale e si
sottomettono alla richiesta amplificatio.
In Poliziano si riconosce una natura ultrastilizzata, un luogo
retorico,difficile da associare, a dire la verità, al sentimento della
natura vero e proprio. Tanto più che, per il poeta, la natura reale in
quanto referente non esiste. Si tratta in Poliziano di un luogo astratto,
mentale, un processo di ri-creazione poetica. Nemmeno Petrarca d’altra parte
aveva goduto veramente del sentimento della natura, anche se aveva cantato la
bellezza di Valchiusa: in lui la natura era sublimata, diventava una bella
metafora della sensibilità e dell’ingegno artistico.
Poliziano
segue, di conseguenza, fedelmente il canone dell’imitazione, che lui stesso
teorizza, in una lettera indirizzata a Paolo Cortese[12],
come singolo procedimento da cui traspare la docta varietas. Fonde armoniosamente e sapientemente la tradizione
classica e quella romanza, creando la propria poesia infusa di
originalità. La sua imitazione viene definita in quanto una maieutica da
una lunga serie di studiosi –E. Garin, L. Russo, Ruggero M. Ruggieri –
quest’ultimo dà una definizione suggestiva in questo senso, riferendosi
alla lingua delle Stanze: maieutico
vuol dire “essenzialmente mnemonico, perciò di necessità limitato;
tanto più limitato quanto maggiore è il numero degli auctores”[13],
un’opinione con cui non si può che concordare.
Questa ekphrasis mitica che coincide con la
continenza, in senso traslato, si
identifica, secondo G. Costa, con il periodo della “casta gioventù
del protagonista”[14].
Segna, come si è affermato, la prima tappa della sua formazione, e
l’immagine della caccia non traduce esclusivamente l’idea di un regresso verso
il modello letterario, bensì pure quella di un “viaggio” iniziatico,
formativo, richiesto dall’esigenza della compiutezza, della perfezione del
personaggio encomiato, che viene proiettato in un mondo ideale che trasgredisce
i confini della realtà storica.
I mali, che corrompono la
serenità del secolo d’oro, a cui alludeva Boccaccio, non toccano
però la perfezione del mondo polizianesco e l' unico sapore terreno, che
lascerà dietro di sé un certo sentimento di scontentezza, sarà la
malinconia che penetrerà nell' anima giovane di Iulio, all’idea della
fugacità dell' età privilegiata. Perciò l’ esortazione
classica di cogliere il momento opportuno si rivelerà immancabile, e si
accentuerà tramite l' apparizione miracolosa della donna - dea. La
compenetrazione del senso umano e di quello divino della bellezza femminile
rinvia direttamente a scorci petrarcheschi e stilnovistici. Infatti l' amore si
presenta nella sua forma raffinata di compimento spirituale. L' idea di
carnalità, così pervasiva nei poemi cavallereschi
cinquecenteschi, qui è del tutto assente. L’ incontro stupendo, avvenuto
nella radura luminosa di una natura idillica esemplare, è una sorta di
prefigurazione del regno di Venere, al quale però è vietato l'
accesso umano. Quello che
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vuole
suggerire il poeta, in questa prima rappresentazione, è proprio la
possibilità di un innalzamento spirituale, attraverso l' amore puro e casto, anche all' interno della
realtà terrena, a sola condizione che sia progettata in un mondo
decisamente particolare e nobile. Sembra logico quindi che l' accesso a questa
nuova dimensione sia limitato alle sole persone elette secondo criteri di
età e di bellezza.
Se fino
a questo punto l' idillio naturale esaltava la libertà panica, la
"parvenza" magica arricchisce l' apertura paesaggistica di una
sfumatura, forse un po' costrittiva, a prima vista, alle leggi inelluttabili
dell' amore sovrano, ma, in realtà, non fa altro che dare il tocco
finale di perfezione, provveduto dalla forza "trascendentale" della
fantasia poetica. Infatti la natura vivente in un' aura quasi immortale
coincide con la perfezione artistica del poeta stesso.
A.
Momigliano[15]
ha certamente ragione quando identifica Simonetta con l' immagine del paesaggio
stesso. L' eco petrarchesca diventa ovvia, ma in fusione con le altre
reminiscenze, conferisce un’armonia ed un’idealità al quadro che non
c’erano nell’inquieto Petrarca. Nel caso di Petrarca, Valchiusa non riusciva a conferire la solitudine
ideale, poiché l’epifania della donna, proprio di una Laura stilnovistica,
s’insinuava negli elementi della natura
esemplare, e trasformaba, abbelliva e al contempo rendeva tormentoso il ritiro
scelto. In un certo senso, sulla scia petrarchesca, il luogo ameno di Iulio si
lascia penetrare, in modo abbastanza consimile, dalla stessa forza prepotente
davanti a cui l’unico atteggiamento è quello di arrendersi. Simonetta,
sotto l’aspetto ambiguo di un essere terreno e divino, incarna la musa
collaudata dagli stilnovisti e da Petrarca: è bella, giovane, virtuosa,
gentile, “umilmente superba” (Petrarca, 126, ”umile in tanta gloria”), segue
cioè il canone di bellezza imposto già da tempo. In un certo
senso raffigura la donna angelicata che a sua volta ingentilisce l’uomo,
teorizzata da Guinizzeli (Io voglio del ver la mia donna laudare, vv. 9-11: Passa per via adorna,
e sì gentile/ ch’abassa orgoglio a cui dona salute,/ e fa’l de nostra fé
se non la crede) e da Dante (Donne
ch’avete intelletto d’amore, vv.
33-36: gitta nei cor villani Amore un gelo,/ per che onne lor pensero
agghiaccia e pere;/ e qual soffrisse di starla a vedere/ diverria nobil cosa, o
si morria, v. 42: che non pò mal finir chi l’ha guardata), che non
può essere guardata da anima villana “se pria di suo fallir doglia non
have” (I, 45, 6). Simonetta gode di un’essenza miracolosa, ma è escluso
l’aspetto mistico. Se le donne stilnovistiche erano di origine paradisiaca, in
senso cristiano, in Poliziano l’idea del paradiso si mantiene, però
viene privata dall’elemento religioso. All’apparizione evanescente di Simonetta
pare “s’aprissi un paradiso” (I, 50, 4): ma è decisamente un paradiso
laico, che ci fa pensare al motivo del giardino delle delizie. L’intertesto
petrarchesco dimostra anche qui la sua potenza: 126, v. 55, “Costei per fermo
nacque in paradiso”.
Tutto
è immerso in un' armonia pura: canti d' uccelli, sussurio di foglie,
fiori variopinti, cioè un intreccio stupendo di elementi visivi,
auditivi ed olfattivi, ma sopra di essi regna l' immagine della donna o
piuttosto della dea. Così la sua belleza riesce a conferire anche al
topos del locus amoenus un' aura di
sovrannaturale. Tutto è bello perché la ninfa anima ed abbellisce la
natura, che viene interamente dominata dalla creatura quasi irreale:
"l'aer d'intorno si fa tutto ameno
ovunque gira le luce amorose.
Di celeste letizia il volto ha pieno,
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dolce dipinto di ligustri e rose;
ogni aura tace al suo parlar divino,
e canta ogni augelletto in suo latino."[16]
Sempre allo stampo
petrarchesco[17]
si riconduce la trasformazione della natura nell' eco persuasiva della bellezza
femminile, elemento importante che porta ad una osservazione altrettanto
essenziale: il rapporto spazio-personaggio, stabilito da Wolfgang Kayser[18],
sarà completamente capovolto. Se lo spazio modellava secondo la sua
immagine il personaggio, in Poliziano (ma non esclusivamente, anzì lungo
l' intero Rinascimento, anche se con la concorrenza di un motivo sconosciuto al
poeta, cioè la magia nera) è proprio la figura femminile che
illumina la natura con una nuova aura di bellezza.
A
questa creatura misteriosa si addice, si impone addirittura dal canone, il
quadro naturale primaverile e splendente, con cui pare di confondersi. Non
sorge dunque il filo dell’innovazione: la donna diventa dea del suo spazio,
dominatrice della natura e dell’uomo; lei si trasforma in un giardino tramite
le associazioni della sua bellezza e delle sue membra agli elementi vegetali.
La donna stilnovistica e Laura rinascono in Simonetta, e indubbiamente
rifiorisce nella sua figura la fonte comune di questi poeti: la donna del Cantico dei Cantici, la bella sposa che
si tramuta in hortus conclusus, in un giardino
lussureggiante, un eden femminile in cui l’amante ritrova la conoscenza che
illumina. La dimensione temporale si ancora nella stagione più bella,
prediletta e canonizzata, la primavera: è il momento in cui la natura
rinasce e sboccia insieme al sentimento amoroso. E crea la perfezione.
L’apparizione
sovrannaturale di Simonetta richiama dunque i moduli della tematica amorosa,
tuttavia la contemplazione della bellezza femminile in Poliziano è
sostanzialmente distante dallo spirito degli stilnovisti, di Dante o di
Petrarca: vi è assente ogni costruzione intellettuale e ogni tormento
mistico. Questi elementi vengono elegantemente sostituiti dai concetti
platonici idealizzanti, che esaltano e spiritualizzano la bellezza, da un lato,
e da quelli naturalistici dell’amore (presenti già in Boccaccio) come
sentimento primordiale a cui non si può resistere, che dev’essere colto
nel momento del suo fiorire. Ci si trova in pieno Rinascimento, e non si perde
mai l’occasione dell’esortazione edonistica, talvolta infusa da una vena
malinconica, al carpe diem, molto
spesso rivitalizzata tramite la sua forma più raffinata del carpe rosam (in Poliziano nella
descrizione del regno di Venere e nelle sue celebri ballate, in Lorenzo de’ Medici,
in Boiardo, in Ariosto, in Tasso).
La
narrazione s’interrompe e tutto diventa descrizione e contemplazione, mentre il
sentimento d' amore scende in mezzo alla natura e si oggettiva nella
rappresentazione della bellezza, esaltata tramite paragoni mitologici (I, 46) e
personificazioni delle qualità (I, 45)
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mirabili della donna-ninfa, che racchiude in sé la
donna stilnovistica, ma anche un evidente richiamo medievale, quello del Roman de la rose, con le sue note
allegorie a cui si rifanno forse anche i Trionfi
di Petrarca:
..........................
con lei va Gentilezza in vista umana,
e da lei impara il dolce andar soave.
Non può mirarli il viso alma villana,"[19]
Si riattualizza non soltanto
la concezione stilnovistica, ma anche il suo linguaggio essenziale.
Se la
maga ariostesca comporta in sé le tracce evidenti del topos dell' hortus deliciarum del Cantico dei Cantici, nella sua forma
laicizzata, nemmeno Simonetta ne è esente, anche se il topos è
sottoposto a un procedimento di elaborazione idealizzata.
La natura, umanizzata da sentimenti di
felicità e fissata in un atteggiamento estatico di contemplazione della
persona discesa quasi da un' altra sfera, si fa partecipe anche del lutto
risentito dal giovane alla sua partenza:
“Feciono e boschi allor dolci lamenti
e gli augelletti a pianger cominciorno;
ma l’erba verde sotto i dolci passi
bianca, gialla, vermiglia e azurra fassi.”[20]
Cioè in un certo
senso la natura specchierà o raddoppierà gli stati d' animo di Iulio.
L’intertesto petrarchesco s’inserisce un’altra volta, sottilmente, nella poesia
delle Stanze: Canzoniere, 279, 1-4 (Se lamentar augelli, o verdi fronde/ mover
soavemente a l’aura estiva,/ o roco mormorar di lucide onde/ s’ode d’una
fiorita e fresca riva), 301, 1-7 ( Valle che de’lamenti se’ piena,/ fiume che
spesso del mio pianger cresci,/ fere selvestre, vaghi augelli, e pesci/ che
l’una e l’altra riva affrena.// aria de’ miei sospir calda e serena,/ dolce
sentier che sì amaro riesci,/ colle che mi piacesti, or mi rincresci,)
ossia 353, 1-2 (Vago augelletto, che cantando vai,/ o ver piangendo, il tuo
tempo passato).
L’incontro
tra Iulio e Simonetta avviene in mezzo al bosco, in un “fiorito e verde prato”
(I, 37,6); la presenza della fitta foresta
si rivela necessaria sia per la caccia sia per la forza dell’amore che
vi s’insidia, ma allo stesso tempo offre anche protezione dagli sguardi curiosi
e non iniziati. È una sorta di recinto naturale che difende gelosamente
il luogo ameno; il motivo viene ripreso, e in un certo senso riformulato, da
Ariosto, nell’episodio della fuga di Angelica nel bosco adorno, dal quale
invece si esclude ogni allusione al sentimento amoroso. Di conseguenza la
fiorita radura custodita e recintata si
tramuta in una specie di giardino incantato, quello dell’amore, della bellezza,
dell’armonia e della giovinezza. Huguette Legros[21]
parla di una simile trasposizione anche nel romanzo di Tristano e Isotta; il secondo incontro della coppia avviene sempre in
mezzo alla foresta,
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in una radura, in una “loge de feuillage”, un
“berceau”, che nel senso stretto della parola non è un giardino.
Tuttavia se il momento si collega al primo incontro, avvenuto nel giardino, la
forza del binomio natura amena-amore vi s’incide e si allarga al secondo
incontro, anche se esistono solo gli elementi minimi del locus amoenus. L’importanza risiede nel senso di felicità. [U1]La
stessa operazione si realizza in Poliziano nel quale, in senso metaforico, la
radura corrisponde al giardino dell’età privilegiata, che preannuncia
quello vero e proprio di Venere. Dunque, Iulio, per un istante, intravede ed
assaggia la dolcezza, e, nello stesso tempo, la malinconia dell' amore: una
schematica prefigurazione del regno di Venere che sarà il vero sogno
umanistico del poeta.
Il
regno della dea è l' illustrazione più eloquente dell'
idealità platonica della civiltà umanistica, traducibile in una
ricerca di armonia e bellezza, raffinamento di gusto e sogno di un' umanità
perfetta.
Se la
ricerca di un modello ed il tentativo di emularlo caratterizzava il primo
momento paesaggistico, Poliziano cede il posto, in questa descrizione, secondo
L. Malagoli[22]
all' immersione nel mito vero e proprio. La sua creazione si libera da ogni
sottomissione o costrizione ad esso.
Lo
sprofondarsi negli abissi mitici si palesa sin dalla collocazione del regno
nell' isola Cipro (Cipri), isola reale ma anche mitica, patria di Venere, la
cui evocazione segna la distanza incolmabile (condizione sine qua non del topos del locus
amoenus) tra la realtà esistente e la fantasia idealizzatrice del
poeta. La sacralità del luogo viene confermata ed incrementata dal
divieto di penetrare nel giardino, interdizione che aspira all' esclusione
totale della minima traccia umana. A questo livello non esistono persone elette
e privilegiate, pronte, né secondo criteri estetici né magici, a varcare i
confini interdetti. L' esperienza del giardino, frequentemente incontrata nel
Quattrocento e Cinquecento epici (Boiardo, Ariosto, Tasso) ne sarà
assente, poiché tutto viene fissato una volta per sempre sul piano del rito, o
indirettamente e staticamente presente sotto la forma degli intagli sulla porta, che ritraggono suggestivamente le
varie storie d’amore. D' altronde qui risiede anche il senso allegorico di
questo spazio, in cui manca la possibilità di ogni variazione e di
novità, sicché il giardino configura in questa grandiosa allegoria fra
terra e cielo una "progressiva elevazione da valori terreni a valori metafisici"[23].
Alla stessa conclusione arriva anche Gh. Ghinassi, sostenuto da E. Bigi[24]:
la tecnica della varia e squisita erudizione serve come “mezzo per trasfigurare
la realtà e immetterla in un sopramondo umano”.
La
descrizione del giardino viene edificata sull’ archetipo convenzionale del
topos, il quale però viene sottomesso ad un processo di arricchimento
spettacolare, che rispecchia il procedimento retorico, tipicamente
rinascimentale, dell' amplificatio.
Di conseguenza il topos racchiuderà in sé la quintessenza della natura
che, secondo la critica, soffrirà una metamorfosi che secondo alcuni è di umanizzazione
(D. Puccini), per altri di divinizzazione (R. Ramat)[25].
La prima opinione viene condivisa da numerosi altri studiosi, come Ruggieri[26],
Malagoli che parla di mito umanisticamente rivissuto e concepito: “un mito che
p. 283
dà sentimenti quasi umani alle cose della
natura e attributi quasi divini alle cose umane”[27]; o
Ghinassi che parla, a questo proposito, di “visione quasi animistica della
natura”, in cui la metafora “confina con la personificazione e rischia
continuamente di confondersi con essa”[28].
Tutto
viene rappresentato in un perpetuo clima primaverile, in cui la presenza dei
fiori variopinti apre la visione fantasiosa del poeta e prepara l' estasi contemplativa
del lettore:
"Zefiro il prato di rugiada bagna,
spargendolo di mille vaghi odori:
ovunque vola, veste la campagna
di rose, gigli, vïolette e fiori;"[29]
La descrizione continua
sempre in una forma elencativa, e nemmeno la compresenza di specie incompatibili
tra loro intacca la grandiosità di questo giardino, la cui importanza
maggiore risiede nell' eleganza e nell’ espressività della parola. La
realtà dell’arte vince la realtà di questo mondo.
Il
giardino è il frutto di un' armonia perfetta, all’ interno del quale
alternano colori delicati ed intensi, ma anche la finezza e la
sensualità. Ad esprimere la dolcezza e l’allegria perenni degli elementi
naturali, il poeta ricorre ad una frequente diminutivizzazzione: dilettoso
monte, lieto pratel, aurette, erbette, arbuscelli, ghirlandetta, fiumicello.
L’altro aspetto costante e dominante - inerente d’altronde all’essenza del
giardino dell’amore, la sensualità, irrompe sin dall’inizio della
descrizione. Un’aria di profusa voluttà invade le componenti del locus amoenus: “lascive aurette/ fan
dolcemente tremar l’erbette” (I, 70, 7-8), “cantano i loro amor soavi augelli”
(I, 71, 4). L’umanizzazione della natura diventa evidente, tutti gli elementi
vi sono sottomessi: la fontana (I, 80-81) e la sua acqua “dalle cui labra un grato umor distilla” (I,
81, 5); la vite (I, 84) che versa il suo dolce vino, chiaramente quello
dell’ebbrezza amorosa (il motivo del vino riappare in Ariosto, in una forma
molto più palese).
L' elevatezza del lavoro
artistico si manifesta continuamente tramite le figure mitologiche che, in
realtà, nascondono personificazioni stupende alludenti a fiori (in
questo caso l’umanizzazione e la divinizzazione si sovrappongono), e denotano,
nello stesso tempo, strutture figurali a doppio senso, in quanto fiori ed in
quanto vittime d' amore. Si riattua così il modello petrarchesco:
nell’epistola I, 4 delle Familiares,
Petrarca aveva adoperato lo stesso procedimento, richiesto dall’ingegno
artistico, per lo stesso arricchimento del suo giardino. Ma era ricorso alla
preziosità mitologica solo per elencare raffinatamente le specie di
fiori, alberi, animali. Il duplice senso, che acquistano in Poliziano, gli
è interamente estraneo. Così i miti riattuati di Narciso, di
Clizia, di Adone acquistano una dimensione di grande freschezza e
vivacità, anche se simboleggiano solo i fiori eterni del giardino, fiori
che hanno sofferto però l’esperienza amorosa:
"L'alba nutrica d'amoroso nembo
gialle, sanguigne e candide vïole;
descritto ha'l suo dolor Iacinto in grembo,
Narcisso al rio si specchia come suole;
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in bianca vesta con purpureo lembo
si gira Clizia palidetta al sole;
Adon rinfresca a Venere il suo pianto."[30]
Le costanti vegetali del
topos soffrono la trasformazione, di cui ho già accennato, e la
divergenza dell’opinione della critica sembra piuttosto attuarsi in una
simbiosi perfetta, poiché i fiori rivelano, tramite la personificazione dei
lati umani, ma si connotano indubbiamente anche da caratteri divini per il
sostanziale richiamo mitologico, che proietterà tutto in una dimensione
immobile.
Secondo
R. Ramat[31]
la natura appare nella sua forma divina, primigenia, plasmata tutta dal divino
artista. Sembra quasi che il poeta riprenda l' opera creatrice di Dio,
rivestendosi della sua onnipotenza. La natura preziosa ed eterna viene
attentamente protetta non più dal bosco denso, bensì da un muro
d’oro. E un momento importante, visto che la corposa presenza delle gemme (la
derivazione dantesca è palese: Purgatorio, VII, la valletta amena dei principi
negligenti) non sarà affatto trascurabile. Le gemme conferiscono
preziosità alla descrizione, in ogni caso già traboccante di
ricercatezza.
Il
giardino è sprofondato nell’atemporalità (I, 72), la “lieta Primavera
mai non manca”, le stagioni e gli anni non si succedono. La tradizione classica
(Omero, Virgilio, ecc.) e quella romanza (Roman
de la rose, Boccaccio, Dante) hanno
fissato l’archetipo del giardino eterno, che viene rivisitato qui dal
poeta delle Stanze. Ma Poliziano
introduce l’aspetto paradossale, che
corrompe il tempo mitico immemore, tramite la stupenda ottava della rosa, il
fiore “eterno” e prediletto di Venere:
“ma vie più lieta, più ridente e bella,
ardisce aprire il seno al sol la rosa:
questa di verde gemma s’incappella,
quella si mostra allo sportel vezosa,
l’altra, che’n dolce foco ardea pur ora,
languida cade e’l bel pratello infiora.”[32]
Dietro
la metafora si nasconde l’immagine del tempo umano; i tre momenti, che si
presentano – sboccio, fioritura, appassire, richiamano l’arco della vita, e non
esclusivamente quello del fragile fiore. Nelle deliziose immagini si intuisce
elegantemente la psicologia femminile. In un certo senso si annulla o almeno si
turba l’atemporalità del giardino, la cui atmosfera si tinge, per un
attimo, di malinconia, di quella malinconia classica per l’attimo sfuggente. Ma
la fugacità, così evocata, della vita, si esalta la vita, e mette
in primo piano il periodo prediletto della giovinezza che dev’essere sfruttato
pienamente. È il classico carpe
diem, più esattamente la sua forma squisita, il carpe rosam, che a
partire da Poliziano è destinato a ricorrere più volte. Eccone
due esempi, solo per una brevissima illustrazione: nello stesso Poliziano
appare nella famosa ballata delle rose (“quale scoppiava della boccia ancora;/
qual’eron un po’ passe e qual’ novelle./ Amor mi disse allor: - Va’, cô’ di
quelle/ che più vedi fiorire in sullo spino –“ e la celebre esortazione
nella chiusa, che nelle Stanze
è solo sottintesa: “cogliàn la bella rosa del giardino.”[33])
oppure, in maniera
p. 285
sorprendentemente
analoga, in Lorenzo de’ Medici, nel Corinto
(“Eranvi rose candide e vermiglie:/ alcuna a foglia a foglia al sol si spiega,/
stretta prima, poi par s’apra e scompiglie;/ altra più giovanetta si
dislega/ a pena dalla boccia; eravi ancora/ chi le sue chiuse foglie ll’aer
niega;/ altra, cadendo, a pie’il terreno infiora.” E la stessa esortazione
finale: “Cogli la rosa o ninfa or che è bel tempo.”[34]).
Ma numerose ottave saranno dedicate alla descrizione dell’effimerità
della rosa da parte di Boiardo, Ariosto e Tasso.
L' impressione sontuosa e
lussuosa, e al contempo lussureggiante del giardino scaturisce proprio dall'
enumerazione pressoché esaustiva degli esemplari botanici, dietro cui si svela
il pretesto polizianesco di rivelare una magnifica filologia poetica. La
pomposità descrittiva particolareggiante delle piante comporta in sé l'
aspetto allegorico della perfezione della forma letteraria. E si pensi anche al
vasto catalogo di alberi, che stupisce per la varietà delle forme e dei
colori. Lo sfarzo descrittivo predomina anche nell’ elenco degli animali che
popolano il giardino, animali che vengono colti nella loro naturale
istintività e sensualità. L' immersione mitica atemporale concede
ad essi una convivenza pacifica, sebbene si trattasse delle più feroci
fiere (tigri, leoni, serpenti) che vivono accanto ad animali mansueti (conigli,
lepri, cervi,giovenchi). I ritratti vengono raffigurati con tinte abbastanza
realistiche da rischiare di compromettere “leggermente” l’atmosfera di
spettacolo sovrannaturale. Ma l' apparizione degli uccelli ristabilisce l' aria
di festa continua della natura. Tramite la loro veste acceccante a colori
intensi, gli uccelli conferiscono al paesaggio un aspetto paradisiaco, che si
estende naturalmente al giardino di amore, sprofondato sempre nell' aura dell'
eternità.
La forza che insufla una
vita pacifica e imbevuta di sensualità al mondo vegetale e animale,
è Amore; la funzione aperta della descrizione coincide con la
rappresentazione mitica della sua onnipotenza e onnipresenza. In questa
direzione si può spiegare, secondo F. Tateo, la centralità ideale
del giardino di Venere nell’economia
delle Stanze e, implicitamente, il
naturalismo del poeta, dato che, continua lo stesso studioso, si raffigura
così l’aderenza consapevole
della natura “alla dottrina dell’amore come cosmica potenza generatrice
e rigeneratrice, che circola nella cultura filosofica del Quattrocento”[35].
L’operazione fondamentale
che Poliziano compie è quella dell’imitazione della natura, una natura
che, afferma giustamente Venturi, non ha bisogno del modello “reale”: “il
modello letterario è autosufficiente”[36]. Si
è parlato della cosiddetta “scoperta” della natura, ma si può
affermare un’altra volta, sostenuti dalle lucide spiegazioni di Venturi, che
essa si sovrappone, con la riscoperta della descriptio,
con la rivisitazione di una natura artificiale, perfetta che serve da sfondo
ideale per la favola altrettanto idealizzata e mitizzata. L’esigenza della
descrizione risponde al bisogno platonico della bellezza e dell’armonia. In
compenso la narrazione è scarsa, prevale la rappresentazione dei primi
piani naturali. Tutto diventa poesia (arte) sostenuta dal canone della
bellezza. Si scandisce consapevolmente la parola artistica che fa contaminare
le fonti, che definisce il giardino come una collezione di miti, come
un’eclettica accumulazione delle fonti e dei modelli. Di conseguenza il
giardino offrirà la forma suprema della natura, la sua quintessenza, che
sancisce al contempo la poesia.
p. 286
Lo stesso Venturi[37]
definisce il giardino lussureggiante di Venere come un “giardino mentale”, che
a partire dal nostro poeta conoscerà una grande fortuna, poiché il
motivo si sottomette ad un processo di astrazione, il referente (la natura)
implicitamente scompare. Rimane esclusivamente la cultura letteraria, la dotta
fusione delle fonti. Il giardino coinciderà con vari luoghi
mnemonico-descrittivi. I celebri giardini epici tardo quattrocenteschi e
cinquecenteschi saranno tutti debitori intrisi del modello polizianesco, mentre
l’elemento distintivo sarà fornito dal ricorso alla magia. Per Poliziano
basta l’immersione nel mito, mentre Ariosto e Tasso, che lo seguono fedelmente
nel processo d’astrazione, nella ri-costruzione del loro eden tendenzialmente
profano, faranno anche appello alla magia nera. Proprio per questo fallisce il
loro tentativo, o è destinato a una breve vita. Dopodiché l’Eden
originario è svanito per il peccato originario, l’uomo ne può
recuperare solo una copia profana e perciò caduca. La natura di questo
nuovo Eden diventa il sigillo inequivocabile della sua labilità e
illusorietà. In questo senso Poliziano eccella nella ri-costruzione,
poiché ignora la presenza umana, riuscendo ad illustrare il proprio alto
ideale, che d’altronde si sovrappone a quello di un gruppo eletto e raffinato
che si costituisce alla corte medicea. È altrettanto vero che la figura
dell’intellettuale cortigiano diverge fondamentalmente da quella
due-trecentesca: almeno nella rappresentazione idealizzata l’impegno politico e
sociale mancano. Di conseguenza l’aspirazione laica verso l’alto, l’evasione da
una realtà talvolta sopraffacente, non farà altro che isolare i
poeti rinascimentali in una dimensione spesso irreale, favolosa.
Il
sentimento dominante di quest'ambiente idillico si traduce nella
felicità immacolata e nella suprema armonia della natura pura.
L’esemplarità naturale si sposa con la perfezione della poesia come
forma suprema di bellezza e di armonia. Il topos si realizza per mezzo della
virtuosità poetica e si arricchisce di un sistema metaforico e
stilistico elegante e raffinato. L’amore per la parola rara, dotta, il
frequente ma anche raffinato ricorso alle figure retoriche svelano l’”anima
filologica”, cioè umanistica di Poliziano, in cui questa passione
diventa, conformemente quanto scrive Ghinassi, “la restituzione ai dotti di un
cimelio storico gravido di memorie”[38].
La
descrizione del giardino segue l' ideale platonico dell' epoca per ciò
che riguarda l' ordine e l' armonia che vi regna. Poliziano ci rivela una
natura perfetta con cui rivalizzerà l' arte perché poi i due termini
diventino intercambiabili.
L'
unico motivo che compete con l' esemplarità naturale è il palazzo
alla cui rappresentazione Poliziano dedica tutta la maestria dell’ artista. Il
fasto ornamentale dell' edificio (le sole pietre utilizzate sono le gemme:
“d’oro e di gemme un gran palazzo folce”, I, 93, 3; “La regia casa il sereno
aier fende,/ fiammeggiante di gemme e di fino oro,/ che chiaro giorno a meza
notte acende;/ ma vinta è la materia dal lavoro”, I, 95, 1-4; “Le mura a
torno d’artificio miro/ forma un soave e lucido berillo;/ passa pel dole
oriental zaffiro/ nell’ampio albergo el dì puro e tranquillo;/ ma il
tetto d’oro”, I, 96, 1-4) aderisce mirabilmente all' aura speciale che circonda
chi vi dimora: la dea dell' amore. L’ elemento favoloso, che è stato
sopraffatto dalla profusione descrittiva del giardino riprende, per un istante,
la posizione sovrana, per dissolversi di nuovo nelle "astrazioni
fastidiose", secondo Giuseppe De Robertis[39], del
lungo corteggio degli amori, cioè delle varie trasformazioni sofferte
dalle più illustri figure mitologiche.
p. 287
Il
preziosismo mitologico irrompe dunque nella scena per dare la pennellata
mancante alla perfezione del quadro. Le minute descrizioni mitologiche, che
risalgono a Ovidio e ai Triofi di
Petrarca, nascondono lo stesso ideale enciclopedico già scandito nel
caso dei lunghi cataloghi vegetali, animali e di pietre preziose, che danno
risalto alla stravagante ricchezza del giardino. La superiorità
dell’arte viene convalidata dunque dalle eterne storie d’amore effigiate e,
soprattutto, dal lavoro dell’artista. Sebbene fissati nei bassorilievi che
ornano le porte, le illustrazioni si animano di vita e di naturalezza,
conferite proprio dall' esemplarità della materia intagliata. L' elenco
fastoso (le varie metamorfosi di Giove, di Nettuno, oppure le note storie di
Apollo e Dafne, di Teseo e Arianna, di Proserpina e Pluto, ecc.) culmina nella raffigurazione
della nascita di Venere, che sembra la vittoria dell’arte sulla natura, tanto
la prima sembra imitare a perfezione la seconda:
"Vera la schiuma e vero il mar diresti
e vero il nicchio e ver soffiar di venti;
la dea negli occhi folgorar vedresti
e'l cel riderli a torno e gli elementi;
.........................
Giurar potresti che dell' onde uscissi
la dea premendo colla destra il crino,
coll' altra il dolce pome ricoprissi;"[40].
L' anafora raddoppiata ed i
verbi "veder" e "giurar" non fanno altro che confermare la
vivacità autentica e spontanea del ritratto. L’iconicità,
l’istanza alla visualizzazione della perfetta bellezza della dea vengono colte,
com’è ben noto, da Botticelli, che nella sua pittura offre una visione
affine. Secondo Gombrich[41], “La nascita di Venere” si nutre di due tipi di correlazione:
degli interessi filosofici di M. Ficino, e delle “Stanze” di Poliziano, il celebre pittore essendo l’iniziatore
dei monumentali dipinti mitologici. Lo stretto legame tra Poliziano e Botticelli,
del resto arcinoto, viene confermato anche da P. Francastel, il quale afferma
che lo spazio del Rinascimento è “il prodotto di un’attitudine dello
spirito umano e non della scoperta di un sistema di rappresentazione oggettiva
del mondo”, è la “conquista di uno spazio fittizio”[42].
Ed è proprio quello che fa non solo Botticelli, ma direi, anche
Poliziano.
Il
regno di Venere simboleggia dunque la forma più alta della vita,
cioè quella contemplativa. A questa conclusione arriva anche Rosario
Assunto[43],
secondo il quale la bellezza del giardino, che si scopre al contemplatore,
è una bellezza ideale che si manifesta come ordine, eleganza e simmetria
e la cui estetica si definisce come elevazione poetica della natura all' Idea.
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[1]
Wladyslaw Tatarkiewicz, Istoria esteticii, vol. III: Estetica modernã, Bucarest: Meridiane,
1978: 63-64.
[2]
Ruggero M. Ruggieri, L’umanesimo cavalleresco italiano. Da Dante
al Pulci, Roma: Edizioni dell’Ateneo, 1962: 148.
[3]Angelo
Poliziano, Stanze Orfeo Rime (introduzione, note e indici di Davide Puccini), Garzanti, 1992: I, 17,
4-8-18.
[4]
Ernst Robert Curtius, La littérature européenne et le Moyen Age
latin, Parigi: Presses Universitaire de France, 1956: 226.
[5]
Per le fonti classiche delle Stanze
si vedano Giovanni Getto, Tempo e spazio nella letteratura italiana,
Firenze: Sansoni, 1983: 42-75; Renzo Lo
Cascio, “Il lavoro dell’ape e la poesia delle Stanze”, in Il Poliziano
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[6]
Luigi Malagoli, Le Stanze e l’Orfeo e lo spirito del Quattrocento,
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[7]
Harry Levin, The Myth of the Golden Age in
the Renaissance, Bloomington-Londra: Indiana University Press : 32.
[8]
Giovanni Boccaccio, Decameron-Filocolo-Ameto-Fiammetta,
Milano-Napoli: Riccardo Ricciardi Editore, 1952: 1149 e 1151-1152.
[9]
Poliziano, Stanze, cit.: I, 20, 1-2,
7-8; 21.
[10]
Getto, Tempo e spazio nella letteratura italiana, cit.: 53.
[11]
Attilio Momigliano, Ultimi studi, Firenze, 1954: 14.
[12]
Poliziano, Epistola, VIII, 26, ripresa in Franceso Tateo, Lorenzo de’
Medici e Angelo Poliziano, Bari:
Laterza, 1996: 145-147.
[13]
Ruggieri, L’umanesimo cavall., cit.: 154-155.
[14]
Gustavo Costa, La leggenda dei secoli d’oro nella
letteratura italiana, Bari: Laterza, 1972: 52.
[15]
Momigliano, Introduzione ai poeti, Firenze: Sansoni, 1979: 27.
[16]
Poliziano, Stanze, cit.: I, 43, 5; 44, 5-8.
[17]
Francesco Petrarca, Canzoniere, Milano: Mondadori, 1996: si
vedano 126 (Da’ be’ rami scendea/…/una pioggia di fior sovra’l suo grembo;/ et
ella si sedea/…/ coverta già de l’amoroso nembo:/ qual fior cadea sul
lembo/ qual su le traccie bionde,); 162 (Lieti fiori e felici, e ben nate
erbe/…/ piaggia ch’ascolti sue dolci parole,/…/ schietti arboscelli, e verdi
frondi acerbe,/ amorosette e pallide viole;/…/ o soave contrada, o puro fiume/
che bagni il suo bel viso e gli occhi chiari,/ e prendi qualità dal vivo
lume;); 165 (Come’l candido pie’ per l’erbe fresca/ i dolci passi onestamente
move,/ vertù che’ntorno i fiori apra e rinove/ de le tenere piante sue
par ch’èsca.)
[18]
Cfr. a Virgil Nemoianu, Micro - Armonia, Dezvoltarea ºi utilizarea
modelului idilic în literaturã, Iaºi: Polirom, 1996: 13-14.
[19]
Poliziano, Stanze, cit.: I, 45, 1 e 3-5.
[20]
Ibidem: I, 55, 5-8.
[21]
Huguette Legros, "Du verger
royal au jardin d’amour: mort et transfiguration du locus amoenus", in Verger
et jardins dans l’univers médiéval, Aix en Provences: Publications de
CUERMA, 1990: 221-222.
[22]
Malagoli, Le Stanze e l' Orfeo e lo spirito del Quattrocento, cit.: 46.
[23] Vittore Branca,
Poliziano e l' umanesino della parola,
Torino: Einaudi, 1983: 46.
[24] Come scrive E. Bigi ("La lirica latina del
Poliziano", in La Rassegna
letteraria, 1956: 241-251), ripreso da Ghino Ghinassi, in Il volgare letterario nel Quattrocento e le Stanze del Poliziano,
Milano-Napoli: Riccardo Ricciardi, 1952: 88, n. 1.
[25] Introduzione di
Davide Puccini alle Stanze, cit.
[26]
Ruggieri, L’umanesimo cavalleresco, cit.: 159.
[27]
Malagoli, Le Stanze e l’Orfeo e lo spirit, cit.: 93.
[28]
Ghinassi, Il volgare letterario, cit.: 120.
[29]
Poliziano, Stanze, cit.: I, 77, 3-6.
[30]
Ibidem: I, 79, 1-7.
[31]
Raffaello Ramat, Saggi sul Rinascimento, Firenze: La
Nuova Italia, 1969: 143.
[32]
Poliziano, Stanze, cit.: I, 78, 2-8.
[33]
Ibidem, Poesie italiane, Milano: Fabbri Editori, 1995: 131.
[34]
Lorenzo de’ Medici, Scritti scelti, Torino: UTET, 1927:
169-170.
[35]
Tateo, Lorenzo de’ Medici e Angelo Poliziano: cit.: 119.
[36]
Gianni Venturi, “«Picta poësis»:
ricerche sulla poesia e il giardino dalle Origini al Seicento”, in Storia d’Italia,
Annali 5, Il paesaggio, Torino:
Einaudi, 1982: 696.
[37]
Ibidem.
[38]
Ghinassi, Il volgare letterario, cit.: 84.
[39]
Giuseppe De Robertis, Saggi con una noterella, Firenze: Le
Monnier, 1939: 26.
[40]
Poliziano, Stanze, cit.: I, 100, 1-4 e 101, 1-3.
[41]
Ernst H. Gombrich, Immagini simboliche. Studi sull’arte del
Rinascimento, Torino: Einaudi, 1978: 48.
[42]
Pierre Francastel, Lo spazio figurativo dal Rinasimento al
Cubismo, Torino: Einaudi, 1957: 86.
[43]
Rosario Assunto, Peisajul ºi estetica, Artã, criticã ºi filosofie, vol. II,
Bucarest: Meridiane, 198: 212.