Italo Svevo e la letteratura come "terapia" del "male di vivere"
Anca Iovan
Università di Cluj
D
opo il mito soggettivistico e lo sperimentalismo terribilistico di D’Annunzio e l’oggetività del realismo di Verga, convinto che il pathos è un attributo eterno dell’uomo che non potrà mai spezzare il cerchio del dramma che soffoca qualsiasi tentativo di cambiarsi la sorte, Svevo avrà una risposta personale, anche se non assolutamente originale, alla distinzione tra la negazione decadente e la negazione novecentesca. Un’ironia nuova è il veicolo che fa da tramite fra la coscienza della crisi e la crisi della coscienza, concretizzandosi in una visione disincantata della definitiva divaricazione tra l’individuo e la più complessa società di massa, dell’impossibilità storica di continuare a stabilire un franco rapporto con la realtà e la volontà. In questo senso se il decadentismo era l’espressione della crisi di una civiltà, la letteratura del Novecento sarà l’espressione di una nuova civiltà della crisi. E evidente che, mutando la realtà e l’esperienza di essa e, quindi il rapporto che l’intellettuale di fine Ottocento intratteneva col vivere storico, cambia anche l’atteggiamento che l’artista come tale e come uomo assume di fronte alla propria opera e nei confronti dell’attività artistica in generale. E se la denominazione di civiltà di crisi veramente contrassegna il Novecento e viceversa, questa situazione implica un’"educazione sentimentale" e linguistica nuova che avrà il massimo esito e la definitiva verifica nell’opera di Italo Svevo.Con la consapevolezza della crisi e del tramonto del solitario intellettuale "aristocratico", cantore di una distaccata ed elitaria cultura, nasce una "spaventosa chiaroveggenza" dell’intellettuale inattivo moralmente, pigro fisicamente, ma che è realisticamente conscio della causa reale della sua incapacità di impegnarsi e che tuttavia non rinuncia a "vedere" e a rappresentare il nuovo rapporto tra realtà e psicologia. Si è dunque convinti che per dare valore all’esistenza è neccessario studiare le strutture psicologiche del personaggio dissociato, perché dissociate e dissocianti sono le parti esistenziali e sociali che egli deve recitare. Non c’è più una parabola esistenziale linearmente circoscrivibile perché, ormai, alla continuità si è sostituita la discontinuità, alla certezza si è sostituito il "dubbio perenne" e al determinato l’indeterminazione. Perciò, inevitabilmente, al rapporto tra realtà e coscienza si segnalano e si addicono modalità nuove di correlazione. E sarà appunto compito del nuovo inetto, "eroe senza qualità" che deve reinventare un rapporto tra uomo e realtà, tra intellettuale e società, mettendo cosí a nudo la crisi della passata civiltà , postulando una società della crisi.
Non per caso l’autobiografismo, inteso come forma trascendentale di conoscenza e di autocoscienza poetico – romanzesca, verrà dissolto attraverso un lucido distacco artistico in narrazione "pura" nel caso di Svevo. Sfogarsi trascrivendo la propria vita in chiave artistica, trasformandola in finzione non presuppone la presunzione di dare una lezione di vita, anche perché in ambedue i casi , la propria vita viene vista in senso esistenzialistico come un paradigma cui tocca un inevitabile scacco, per cui la sua trascrizione artistica diventerebbe sostanzialmente la descrizione di questa parabola negativa. Si tratta solo della della concezione di un’epoca che crede di immunizzarsi dal "mal di vivere" impegnando solo i propri sentimenti, considerando la letteratura come un prolungamento della vita, un modo di alimentare quasi in modo terapeutico la durata delle proprie illusioni.
Non ci sorprenderà, dunque, se nel caso di Svevo la critica parlerà di "letterarietà della biografia" che ha come punto interno di partenza quella disposizione comune anche a tutti e tre protagonisti dei suoi romanzi, e pensiamo qui alla testimonianza di Elio Schmitz, il fratello minore di Svevo, che nel suo diario afferma: "Egli è apatico in apparenza giacché la maggior vita la trova nella sua mente e in se stesso" [1]. Questa "apatia"potrebbe a suo turno essere spiegata da un’altra interferenza tra biografia e "finzione": il fatto che lo scrittore, come Alfonso di Una vita, benché si sentisse nato per la letteratura doveva vivere e lavorare in un ambiente contrario alle sue aspirazioni, l’ambiente prosaico, tipicamente antiletterario della banca, che sarà poi cosí in dettaglio analizzato e rappresentato nel romanzo. C’è poi anche in Senilità un aspetto "letteraturizzato", che, secondo la testimonianza della moglie, sarebbe "fedelmente autobiografico": la protagonista Angiolina ricalca un personaggio reale, Giuseppina Zergol, una ragazza del popolo amata dallo scrittore, che finí cavalerizza in un circo. Nel terzo romanzo, La coscienza di Zeno, tranne il fatto che, come anche negli altri due romanzi precedenti, il protagonista ha la stessa età del loro creatore, Zeno avrà lo statuto agiato del solido borghese triestino, uguale a quello ormai aquisito da Svevo. Anche l’interesse per la psicanalisi può essere spiegata con il fatto che una persona cara a Svevo si sottopone ad una cura psicanalitica, occasione per lo scrittore di approfondire l’argomento senza tuttavia condividere l’entusiasmo dei contemporanei riguardo alla nuova terapia ( cosa che si capisce senz’altro leggendo tra le righe del romanzo ). Infine, come nel caso di Gozzano, Trieste ha avuto una parte cospicua fino a costituirsi in un vero e proprio "mondo" sveviano in una ricostruzione storica dell’ambiente urbano, ricostruzione "dalla delineazione di una specie di quadro che ha insieme la fredda e precisa evidenza della carta topografica e possiede la vivace suggestione della prospettiva e del colore, ossia la capacità di presentare nitidamente all’occhio dell’osservatore la composita realtà intellettuale, culturale, letteraria, politica, sociale, economica, morale della città adriatica" [2].
Senz’altro in quello che riguarda l’autobiografismo rimane il dubbio della sincerità della trasposizione della vita in finzione e qui accenniamo a quello che per Svevo vale come "simulazione". D’altronde egli, sin dal tempo di Una vita era convinto che "scrivendo per la stampa si simulava sempre, non si era del tutto sinceri" [3] e una simile affermazione si ripresenta, con delle varianti puramente formali, in più luoghi della sua opera: "una confessione in iscritto è sempre menzognera" [4] o "una confessione fatta da me in italiano non poteva essere né completa, né sincera" [5], affermazioni che offrono inoltre un’assai evidente indicazione della maniera in cui egli trattava e risolveva il problema espressivo. In particolare spetta a Giacomo Debbenedetti il merito di aver chiarito la relazione tra biografia e arte nell’opera di Svevo e di aver rilevato in questo, oltre alla sua intrinseca struttura "da romanzo" [6], la presenza di un personaggio "trino e uno" caratterizzato da un netto "scompenso tra l’orientamento ch’egli dà alla propria vita, e la curva che poi la vita descrive" [7], quella vita che rimane per lui un "indecifrabile e caotico enigma" [8]. Anche Ettore Bonora del resto parla di un tema autobiografico insieme a Carlo Bo che nel motivo dell’autobiografia traccia "l’interesse psicologico e psicanalitico dell’impegno di vedere chiaro in se stesso, attraverso un fruttuoso abbinamento di ambizione letteraria e di ricerca assilante di verità umana" [9].
Infine, abbiamo un’altro argomento che ci serve a chiarire la misura dell’autobiografismo dello Svevo, cioé il registro temporale nel quale agiscono i suoi protagonisti, ossia lui stesso, se stiamo al gioco della difficile distinzione narrare / narrare di sé. Si tratta sempre di una testimonianza in cui o si trascrive semplicemente il presente in un tentativo di costruire un alibí per le opportunità mancate della vita, o, al massimo, una "confessione" in cui dalla prospettiva che offre il presente si evocano momenti passati, più o meno fortunati, più o meno felici. Secondo Giacomo Debenedetti "i romanzi di Svevo sono un abbastanza rallentato ma continuo succedersi di attimi, di momenti al tempo presente (anche dove i verbi non siano adoperati al presente): un inesorabile, perpendicolare presente che crolla come una tromba d’aria in un passato senza recupero. Un presente pratico che dovrebbe essere speso attivamente in maniera pratica e fattiva, dovrebbe essere messo in qualche modo a frutto; e che invece conferma dolorosamente la sua consumabilità proprio perché il personaggio non sa metterlo a partito nemmeno come utile transitorietà" [10]. Mai dunque, i protagonisti di Svevo guarderanno verso il futuro, perché si ha presente "la personificazione dell’affermazione schopenhaueriana della vita tanto vicina alla sua negazione"(affermazione di Svevo, dopo aver letto Il Mondo come volontà e come rappresentazione ). Svevo stesso chiarisce la sua prospettiva temporale nella sua ultima opera, Il vecchione, rimasta incompiuta:"descriverò dunque il presente e quella parte del passato che ancora non svaní, non per serbarne memoria ma per raccogliermi [...] C'è però una grande differenza tra lo stato d’animo in l’altra volta raccontai la mia vita e quello attuale. La mia posizione s’è cioé semplificata. Continuo a dibattermi fra il presente e il passato, ma almeno fra i due non viene a cacciarsi la speranza, l’ansiosa speranza del futuro. Continuo dunque a vivere in un tempo misto com’è destino dell’uomo, la cui grammatica ha invece i tempi puri che sembrano fatti per le bestie le quali, quando non sono spaventate, vivono lietamente in un cristallino presente" [11].
Dall’evidente ossessione della morte come conclusione negativa e inesorabile del "male di vivere" arriviamo per forza al punto in cui si deve chiarire in che modo per Svevo la malattia possa potenziare in modo paradossale, ma indiscriminato sia la morte, sia la vita. E chiaro che la malattia con la sua inevitabile conseguenza la morte è il nodo centrale della pessimistica concezione di Svevo sulla vita, nodo in cui le sue letture di Nietzsche, Freud, Darwin, Schopenhauer si intrecciano fino a confondersi, sciogliendosi in una filosofia personalissima, in una rielaborazione originale, di origine spesso reattiva, di alcune delle più significative correnti del pensiero a cavallo tra Ottocento e Novecento. Infatti, tutte le componenti tematiche e concettuali della meditazione sveviana confluiscono in una concezione maturata lungo il tempo cristalizzandosi in una "visione del mondo" che riceve stimoli e suggerimenti, più che idee e concetti dal pessimismo e dall’irrazionalismo di Schopenhauer, dal superomismo di Nietzsche e dall’evoluzionismo di Darwin, dalla psicanalisi di Freud, tutto quanto innestandosi sui contatti immediati dello scrittore con la realtà sociale del suo tempo. Insomma, Svevo si accosta alla scienza ma non si lascia mai sopraffare da essa, trasformandola in un’analisi personale estremamente aperta e problematica, ricca di istanze filosofiche, letterarie, scientifiche e psicanalitiche perché si rende conto della complessità indecifrabile del reale impossibile da trasformare in formule, difficile da concettualizzare.
La malattia è indiscutibilmente per Svevo la risultante del conflitto tra la vita e la morte. Dotata di connotati contrddittori e paradossali, la malattia è intimamente legata al destino umano, potendo assumere addiritura le valenze di un trionfo dell’uomo sul mondo primitivo delle bestie, idea che ha un’evidente origine darwiniana ed è permeata dal bisogno di collegare la malattia all’evoluzioane dell’uomo. D’altra parte la malattia può anche essere una tragica condanna all’ineludibile morte. Dunque se per Svevo "la malattia è l’epicentro del terremoto umano e universale", non per caso sulla scia aperta da Nietzche che in Cosí parlò Zarathustra affermava che "una delle malattie della terra si chiama per esempio uomo", il triestino arriverrà a postulare una strana sinonimia tra uomo e malattia. Con i suoi due livelli di manifestazioni patologiche, la malattia può essere manifesta fisicamente, affliggendo e distruggendo il corpo biologico dell’uomo o può manifestarsi in modo più ambiguo e perverso in una distruzione di tipo psicologico e morale.
La malattia fisica in Svevo può essere descritta realisticamente in termini naturalistici, oppure in chiave pittorica verudiana, o in modo addiritura surrealistico, ma sempre senza risparmiare alcuno sforzo per consegnare al lettore tutti i dati necessari per fargli capire che nella malattia i personaggi scoprono un aspetto importante della vita, cioé l’alterazione del corpo come preludio alla mortre. Ne sono esempio la malattia della madre di Alfonso in Una vita, di Amalia in Senilità, del padre di Zeno e di Ada in La coscienza di Zeno, del protagonista di Vino generoso, o del Buon Vecchio in Il Buon Vecchio e la Bella Fanciulla. Le "vittime" della malattia "oggettiva", materiale, ci vengono presentate dedite ossessivamente allo studio della loro malattia, della quale analizzano analizzando scrupulosamente sia i sintomi sia gli effetti sconvolgenti sui propri corpi. Comunque l’atteggiamento dei personaggi afflitti da un male fisico è di rifiuto istintivo, dato che sempre istintivo è il rifiuto della morte che inevitabilmente seguirà alla malattia. Questa, d’altra parte, può estraniare due persone che nella vita e dunque nella salute si volevano bene, come nel caso di Alfonso che con addolorato e impotente stupore si trova di fronte alla madre in agonia che rapidamente declina squassata da fortissimi attacchi cardiaci. Più tardi constata i cambiamenti che la sofferenza ha operato nel corpo della madre, relegandola nella definitiva immobilità della morte: "Non era più la fisionomia ch’egli aveva amata e allibí baciando una fronte gelida. Aveva baciato una cosa non una persona" [12]. L’intero episodio dal quale traspare l’atteggiamento dell’uomo di fronte al "mistero della morte" [13] ci viene presentato in una lentezza esasperante in cui ogni gesto ed ogni particolare acquista valore di simbolo, dal timbro della voce di Carolina "più profondo e meno sonoro" [14], al delirio preceduto da una dichiarazione di impressionante semplicità della malata che sente "l’avvicinamento della grande pacificatrice" [15]. Da questo degno atteggiamento di rassegnazione e di pacata ricognizione dell’ "appressamento" della morte si passa ad una lotta "di petto"con la morte, ma le forze disuguali danno alla donna agonizzante l’impressione della caduta dei muri della casa e la sensazione che sul villaggio stia infuriando una bufera devastante per la piccola comunità, la sola conosciuta dalla donna, che per lei è sinonimo del mondo intero. Il motivo della morte che trova qui la sua prima espressione artistica sarà una costante del mondo si Svevo che in una lettera alla moglie del 17 giugno 1900 dichiarava che "il pensiero della morte lo accompagna sempre" [16].
Lo stesso atteggiamento di impotenza e di sofferenza in cui il dolore del corpo è tutt’uno con quello dell’anima si trova in Emilio che in Senilità assiste all’agonia della grigia e solitaria sorella, ammalata violentemente di polmonite e per giunta segretamente alcoolizzata. L’arte romanzesca di Svevo trova un suo culmine nella figura antiromanzesca di Amalia, la cui effettiva assenza dalla vita prosegue in una lenta e fatale corsa alla morte. L’agonia con le sue fasi alterne di violento delirio e di improvvise riprese di coscienza si consuma nelle visioni di Amalia che consunta dalla febbre crede di sentirsi addosso delle bestie che camminano sul suo corpo, o si immagina di andare a sposarsi con Balli, o si vede lottare con un’immaginaria rivale, visioni alle quali succedono momenti di calma che potrebbero far pensare ad un miglioramento. Solo che a questo punto un miglioramento non è più possibile e dopo una notte di sofferenza, in un barlume di coscienza, Amalia griderà "... Ma che cosa ho, Emilio? Io muoio" [17]. Poco dopo... "la bocca di Amalia si contrasse in quello strano sforzo in cui pare che da ultimo anche i muscoli inetti a ciò, vengano costretti a lavorare per la respirazione. L’occhio guardava ancora. Ella non disse più alcuna parola. Ben presto al respiro s’uní il rantolo, un suono che pareva un lamento, proprio il lamento di quella persona dolce che moriva. Pareva risultato da una desolazione mite; pareva voluto un’umile protesta. Era infatti il lamento della materia che, già abbandonata, disorganizzandosi, emette i suoni appresi nel lungo dolore cosciente ..." [18]. Se in Una vita la la morte era descritta in una maniera naturalistica, qui il realismo tipicamente sveviano si fonde con rarefatte immagini pittoriche impressionistiche di chiara ascendenza verudiana, che vengono condensate nel colore: "La luce gialla della candela si rifletteva luminosissima sulla faccia umida di Amalia, tanto che pareva luminosità sua; il nudo cosí brillante e sofferente gridava. Pareva la rappresentazione plastica di un grido violento di dolore" [19].
Anche Zeno proverà gli stessi sentimenti di fronte alla morte di suo padre, la stessa sensazione di estraniamento davanti al cadavere dell’amico Copler e a quello di Guido. Quindi tutti i protagonisti sveviani si trovano di fronte alla morte dei famigliari o di persone care e piangono inconsolabilmente perché quasi senza eccezione si sentono coplevoli delle loro morti. Tanto più in questo caso Zeno avverte di aver avuto il ruolo di quello che Elio Gioanola chiama "amorevolissimo killer": "Se infatti la struttura di fondo è la lotta con il rivale, e il rivale è ovviamente il padre, l’impulso aggressivo inconscio è diretto contro di lui, che è la causa prima dell’impotenza del figlio a vivere e ad amare e rappresenta la figura del punitore, del castratore" [20].
Come anche negli altri casi precedenti il padre di Zeno si avvia verso la morte tra attacchi violenti che sconvolgono il suo corpo e miglioramenti che potevano ingannare il figlio, ma non il medico che "non si mostrava mai deluso dello stato in cui si trovava il malato. Ogni giorno constatava un miglioramento, ma vedeva imminente la catastrofe" [21]. Anche qui i momenti di lotta con la malattia e la morte vengono testimoniati dalle persone presenti che sono quanto mai impotenti, perché la sola cosa che possono fare è quella di registrare oggettivamente lo stato del malato: "Ruggiva dal dolore, e la bocca era tanto inerte che ne colava la saliva giù per il mento. Guardava immobile la parete di faccia e non si volse quando io entrai [...]. M’avvicinai all’orecchio di mio padre e gridai: <Perché ti lamenti, papà. Ti senti male?> Credo ch’egli sentisse, perché il suo gemito si fece più fioco ed egli stornò gli occhi dalla parete di faccia come se avesse tentato di vedermi: ma non arrivò a rivolgerlo a me. [...] Mio padre a quell’ora era più vicino alla morte che a me, perché il mio grido non lo raggiungeva più" [22]. La malattia si tramuta subito in morte,ma non prima che il malato esprima la coscienza della fine: "Poi esclamò: < Muoio!> E si rizzò." [23]. Tuttavia in morte come anche nella vita il padre conserva la sua dignità tanto da ispirare al figlio lo stesso sentimento di inferiorità e di paura: "La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso. Le sue mani, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza che parevano pronte ad afferare e punire" [24]. Quest’immagine rimanda automaticamente ad un’altra immagine della morte, che però stavolta non ha più niente di degno. Si tratta dell’immagine di Guido morto in seguito ad un tentativo di suicidio che avrebbe dovuto essere solo un tentativo, ma che, invece, quasi per dimostrare la tesi di Zeno sull’originalità della vita che prende in giro tutti quanti, si è trasformato in una "burla mal riuscita". Ecco l’immagine di colui che, come il padre di Zeno, è stato l’odiosamato amico - nemico: "Nella stanza da letto matrimoniale il povero Guido giaceva abbandonato, coperto dal lenzuolo. La rigidezza già avanzata, esprimeva qui non una forza ma la grande stupefazione d’esser morto senz’averlo voluto. Sulla faccia bruna e bella era impronto un rimprovero" [25].
Un altro caso di malattia affligge la bella Ada che una volta impersonava la bellezza stessa essendo la "figurazione stessa della salute e dell’equilibio" [26], per poi trasformarsi in un caso da studiare fino ad arrivare ai dettagli di una cartella clinica che consegna la lettore i dettagli più minuti della decadenza fisica e degli effetti devastanti e deformanti della malattia. Si va dall’analisi delle inflessioni della voce di Ada, a quella della palese distruzione del corpo, per arrivare allo studio scientifico di diverse monografie con l’intento di scoprire il "segreto essenziale del nostro corpo" [27]: "Sentii la voce di Ada. Era dolce o malsicura (ciò si equivale, io credo) […] come la voce che ricordava un po’ quella di qualche nostra attrice quando vuol far piangere senza saper piangere essa stessa. Infatti era una voce falsa o io la sentivo cosí. [...]. Ma mi bastò di aver visto Ada per intendere che quella voce non era falsa. Commovente era anche la sua faccia ch’io per primo scoprivo tanto alterata [...]. Intanto io, che sapevo a mente quell’occhio, quell’occhio ch’io tanto avevo temuto perché subito m’ero accorto che freddamente esaminava cose e persone per ammetterle o respingerle, potei constatare subito ch’era mutato, ingrandito, come se per vedere meglio avesse forzato l’orbita. Stonava quell’occhio grande nella faccina immiserita e scolorita" [28]. L’"appressamento della morte" porta Zeno, che comunque era ossessionato da malattie vere o immaginate, a dedicarsi a varie considerazioni circa il Morbus Basedowii e le sue implicazioni per l’intera società e addiritura per per tutta intera l’umanità: "Mi parve che Basedow avesse portato alla luce le radici della vita la quale è fatta cosí: tutti gli organismi si distribuiscono su una linea, ad un capo della quale sta la malattia di Basedow che implica generosissimo, folle consumo della forza vitale ad un ritmo precipitoso, il battito di un cuore sfrenato, e all’altro stanno gli organismi immiseriti per avarizia organica, destinati a perire di una malattia che sembrerebbe di esaurimento ed invece è di poltraggine. Il giusto medio fra le due malattie si trova al centro e viene designato impropriamente come la salute che non è che una sosta. E fra il centro ed un’estremità – quella di Basedow- stanno tutti coloro ch’esasperano e consumano la vita in grandi desiderii, ambizioni, godimenti e anche lavoro, dall’altra quelli che non gettano sul piatto della vita che delle bricciole e risparmiano preparando abietti longevi che appariscono quale peso per la società. Pare che questo peso sia anch’esso necessario. La società procede perché i Basedowiani la sospingono, e non precipita perché gli altri la trattengono. Io sono convinto che volendo costruire una società, si poteva farlo più semplicemente, ma è fatta cosí, col gozzo ad uno dei capi e l’edema all’altro, e non c’è rimedio. In mezzo stanno coloro che hanno incipiente o gozzo o edema e su tutta la linea, in tutta l’umanità, la salute assoluta manca" [29]. Anche dopo la cura che avrebbe dovuto curare quello che in realtà era una malattia incurabile, Zeno si atteggia a spietato osservatore dei cambiamenti che la sofferenza ha operato nel corpo di colei che credeva fosse l’amore della sua vita: "La faccia di Ada era male costruita perché aveva riconquistate delle guancie ma fuori di posto come se la carne, quando ritornò, avesse dimenticato dove apparteneva e si fosse poggiata troppo in basso. Avevano perciò l’aspetto di gonfiezze anziché di guancie. E l’occhio era ritornato nell’orbita ma nessuno aveva saputo riparare i danni ch’esso aveva prodotto uscendone. Aveva spostate o distrutte delle linee precise ed importanti. Quando ci congedammo fuori della stazione, al sole invernale abbacinante vidi che tutto il colorito di quella faccia non era più quello che io avevo tanto amato. Era impallidito e sulle parti carnose si arrossava per chiazzette rosse. Pareva che la salute non appartenesse più a quella faccia e si fosse riusciti di fingervela" [30].
Indubbiamente le cosidette opere minori che secondo Bruno Maier "hanno una funzione di cerniera fra i tre romanzi venendo a colmare gli intervalli di tempo che li separano" risultano "indispensabili per intendere nella sua storica concretezza il periodo del silenzio o del gran rifiuto della letteratura (1898-1923)" [31], riprendono alcuni temi preferiti dello Svevo tra i quali la malattia e la senilità. La "senilità" stavolta si presenta in una variante diversa: da una concezione metafisica della senilità, o dalla vecchiaia intesa come condizione senile che prescinde dalla reale età dell’uomo si passa ad una senilità non più spirituale ma fisica, oggettiva. La malattia sempre indentificabile (l’angina pectoris del Buon Vecchio o la gotta di Giulio Samigli), assume una specifica autonomia e porta alla definitiva frattura tra vecchi e giovani ovvero tra malati e sani. Tra il sogno con espliciti sottintesi simbolico - psicanalitici e il teorismo che impedisce la pratica, la malattia diventa ancor di più oggetto da contemplare. Il "vecchio" è ormai assillato dall’idea della morte vista surrealisticamente come terrificante fantasma, come paurosa visione che crea un’atmosfera d’incubo avvelenando quel poco di vita che forse potrebbe ancora essere vissuta serenamente.
Ad esempio in Vino generoso in cui assume una grande importanza l’analisi del sogno, inteso freudianamente come strumento di rivelazione dell’inconscio, il protagonista, dopo una notte di sofferenza in cui "inventò una posizione complicata ma incredibilmente tenace" [32] in cui "non io afferavo il letto, era il letto che afferava me" [33] crede di liberarsi dalla "stretta dell’avversario" [34], cioé dalla morte ed è disposto a pagare qualsiasi prezzo pur di vedersi salvato da quei "dolori della brutta morte" [35]. La narrazione in prima persona permette allo scrittore di intromettersi nella rete complicata della realtà e del sogno, fra passato e presente. Nel sogno angosciosissimo fatto dopo un pranzo di nozze dove ha esagerato nel bere e nel mangiare egli lotterà da solo contro tutti per la sua vita, e sempre nel sogno non esiterà di ordinare a sua figlia di morire al suo posto.
Nella Novella del Buon Vecchio e della Bella Fanciulla si ripropone su un piano minore la stessa ambigua passione tra un "vecchio"e una "bella fanciulla" che ricalca la relazione tra Zeno e Carla. Anche questa relazione attraversa le stesse fasi, dalla sensualità e dalla passione all’atteggiamento paterno per poi trasformarsi in un astratto e molto "teorico" studio dei rapporti tra vecchi e giovani. Nel racconto emerge a poco a poco il motivo dell’amore in sé per la vita, fattosi più evidente attraverso la lotta contra la malattia e la morte. Come in Vino generoso c’é uno stretto legame tra sogno e realtà, nel sogno venendo addiritura anticipato il terrore della morte che man mano verrà vissuto in piena coscienza: "Si destò ansante, coperto di sudore. Era stato un sogno, ma qualcosa di reale restava: il dolore insopportabile. L’immagine dell’oggetto che causava il dolore subito mutò. Non era più un topo, ma una spada confitta nella parte superiore del braccio e di cui la punta arrivava allo sterno: arcuata non tagliente ma ruvida e velenosa perché dove toccava comunicava il dolore. Non gli permetteva il respiro e alcun movimento. La spada si sarebbe potuto spezzare squarciandolo se egli si fosse mosso. Egli urlava e lo sapeva perché lo sforzo di farsi sentire gli ledeva la gola, ma non sentí con certezza il suono che emetteva. C’erano molti rumori in quella stanza vuota. Vuota? In quella stanza c’era la morte. S’avvicinava a lui dal soffitto un’oscurità profonda, una nube che quando lo avrebbe raggiunto, gli avrebbe soppresso il piccolo respiro che ancora gli era concesso e l’avrebbe tagliato fuori per sempre da ogni luce mandandolo fra le cose basse e sudice. L’oscurità s’avvicinava sempre. Quando l’avrebbe raggiunto? Oh, certo! Poteva anche dilatarsi da un momento all’altro e avvilipparlo e strangolarlo in un attimo. Cosí era fatta la morte di cui aveva saputo dall’infanzia in su? Cosí insidiosa e accompagnata da tanto dolore? Egli si sentiva colare le lacrime dagli occhi. Piangeva dal terrore e non per destare pietà, perche egli sapeva che pietà non c’era" [36]. Quando il medico gli proibisce di incontrare la Bella Fanciulla con la quale si accingeva a cenette romantiche in cui si dedicava agli stessi eccessi culinari del protagonista di Vino generoso, il Buon Vecchio istituisce come un’ultima barriera fra sè e la morte la stesura di un lungo e soprattutto contraddittorio trattato sui rapporti tra i vecchi e i giovani in cui arriva ad una saggia tesi : "lo scopo della vita è divenire un vecchio sano" [37]. Inoltre, secondo il teorista,che qui viene definito esplicitamente come una persona "molto lenta quado si tratta di agire" [38] arriva alla conclusione che "il vecchio non è altro che un giovane indebolito" [39]. Qui la concezione del Buon Vecchio richiama alla memoria, per qualche analogia, quella di Zeno che rovesciando il rapporto tra malattia e salute considerava che quest’ultima fosse un’attributo della vecchiaia, mentre la giovinezza sarebbe inevitabilmente sinonimo della malattia, in quanto è uno stato di inconsapevolezza se non addiritura d’ignoranza del "male di vivere". Il lavoro al trattato, che dovrebbe fornire al vecchio una morale ben solida che impedisca alla sua debolezza di trasformarsi in malattia, va avanti finché dura l’illusione di poter versare nel trattato tutta la sua dubbiosa e inconcludente esperienza di vita, ma quando si rende conto che il Nulla era penetrato definitivamente nel suo pensiero il vecchio esala il suo ultimo respiro sulle pagine del suo manoscritto.
La malattia come risultante del conflitto tra la vita e la morte è senz’altro la conseguenza dell’inettitudine a vivere. Dunque fra l’inettitudine ch’è la condizione esistenziale anomala contemporaneamente malata e senile e la malattia ch’è l’oggettivazione di questo disagio esistenziale in un disagio concreto del corpo, c’è uno stretto legame, i due livelli di manifestazioni patologiche rivelandosi complementari. Conseguentemente, se il binomio salute/ malattia ha due modi d’essere, da una parte vitalità, equilibrio interiore, dall’altra inerzia, incertezza, disagio, la malattia si propone sempre all’analisi dei personaggi come meditazione sulla vita. Questa meditazione si risolve in un’unica malattia fisico-psichica che si muove comunque verso la morte. Approdiamo in questa direzione ad una paradossale sinonimia tra vita e malattia perché, secondo Svevo, la salute non esiste se non sotto una veste di "pseudo - salute" o, in senso filosofico, di un’apparenza di salute che sarebbe un frutto illusorio dell’inconsapevolezza, nient’altro che un momentaneo e molto precario equilibrio fisico. Da questa sinonimia si arriva dunque alla conclusione che la malattia è la consapevolezza del "male di vivere", perché la vita a suo turno non è che una malattia sempre mortale. In questo modo Svevo capovolge i termini della morale corrente: per essere forti nella vita bisogna essere forti nella propria malattia e un simile intento è raggiungibile semmai solo attraverso un’acuta analisi della propria psicologia e implicitamente del proprio corpo, visto come un meccanismo complesso caratterizzato da scompensi e squilibri riassestabili solo se governati da un cervello capace di incanalare le sue forze nella giusta direzione. Qui abbiamo a che fare con una filosofia tipicamente sveviana che trae spunto dalla concezione nietzscheana secondo la quale "dipende dalla tua meta, dal tuo orizzonte, dalle tue energie, e dai fantasmi della tua anima determinare che cosa debba significare la salute anche per il tuo corpo" [40]. Si capisce dunque che l’uomo è portato a "costruirsi" consapevolmente una coscienza dalle facoltà taumaturgiche, ma da creatura imperfetta qual’è esso fallirà nel suo ambizioso intento. Proprio in funzione alle sue capacità di "autogovernarsi" l’uomo come individuo è diverso da altri individui apparentemente uguali, inserendosi coscientemente o meno in una piramide nella quale il più forte tende ad assoggettarsi i più deboli, secondo la teoria darwiniana che è permeata dal bisogno di collegare la malattia all’evoluzione dell’uomo.
Per capire in che modo Darwin, Nietzsche e Sconpenhauer confluiscono nella concezione sveviana dell’inettitudine dovremmo analizzare l’attuazione del suo primo inetto, Alfonso Nitti.
Scritto secondo il canone naturalista il romanzo Una vita ci presenta "oggettivamente" la storia di vita e di morte di un giovane impiegato che fin dalle prime pagine si dimostra un "inetto alla vita", condannato a concludere la sua breve esperienza secondo lo schema dell’inevitabile fallimento del giovane che tenta la scalata sociale, tema tipico della letteratura naturalista. La sola eccezione alla legge naturalista sarebbe la mancanza del vero pilastro della letteratura del genere, cioé dell’ereditareità. Inoltre se l’inettitudine individuale del naturalismo che raffigurava dei "vinti" rappresentati dentro una scala di valori sociali, che erano in grado di misurare le proprie vittorie e sconfitte e che dopo aver tentato di superare il livello della loro classe venivano rigettati indietro dalla società, agli inetti di Svevo spetta una diversa qualità di vita, a qualunque categoria sociale appartengano e anche una diversa nobiltà di pensiero, dato che sono capaci di assumersi la propria debolezza. Alfonso, ad esempio, benché fosse tormentato da un’angosciosissima ambizione che a volte tocca l’assurdo, non vuole fare carriera in banca, non è capace di materilizzare le sue pretese di intellettuale in qualcosa di concreto, non intende fare uso della seduzione di Annetta per servirsene come strumento di ascesa sociale, o almeno non secondo le leggi prestabilite della società di cui fa parte. A tutto ciò Alfonso sembra indifferente e si arrende fin dall’inizio, determinato a non accettare le regole del gioco sociale e del lavoro, dimostrando a se stesso la sua incapacità di adeguarsi all’ambiente in cui vive. Da vero inetto, Alfonso si trova solo e disarmato di fronte alla vita, non è in grado di agire come "gli altri"e dunque non riesce a superare la sua condizione di "malattia", di inettitudine, di teorismo.
Il suo teorismo consiste proprio nel fatto di non poter trasformare in realtà quello che in fantasia, cioé in teoria potrebbe fare, incapace com’è di inserirsi spontanemente nel dialogo che caratterizza la vita:"Alfonso credeva di avere dello spirito e ne aveva di fatto nei soliloqui. Non gli era stato mai concesso di farne con persone che egli stimasse ne valessero la fatica, e recandosi da Maller pensava che un suo sogno stava per realizzarsi. Aveva meditato molto sul modo di contenersi in società e s’era preparato alcune massime sicure sufficienti a tener luogo a qualunque altra pratica. Bisognava parlar poco, concisamente, e, se possibile, bene; bisognava lasciar parlare spesso gli altri, mai interrompere, infine essere disinvolto senza che ne trapellasse sforzo" [41]. Il protagonista è, dunque, teso alla conoscenza e alla costruzione di se stesso, ma la sua dimensione reale rimane nel sogno, caratteristica che lo allontana da quello che potebbe essere un’affermazione superomistica del proprio io. In vano prova a valicare i suoi limiti perché inevitabilmente rimane circoscritto in uno schema insuperabile nel quale può al massimo compiacersi del proprio narcisismo. Questi suoi limiti rimagono davvero insuperabili anche se prova continuamente a superarli cercando di prevedere nei minimi dettagli le situazioni che deve affrontare per trovarsi preparato di fronte a qualsiasi situazione. Nonostante tutto, la fluida realtà non si lascia decifrare e non è in grado di anticipare quasi niente, Perciò in pratica si ritrova sempre tanto più impacciato inibito e inadeguato quanto più in teoria vorrebbe essere disinvolto ed eccezionale. Volendo sembrare quello che in realtà non è, diventa sempre più perplesso ed esitante mentre la sua perpetua insicurezza gli blocca anche quel poco di spontaneo che c’é in lui, impedendogli di godersi i minimi successi che riporta nella continua battaglia con la vita. Eccolo di fronte ad Annetta in un atteggiamento più ambiguo che mai in cui l’esaltazione morbosa si alterna con il calcolo più freddo, incapace di sentimenti profondi e di emozioni autentiche: "Si inginocchiò dinnanzi ad Annetta e cercò di riprenderle la mano. Era detto ed era agito bene con aspetto di spontaneità mentre realmente si trattava di un’audacia calcolata. Ella si mise a ridere, ma avvicinò la sua testa bruna e nessuno dei due avrebbe saputo dire come fossero giunti per prima volta a baciarsi sulle labbra. Egli lo aveva previsto tanto poco che cessato il contatto gli parve di non averne sentito tutta la felicità che avrebbe dovuto e tentò di rifarsi con un secondo bacio" [42].
Fallito il suo tentativo di appropriarsi di uno statuto "rispettabile" attraverso il legame con Annetta, sepolta la madre e perso anche l’unico punto di riferimento che è il paese d’origine, Alfonso si ritrova più solo che mai, definitivamente sconfitto. Il protagonista, cosciente che la "battaglia" è irrimediabilmente persa e i suoi limiti assolutamente invalicabili, deve affrontare l’ultima "prova" della sua inconcludente esperienza – il suicidio, che potrebbe riscattargli tutte le offese subite in una vita che purtroppo per lui non è fatta, come avrebbe voluto lui, di "voli poetici". Alfonso, affermerà Svevo molti anni dopo averlo creato , doveva essere la personificazione dell’affermazione schopenhaueriana della vita tanto vicina alla sua negazione. Eroe negato al successo, Alfonso si trova di fronte alle sue illusioni e soccombe, ma non prima di rendersi conto che artefice dello scacco è stato lui stesso, o meglio la parte inconscia che ha avuto nel favorirlo. Se per Bruno Maier il suicidio di Alfonso "non è un atto di alfieriana e foscoliana protesta, e quindi l’affermazione estrema di una personalità virtulamente (e moralmente) vittoriosa sugli oppositori, sí invece di mesto abbandono del combattimento, di stanca disertazione, di rassegnazione inerte e desolata" [43], secondo G. Pamploni invece Alfonso ricorre al suicidio non per dichiarare la propria sconfitta ma per affermare ancora una volta la propria superiorità."Il suicidio di Alfonso non è un suicidio di disperazione, ma di esaltazione, non di debolezza, ma di coerenza; è un soprassalto di intensità nella "inettitudine", il compimento di un ritratto" [44]. Dunque, sconfitto ma coerente con se stesso si dà per sua propria volontà alla morte e in questo modo le sue velleità romantico - titaneggianti trovano, forse per la prima volta, il modo più convincente di esprimersi. L’iIlussione non dura più, vuol dire che anche la vita deve essere abbandonata, perché in questo stato di consapevolezza la sua esistenza diventa ancora più assurda e senzo senso. "Egli si sentiva incapace alla vita. Qualche cosa aveva inutilmente cercato di comprendere, gliela rendeva dolorosa, insopportabile. Non sapeva amare e non godere; nelle migliori circostanze aveva sofferto più che altri nelle più dolorose. L’abbandonava senza rimpianto" [45]. Il suicidio è l’unica modalità in cui Alfonso possa conservare un’estrema illusione di vittoria in una società malata in cui non puoi salvarti se non attraverso la pazzia o la morte. In questo caso, per Alfonso la morte è l’unica scelta : "era la via per divenire superiore ai sospetti e agli odii. Quella era la rinunzia che egli aveva sognata. Bisognava distruggere quell’organismo che non conosceva la pace; vivo avrebbe continuato a trascinarlo nella lotta perché era fatto a quello scopo.Non avrebbe scritto ad Annetta. Le avrebbe risparmiato persino il disturbo e il pericolo che poteva essere per lei una tal lettera" [46]. Ecco che, anche se non ha saputo vivere, prima di essere definitivamente schiacciato ed umiliato, Alfonso sa almeno morire. La decisione di non scrivere più ad Annetta gli viene dalla consapevolezza che ormai ogni comunicazione con il mondo dei sani è inutile ed è meglio ritirarsi nella morte in un silenzio che è perfettamente adeguato alla propria solitudine. Da questo suo atteggiamento traspare la condanna, ma anche il privilegio di poter denunciare il fatto che se la sua vita è stata uno sbaglio, non meno sbagliato è il mondo intero, potendosi dunque erigere a giudice della "normalità" degli altri in un atto di disprezzo e di odio assoluto. In più, per Svevo, come si vedrà anche in La coscienza di Zeno, la malattia psichica diventerà addirittura preferibile alla "normalità", dato che il rapporto tra le due condizioni è lo stesso di quello tra intelligenza e stupidità, tra ribellione e irragionevole adeguazione alla realtà, in fin dei conti tra cultura e natura.
La parabola discendente di Alfonso è pervasa da aspetti schopenhaueriani e darwiniani perché se all’individuo mancano le forze per addattarsi nel mondo in cui vive e non è capace di trasformare in senso positivo le proprie debolezze bisogna perire. E in questo senso che dobbiamo interpretare la tesi di Macario, "che sa vivere": "Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare o anche inabili a tenere" [47]. Ed Alfonso non essendo stato capace di "costruirsi la propria vita come un’opera di arte" si dimostra in fin dei conti capace di afferrare il proprio destino per annientarsi da vero superuomo "sbagliato" qual’è.
Dal pessimismo individuale di Una vita, in cui Svevo avvertiva il dramma e l’angoscia della vita che è direttamente proporzionale al desiderio di affermarsi nel mondo, passiamo a Senilità che già dal titolo ci da un’idea della nuova risposta dell’inetto che invece di affrontare le prove della vita troverà una "via di rifugio" nell’evasione dalla realtà attraverso la memoria. Il libro, una radiografia analitica della stessa impossibilità di vittoria, non ha più la dimensione tragica di Una vita perché, a differenza di Alfonso Nitti che aveva trovato l’unica soluzione soddisfacente nella rinuncia alla vita, Emilio Brentani si abbandona alla vita, la vera morte per lui essendo un’amara voluttà di autocontemplazione del proprio scacco. In epoca romantica questa storia d’amore distruttivo vissuto tragicamente sarebbe stata sostenuta da un’implicita fede nella forza dei sentimenti. In epoca positivistica essa è subordinata alla reltà delle cose, perde i contorni psicologici e qualsiasi nobiltà per trasformarsi in un vizio mentale di un intellettuale borghese. Se l’intera viccenda di Alfonso si risolve romanticamente nel suicidio del protagonista ben diversa sarà la situazione di Emilio Brentani: "Di fronte all’impossibilità di realizzarsi contro un mondo nemico, Alfonso Nitti si rivolta fino al suicidio; Emilio si chiude nella resa e nella rinuncia della senilità. L’eroismo di Alfonso è ancora un gesto romantico realizzato nella zona dell’utopia. La resa di Emilio è già l’indizio della necessità, a lui negata, di una presa di coscienza, l’amaro scotto di una forzata consapevolezza capace solo di inazione e ricordo sterile, nella dimensione di una memoria falsamente liberatrice, la sola concessa alla sua mente di letterato ozioso" [48]. Dal teorismo di Nitti arriviamo alla "senilità" di Brentani, intesa come rinuncia e rassegnazione, come "vecchiaia metafisica". Si tratta di una condizione effettivamente o virtualmente patologica, quindi abbiamo di nuovo a che fare con un’ipostasi di "malattia" psicologico- morale.
Stavolta l’architettura del romanzo è più complessa in quanto la sua struttura a quadrilatero ci presenta la doppia storia d’amore, assolutamente simmetrica in cui due inetti, fratello e sorella, si innamorano di due "sani"- Angiolina e Balli. Da una parte Emilio si lancia nel suo amore per Angiolina, amore che dovrebbe mantenersi nei confini, prestabiliti da lui stesso, di una semplice avventura, ma che lo schiaccia per eccesso di orgoglio e mancanza di esperienza "pratica". D’altra parte sua sorella Amalia totalmente estranea alla vita fallirà ancora più disastrosamente nel suo amore per Balli, ma per eccesso di illusioni. Infatti non Emilio continuerà idealmente il totale fallimento di Nitti, ma Amalia, e questo fallimento peserà sulla coscienza di Emilio più del suo, perché si considera il vero responsabile per la morte tragica della sorella.
La "malattia" di Emilio si potrebbe riassumere in poche parole, e come nel caso di Alfonso, essa diventa palese attraverso un’esperienza erotica che il protagonista si trova assolutamente impreparato ad affrontare: Angiolina, emblema della "salute", carattere apertissimo, senza complicazioni, in cui prevale l’elemento pratico e l’immediata e antiproblematica adesione alla vita, trascina il nostro "malato" in situazioni in cui il "teorismo" gli impedisce di trovare una modalità di adeguarsi effettivamente. Succede come nel caso di Alfonso: il protagonista inciampa nelle complicazioni create da lui stesso, si ingarbuglia fra intenti e propositi che si propone da solo per scoprire poi che non è in grado di mettere in pratica niente, rimanendo nella sitazione in cui la sola cosa da fare è contemplare un "progetto", uno schema che non ha nessuno scontro nella data realtà. Anche se all’inizio voleva vivere una semplice avventura d’amore ed è stato proprio lui a tracciare le regole del "gioco" man mano si ritrova nella radicale impossibilità di seguire la proprie fantasticherie. Si arriva nel punto in cui il varco tra sogno e realtà, tra immaginazione e concretezza si attenua per sciogliersi poi completamente, finché la confusione è assoluta. L’oggetto stesso della sua passione diventa irriconoscibile, perché, idealizzato si trasfigura in un’immagine che non ha niente a che fare con la bella popolana e in cui lei stessa stenterà di riconoscersi. Potremmo addurre come prova in questo senso il fatto che Angiolina preferisce e trova divertente il nome di Giolona datole dall’mico di Emilio, nome che perfettamente si addice all sua "statura da granatiere" e pare, "con le vocali larghe, larghe il disprezzo stesso fatto suono" [49]. Invece non riesce a riconoscersi nell’Angèle o l’Ange di Emilio , nomi in cui si manifesta l ‘idealizzazione di tipo stilnovistico che l’amante ha operato su di lei. L’essenza dell’intero romanzo potrebbe essere definita da questa situazione in cui un uomo sa di creare una finzione e finisce per credere ad essa, anzi la finzione da lui creata gli riesce necessaria e vitale perciò non può più staccarsene in nessun modo: "La donna che egli amava, Ange, era la sua invenzione, se l’era creata lui con un voluto sforzo; essa non aveva collaborato a questa creazione, non l’aveva neppure lasciato fare perché aveva resistito. Alla luce del giorno il giorno scompariva" [50]. Dunque Alfonso è l’unico responsabile del suo scacco perché in modo più o meno consapevole è stato lui stesso ad inventare un’ Angiolina che in realtà non esisteva, ignorando gli ammonimenti dell’amico Balli e abbandonandosi alla contemplazione della propria creazione. "Emilio idealizzava Angiolina... Egli dimenticava...che aveva stranamente collaborato a vedere in Angiolina ciò ch’ella non era, ch’era stato lui a creare la menzogna" [51]. Nell’amore inteso come "malattia" e sofferenza nel vero senso della parola "forse tutto quell’affanno e quel dolore preludiavano alla guarigione" [52] l’amico Balli, teorico ed eroe del carpe diem, prova in vano ad "insegnargli" com’è che si deve gestire un’avventura. Quando tenta di liberarsi dalla menzogna, dall’amore diventato ossessione è già toppo tardi perché nel frattempo la sorella è perduta: "Amalia muore, Angiolina scappa-riassume Eugenio Levi - senza ch’egli riesca a dire né all’una né all’altra la parola che vuole. E a lui non è neppur concesso quello che pur fu dato ad Alfonso; non gli è dato cioé di spiegarsi neanche a prezzo della vita. Per fortuna ha anche lui le ali, come Alfonso, le ali, quelle tali ali tanto diverse da quelle del gabbiano. E vi tira dentro la testa. Si eterizza per metafora, come sua sorella si è eterizzata letteralmente. Si costruisce come le creature di Pirandello, la sua patetica finzione necessaria per non morire. E qui avviene il miracolo. Amalia e Angiolina si fondono in una sola persona. Poiché l’una è morta e l’altra è irraggiungibile, la realtà non può più contrastare l’illusione... Angiolina conserva inalterata, in una con la sua calda bellezza misteriosa, la sua perversione ingenua, la sua finzione sincera, gli assurdi del suo slancio vitale; a patto però di acquistare anche la qualità di Amalia che muore una seconda volta per rivivere in lei" [53].
Possiamo concludere che l’inettitudine di Emilio Brentani si esprime in un più profondo e personale accertamento della propria estraneità alla vita, in una più doloroa consapevolezza che la vita si consuma senza nessuna giustificazione per la propria inerzia morale. Invano Emilio filtra ogni emozione attraverso una continua analisi interiore per rispecchiare la realtà nella propria coscienza perché alla fine sarà costretto ad accettare la propria inettitudine come una condizione esistenziale anomala, contemporaneamente malata e "senile". La "senilità" o la vecchiaia intesa come "condizione" che può trovare la sua verifica in ogni momento dell’esistenza al di là della reale età dell’uomo essendo caratterizzata da inerzia, malinconia, rasseganata accettazione della sconfitta, risulta per Emilio la sola via d’uscita. Abolito qualsiasi desiderio e trovata una nuova saggezza "rinacque in lui l’affetto alla tranquilità, e la cura di se stesso gli tolse ogni altro desiderio... Divenne triste, sconsolatamente inerte, ed ebbe l’occhio limpido e intellettuale" [54].
E con La coscienza di Zeno che Svevo compie la conclusione dell’avventura del suo protagonista sotto il segno della malattia e della malattia immaginaria. Dopo la scoperta di Freud, Svevo si incarna per la terza volta identificandosi più che mai con il suo protagonista per trovare un metodo di interpretazione del "male di vivere", uno strumento di conoscenza di tutti i suoi aspetti in cui si intersecano e si sciolgono le figure e le fantasie del conscio e dell’inconscio.
Già dal titolo si annuncia il fatto che la narrazione non è più collocata in uno spazio reale, circoscrivibile entro limiti precisi, oggettivi, ma si tratta di uno spazio indefinito carraterizzato dai più repentini cambiamenti di sfondo, mai pienamente afferrabile: quello della coscienza ovvero dell’interiorità dell’uomo. Da questa dimensione viene contemplato e giudicato il mondo esterno, che perde perciò ogni oggettività, mentre il romanzo non ci presenta dati reali ma i riflessi che essi hanno nella coscienza del protagonista–narratore. Anche il tempo acquista una dimensione soggettiva, svincolata da quella misurabile in ore, giorni, anni che si susseguono ordinatamente, perché la coscienza non ammette una netta frattura tra passato, presente e futuro: in essa i ricordi del passato e le attese del futuro sono attuali quanto l’ansia per quest’ultimo; il suo tempo è quello della memoria del soggetto, che riordina i fatti secondo l’importanza che essi assumono in relazione al presente. Dunque, la narrazione si svincola da ogni rispetto per l’asse temporale e i fatti emergono al di là di ogni ordine cronologico e si intersecano liberamente tra di loro, infrangendo il diaframma tra presente e passato, realtà e immaginazione.
Il romanzo è costituito dalla lunga autoanalisi compiuta dal protagonista, Zeno Cosini, su ordinazione del suo medico, che lo aveva convinto a mettere per iscritto le memorie cosí come gli ritornano nella coscienza, come "un buon preludio alla psico - analisi". Questo perché, secondo Freud, "l’inconscio" è costituito da contenuti "rimossi" , cioé tenuti lontani dal livello cosciente, ma che potrebbero essere portati in "superficie" attraverso l’indagine dei processi mentali incosci che si basa essenzialmente sui sogni e sulle libere associazioni di idee del soggetto in analisi. Cosí Zeno Cosini porebbe guarire, perché anche se passa per una persona di successo, lui è convinto di essere in realtà un povero ammalato, affetto da un’inafferrabile malattia che gli impedisce di aderire pienamente alla vita. L’analisi dei sintomi di questa malattia è diventata una vera ossessione per Zeno, tanto da costituirsi in un comodo alibi per la sua inettitudine, per la sua incapacità di dominare la realtà. Il racconto si svolge sul filo dell’assurdo: in una sola sera Zeno chiede la mano di tre donne, spinto dalla volontà di arrivare ad un risultato positivo, ad "una pace con se stesso", nonstante i primi due fallimenti. La conclusione finale d’altronde è che le grandi scelte della vita sono in realtà dettate del caso, e che gli avvenimenti ci trascinano da soli, senza che ce ne rendiamo neppure conto. Secondo Zeno, a volte, neanche vale la pena opporsi al caso perché esso combina bene le sue trame, e il risultato di molti atti di casualità è assolutamente positivo. Comunque Zeno si considera emarginato nel mondo dei "sani" e sentendosi oppresso da sempre nuove manifestazioni della sua malattia, decide di eliminare per sempre dal suo sangue il "veleno" che lo "inquina" attraverso questo riesame della propria vita fatto in forma di diario che dovrebbe individuare la via verso la "salute" e ritrovare l’unità del proprio io.
Anche se alcuni critici hanno esagerato l’importanza dell’incontro di Svevo con Freud, avvenuto nel lungo periodo di "silenzio" in cui, tra l’altro, aveva conosciuto e tradotto Il sogno freudiano, la psicoanalisi rimane piuttosto un pretesto che potenzia la naturale predilezione sveviana allo scavo e all’indagine psicologica e non un metodo da adottare senza riserve e da "trasporre" semplicemente in letteratura. Del resto dalle righe del romanzo stesso ma anche dalle lettere scambiate tra Svevo e Valerio Jahier riesce palese l’atteggiamento del nostro di fronte alla psicanalisi: al di là della moda del momento, Freud è integrato criticamente dallo Svevo, che si rende conto dei limiti del metodo. Sta a provare questa cosa l’ironia con la quale l’autore si accosta alla creazione del suo nuovo personaggio cosí lontano dall’eroe ridondante e vittorioso che offriva la letteraura del momento. Senz’altro l’incontro con Freud accentua in Svevo il gusto della ricapitolazione della realtà nella memoria favorendo il compimento della cosiddetta "rivoluzione" attuata da Svevo nella letteratura italiana del primo Novecento, rivoluzione che porta all’integrazione delle lettere italiane nella grande letteratura europea del momento alla quale Joyce, Proust, Kafka e Musil danno una nuova spinta.
Dunque bisogna accettare il fatto che il freudianismo non può spiegare alla lettera il nuovo "stile" sveviano, ma da esso nasce il gusto del recupero del tempo passato con l’afferrente interpretazione di esso "a posteriori" e la particolare forma della Coscienza , fatta di episodi stratificati uno sull’altro in una struttura che la critica chiama "a canocchiale". Gli episodi apparentemente staccati uno dall’altro ripropongono alla coscienza del protagonista stesso, e poi anche a a quella del medico frammenti di realtà depositati nella memoria e che la coscienza gli rivela per permettergli di osservarsi e di giudicarsi dalla prospettiva del passato.
E evidente che in questa prospettiva il narratore non conduce la storia ma si lascia condurre da essa, mentre già dall’inizio affiora il dubbio riguardo la capacità del medico di trarre qualche utile conclusione dalle cose apprese. Infatti questa diffidenza dell’eroe verso il medico in generale, che si tratti del Dottor S. o del Dottor Coprosich, o del medico che cura i Malfenti, potrebbe essere interpretato freudianamente come un "complesso" in cui il soggetto vede nella figura autoritaria del medico l’incarnazione del proprio padre. Qui dobbiamo aggiungere che una parte della critica considera addiritura che l’intera vocazione alla scrittura di Ettore Schmitz si ponga come alternativa rispetto alla richiesta paterna di diventare un grande commerciante e non diversamente da altri scrittori come Pirandello, Kafka, Thomas Mann, "lo scrittore triestino rappresenta nell’implicita <rivolta al padre> un dato di fondo della grande letteratura borghese del primo Novecento, nel rifiuto di un modello fondato sulla trasmissione autoritaria di un sistema di valori sentito come inautentico e sopraffattore, centrato com’è sulla competizione, sullo sfruttamento delle risorse dell’intelligenza come riuscita nella società, su un moralismo tanto rigoroso quanto ipocrita, perché inteso alla sublimazione efficientistica delle energie istintuali" [55]. D’altra parte, se si tratta di componenti psicanalizzabili nel romanzo sveviano, dobbiamo anche dire che mancano aspetti importanti, come la storia dettagliata dell’infanzia o il rapporto con la madre. Tuttavia, nel secondo caso ci sarebbe una possibile spiegazione, cioé il fatto che il padre è una figura complessa e dalle molte sfaccettature che include in sé anche quella della madre che prima di tutto è in possesso del padre e non vera alternativa ad esso. Comunque, non dimentichiamo il fatto che, anche se apparentemente la psicanalisi stessa gioca un ruolo importantissimo nel romanzo, Zeno stesso rinuncierà verso la fine del romanzo ai "servizi" dello psicanalista, ritenendosi capace di giudicarsi da solo e di stabilire in che misura sia guarito o meno.
Infatti, già dall’inizio del libro, cioé dalla Prefazione e poi dal Preambolo ci si illustra la "finzione" psicanalitica per subito ironizzarla. Segue poi un capitolo intitolato Il fumo, che potrebbe essere giudicato come marginale in rapporto alle parti successive, ma che poi risulta importantissimo per capire quello che per Zeno è la malattia incurabile che lo affligge cioé la sua totale incapacità di rispettare i propositi che lui stesso si propone anche perché ad un certo punto dubita che sia necessaria qualsiaisi disciplina. "Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissa se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come quell’igienista vecchio, descritto da Goldoni vorrebe morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?..." [56]. Da questo frammento si capisce il clima di autoanalisi e di contraddizione che caratterizza il nouvo "uomo senza qualità" pronto a studiarsi ed a portare ogni avvenimento sul piano della coscienza per definire meglio il tema della malattia diventato il tema della malattia immaginaria e dell’ipocondria che anche più oltre si legherà alla sostanza umana e psicologia dello stesso romanzo, al flusso continuo della sua memoria. Del resto alla malattia vengono collegate tutte la manifestazioni del carattere di Zeno, dunque non solo i vari malesseri fisici ma anche le sue azioni, i suoi sentimenti, tutto quello che riesce a capire di sé fino alla completa identificazione della personalità di Zeno con la sua malattia.
Il tema ricorrente della malattia immaginaria, dei dolori altrettanto immaginari, e della morte riaffiora ad ogni passo in sfumature sempre nuove e legato ad argomenti diversissimi: che si tratti della morte del padre, del matrimonio, dell’adulterio, del mondo degli affari Zeno non fa altro che trovare sempre nuove conferme per la sua malattia, Solo che essa si trasforma in sostanza in un disagio esistenziale che è percepito come malattia fisica, ma non lo è, perché si tratta della stessa inettitudine, che a dir la verità acquista valenze ambigue e perfino affascinanti, positive nella consapevolezza e nell’ironia, negative nell’ipocrisia e nell’assoluta mancanza di valori morali.
Dunque il dramma dell’inettitudine dei primi due romanzi Una vita e Senilità si scioglie in una disincantata consapevolezza del "male di vivere" ma che stavolta non è percepita drammaticamente ma, al contrario, si dissolve nel sorriso ironico dell’uomo che ha imparato a trarre profitto dalla sua imperfezione ed a ridere di se stesso. Usando l’inettitudine a favore suo, quello che potrebbe passare per grottesco in altre persone, in Zeno diventa diplomazia dei sentimenti, arte di autoingannarsi. "A questo comportamento Zeno si manterrà fedele in ogni circostanza della sua vita, facendo apello ai contorcimenti, alle suggestioni della memoria involontaria, sulla quale i fatti realmente accaduti hanno scarso peso. Il tempo non solo modifica, ma dà ragione ai mutamenti intervenuti; e sono questi che vengono anteposti ai dati reali del ricordo" [57]. Dunque il passato è fatto di avvenimenti e di cose che non suscitano una risposta angosciosa dei sentimenti perché, una volta superati e trasferiti nella memoria, essi perdono tutto quello che poteva produrre sorpresa, spavento e disordine. In altre parole si tratta di autoinganno psicologico perché la memoria per Zeno è una facoltà che cancella invece di rievocare un’avvenimento in modo che esso non agisca più su di lui, perdendo qualsiasi sfumatura drammatica.
L’ambiguità di Zeno è, come si osserva, la chiave di lettura di tutta l’intera confessione che lui fa, e anche se all’inizio lui dichiara la sua volontà di guarire, in realtà agisce in direzione totalmente opposta, perché man mano scopre che tanto la malattia quanto la salute sono delle convinzioni. Qui dovremmo ricordare gli sforzi che Zeno fa nell’intento di capire la salute della moglie "che non analizza se stessa e neppur si guarda allo specchio" [58]. Affiora nella mente di Zeno che potrebbe essere proprio questo il segreto della salute, e anche l’analisi che lui stesso fa porebbe danneggiarle: "Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m’accorgo che, analizzandola la converto in malattia" [59]. Tuttavia, secondo lui l’inconsapevolezza del "male di vivere", come la salute, non possono appartenere che alle bestie. Ecco dunque Augusta implicitamente ridotta al livello di un fedele ed affezionato animale. In ogni modo, la salute non è possibile per l’uomo dato che la vita stessa assomiglia ad una malattia e quindi non puoi essere sano in un mondo totalmente "inquinato". In piu, per Zeno la malattia diventerà addiritura preferibile alla sanità, dato che per lui il rapporto tra le due condizioni è lo stesso di quello tra intelligenza e stupidità, tra ribellione e irragionevole adeguazione alla realtà, in fin dei conti tra cultura e natura.
Non per caso, dunque, Zeno arriva ad agire in senso opposto a quello che all’inizio del romanzo dichiarava: non si insegue più la salute a tutti i costi perché nel frattempo scopre che nella malattia ha trovato la verità su se stesso. Del resto, secondo Zeno, la salute non esiste nel mondo, come non esiste una verità unica ed oggettiva, e quale altra persona potrebbe saperlo meglio di colui che ha continuamente mentito a se stesso e agli altri invocando gli aspetti molteplici e contraddittori della "verità"-che risulta essa stessa niente altro che una convinzione. Ecco la spiegazione della dichiarata predilezione di Zeno per le bugie – e qui entrano non solo le bugie scelte volontarimente o per istinto, ma anche le menzogne mascherate sotto la veste degli sbagli, delle gaffes, degli equivoci che rendono la sua personalità ancora più complicata e inquietante per quelli che gli stanno intorno.
Quando Zeno interrompe per sempre la cura psicanalitica dedicandosi infine a raccontare il presente lo fa perché crede di aver scoperto ironicamente la verità sulla psicanalisi: "La mia cura doveva essere finita perché la mia malattia era stata scoperta. Non era altra che quella dignosticata dal defunto Sofocle sul povero Edipo: avevo amata mia madre e avrei voluto ammazzare mio padre. Né io m’arrabbiai! Incantato stetti a sentire. Era una malattia che mi elevava alla più alta nobiltà. Cospicua quella malattia di cui gli antenati arrivavano all’epoca mitologica!" [60]. Apparentemente divertito della nobiltà della propria malattia Zeno prende in giro se stesso, la propria soffernza, il proprio medico cosciente dell’assurdità della situazione: "e non m’arrabbio neppure adesso che sono qui solo con la penna in mano. Ne rido di cuore. La miglior prova ch’io non ho avuto quella malattia risulta dal fatto che non ne sono guarito. Questa prova convincerebbe anche il dottore. Se ne dia pace: le sue parole non poterono guastare il ricordo della mia giovinezza. Io chiudo gli occhi e vedo subito puro, infantile, ingenuo, il mio amore per mia madre, il mio rispetto ed il mio grande affetto per mio padre" [61]. Eliminata dalla sua vita per sempre la dannosa psicanalisi, Zeno può raccogliersi e meditare sui benefici che la propria malattia gli ha procurato enunciando ancora una volta la sua concezione secondo la quale, in una società come quella in cui vive, la malattia è sempre preferibile alla normalità e il malato è senz’altro superiore al cosidetto sano: "Fu un vero raccoglimento il mio, uno di quegl’istanti rari che l’avara vita concede, di vera grande oggettività in cui si cessa finalmente di credersi e sentirsi vittima. In mezzo a quel verde rilevato tanto deliziosamente da quegli sprazzi di sole, seppi sorridere alla mia vita ed anche alla mia malattia. La donna vi ebbe un’importanza enorme. Magari a pezzi, i suoi piedini, la sua cintura, la sua bocca, riempirono i miei giorni. E rivedendo la mia vita e anche la mia malattia, la amai, le intesi! Com’era stata più bella la mia vita che non quella dei cosidetti sani, coloro che picchiavano e avrebbero voluto picchiare la loro donna ogni giorno, salvo in certi momenti. Io, invece, ero stato accompagnato sempre dall’amore" [62].
Dunque l’amore e poi il successo in affari riescono a guarire Zeno di quella che credeva fosse una malattia mortale. Solo che succede che la malattia individuale venga "globalizzata" trasferendola da un corpo e uno spirito qualunque alla vita in generale, a tutto intero il mondo. Malattia e salute ,vita e morte diventano nozioni astratte ed ambigue, impossibili da disgiungere, da definire e tanto meno da capire. La conclusione sarebbe che "qualunque sforzo per darci la salute è vano" [63], dato che "la vita somiglia un poco alla malattia che procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale" [64]. L’unica soluzione che Zeno intravvede è una "cura catastrofica" alla quale sottoporre l’intero pianeta perché "la vita attuale è inquinata alle radici" [65] dopo di che "la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassitti e di malattie" [66]. Ma prima di questa purificazione catastrofica, intravista per meglio fissare il concetto della malattia e delle sue possibili conseguenze, la vita rimane quella cosa "originale" che permette a Zeno di dedicarsi alla contemplazione e all’autoanalisi del proprio animo, convertendole in "letteratura".
A questo punto dovremmo vedere in che modo la letteratura potrebbe fungere da antidotto ad una simile catastrofe se non addiritura per l’intero pianeta, almeno per la persona dello scrittore Italo Svevo. Senza dubbio nella personalità di Svevo convivono l’industriale Ettore Schmitz, che s’interessa agli affari, viaggia in Europa ed è molto inserito mel modo borghese e Italo Svevo, che scrive e si consuma per il destino dei suoi romanzi accolti con tante riserve dai lettori e dalla critica. Nel caso di Italo Svevo la letteratura agí in maniera terapeutica contro quel "mal di vivere"che abbiamo già individuato. Anche se, almeno all’inizio, la scrittura non l’ha appagato dato che il riconoscimento della critica è arrivato quando ormai non se l’aspettava più, il triestino stesso ammette che "fuori della penna non c’è salvezza" [67]. Per arrivare in queso modo alla salvezza lo scrittore deve comportarsi da "formica letteraria", da scolaro disciplinato esercitando la sua scrittura ogni giorno, finché trova il tono giusto, la parola più adatta a rendere in modo più espressivo possibile il suo mondo interiore: "Io credo, sinceramente credo che non c’è miglior via per arrivare a scrivere sul serio che quella di scribacchiare giornalmente. Si deve tentare di portare a galla dall’imo del proprio essere ogni giorno un suono, un accento, un residuo fossile o vegetale di qualche cosa che sia o non sia il puro pensiero, che sia o non un sentimento, una bizzarria, rimpianto, un dolore, qualche cosa di sincero anatomizzato e tutto e non di più. Altrimenti facilmente si cade, il giorno in cui si crede d’esser autorizzati di prendere la penna, in luoghi comuni o si travia quel luogo proprio che non fu a sufficienza diaminato" [68]. Quasi la stessa cosa viene ribadita in un’altro appunto di Svevo, in un modo ancor più veemente ed efficace:"Stracciate anche voi le vostre carte oh! formiche letterarie. Fate in modo che il vostro pensiero riposi sul segno grafico col quale una volta fissaste un concetto, e vi lavori intorno alternandone a piacere parte o tutto, ma non permettete che questo primo immaturo guizzo di pensiero si fissi subito e incateni ogni suo futuro svolgimento" [69].
E altrettanto vero che Svevo, nel cosidetto "periodo di silenzio", affermava di aver abbandonato la letteratura, ma questo abbandono non fu affatto totale. Al contrario è adesso che il nostro scrittore guarda meglio in se stesso, si dedica alla "letteratura" come ad una vera e propria "terapia del male di vivere", maturando incontestabilmente la propria arte. In questo senso una pagina del dicembre 1902 fa letteralmente luce: "Io a quest’ora e definitivamente ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura. Io voglio soltanto attraverso a queste pagine arrivare a capirmi meglio. L’abitudine mia e di tutti gli impotenti di non saper pensare che con la penna alla mano (come se il pensiero non fosse più utile e neccessario al momento dell’azione) mi obbliga a questo sacrificio. Dunque ancora una volta grezzo e rigido strumento, la penna mi aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere. Poi la getterò per sempre e voglio saper abituarmi a pensare nell’attitudine stessa dell’azione: in corsa, fuggendo da un nemico o perseguitandolo, il pugno alzato per colpire o per parare" [70].
Come non pensare ai protagonisti sveviani che praticamente fanno più o meno la stessa cosa del loro creatore, è vero senza avere la stessa tenacia perché loro non sono altro che dilettanti. Qui l’ironia sveviana si trasforma in mordace sarcasmo, perché l’assidua "formica letteraria" non può che disprezzare l’amatorismo e la faciloneria dei falsi letterati che si credono autorizzati di "trasmettere" agli altri la loro fittizia saggezza. Inevitabilmente saranno tutti destinati allo scacco perché per Svevo la letteratura è un coltello a doppio taglio: se non viene "manovrata" con le dovute precauzioni, con totale rispetto e assoluta dedizione può procurare la "senilità" o addiritura la morte del cultore.
E esattamente il caso di Alfonso che, da intellettuale superiore quale si crede, vorrebbe scrivere e lasciare testimonianza di sé e della sua virtù d’ingegno, fantasticando continuamente intorno al suo avvenire di scrittore e filosofo senza arrivare mai a concretizzare la sua pretesa superiorità in qualcosa di oggettivo. Al contrario la sua "superiorità" gli impedisce anche di comportarsi da persona "normale", facendolo apparire agli occhi degli altri quasi un imbecile perché non riesce mai ad adeguarsi alle situazioni concrete impacciato com’è in "teorismo". In realtà Alfonso nemmeno si accontenterebbe di un profilo di semplice scrittore, cioé di creatore di finzioni, ma mira a dedicarsi ad una grande e rivoluzionaria opera filosofica in cui creare il sistema supremo della morale. E molto significativo il fatto che al di là di sterili appunti slegati, l’unica "opera d’inchistro" che Alfonso abbia mai scritto sarà un abbozzo di un romanzo che dovrebbe essere scritto a quattro mani con la frivola ed inautentica Annetta. Dunque se Alfonso è riuscito a crearsi una qualunque fama di intelletuale questa non gli è stata utile per altro che per mettersi al sevizio dell’ambizione di Annetta, atteggiandosi a traduttore delle sue vuote e mediocri fantasie patetico - mondane di essa. Cosí Alfonso intellettuale com’è, o meglio vorrebbe essere, si trova in una posizione subalterna, infinitamente inferiore alle sue ambizioni, obbligato a prestare le sue abilità di artigiano della parola scritta alle vuote vanità della giovane donna. In modo assolutamente borghese i suoi sforzi gli serviranno non per glorificare la sua eccezionalità intellettuale ma per sedurre la sua collaboratrice letteraria. In questo modo la letteratura invece di nobilitare un rapporto che in fin dei conti ha reso possibile, volgarizza ed abbassa modelli letterari tradizionali, a cominciare con la coppia dantesca di Paolo e Francesca. Poi, come se l’intellettualismo di Alfonso si vendicasse per il suo "sfruttamento", quello che gli altri considerebbero un colpo di fortuna, invece di facilitargli l’ascesa sociale, gli accelera il definitivo naufragio. E difficile che un rapporto artificiale nato più per emulazione che per scelta propria resista di fronte alla realtà prosaica del mondo borghese. Se attraverso la letteratura i due sono diventati amanti, una volta interrotto il lavoro comune, il loro rapporto si rivela in piena luce come un semplice capriccio che non può trasformarsi in amore, o almeno in vita vera. D’altronde non c’è da meravigliarsi di un simile esito dato che la letteratura per una borghese come Annetta è solo un intrattenimento, un semplice divertimento. Questo Alfonso non lo capisce, cosí come non può capire neanche i meccanismi della società in cui vive. Secondo Giorgio Barberi Squarotti "Alfonso non riesce a scrivere il suo trattato di etica perché per lui le parole che dovrebbero esporre la sua teoria hanno un significato che non è condiviso dal mondo in cui vive e che dovrebbe pur essere il destinatario dell’opera. L’assunzione di Alfonso da parte di Annetta per il lavoro letterario e il fatto che la ragazza gli si conceda non hanno nessun significato al di là di quello che sono: due episodi transitori di una vita che ha tutte altre intenzioni, tutti diversi proggetti, altri ambiti in cui dovrà svolgersi [...]. Alfonso non lo capisce perché crede al significato univoco delle parole e dei gesti, che invece vogliono dire cose diverse a seconda che si sia la figlia del padrone di banca o un piccolo impiegato della banca stessa" [71].
Fallito il suo proposito di scrivere il magistrale trattato etico, fallito anche il tentativo di vivere un’esperienza unica d’amore che lo potesse integrare in un mondo che vorrebbe suo, ma che non è capace di capire, ad Alfonso rimane una sola via di scampo, cioé la morte. Sarebbe l’unica modalità di mantenersi un minimo rispetto per la propria persona, quindi non esiterà a togliersi la vita, testimoniando con la morte la propria integrità morale. Svevo è dunque impietoso con il protagonista di Una vita condannandolo per la sua incapacità di riuscire a una piena affermazione di se stesso, che egli crede raggiungibile solo attraverso una riuscita di artista.
Cosí si compie la condanna scherzosa ma impietosa di Macario, il rivale che "sa vivere" e perciò saprà anche conquistare Annetta, condanna apparentemente casuale proferita durante una gita quando parlando dei gabbiani questo osservava:"Chi non ha le ali neccessarie quando nasce non gli crescono più". "Ed io ho le ali?"-chiede Alfonso, poi si sente rispondere: "Per fare voli poetici sí" [72]. Solo che non essendo vita reale fatta di "voli poetici" Alfonso deve scomparire nel nulla.
Ugualmente dovrà ritirarsi dalla vita un altro protagonista sveviano, Emilio Brentani, ma stavolta non nella drammatica morte, ma nel grigiore della non-vita ovvero nella "senilità" dei sensi. Brentani è toccato anche lui dall’intellettualismo, nutrendo velleità letterarie che a differenza di Alfonso, hanno almeno qualcosa di concreto su cui fondarsi: un romanzo scritto molti anni prima che gli hanno portato una certa fama nella piccola città di provincia in cui vive."La carriera di Emilio Brentani era più complicata perché si componeva di due occupazioni e due scopi ben distinti. Da un impieguccio di poca importanza presso una società di assicurazioni egli traeva il giusto denaro di cui la famigliola abbisognava. L’altra carriera era letteraria e, all’infuori di una reputazioncella, - soddisfazione di vanità più che d’ambizione - non gli rendeva nulla, ma lo affaticava ancor meno. Da molti anno, dopo aver pubblicato un romanzo lodatissimo dalla stampa cittadina, egli non aveva fatto nulla, per inerzia non per sfiducia. Il romanzo stampato su carta cattiva, era ingiallito nei magazzini del libraio, mentre alla sua pubblicazione Emilio era stato detto una grande speranza per l’avvenire, ora veniva considerato come una specie di rispettabilità letteraria che contava nel piccolo bilancio artistico della città" [73].
Questa relativa "celebrità" rispecchia un’altra, più reale, quella di Italo Svevo stesso, che nel momento in cui scriveva Senilità, godeva della stessa "reputazioncella" di scrittore provinciale mancato. Perciò, pieno di amarezza, il triestino sarà impietoso in quello che riguarda il suo "alter ego", giudicando con una spietata ironia e distacco colui che "... come nella vita cosí anche nell’arte, egli credeva di trovarsi ancora sempre nel periodo di preparazione, riguardandosi nel suo più segreto interno come una potente macchina geniale in costruzione, non ancora in attività" [74].
Ecco dunque il fratello "evoluto" di Alfonso, che gode di una notorietà che non è neanche il frutto di una grande ambizione, e memmeno il risultato di una lavoro faticoso e titanico che consumi tutte le forze dello scrittore. Come non pensare alle interminabili ore passate da Alfonso in bilbioteca nella speranza di trarne le linfe vitali per poterle poi riversare nell’opera di grande ingegno che si sentiva portato a scrivere, e confrontarlo con Emilio Brentani. Una cosa che li potrebbe accomunare invece è la loro illusoria ed inutile ambizione di atteggiarsi a paziente pedagogo che deve indicare la via giusta a due popolane: Alfonso insisteva nel suo intento di educare la figlia dei Lanucci, mentre Emilio più fiducioso nelle sue forze prova ad educare la ribelle e vivace Angiolina della quale è perdutamente innamorato.
Infatti, sarà appunto dalla mal intesa vocazione di "precettor d’amabil rito" che gli verrà la disgrazia, perché Emilio Brentani non può trasmettere agli altri quello che lui stesso non sa, tanto meno se è coinvolto emozionalmente e travolto da una passione che non riesce a reggere. Tant’è vero che all’inizio intendeva procurarsi solo una distrazione che desse un po’ di colore alla sua vita monotona, perché... "a trentacinque anni si ritrovava nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amori, e già l’amarezza di non averne goduto, e nel cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza" [75].
Inevitabilmente dovrà convincersi "per esperienza" della sua debolezza dato che dalla situazione iniziale in cui con patetico cinismo voleva usare Angiolina come un giocattolo si trova nella situazione in cui lui stesso viene usato da colei della quale s’era eletto spregiudicato pigmalione. In realtà, vita reale se per Emilio l’irruzione di Angiolina nella sua vita ha significato l’epifania magica di un elemento di diversità culturale, l’eccitante sensazione del nuovo, la scoperta di un mondo da sedurre, godere e insieme pedagogizzare, tutto ciò è frutto di un equivoco atroce: Emilio non regge il confronto con la capacità camaleontica di Angiolina, con la sua doppiezza imprendibile, con la spontaneità della sua pratica della menzogna, e si ritrova ad essere, a parti invertite, il suo giocattolo"- riassume Mario Lunetta [76].
Quando finalmente si rende conto della situazione, cosa che succede anche perché a differenza di Alfonso che senza avere nessuno che lo appogiasse si trova ad affrontare la vita da solo mentre Emilio gode della "didattica" amorosa del Balli, egli si rifugia nella zona umbratile e confortante della "senilità" che gli offrirà una nuova, più comoda ed assolutamente distaccata prospettiva della realtà. In questo stato di prostrazione "rinacque in lui l’affetto alla tranquilità, alla sicurezza, e la cura di se stesso gli tolse ogni altro desiderio" [77].
Tuttavia, coerente nel suo carattere di inetto in cui sulla pratica prevalgono le facoltà teoriche, non esiterà a mistificare l’intero episodio,"letteraturizzandolo". Dal passato Angiolina ritorna sublimata nella sua immaginazione come il simbolo eterno dell’amore in un atteggiamento da donna – angelo che aspetta di essere trasumanata, guardando "sempre dalla stessa parte, l’orizzonte, l’avvenire da cui partivano i bagliori rossi che si riverberavano sulla sua faccia rosea, gialla e bianca. Ella aspettava!" [78]. La nuova Angiolina, incarnazione della passiva visionarietà di Emilio, acquista una nuova identità: "Nella sua mente di letterato ozioso, Angiolina subí una strana metamorfosi. Conservò inalterata la sua bellezza, ma aquistò anche tutte le qualità d’Amalia che morí in lei una seconda volta. Divenne triste, sconsolatamente inerte, ed ebbe l’occhio limpido ed intellettuale. Egli la vide dinanzi a sé come su un altare, la personificazione del pensiero e del dolore e l’amò sempre, se amore è ammirazione e desiderio [79]. Ecco infatti come la mente di "letterato" trasforma Angiolina in una "personificazione del pensiero" dall’"occhio intellettuale", lei che in realtà non aveva niente a che fare con la letteratura, essendo piuttosto l’incarnazione immediata dell’istintualità assolutamente "antiletteraria", la figurazione della prontezza rozza e triviale "antiintellettuale" di afferrare "letteralmente" la realtà concreta per trasformarla solo a suo beneficio.
Riesce chiara la concezione di Svevo secondo cui la vacua personalità dell’intelletuale che aspira a trasfigurarsi in letterato senza avere la dovuta vocazione arriva soltanto a pervertire la realtà o, al massimo, riesce ad autodistruggersi, a naufragare deplorevolmente nel nulla.
Con Zeno invece la situazione cambia perché lui è il primo inetto che attraverso la scrittura riesce a superare la propria malattia, o almeno riesce a trasformarla in un alleato sfruttando la propria diversità a suo vantaggio. Anche se Zeno sembra più "scrittore" degli altri, il sua racconto essendo fatto da un narratore interno o omodiegetico, in realtà lui è l’unico che non abbia mai avuto velleità letterarie. La scrittura per Zeno non è più uno scopo in sé, un mezzo di dimostrarre agli altri il proprio valore affremandolo sotto la veste della parola foggiata. Anche perché Zeno è ormai vecchio (se non letteralmente "senile"), benestante (non ha più bisogno del denaro che potrebbe ricavare dalla letteratura), soddisfatto dalla sua posizione nel mondo borghese (non gli serve più un’Annetta che gli faciliti l’ascesa sociale) e nel complesso relativamente soddisfatto della vita che ha con una sola ed importantissima eccezione: si ritiene gravemente afflitto da una malattia indefinibile ed inafferrabile. Essa sembra manifestarsi nei più diversi ed insidiosi modi; tutte la manifestazioni del carattere di Zeno sembrano essere sintomo di essa, fatto che lo tormenta trasformandogli la vita in un’ossessione che gli consuma le energie vitali.
Da questa prospettiva si capisce che il diario che registra la vita, ovvero la malattia di Zeno è solo uno strumento, un mezzo per arrivare alla bramata salute. Inoltre, la scrittura di questo diario non è una cosa spontanea, uno sfogo e nemmeno idea sua, ma del medico psicanalista che dovrebbe tener d’occhio il suo paziente, guidarlo, giudicarlo.
La complessa dimensione entro la quale viene collocato il racconto, è subito chiarita nella Prefazione del romanzo in cui il Dottor S. fa sapere ai lettori che la "novella" ha uno scopo puramente terapeutico, lontanissimo da qualunque interferenza letteraria. Inoltre si può osservare la ripresa del vecchio artificio narrativo del "manoscritto" utilizzato da una persona "testimone" che, dopo aver letto per primo un testo lo giudica e lo trova degno di essere letto anche da altri, atteggiandosi in un bifronte critico – editore, artificio che comunque qui viene proposto ironicamente. Dunque Zeno non pensa affatto ad un pubblico che dovrebbe conoscerlo e rispettarlo come artista, non ha bisogno di alcun riconoscimento delle sue capacità intellettuali. Al contrario, teme di essere letto perché meritatamente o no, gode del rispetto dovuto al solido borghese che sarebbe spezzato e perduto per sempre se la gente fosse a conoscenza delle sue meschinità. Appunto per questo, a lavoro terminato, il dottore trova la miglior vendetta per i dispiaceri che il suo paziente gli ha procurato pubblicando le sue memorie:"Le pubblico per vendetta e spero che gli dispiaccia" [80]. E se l’etica è estranea al nostro medico esso si sente assolto da qualsiasi debito col paziente offrendosi generosamente di dividere con lui gli eventuali guadagni ricavati dalla pubblicazione del diario: "Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura" [81]. Abbiamo quindi a che fare con un paziente-scrittore e un medico- editore che sul fronte della letteratura danno la loro battaglia decisiva.
Ritornando all’impostazione della scrittura in La coscienza di Zeno, nel successivo Preambolo Zeno viene confrontato con le prime difficoltà del mestiere di scrittore: "Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo. S’alza, s’abbazza ... ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch’esso è il pensiero e che sarebbe suo compito di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la fronte si corruga perché ogni parola è composta da tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il passato. Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L’esperimento finí nel sonno più profondo e non ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno qualcosa d’importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre" [82]. Quindi se all’inizio Zeno entra difficilmente nel ruolo di scrittore essendo continuamente minacciato dal sonno ed assolutamente incapace di capire le "immagini bizzarre"che si formano nella sua mente, man mano gli si affinano le capacità di autoanalisi e dimentica di lamentarsi della sua nuova attività di scrittore. Tutti i ricordi di Zeno saranno presentati dalla prospettiva del presente in un complesso intreccio di fatti accaduti molto tempo prima, alcuni apparentemente senza nessuna importanza e l’intero corpo del romanzo si salda in una ricostruzione soggettiva della vita del protagonista attraverso la memoria. Solo nell’ultimo capitolo Zeno parla finalmente di sé come di una persona finalmente guarita (grazie alla letteratura) immersa nel presente, sicura di se stessa e dei suoi giudizi. Da questa prospettiva la sua evocazione gli sembra un ridicolo miscuglio di menzogne inaffidabili ed illusorie, semplice "finzione" escogitata per accontentare il suo medico. Ormai gli "occhi snebbiati" di Zeno guardano disincantati "nel vero spazio in cui non c’è posto per fantasmi".
Si capisce dunque dalle tre incarnazioni di Svevo nei suoi protagonisti che egli affida alla parola scritta il compito di filtrare e di interpretare la vita, perché solo attraverso la scrittura la vita può essere fissata ogni giorno e può diventare consapevole. Verso la fine della sua esistenza, nel 1928, Svevo riassumerà i compiti della letteratura vista come l’unica modalità di chiarire il rapporto tra arte e vita: "Com’è viva quella vita e come è definitivamente morta la parte che raccontai. Vado a cercarla talvolta con ansia sentendomi monco, ma non si ritrova. E so anche che quella parte che raccontai non è la più importante, si fece la più importante perché la fissai. E ora che cosa sono io? Non colui che visse, ma colui che descrissi. Oh! L’unica parte importante della vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con la chiarezza che io ho tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata. Metà dell’umanità sarà deditta a leggere e studiare quello che l áltra metà avrà annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che cosí sarà sottratto alla vita orrida vera. E se una parte dell’umanità si ribellerà e rifiuterà di leggere le elucubrazioni dell’altra tanto meglio. Ognuno leggerà se stesso. E la propria vita risulterà più chiara o più scura, ma si ripeterà si correggerà, si cristallizzerà. Almeno non resterà qual’è priva di rilievo, sepolta non appena nata, con quei giorni che vanno via e s’accumulano uno uguale all’altro a formare gli anni, i decenni, la vita tanto vuota, capace soltanto di figurare quale un numero di una tabella statistica del movimento demografico" [83].
Dunque la scrittura letteralmente ricostituisce la memoria trasformandola in "coscienza" , offrendo anche l’unica modalità di raggiungere l’u vita reale nica verità possibile all’uomo perché solo attraverso l’analisi della realtà e attraverso láutoanalisi esso arriva a conoscere la verità su se stesso.
Concludendo, anche se la letteratura non è necessariamente una terapia che possa portare al definitivo e totale superamento del "male di vivere", dato che non esiste nessun trattamento applicabile come rimedio uguale per tutti, essa può addolcire o addiritura indurci a dimenticare questo male. In altre parole, se non porta alla felicità, la letteratura potrebbe fornirci almeno, e non è cosa da poco, i mezzi per arrivare alla dignità di conoscere ed accettare l’infelicità e la solitudine.
[1] Bruno MAIER, Italo Svevo, Milano, 1967: 27.
[2] Ibidem: 15.
[3] Italo SVEVO, Opere, Una vita, IV edizione, Milano: Dall’Oglio, 1959: 202.
[4] Ibidem: 926.
[5] Ibidem: 934.
[6] Giacomo DEBENEDETTI, Saggi critici, Milano: Mondadori, 1955: 65.
[7] Ibidem: 74.
[8] Ibidem: 81.
[9] Carlo BO, Riflessioni critiche, Firenze: Sansoni, 1953: 464.
[10] Giacomo DEBENEDETTI, Il romanzo del Novecento, Garzanti, 1971: 540
[11] Italo SVEVO, Novelle, Orsa Maggiore Editrice, Torriana, 1995: 258.
[12] IDEM, Opere,Una vita, cit.: 349.
[13] Ibidem: 322, 624, 659.
[14]
Ibidem: 346.[15] Ibidem.
[16]
Epistolario: 216.[17] Italo SVEVO, Opere, Senilità: 347.
[18] Ibidem: 348.
[19] Ibidem: 583.
[20] Elio GIOANOLA, Storia della letteratura italiana, Milano: Librex, 1987: 512.
[21] Italo SVEVO, La coscienza di Zeno: 52
[22] Ibidem: 41.
[23]
Ibidem.[24] Ibidem: 56.
[25] Ibidem: 366.
[26] Ibidem: 300.
[27] Ibidem: 299.
[28] Ibidem: 296-297.
[29] Ibidem: 299-300.
[30] Ibidem: 306.
[31] Bruno MAIER, Italo Svevo: 119.
[32] Italo SVEVO, Novelle, cit., 1995: 13
[33] Ibidem.
[34] Ibidem.
[35] Ibidem: 16.
[36] Italo SVEVO, Novelle, cit.: 85.
[37] Ibidem: 115.
[38] Ibidem: 112.
[39] Ibidem: 111.
[40] Friedrich NIETZSCHE, La Gaia Scienza, Bari: Editori Laterza, 1991: 34.
[41] Italo SVEVO, Opere,Una vita, cit.: 147.
[42] Ibidem: 256.
[43] Bruno MAIER, Italo Svevo, cit.: 58.
[44] G. PAMPLONI, "Italo Svevo", in Terzo Programma, 2, 1964.
[45] Italo SVEVO, Una vita: 324.
[46] Ibidem.
[47] Ibidem: 316.
[48] Mario LUNETTA nell’introduzione a Senilità, Roma: Newton Compton Editori, 1997: 12.
[49] Italo SVEVO, Opere,Senilità, cit.: 468.
[50] Ibidem: 457.
[51] Ibidem: 498.
[52]
Ibidem: 455.[53] Eugenio LEVI, "Svevo e l’anima ebraica", in Il lettore inquieto, Milano, 1964.
[54] Italo SVEVO, Senilità, cit.: 190.
[55] Elio GIOANOLA, Storia della letteratura italiana, Milano: Casa Editrice Marietti Scuola, 1987: 504.
[56] Italo SVEVO, La coscienza di Zeno: 7.
[57] Giacinto SPAGNOLETTI, Italo Svevo, Milano: Edizioni Accademia, 1978: 85
[58] Italo SVEVO, La coscienza di Zeno, cit.: 113
[59] Ibidem.
[60] Ibidem: 381
[61] Ibidem.
[62] Ibidem: 396.
[63] Ibidem: 412
[64] Ibidem.
[65] Ibidem.
[66] Ibidem.
[67] IDEM, Saggi e pagine sparse, Milano, 1954: 287
[68] Ibidem.
[69] Ibidem.
[70] Ibidem.
[71] Giorgio BARBERI SQUAROTTI, nella prefazione ad Una vita, cit.: 10.
[72] Italo SVEVO , Opere,Una vita: 205.
[73] IDEM, Senilità, cit.: 28.
[74] Ibidem: 29
[75] Ibidem.
[76] Mario LUNETTA nell’introduzione a Senilità: 9.
[77] Italo SVEVO, Senilità, cit.: 190.
[78] Ibidem.
[79] Ibidem.
[80] IDEM, La coscienza di Zeno, cit.: 3
[81] Ibidem.
[82] Ibidem: 4.
[83] IDEM, Saggi e pagine sparse, cit.: 372.
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3 (2001), edited by Şerban Marin, Rudolf Dinu and Ion Bulei, Venice, 2001No permission is granted for commercial use.
© Şerban Marin, November 2001, Bucharest, Romania