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Back to Homepage Annuario 2002

 

p. 275

Il “giardino” incantato della giovinezza

e il giardino di Venere

 

Monica Fekete,

Università di Cluj

 

        Se l' ideale rinascimentale si concretizza in due momenti, come suggeriva W. Tatarkiewicz[1], cioè in una renovatio hominis intesa come movimento verso un livello superiore, e una renovatio antiquitatis come risurrezione del mitico passato e della cultura classica, Poliziano realizza perfettamente questo ideale.

        L’intento delle Stanze per la giostra corrisponde perfettamente a un diffusissimo costume letterario quattrocentesco, quello encomiastico: Poliziano ripropone di celebrare le prodezze di Giuliano de’ Medici. Lo stesso stampo umanistico viene impresso nel motivo della poesia come unica possibilità di sottrarre al potere del tempo, le grandi imprese. Accanto, però, al tema delle armi si affianca subito quello dell’amore (che prenderà il sopravvento, grazie anche all’incompiutezza dell’opera): il celebre binomio armi-amore, già consacrato dalla tradizione e rivisitato, con vigore sostenuto, nel Cinquecento epico da Ariosto e Tasso, spunta, secondo Ruggero M. Ruggieri[2], in Poliziano con forme epico-cavalleresche, anhe se non integralmente riconducibili all’autentica tradizione.

        L’humanitas scoperto da Petrarca conoscerà una fioritura particolare nel Quattrocento: gli autori classici tornano alla vita con tutti gli ideali di una esistenza virtuosa. Si propone l’immagine del perfetto cavaliere-cortigiano, i cui tratti devono apparire non soltanto dalle opere letterarie, ma nella vita reale. L’ideale dell’educazione rinascimentale risiede nell’educazione armoniosa del corpo e dello spirito. Lo scopo della cultura diventa la formazione dell’uomo. Il rapporto stretto con i classici è il fondamento della nuova concezione, e le loro opere vengono esaltate quali fonti per la formazione dell’uomo nell’armonia perfetta delle sue facoltà, fonti che fanno di lui una creatura privilegiata, separata dal mondo dei bruti. Si tratta di nozioni ben conosciute, ma vale la pena di ricordarle ome premessa essenziale all’opera di Poliziano, nella quale appaiono sia in maniera palese sia in form idealizzata e filtrata.

        La prima tappa dell’educazione di Iulio si concentra nell’esercizio del corpo, rappresentata nella scena della caccia. Questo primo momento fissa la dimensione spaziale idonea all’attività: la campagna e il bosco, che si trovano in netta contrapposizione con la città (uno spazio che viene decodificato tramite l’immagine della corte e, implicitamente, come territorio dell’amore). È una sorta di fuga, di evasione; si va fuori delle mura della città (mura-amore, cioè costrizione) verso l’aperto, verso uno spazio sconfinato, verso la libertà tanto del corpo quanto dello spirito.

        Dunque l'aspirazione di evadere dalla squallida realtà quotidiana per rifugiarsi nel clima di eterna ed ideale bellezza, creato dai poeti classici, rappresenta non soltanto la meta del poeta ma anche del suo personaggio maschile. L’ attività che permette questa fuga si rivela essere esclusivamente la caccia, che unisce tre motivi basilari: la virilità, il piacere e

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la libertà. È l'unico modo di vita paragonabile, anzi identificabile, con l' esistenza mirabile dell' età dell' oro. Il sentimento idillico è uno dei sentimenti naturali del mondo polizianesco: la pace, il ritiro dal mondo, il contatto con la natura vergine sono i motivi indispensabili per l’elogio della vita rusticale, che avviene attraverso l’immersione nostalgica nel passato:

 

"veder la valle e'l colle e l'aier puro,

l'erbe e' fior, l'acqua viva, chiara e ghiaccia;

udir li augei sventar, rimbombar l'onde,

e dolce al vento mormorar le fronde!

 

Quanto giova a mirar pender da un'erta

le capre, e pascer questo e quel virgulto;

e'l montanaro all'ombra più conserta

destar la sua zampogna e'l verso inculto;

veder la terra di pomi coperta,

ogni arbor da suoi frutti quasi occulto

veder cozzar monton, vacche mugghiare

e le biade ondeggiar come fa il mare!"[3]

 

        Tramite i motivi fondamentali del topos del locus amoenus, fissati poi da Curtius[4], il poeta intona un vero e proprio inno e glorifica, al contempo, gli ideali di bellezza e giovinezza. L' evocazione dell' età primitiva e della natura verginale viene avvolta in un' aura mitica e, sebbene si tratti di imitazione palese (Poliziano fa ricorso a un’ampia tradizione georgica e bucolica[5]), come è nel canone del Rinascimento, il poeta ci si rivolge per il bisogno assoluto di isolare la propria realtà sentita diametralmente opposta a quella esistente. La nota fondamentale di Poliziano, secondo L. Malagoli, non è tanto “l’ispirazione mitica come carattere della poesia ma l’ideale mitico come sostegno del suo mondo: piuttosto l’ideale mitico è la realtà concreta, Poliziano sottopone tutto a quel suo modo lieve di considerar le cose, che dà una tinta d’irrealtà anche alle cose più vive, ma pur così restan in lui concretissime”[6]. Quindi il mondo polizianesco trova la propria interpretazione e definizione all' interno di termini leggermente paradossali, cioè nell'idealizzazione di un mondo già ideale. È un mondo ancora immune dal peccato, in cui regnano la giustizia e il piacere innocente. Come ricorda Harry Levin[7] la purezza caratterizza l' età dell' oro soltanto sotto la direzione di Saturno, però il male vi penetrerà nel momento in cui Giove e i falsi dei disperderanno l’ armonia e la pace perfette, tramite l' ingerenza dei vizi.

        Il protagonista fa la sua lucida scelta per una vita agreste, libera da ogni costrizione amorosa, priva dunque di lussuria, di invidia. Nella lunga descrizione volta a

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rappresentare un sogno contemplativo, le varie reminiscenze classiche (Virgilio, Ovidio, Seneca) riportano la vagheggiata età dell’oro, senza però una concreta determinazione. Tutto ciò viene sostenuto, come si è sottolineato prima, da un chiaro richiamo alla retorica, all’uso del locus amoenus, senza la quale ogni tentativo di ricostruzione sarebbe destinato a fallire. Le finissime allusioni al periodo della felicità semplice, perfetta e suprema si convertono nelle stanze seguenti (stanze 20-22) nella sua vera e propria definizione e descrizione. Accanto ai modelli classici rappresentanti il canone da seguire, già ricordati, Poliziano si attinge anche a due insigni autori del Trecento volgare: Boccaccio e Petrarca. Boccaccio, a cui Poliziano fa un ricorso sostanzioso, nell’Elegia di Madonna Fiammetta, aveva messo in bocca della sua protagonista la stessa distinzione tra la vita cittadina e quella campestre: mentre la prima è implacabilmente insidiata dal distruttivo furore amoroso, la seconda rispecchia la felicità pura e la vita primitiva ma ricca del secolo d’oro. Nelle Stanze si possono identificare in filigrana le stesse idee e descrizioni. Per avere un breve confronto tra i due testi, ne riporteremo in nuce i brani in questioni: “Oh, felice colui il quale innocente dimora nella solitaria villa, usando l’aperto cielo! Il quale, solamente conoscendo di preparare maliziosi ingegni alle selvatiche fiere […] e se greve fatica per avventura sostiene, incontanente sopra la fresca erba riposandosi la ristora, tramutando ora in  questo lito del corrente rivo, e ora in quell’altra ombra dell’alto bosco li suoi luoghi, ne’quali ode i queruli uccelli fremire con dolci canti, e i rami tremanti e mossi da lieve vento”.[…] “Ohimè! Niuna è più libera né senza vizio o migliore che questa, la quale li primi usarono […] Oh felice il mondo, se Giove mai non avesse cacciato Saturno, e ancora l’età aurea durasse sotto caste leggi! […] Ohimè! Che chiunque è colui li primi riti servante, non è nella mente infiammato dal cieco furore della non sana Venere […]; né è colui che sé dispose ad abitare ne’colli de’monti, suggetto ad alcun regno: […] non all’infido vulgo, non alla pestilenza invidia….”[…] “Ohimè! Che l’empio furore del guadagnare, e la strabocchevole ira, e quelle menti, le quali la molesta libidine di sé accese, ruppono li primi patti così santi […], dati dalla natura alle sue genti”.[8]

 

“In cotal guisa già l’antiche genti

si crede esser godute al secol d’oro

……………………

lor case eron fronzute querce e grande,

ch’avean nel tronco mèl, ne’ rami ghiande.

……………………..

Non era ancora la scelerata sete

del crudele oro entrata nel bel mondo;

viveansi in libertà le genti liete,

e non solcato il campo era fecondo.

Fortuna invidiosa a lor quiete

ruppe ogni legge, e pietà misse in fondo;

lussuria entrò ne’ petti e quel furore

che la meschina gente chiama amor.”[9]

       

Anche Petrarca aveva separato nel De vita solitaria la vita cittadina (corruzione, inferno) da quella isolata nella valle della Sorga (pace, serenità, paradiso), quest’ultima

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dedita agli studi. G. Getto[10], sottolineando il contrasto fra città e campagna, tra spazio chiuso e aperto, tra civiltà e cultura, afferma che il Quattrocento ha riscoperto la natura. Quest’opinione era già stata espressa da A. Momigliano, secondo il quale “le Stanze e le ballate dell’uccello e delle rose fanno parte di questa scoperta della natura, di questo movimento della Rinascenza che aggiunge all’uomo come motivo di poesia la natura”[11]. È evidente che le descrizioni naturali, piuttosto rare e limitate a pochi elementi nel Medioevo, irrompono sul palcoscenico rinascimentale e si sottomettono alla richiesta amplificatio. In Poliziano si riconosce una natura ultrastilizzata, un luogo retorico,difficile da associare, a dire la verità, al sentimento della natura vero e proprio. Tanto più che, per il poeta, la natura reale in quanto referente non esiste. Si tratta in Poliziano di un luogo astratto, mentale, un processo di ri-creazione poetica. Nemmeno Petrarca d’altra parte aveva goduto veramente del sentimento della natura, anche se aveva cantato la bellezza di Valchiusa: in lui la natura era sublimata, diventava una bella metafora della sensibilità e dell’ingegno artistico.

Poliziano segue, di conseguenza, fedelmente il canone dell’imitazione, che lui stesso teorizza, in una lettera indirizzata a Paolo Cortese[12], come singolo procedimento da cui traspare la docta varietas. Fonde armoniosamente e sapientemente la tradizione classica e quella romanza, creando la propria poesia infusa di originalità. La sua imitazione viene definita in quanto una maieutica da una lunga serie di studiosi –E. Garin, L. Russo, Ruggero M. Ruggieri – quest’ultimo dà una definizione suggestiva in questo senso, riferendosi alla lingua delle Stanze: maieutico vuol dire “essenzialmente mnemonico, perciò di necessità limitato; tanto più limitato quanto maggiore è il numero degli auctores”[13], un’opinione con cui non si può che concordare.

        Questa ekphrasis mitica che coincide con la continenza, in senso traslato, si  identifica, secondo G. Costa, con il periodo della “casta gioventù del protagonista”[14]. Segna, come si è affermato, la prima tappa della sua formazione, e l’immagine della caccia non traduce esclusivamente l’idea di un regresso verso il modello letterario, bensì pure quella di un “viaggio” iniziatico, formativo, richiesto dall’esigenza della compiutezza, della perfezione del personaggio encomiato, che viene proiettato in un mondo ideale che trasgredisce i confini della realtà storica.

        I mali, che corrompono la serenità del secolo d’oro, a cui alludeva Boccaccio, non toccano però la perfezione del mondo polizianesco e l' unico sapore terreno, che lascerà dietro di sé un certo sentimento di scontentezza, sarà la malinconia che penetrerà nell' anima giovane di Iulio, all’idea della fugacità dell' età privilegiata. Perciò l’ esortazione classica di cogliere il momento opportuno si rivelerà immancabile, e si accentuerà tramite l' apparizione miracolosa della donna - dea. La compenetrazione del senso umano e di quello divino della bellezza femminile rinvia direttamente a scorci petrarcheschi e stilnovistici. Infatti l' amore si presenta nella sua forma raffinata di compimento spirituale. L' idea di carnalità, così pervasiva nei poemi cavallereschi cinquecenteschi, qui è del tutto assente. L’ incontro stupendo, avvenuto nella radura luminosa di una natura idillica esemplare, è una sorta di prefigurazione del regno di Venere, al quale però è vietato l' accesso umano. Quello che

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vuole suggerire il poeta, in questa prima rappresentazione, è proprio la possibilità di un innalzamento spirituale,  attraverso l' amore puro e casto, anche all' interno della realtà terrena, a sola condizione che sia progettata in un mondo decisamente particolare e nobile. Sembra logico quindi che l' accesso a questa nuova dimensione sia limitato alle sole persone elette secondo criteri di età e di bellezza.

        Se fino a questo punto l' idillio naturale esaltava la libertà panica, la "parvenza" magica arricchisce l' apertura paesaggistica di una sfumatura, forse un po' costrittiva, a prima vista, alle leggi inelluttabili dell' amore sovrano, ma, in realtà, non fa altro che dare il tocco finale di perfezione, provveduto dalla forza "trascendentale" della fantasia poetica. Infatti la natura vivente in un' aura quasi immortale coincide con la perfezione artistica del poeta stesso.

        A. Momigliano[15] ha certamente ragione quando identifica Simonetta con l' immagine del paesaggio stesso. L' eco petrarchesca diventa ovvia, ma in fusione con le altre reminiscenze, conferisce un’armonia ed un’idealità al quadro che non c’erano nell’inquieto Petrarca. Nel caso di Petrarca, Valchiusa  non riusciva a conferire la solitudine ideale, poiché l’epifania della donna, proprio di una Laura stilnovistica, s’insinuava negli elementi  della natura esemplare, e trasformaba, abbelliva e al contempo rendeva tormentoso il ritiro scelto. In un certo senso, sulla scia petrarchesca, il luogo ameno di Iulio si lascia penetrare, in modo abbastanza consimile, dalla stessa forza prepotente davanti a cui l’unico atteggiamento è quello di arrendersi. Simonetta, sotto l’aspetto ambiguo di un essere terreno e divino, incarna la musa collaudata dagli stilnovisti e da Petrarca: è bella, giovane, virtuosa, gentile, “umilmente superba” (Petrarca, 126, ”umile in tanta gloria”), segue cioè il canone di bellezza imposto già da tempo. In un certo senso raffigura la donna angelicata che a sua volta ingentilisce l’uomo, teorizzata da Guinizzeli  (Io voglio del ver la mia donna laudare, vv. 9-11: Passa per via adorna, e sì gentile/ ch’abassa orgoglio a cui dona salute,/ e fa’l de nostra fé se non la crede) e da Dante (Donne ch’avete intelletto d’amore, vv. 33-36: gitta nei cor villani Amore un gelo,/ per che onne lor pensero agghiaccia e pere;/ e qual soffrisse di starla a vedere/ diverria nobil cosa, o si morria, v. 42: che non pò mal finir chi l’ha guardata), che non può essere guardata da anima villana “se pria di suo fallir doglia non have” (I, 45, 6). Simonetta gode di un’essenza miracolosa, ma è escluso l’aspetto mistico. Se le donne stilnovistiche erano di origine paradisiaca, in senso cristiano, in Poliziano l’idea del paradiso si mantiene, però viene privata dall’elemento religioso. All’apparizione evanescente di Simonetta pare “s’aprissi un paradiso” (I, 50, 4): ma è decisamente un paradiso laico, che ci fa pensare al motivo del giardino delle delizie. L’intertesto petrarchesco dimostra anche qui la sua potenza: 126, v. 55, “Costei per fermo nacque in paradiso”.

        Tutto è immerso in un' armonia pura: canti d' uccelli, sussurio di foglie, fiori variopinti, cioè un intreccio stupendo di elementi visivi, auditivi ed olfattivi, ma sopra di essi regna l' immagine della donna o piuttosto della dea. Così la sua belleza riesce a conferire anche al topos del locus amoenus un' aura di sovrannaturale. Tutto è bello perché la ninfa anima ed abbellisce la natura, che viene interamente dominata dalla creatura quasi irreale:

 

"Rideli a torno tutta la foresta,"

"l'aer d'intorno si fa tutto ameno

ovunque gira le luce amorose.

Di celeste letizia il volto ha pieno,

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dolce dipinto di ligustri e rose;

ogni aura tace al suo parlar divino,

e canta ogni augelletto in suo latino."[16]

       

Sempre allo stampo petrarchesco[17] si riconduce la trasformazione della natura nell' eco persuasiva della bellezza femminile, elemento importante che porta ad una osservazione altrettanto essenziale: il rapporto spazio-personaggio, stabilito da Wolfgang Kayser[18], sarà completamente capovolto. Se lo spazio modellava secondo la sua immagine il personaggio, in Poliziano (ma non esclusivamente, anzì lungo l' intero Rinascimento, anche se con la concorrenza di un motivo sconosciuto al poeta, cioè la magia nera) è proprio la figura femminile che illumina la natura con una nuova aura di bellezza.

        A questa creatura misteriosa si addice, si impone addirittura dal canone, il quadro naturale primaverile e splendente, con cui pare di confondersi. Non sorge dunque il filo dell’innovazione: la donna diventa dea del suo spazio, dominatrice della natura e dell’uomo; lei si trasforma in un giardino tramite le associazioni della sua bellezza e delle sue membra agli elementi vegetali. La donna stilnovistica e Laura rinascono in Simonetta, e indubbiamente rifiorisce nella sua figura la fonte comune di questi poeti: la donna del Cantico dei Cantici, la bella sposa che si tramuta in hortus conclusus, in un giardino lussureggiante, un eden femminile in cui l’amante ritrova la conoscenza che illumina. La dimensione temporale si ancora nella stagione più bella, prediletta e canonizzata, la primavera: è il momento in cui la natura rinasce e sboccia insieme al sentimento amoroso. E crea la perfezione.

        L’apparizione sovrannaturale di Simonetta richiama dunque i moduli della tematica amorosa, tuttavia la contemplazione della bellezza femminile in Poliziano è sostanzialmente distante dallo spirito degli stilnovisti, di Dante o di Petrarca: vi è assente ogni costruzione intellettuale e ogni tormento mistico. Questi elementi vengono elegantemente sostituiti dai concetti platonici idealizzanti, che esaltano e spiritualizzano la bellezza, da un lato, e da quelli naturalistici dell’amore (presenti già in Boccaccio) come sentimento primordiale a cui non si può resistere, che dev’essere colto nel momento del suo fiorire. Ci si trova in pieno Rinascimento, e non si perde mai l’occasione dell’esortazione edonistica, talvolta infusa da una vena malinconica, al carpe diem, molto spesso rivitalizzata tramite la sua forma più raffinata del carpe rosam (in Poliziano nella descrizione del regno di Venere e nelle sue celebri ballate, in Lorenzo de’ Medici, in Boiardo, in Ariosto, in Tasso).

        La narrazione s’interrompe e tutto diventa descrizione e contemplazione, mentre il sentimento d' amore scende in mezzo alla natura e si oggettiva nella rappresentazione della bellezza, esaltata tramite paragoni mitologici (I, 46) e personificazioni delle qualità (I, 45)

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mirabili della donna-ninfa, che racchiude in sé la donna stilnovistica, ma anche un evidente richiamo medievale, quello del Roman de la rose, con le sue note allegorie a cui si rifanno forse anche i Trionfi di Petrarca:

 

"Con lei sen va Onestate umile e piana

..........................

con lei va Gentilezza in vista umana,

e da lei impara il dolce andar soave.

Non può mirarli il viso alma villana,"[19]

 

Si riattualizza non soltanto la concezione stilnovistica, ma anche il suo linguaggio essenziale.

        Se la maga ariostesca comporta in sé le tracce evidenti del topos dell' hortus deliciarum del Cantico dei Cantici, nella sua forma laicizzata, nemmeno Simonetta ne è esente, anche se il topos è sottoposto a un procedimento di elaborazione idealizzata.

        La natura, umanizzata da sentimenti di felicità e fissata in un atteggiamento estatico di contemplazione della persona discesa quasi da un' altra sfera, si fa partecipe anche del lutto risentito dal giovane alla sua partenza:

 

“Feciono e boschi allor dolci lamenti

e gli augelletti a pianger cominciorno;

ma l’erba verde sotto i dolci passi

bianca, gialla, vermiglia e azurra fassi.”[20]

 

Cioè in un certo senso la natura specchierà o raddoppierà gli stati d' animo di Iulio. L’intertesto petrarchesco s’inserisce un’altra volta, sottilmente, nella poesia delle Stanze: Canzoniere, 279, 1-4 (Se lamentar augelli, o verdi fronde/ mover soavemente a l’aura estiva,/ o roco mormorar di lucide onde/ s’ode d’una fiorita e fresca riva), 301, 1-7 ( Valle che de’lamenti se’ piena,/ fiume che spesso del mio pianger cresci,/ fere selvestre, vaghi augelli, e pesci/ che l’una e l’altra riva affrena.// aria de’ miei sospir calda e serena,/ dolce sentier che sì amaro riesci,/ colle che mi piacesti, or mi rincresci,) ossia 353, 1-2 (Vago augelletto, che cantando vai,/ o ver piangendo, il tuo tempo passato).

        L’incontro tra Iulio e Simonetta avviene in mezzo al bosco, in un “fiorito e verde prato” (I, 37,6); la presenza della fitta foresta  si rivela necessaria sia per la caccia sia per la forza dell’amore che vi s’insidia, ma allo stesso tempo offre anche protezione dagli sguardi curiosi e non iniziati. È una sorta di recinto naturale che difende gelosamente il luogo ameno; il motivo viene ripreso, e in un certo senso riformulato, da Ariosto, nell’episodio della fuga di Angelica nel bosco adorno, dal quale invece si esclude ogni allusione al sentimento amoroso. Di conseguenza la fiorita radura custodita  e recintata si tramuta in una specie di giardino incantato, quello dell’amore, della bellezza, dell’armonia e della giovinezza. Huguette Legros[21] parla di una simile trasposizione anche nel romanzo di Tristano e Isotta; il secondo incontro della coppia avviene sempre in mezzo alla foresta,

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in una radura, in una “loge de feuillage”, un “berceau”, che nel senso stretto della parola non è un giardino. Tuttavia se il momento si collega al primo incontro, avvenuto nel giardino, la forza del binomio natura amena-amore vi s’incide e si allarga al secondo incontro, anche se esistono solo gli elementi minimi del locus amoenus. L’importanza risiede nel senso di felicità. [U1] La stessa operazione si realizza in Poliziano nel quale, in senso metaforico, la radura corrisponde al giardino dell’età privilegiata, che preannuncia quello vero e proprio di Venere. Dunque, Iulio, per un istante, intravede ed assaggia la dolcezza, e, nello stesso tempo, la malinconia dell' amore: una schematica prefigurazione del regno di Venere che sarà il vero sogno umanistico del poeta.

        Il regno della dea è l' illustrazione più eloquente dell' idealità platonica della civiltà umanistica, traducibile in una ricerca di armonia e bellezza, raffinamento di gusto e sogno di un' umanità perfetta.

        Se la ricerca di un modello ed il tentativo di emularlo caratterizzava il primo momento paesaggistico, Poliziano cede il posto, in questa descrizione, secondo L. Malagoli[22] all' immersione nel mito vero e proprio. La sua creazione si libera da ogni sottomissione o costrizione ad esso.

        Lo sprofondarsi negli abissi mitici si palesa sin dalla collocazione del regno nell' isola Cipro (Cipri), isola reale ma anche mitica, patria di Venere, la cui evocazione segna la distanza incolmabile (condizione sine qua non del topos del locus amoenus) tra la realtà esistente e la fantasia idealizzatrice del poeta. La sacralità del luogo viene confermata ed incrementata dal divieto di penetrare nel giardino, interdizione che aspira all' esclusione totale della minima traccia umana. A questo livello non esistono persone elette e privilegiate, pronte, né secondo criteri estetici né magici, a varcare i confini interdetti. L' esperienza del giardino, frequentemente incontrata nel Quattrocento e Cinquecento epici (Boiardo, Ariosto, Tasso) ne sarà assente, poiché tutto viene fissato una volta per sempre sul piano del rito, o indirettamente e staticamente presente sotto la forma  degli intagli sulla porta, che ritraggono suggestivamente le varie storie d’amore. D' altronde qui risiede anche il senso allegorico di questo spazio, in cui manca la possibilità di ogni variazione e di novità, sicché il giardino configura in questa grandiosa allegoria fra terra e cielo una "progressiva elevazione da valori terreni a valori metafisici"[23]. Alla stessa conclusione arriva anche Gh. Ghinassi, sostenuto da E. Bigi[24]: la tecnica della varia e squisita erudizione serve come “mezzo per trasfigurare la realtà e immetterla in un sopramondo umano”.

        La descrizione del giardino viene edificata sull’ archetipo convenzionale del topos, il quale però viene sottomesso ad un processo di arricchimento spettacolare, che rispecchia il procedimento retorico, tipicamente rinascimentale, dell' amplificatio. Di conseguenza il topos racchiuderà in sé la quintessenza della natura che, secondo la critica, soffrirà una metamorfosi  che secondo alcuni è di umanizzazione (D. Puccini), per altri di divinizzazione (R. Ramat)[25]. La prima opinione viene condivisa da numerosi altri studiosi, come Ruggieri[26], Malagoli che parla di mito umanisticamente rivissuto e concepito: “un mito che

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dà sentimenti quasi umani alle cose della natura e attributi quasi divini alle cose umane”[27]; o Ghinassi che parla, a questo proposito, di “visione quasi animistica della natura”, in cui la metafora “confina con la personificazione e rischia continuamente di confondersi con essa”[28].

        Tutto viene rappresentato in un perpetuo clima primaverile, in cui la presenza dei fiori variopinti apre la visione fantasiosa del poeta e prepara l' estasi contemplativa del lettore:

 

"Zefiro il prato di rugiada bagna,

spargendolo di mille vaghi odori:

ovunque vola, veste la campagna

di rose, gigli, vïolette e fiori;"[29]

 

La descrizione continua sempre in una forma elencativa, e nemmeno la compresenza di specie incompatibili tra loro intacca la grandiosità di questo giardino, la cui importanza maggiore risiede nell' eleganza e nell’ espressività della parola. La realtà dell’arte vince la realtà di questo mondo.

        Il giardino è il frutto di un' armonia perfetta, all’ interno del quale alternano colori delicati ed intensi, ma anche la finezza e la sensualità. Ad esprimere la dolcezza e l’allegria perenni degli elementi naturali, il poeta ricorre ad una frequente diminutivizzazzione: dilettoso monte, lieto pratel, aurette, erbette, arbuscelli, ghirlandetta, fiumicello. L’altro aspetto costante e dominante - inerente d’altronde all’essenza del giardino dell’amore, la sensualità, irrompe sin dall’inizio della descrizione. Un’aria di profusa voluttà invade le componenti del locus amoenus: “lascive aurette/ fan dolcemente tremar l’erbette” (I, 70, 7-8), “cantano i loro amor soavi augelli” (I, 71, 4). L’umanizzazione della natura diventa evidente, tutti gli elementi vi sono sottomessi: la fontana (I, 80-81) e la sua acqua  “dalle cui labra un grato umor distilla” (I, 81, 5); la vite (I, 84) che versa il suo dolce vino, chiaramente quello dell’ebbrezza amorosa (il motivo del vino riappare in Ariosto, in una forma molto più palese).

L' elevatezza del lavoro artistico si manifesta continuamente tramite le figure mitologiche che, in realtà, nascondono personificazioni stupende alludenti a fiori (in questo caso l’umanizzazione e la divinizzazione si sovrappongono), e denotano, nello stesso tempo, strutture figurali a doppio senso, in quanto fiori ed in quanto vittime d' amore. Si riattua così il modello petrarchesco: nell’epistola I, 4 delle Familiares, Petrarca aveva adoperato lo stesso procedimento, richiesto dall’ingegno artistico, per lo stesso arricchimento del suo giardino. Ma era ricorso alla preziosità mitologica solo per elencare raffinatamente le specie di fiori, alberi, animali. Il duplice senso, che acquistano in Poliziano, gli è interamente estraneo. Così i miti riattuati di Narciso, di Clizia, di Adone acquistano una dimensione di grande freschezza e vivacità, anche se simboleggiano solo i fiori eterni del giardino, fiori che hanno sofferto però l’esperienza amorosa:

 

"L'alba nutrica d'amoroso nembo

gialle, sanguigne e candide vïole;

descritto ha'l suo dolor Iacinto in grembo,

Narcisso al rio si specchia come suole;

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in bianca vesta con purpureo lembo

si gira Clizia palidetta al sole;

Adon rinfresca a Venere il suo pianto."[30]

 

Le costanti vegetali del topos soffrono la trasformazione, di cui ho già accennato, e la divergenza dell’opinione della critica sembra piuttosto attuarsi in una simbiosi perfetta, poiché i fiori rivelano, tramite la personificazione dei lati umani, ma si connotano indubbiamente anche da caratteri divini per il sostanziale richiamo mitologico, che proietterà tutto in una dimensione immobile.

        Secondo R. Ramat[31] la natura appare nella sua forma divina, primigenia, plasmata tutta dal divino artista. Sembra quasi che il poeta riprenda l' opera creatrice di Dio, rivestendosi della sua onnipotenza. La natura preziosa ed eterna viene attentamente protetta non più dal bosco denso, bensì da un muro d’oro. E un momento importante, visto che la corposa presenza delle gemme (la derivazione dantesca è palese: Purgatorio, VII, la valletta amena dei principi negligenti) non sarà affatto trascurabile. Le gemme conferiscono preziosità alla descrizione, in ogni caso già traboccante di ricercatezza.

        Il giardino è sprofondato nell’atemporalità (I, 72), la “lieta Primavera mai non manca”, le stagioni e gli anni non si succedono. La tradizione classica (Omero, Virgilio, ecc.) e quella romanza (Roman de la rose, Boccaccio, Dante) hanno  fissato l’archetipo del giardino eterno, che viene rivisitato qui dal poeta delle Stanze. Ma Poliziano introduce l’aspetto  paradossale, che corrompe il tempo mitico immemore, tramite la stupenda ottava della rosa, il fiore “eterno” e prediletto di Venere:

 

“ma vie più lieta, più ridente e bella,

ardisce aprire il seno al sol la rosa:

questa di verde gemma s’incappella,

quella si mostra allo sportel vezosa,

l’altra, che’n dolce foco ardea pur ora,

languida cade e’l bel pratello infiora.”[32]

 

Dietro la metafora si nasconde l’immagine del tempo umano; i tre momenti, che si presentano – sboccio, fioritura, appassire, richiamano l’arco della vita, e non esclusivamente quello del fragile fiore. Nelle deliziose immagini si intuisce elegantemente la psicologia femminile. In un certo senso si annulla o almeno si turba l’atemporalità del giardino, la cui atmosfera si tinge, per un attimo, di malinconia, di quella malinconia classica per l’attimo sfuggente. Ma la fugacità, così evocata, della vita, si esalta la vita, e mette in primo piano il periodo prediletto della giovinezza che dev’essere sfruttato pienamente. È il classico carpe diem, più esattamente la sua forma squisita, il carpe rosam, che a partire da Poliziano è destinato a ricorrere più volte. Eccone due esempi, solo per una brevissima illustrazione: nello stesso Poliziano appare nella famosa ballata delle rose (“quale scoppiava della boccia ancora;/ qual’eron un po’ passe e qual’ novelle./ Amor mi disse allor: - Va’, cô’ di quelle/ che più vedi fiorire in sullo spino –“ e la celebre esortazione nella chiusa, che nelle Stanze è solo sottintesa: “cogliàn la bella rosa del giardino.”[33]) oppure, in maniera

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sorprendentemente analoga, in Lorenzo de’ Medici, nel Corinto (“Eranvi rose candide e vermiglie:/ alcuna a foglia a foglia al sol si spiega,/ stretta prima, poi par s’apra e scompiglie;/ altra più giovanetta si dislega/ a pena dalla boccia; eravi ancora/ chi le sue chiuse foglie ll’aer niega;/ altra, cadendo, a pie’il terreno infiora.” E la stessa esortazione finale: “Cogli la rosa o ninfa or che è bel tempo.”[34]). Ma numerose ottave saranno dedicate alla descrizione dell’effimerità della rosa da parte di Boiardo, Ariosto e Tasso.

L' impressione sontuosa e lussuosa, e al contempo lussureggiante del giardino scaturisce proprio dall' enumerazione pressoché esaustiva degli esemplari botanici, dietro cui si svela il pretesto polizianesco di rivelare una magnifica filologia poetica. La pomposità descrittiva particolareggiante delle piante comporta in sé l' aspetto allegorico della perfezione della forma letteraria. E si pensi anche al vasto catalogo di alberi, che stupisce per la varietà delle forme e dei colori. Lo sfarzo descrittivo predomina anche nell’ elenco degli animali che popolano il giardino, animali che vengono colti nella loro naturale istintività e sensualità. L' immersione mitica atemporale concede ad essi una convivenza pacifica, sebbene si trattasse delle più feroci fiere (tigri, leoni, serpenti) che vivono accanto ad animali mansueti (conigli, lepri, cervi,giovenchi). I ritratti vengono raffigurati con tinte abbastanza realistiche da rischiare di compromettere “leggermente” l’atmosfera di spettacolo sovrannaturale. Ma l' apparizione degli uccelli ristabilisce l' aria di festa continua della natura. Tramite la loro veste acceccante a colori intensi, gli uccelli conferiscono al paesaggio un aspetto paradisiaco, che si estende naturalmente al giardino di amore, sprofondato sempre nell' aura dell' eternità.

La forza che insufla una vita pacifica e imbevuta di sensualità al mondo vegetale e animale, è Amore; la funzione aperta della descrizione coincide con la rappresentazione mitica della sua onnipotenza e onnipresenza. In questa direzione si può spiegare, secondo F. Tateo, la centralità ideale del giardino di Venere  nell’economia delle Stanze e, implicitamente, il naturalismo del poeta, dato che, continua lo stesso studioso, si raffigura così l’aderenza consapevole  della natura “alla dottrina dell’amore come cosmica potenza generatrice e rigeneratrice, che circola nella cultura filosofica del Quattrocento”[35].

L’operazione fondamentale che Poliziano compie è quella dell’imitazione della natura, una natura che, afferma giustamente Venturi, non ha bisogno del modello “reale”: “il modello letterario è autosufficiente”[36]. Si è parlato della cosiddetta “scoperta” della natura, ma si può affermare un’altra volta, sostenuti dalle lucide spiegazioni di Venturi, che essa si sovrappone, con la riscoperta della descriptio, con la rivisitazione di una natura artificiale, perfetta che serve da sfondo ideale per la favola altrettanto idealizzata e mitizzata. L’esigenza della descrizione risponde al bisogno platonico della bellezza e dell’armonia. In compenso la narrazione è scarsa, prevale la rappresentazione dei primi piani naturali. Tutto diventa poesia (arte) sostenuta dal canone della bellezza. Si scandisce consapevolmente la parola artistica che fa contaminare le fonti, che definisce il giardino come una collezione di miti, come un’eclettica accumulazione delle fonti e dei modelli. Di conseguenza il giardino offrirà la forma suprema della natura, la sua quintessenza, che sancisce al contempo la poesia.

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Lo stesso Venturi[37] definisce il giardino lussureggiante di Venere come un “giardino mentale”, che a partire dal nostro poeta conoscerà una grande fortuna, poiché il motivo si sottomette ad un processo di astrazione, il referente (la natura) implicitamente scompare. Rimane esclusivamente la cultura letteraria, la dotta fusione delle fonti. Il giardino coinciderà con vari luoghi mnemonico-descrittivi. I celebri giardini epici tardo quattrocenteschi e cinquecenteschi saranno tutti debitori intrisi del modello polizianesco, mentre l’elemento distintivo sarà fornito dal ricorso alla magia. Per Poliziano basta l’immersione nel mito, mentre Ariosto e Tasso, che lo seguono fedelmente nel processo d’astrazione, nella ri-costruzione del loro eden tendenzialmente profano, faranno anche appello alla magia nera. Proprio per questo fallisce il loro tentativo, o è destinato a una breve vita. Dopodiché l’Eden originario è svanito per il peccato originario, l’uomo ne può recuperare solo una copia profana e perciò caduca. La natura di questo nuovo Eden diventa il sigillo inequivocabile della sua labilità e illusorietà. In questo senso Poliziano eccella nella ri-costruzione, poiché ignora la presenza umana, riuscendo ad illustrare il proprio alto ideale, che d’altronde si sovrappone a quello di un gruppo eletto e raffinato che si costituisce alla corte medicea. È altrettanto vero che la figura dell’intellettuale cortigiano diverge fondamentalmente da quella due-trecentesca: almeno nella rappresentazione idealizzata l’impegno politico e sociale mancano. Di conseguenza l’aspirazione laica verso l’alto, l’evasione da una realtà talvolta sopraffacente, non farà altro che isolare i poeti rinascimentali in una dimensione spesso irreale, favolosa.

        Il sentimento dominante di quest'ambiente idillico si traduce nella felicità immacolata e nella suprema armonia della natura pura. L’esemplarità naturale si sposa con la perfezione della poesia come forma suprema di bellezza e di armonia. Il topos si realizza per mezzo della virtuosità poetica e si arricchisce di un sistema metaforico e stilistico elegante e raffinato. L’amore per la parola rara, dotta, il frequente ma anche raffinato ricorso alle figure retoriche svelano l’”anima filologica”, cioè umanistica di Poliziano, in cui questa passione diventa, conformemente quanto scrive Ghinassi, “la restituzione ai dotti di un cimelio storico gravido di memorie”[38].

        La descrizione del giardino segue l' ideale platonico dell' epoca per ciò che riguarda l' ordine e l' armonia che vi regna. Poliziano ci rivela una natura perfetta con cui rivalizzerà l' arte perché poi i due termini diventino intercambiabili.

        L' unico motivo che compete con l' esemplarità naturale è il palazzo alla cui rappresentazione Poliziano dedica tutta la maestria dell’ artista. Il fasto ornamentale dell' edificio (le sole pietre utilizzate sono le gemme: “d’oro e di gemme un gran palazzo folce”, I, 93, 3; “La regia casa il sereno aier fende,/ fiammeggiante di gemme e di fino oro,/ che chiaro giorno a meza notte acende;/ ma vinta è la materia dal lavoro”, I, 95, 1-4; “Le mura a torno d’artificio miro/ forma un soave e lucido berillo;/ passa pel dole oriental zaffiro/ nell’ampio albergo el dì puro e tranquillo;/ ma il tetto d’oro”, I, 96, 1-4) aderisce mirabilmente all' aura speciale che circonda chi vi dimora: la dea dell' amore. L’ elemento favoloso, che è stato sopraffatto dalla profusione descrittiva del giardino riprende, per un istante, la posizione sovrana, per dissolversi di nuovo nelle "astrazioni fastidiose", secondo Giuseppe De Robertis[39], del lungo corteggio degli amori, cioè delle varie trasformazioni sofferte dalle più illustri figure mitologiche.

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        Il preziosismo mitologico irrompe dunque nella scena per dare la pennellata mancante alla perfezione del quadro. Le minute descrizioni mitologiche, che risalgono a Ovidio e ai Triofi di Petrarca, nascondono lo stesso ideale enciclopedico già scandito nel caso dei lunghi cataloghi vegetali, animali e di pietre preziose, che danno risalto alla stravagante ricchezza del giardino. La superiorità dell’arte viene convalidata dunque dalle eterne storie d’amore effigiate e, soprattutto, dal lavoro dell’artista. Sebbene fissati nei bassorilievi che ornano le porte, le illustrazioni si animano di vita e di naturalezza, conferite proprio dall' esemplarità della materia intagliata. L' elenco fastoso (le varie metamorfosi di Giove, di Nettuno, oppure le note storie di Apollo e Dafne, di Teseo e Arianna, di Proserpina e Pluto, ecc.) culmina nella raffigurazione della nascita di Venere, che sembra la vittoria dell’arte sulla natura, tanto la prima sembra imitare a perfezione la seconda:

 

"Vera la schiuma e vero il mar diresti

e vero il nicchio e ver soffiar di venti;

la dea negli occhi folgorar vedresti

e'l cel riderli a torno e gli elementi;

.........................

Giurar potresti che dell' onde uscissi

la dea premendo colla destra il crino,

coll' altra il dolce pome ricoprissi;"[40].

 

L' anafora raddoppiata ed i verbi "veder" e "giurar" non fanno altro che confermare la vivacità autentica e spontanea del ritratto. L’iconicità, l’istanza alla visualizzazione della perfetta bellezza della dea vengono colte, com’è ben noto, da Botticelli, che nella sua pittura offre una visione affine. Secondo Gombrich[41], “La nascita di Venere” si nutre di due tipi di correlazione: degli interessi filosofici di M. Ficino, e delle “Stanze” di Poliziano, il celebre pittore essendo l’iniziatore dei monumentali dipinti mitologici. Lo stretto legame tra Poliziano e Botticelli, del resto arcinoto, viene confermato anche da P. Francastel, il quale afferma che lo spazio del Rinascimento è “il prodotto di un’attitudine dello spirito umano e non della scoperta di un sistema di rappresentazione oggettiva del mondo”, è la “conquista di uno spazio fittizio”[42]. Ed è proprio quello che fa non solo Botticelli, ma direi, anche Poliziano.

        Il regno di Venere simboleggia dunque la forma più alta della vita, cioè quella contemplativa. A questa conclusione arriva anche Rosario Assunto[43], secondo il quale la bellezza del giardino, che si scopre al contemplatore, è una bellezza ideale che si manifesta come ordine, eleganza e simmetria e la cui estetica si definisce come elevazione poetica della natura all' Idea.

 

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[1] Wladyslaw Tatarkiewicz, Istoria esteticii, vol. III: Estetica modernã, Bucarest: Meridiane, 1978: 63-64.

[2] Ruggero M. Ruggieri, L’umanesimo cavalleresco italiano. Da Dante al Pulci, Roma: Edizioni dell’Ateneo, 1962: 148.

[3]Angelo Poliziano, Stanze Orfeo Rime (introduzione, note e indici di Davide Puccini), Garzanti, 1992: I, 17, 4-8-18.

[4] Ernst Robert Curtius, La littérature européenne et le Moyen Age latin, Parigi: Presses Universitaire de France, 1956: 226.

[5] Per le fonti classiche delle Stanze si vedano Giovanni Getto, Tempo e spazio nella letteratura italiana, Firenze: Sansoni, 1983: 42-75; Renzo Lo Cascio, “Il lavoro dell’ape e la poesia delle Stanze”, in Il Poliziano e il suo tempo, Firenze: Sansoni, 1957: 289-331.

[6] Luigi Malagoli, Le Stanze e l’Orfeo e lo spirito del Quattrocento, Tosi-Roma, 1941: 32.

[7] Harry Levin, The Myth of  the Golden Age in the Renaissance, Bloomington-Londra: Indiana University Press : 32.

[8] Giovanni Boccaccio, Decameron-Filocolo-Ameto-Fiammetta, Milano-Napoli: Riccardo Ricciardi Editore, 1952: 1149 e 1151-1152.

[9] Poliziano, Stanze, cit.: I, 20, 1-2, 7-8; 21.

[10] Getto, Tempo e spazio nella letteratura italiana, cit.: 53.

[11] Attilio Momigliano, Ultimi studi, Firenze, 1954: 14.

[12] Poliziano, Epistola, VIII, 26, ripresa in Franceso Tateo, Lorenzo de’ Medici e Angelo Poliziano, Bari: Laterza, 1996: 145-147.

[13] Ruggieri, L’umanesimo cavall., cit.: 154-155.

[14] Gustavo Costa, La leggenda dei secoli d’oro nella letteratura italiana, Bari: Laterza, 1972: 52.

[15] Momigliano, Introduzione ai poeti, Firenze: Sansoni, 1979: 27.

[16] Poliziano, Stanze, cit.: I, 43, 5; 44, 5-8.

[17] Francesco Petrarca, Canzoniere, Milano: Mondadori, 1996: si vedano 126 (Da’ be’ rami scendea/…/una pioggia di fior sovra’l suo grembo;/ et ella si sedea/…/ coverta già de l’amoroso nembo:/ qual fior cadea sul lembo/ qual su le traccie bionde,); 162 (Lieti fiori e felici, e ben nate erbe/…/ piaggia ch’ascolti sue dolci parole,/…/ schietti arboscelli, e verdi frondi acerbe,/ amorosette e pallide viole;/…/ o soave contrada, o puro fiume/ che bagni il suo bel viso e gli occhi chiari,/ e prendi qualità dal vivo lume;); 165 (Come’l candido pie’ per l’erbe fresca/ i dolci passi onestamente move,/ vertù che’ntorno i fiori apra e rinove/ de le tenere piante sue par ch’èsca.)

[18] Cfr. a Virgil Nemoianu, Micro - Armonia, Dezvoltarea ºi utilizarea modelului idilic în literaturã, Iaºi: Polirom, 1996: 13-14.

[19] Poliziano, Stanze, cit.: I, 45, 1 e 3-5.

[20] Ibidem: I, 55, 5-8.

[21] Huguette Legros, "Du verger royal au jardin d’amour: mort et transfiguration du locus amoenus", in Verger et jardins dans l’univers médiéval, Aix en Provences: Publications de CUERMA, 1990: 221-222.

[22] Malagoli, Le Stanze e l' Orfeo e lo spirito del Quattrocento, cit.: 46.

[23]  Vittore Branca, Poliziano e l' umanesino della parola, Torino: Einaudi, 1983: 46.

[24] Come scrive E. Bigi ("La lirica latina del Poliziano", in La Rassegna letteraria, 1956: 241-251), ripreso da Ghino Ghinassi, in Il volgare letterario nel Quattrocento e le Stanze del Poliziano, Milano-Napoli: Riccardo Ricciardi, 1952: 88, n. 1.

[25] Introduzione di Davide Puccini alle Stanze, cit.

[26] Ruggieri, L’umanesimo cavalleresco, cit.: 159.

[27] Malagoli, Le Stanze e l’Orfeo e lo spirit, cit.: 93.

[28] Ghinassi, Il volgare letterario, cit.: 120.

[29] Poliziano, Stanze, cit.: I, 77, 3-6.

[30] Ibidem: I, 79, 1-7.

[31] Raffaello Ramat, Saggi sul Rinascimento, Firenze: La Nuova Italia, 1969: 143.

[32] Poliziano, Stanze, cit.: I, 78, 2-8.

[33] Ibidem, Poesie italiane, Milano: Fabbri Editori, 1995: 131.

[34] Lorenzo de’ Medici, Scritti scelti, Torino: UTET, 1927: 169-170.

[35] Tateo, Lorenzo de’ Medici e Angelo Poliziano: cit.: 119.

[36] Gianni Venturi,«Picta poësis»: ricerche sulla poesia e il giardino dalle Origini al Seicento”, in Storia d’Italia, Annali 5, Il paesaggio, Torino: Einaudi, 1982: 696.

[37] Ibidem.

[38] Ghinassi, Il volgare letterario, cit.: 84.

[39] Giuseppe De Robertis, Saggi con una noterella, Firenze: Le Monnier, 1939: 26.

[40] Poliziano, Stanze, cit.: I, 100, 1-4 e 101, 1-3.

[41] Ernst H. Gombrich, Immagini simboliche. Studi sull’arte del Rinascimento, Torino: Einaudi, 1978: 48.

[42] Pierre Francastel, Lo spazio figurativo dal Rinasimento al Cubismo, Torino: Einaudi, 1957: 86.

[43] Rosario Assunto, Peisajul ºi estetica, Artã, criticã ºi filosofie, vol. II, Bucarest: Meridiane, 198: 212.


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