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Dal superuomo dannunziano

all’antieroe di Guido Gozzano

 

Anca Iovan,

Università di Cluj

 

        L’“immaginifico” D’Annunzio è il creatore dell’eroe inteso come superuomo  cui tutto è lecito, personaggio in grado di costruire la propria vita come un’opera d’arte  e può fungere da modello per qualsiasi persona eccezionale in cerca di una nuova modalità d’espressione. Questo è possibile perché al canone naturalista di virtuale impersonalità, D’Annunzio oppone l’invasione assolutà dell’io a tutti i livelli dell’espressione artistica, nell’intento di creare un personaggio, che illustri l’illusione dell’onnipotenza della parola poetica. Entro il mito dell’artista come persona d’eccezione D’Annunzio crea un eroe dallo sfrenato protagonismo che incarna fino all’esasperazione l’estetismo decadente nell’identità assoluta di vita ed arte.

        Dalla parte opposta, Gozzano, anche se nato come poeta all’ombra di D’Annunzio, prima come imitatore convinto, poi come ironico oppositore, rovescia sistematicamente le caratteristiche del superuomo dannunziano. Anche se l’estetismo contrassegna tanto l’opera del Vate quanto quella del torinese, nelle loro opere esso si manifesta in modo opposto. D’Annunzio aveva tentato a tutti i costi di trasfigurare la materia della vita in arte pura, nell’intento di dimostrare che l’intensità della Vita si rivela attraverso il Bello, mentre Gozzano, afflitto dalla “tabe letteraria”, ha ridotto la Vita a Letteratura. L’estetismo di Gozzano è la cifra della sua impossibilità di aderire alla vita. Inoltre l’ amore - odio del torinese per il “demone estetizzante”  lo porterà a riferirsi sempre, volutamente o meno, alla letteratura del “maestro avverso”. L’analisi del passaggio dal superuomo di D’Annunzio all’antieroe di Gozzano chiarisce senza dubbio questo paradossale “odio amore”che contrassegna l’intera produzione letteraria dell’ultimo.

 

        Ufficialmente il superuomo nasce in Italia nel gennaio dei 1895 quando nel  Convito di Adolfo  De Bosis, appare la prima puntata de “Le vergini delle rocce”, romanzo elaborato dopo l’incontro di D’Annunzio con la filosofia di Nietzsche. In realtà la conoscenza di Nietzsche da parte di D’Annunzio risale al 1892 quando, in un’articolo del 25 settembre sul Mattino, questi lo cita per la prima volta. Poi, il 1 aprile 1894, nella dedica del “Trionfo della morte” a Michetti, D’Annunzio annunzia l’apparizione del superuomo nella sua arte. Comunque, è solo dalle “Vergini delle rocce” che questo superuomo troverà la sua prima compiuta elaborazione.

        Tuttavia per fare un possibile ritratto del superuomo bisogna prendere in considerazione almeno tre romanzi di D’Annunzio, romanzi che ci danno tre prospettive, tre punti di vista diversi che permettono di accostarci alla personalità complessa del superuomo. Se “Le vergini delle rocce” si possono leggere come un manifesto politico ed ideale del superuomo, l’anteriore “Trionfo della morte” come il suo manifesto sessuale e “Il fuoco” ne sarebbe il manifesto letterario. Qui D’Annunzio dimostra magistralmente la sua capacità di intrecciare le parole e di suscitare le “immagini” che fanno veramente di lui quello che la critica ha chiamato l’“Immaginifico”. Tutti e tre protagonisti, trasparenti “alter – ego” del “super-scrittore”, convergono nel ritratto di un uomo nuovo, “al di là del bene e del

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male”, che dimostrano, se ancora necessario, il modo superficiale in cui D’Annunzio ha interpretato le teorie del superuomo di Nietzsche.

        Anche se tradizionalmente per riferirsi al superuomo dannunziano si pensa prima di tutto a Giorgio Aurispa, Claudio Cantelmo e Stelio Effrena, in realtà esso traspare non solo dai romanzi citati, ma anche dalle opere teatrali di D’Annunzio e da una parte della produzione poetica.

E sarà appunto da quest’ultimo genere, cioé dalla poesia, che preleveremo il nostro “campione” per studiare il Superuomo dannunziano nella sua opposizione, o meglio nella sua degradazione gozzaniana. Questo non solo perché il paragone tra i due superuomini è facilitato dalla loro comparsa all’interno dello stesso genere letterario, ma anche perché sentiamo l’obbligo di approffitare del fatto che ci troviamo in una situazione privilegiata in cui, con l’Ulisse dannunziano e quello gozzaniano, possiamo confrontare due raffigurazioni dello stesso eroe consacrato dalla mitologia. In più attraverso lo studio delle due incarnazioni di Ulisse possiamo vedere anche come il mito continuamente ripreso di Ulisse dimostra che la letttura coinvolge costantemente l’universo della letteratura, nella convinzione che in  ogni singola pagina non si trova solo quello che un autore apparentemente vuole dire in un  determinato momento, ma anche l’esperienza di tante altre pagine scritte prima.

 “L’Olimpo rinasce ogni giorno”[1]. Con queste parole Umberto Eco vuole dire che l’antica storia di dei e di eroi ad ogni epoca comunica qualcosa di diverso, ad ognuno di noi suggerisce nuovi significati, diverse interpretazioni.Questo perché la tradizione letteraria è un passato rinnovato dal presente e nello stesso tempo il presente è sempre sostenuto dal passato.Infatti, il patrimonio comune della tradizione letteraria è “saccheggiato”da tutti gli scrittori, che ne prelevano i materiali con i quali costruiscono le loro opere, in una scienza combinatoria inesauribile. É  appunto questa la prospettiva in cui dobbiamo pensare ai cosiddetti “plagi” di D’Annunzio che sfruttano in modo indiscriminato la tradizione, appropriandosi strutture già consacrate dai suoi illustri predecessori, o all’”intossicazione letteraria”di Gozzano che non può letteralmente parlare  se non in forma metalinguistica, cioé con parole ed espressioni già consacrate dai suoi predecessori, attraverso la distanza ironica della citazione. Ma è caratteristica specifica della letteratura la capacità di autorigenerazione, la capacità di rendere il suo materiale  sempre originale benché costantemente riusato; ogni scrittore prima di essere creatore di opere originali è un “consumatore” delle opere altrui, opere dalle quali si lascia influenzare più o meno consapevolmente, costruendo con elementi vecchi un “tutto” assolutamente nuovo, in un tempo sempre diverso, per gente perennemente diversa.

        Un “elemento ”di questo tipo potrebbe essere il mito di Ulisse che è stato un punto di riferimento costante lungo l’intera tradizione letteraria italiana  per Dante, Foscolo e Leopardi, per Pascoli, D’Annunzio e Gozzano, e anche per Saba, Ungaretti, Moravia e Savinio. Non è certo possibile analizzare tutte le ipostasi  dell’eroe greco, nè possiamo esaminare a fondo quei fattori di ordine storico, culturale, letterario che hanno determinato l’ampia gamma di toni che caratterizza queste “variazioni sul tema”.

        Possiamo invece domandarci perché proprio Ulisse abbia stimolato tutti questi scrittori a “gareggiare”con Omero. Forse perché Ulisse può essere nello stesso tempo l’eroe del ritorno, della nostalgia per la patria lontana, della fedeltà alla moglie e al figlio, ma anche l’uomo temerario che mette a repentaglio, a volte sconsideratamente, la vita propria e

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dei compagni. In più, tra le qualità di Ulisse spicca l’intelligenza, qualità neutra, che può essere vista tanto come pregio da chi voglia esaltare in lui l’uomo padrone del proprio destino, quanto come qualità negativa che spinge a troppo desiderare ed osare, arrivando ad includere perfino aspetti di doppiezza ed opportunismo.

        Una tale versatilità dell’eroe omerico  non poteva certo passare inosservata a D’Annuzio, che in “Maia(1902) primo libro delle “Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi” aveva proposto Ulisse come modello di un’umanità “superumana”, di cui il poeta amava considerarsi cantore e simbolo. Infatti Ulisse - l’eroe per eccellenza, ma qui abbondantemente assunto e rivisitato attraverso la reinterpretazione dantesca - è diventato per D’Annunzio il modello nietzcheano del superuomo, centrato su se stesso, non solo capace di eprimersi ma anche felice di farlo. Cosí come appariva nelle “Vergini delle rocce” il superuomo è caratterizzato in primo luogo dall’energia e dalla forza (“le antiche forze barbare”) che gli consentono di afffermarsi come colui che “indica una meta certa e guida i seguaci a quella”[2]. Visto cosí il superuomo è Ulisse stesso. Questo anche perché “la forza è la prima legge della natura, indistruttibile, inabolibile”[3] ed essa si manifesta come volontà di dominio, sprezzo del pericolo, capacità di aderire al mondo con tutti i propri sensi. In effetti “il mondo è un dono magnifico largito dai pochi ai molti, dai liberi agli schiavi”[4] e proprio per questo Ulisse diventerà per D’Annunzio il maestro di vita, quello che senza alcuno sforzo e  senza proferire una sola parola insegnerà al poeta  a vivere da eroe.

        Walter Binni afferma, considerando tutti questi aspetti, che “Laus vitae” ha un valore preparativo, in quanto costituisce la trasposizione su un piano veramente poetico, concreto dei tentativi disordinati della scrittura superomistica: ”C’è nella Laus vitae il massimo sforzo per raggiungere la musica e la persuasione mediante l’impeto della volontà dell’io direttamente sfrenato; non c’è più il ridicolo del superuomo come personaggio fittizio; c’è il tragico di una autobiografia folle di volizioni extraestetiche. É il culmine di una poetica che punta  sull’effeto, un effetto più artistico, un accento di rivoluzione, la risposta ad un’attesa di religiosità insoddisfatta”[5].  La poesia è vista in effetti attraverso il cannocchiale rovesciato del superuomo come atto di affermazione della quadriga imperiale:

 

”Volontà, Voluttà

Orgoglio, Istinto”[6].

 

Inoltre L’Ulisside arriva a D’Annunzio attraverso una tradizione che converge  nell’immagine di un uomo che subordina la pazienza, la rinunzia, il coraggio a uno scopo di conoscenza. Dunque, Ulisse diventa nell’interpretazione dannunziana un esempio di vitalità e fatica inesauribili, “spirito insonne” che assorbe in sé la suprema connotazione dantesca dell’esperienza conoscitiva. Le citazioni da Dante (l’esperienza “del mondo senza gente”, il divenir “del mondo esperto, e delli vizi umani e del valore”) saranno trascritte in chiave tipicamente dannunziana di efficienza vitale. D’altronde, D’Annunzio mai afflitto da alcun complesso di inferiorità  si considera “fratello maggiore e minore di Dante” e non mira a niente meno che ad affermare la supposta affinità tra lui e il sommo poeta: ”Uscito è

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dalle mie fornaci il solo poema di vita totale - vera e propria << Rappresentazione di Anima e di Corpo >> - che sia apparsa in Italia dopo la “Commedia”. Questo poema si chiama Laus Vitae: è composto con un’arte demoniaca come quello che foggia gli specchi magici; e opera per continua metamorfosi su le immagini del mondo visibile trasmutandole in segni luminosi del mistero interiore. E il ditirambo delle origini e delle profondità. L’anima vi si agita nel canto come una Menade che abbia rapito il segreto a Orfeo prima di lacerarlo”[7]. La critica ha spesso citato la definizione “ditirambo delle origini e delle profondità” che D’Annunzio dà delle sue Laus Vitae, ignorando invece  quell’incidentale “Rappresentazione di Anima e Corpo” che sembra forse troppo enfatico, ma che caratterizza invece il presuntuoso e superbo stile del Vate.

Al di là dell’alto e nobilitante termine di paragone, le Laudi, con il loro voler essere un “poema totale”, compendio sistematico della visione  superumana del mondo,  si propongono di evidenziare l’esperienza iniziatica che D’Annunzio, vi compie.

La differenza sarebbe che mentre il viaggio di Dante fu ispirato e guidato dalla Grazia Divina, quello del vate, anche se rappresentato in forma di laude, non ha niente a che fare con la divinità, ma, al contrario esibisce e celebra la propria persona assegnando un valore simbolico all’esperienza individuale, sí da proporla come modello superlativo ed assolutizzante della propria eccezionalità. Dunque, anche se l’Ulisse dannunziano sarà evocato nella sua stretta parentela con l’ avo dantesco attraverso un linguaggio innestato su una lingua che farà esplicito richiamo all’”Inferno”, ci saranno anche due differenze notevoli. Dante aveva evidentemente rinnegato l’eroe per la sua prontezza nel lasciare la moglie, il figlio e le sue responsabilità sociali per il suo “folle volo”, D’Annunzio invece, da poeta blasfemo, esalta la figura di Ulisse che arde nell’Inferno invece di quella di Cristo in Galilea :

 

“<Nè dolcezza di figlio>...O Galileo

men vali tu che nel dantesco fuoco

il piloto re d’Itaca Odisseo”[8].

 

D’altronde non deve meravigliare questo atteggiamento anticristiano di D’Annunzio, dato che il suo superuomo, potrebbe definirsi come  fratello minore di Zarathustra di Nietzsche. Entrambi considerano che la maggiore espressione  della morale degli schiavi  si ha con il cristianesimo, mentre ”gli uomini superiori, lasciando agli ingenui i tentativi di migliorare le sorti della moltitudine e di praticare la virtù cristiana della carità, punteranno tutti i loro sforzi a distruggerla”[9].

Se Dante aveva presentato Ulisse nella sua tragica decisione fatale, D’Annunzio cambia questa tragicità in qualcosa che ha ben poco della disperata e contradditoria condizione dell’eroe che si perde nel “folle volo”, peccando di hýbris. L’approccio è assolutamente egocentrico perché Ulisse nelle sue vesti di Übermensch  non è solo il medium tra Nietzsche e D’Annunzio, ma  anticipa anche il vero eroe del poema, cioé D’Annunzio stesso. Questi, esaltando Odisseo, non fa altro che esaltare la propria persona, colui che viaggiando verso una meta precisa verso “la cuna dei padri” intende recuperare il mito incorrotto della poesia che

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all’impatto con il presente avvilito ha perso ogni dignità. Cosí si spiega la necessità di un’epifania che porti ad una totale assunzione del mito, ma, dato che

 

“Tutto fu ambito

tutto fu tentato”,

 

il mito è possibile solo per chi  trasforma se stesso in mito. Perciò a dispetto del nichilismo dei tempi e dell’impatto con un paese che non ha saputo conservare e coltivare la propria grandezza, Ulisse dovrebbe insegnare a D’Annunzio come reinventare l’Ellade mitica - simbolo della purezza e del sogno antico – tentando di ricomporre la frattura tra Vita e Arte. La coincidenza di vita e d’arte, di azione e di scrittura si spiega attraverso la trasformazione dell’universo mitico in un inventario di immagini e di luoghi retorici funzionalizzati a soluzioni di tipo pratico. Secondo Angelo Jacomuzzi il mito di Ulisse “giungeva a D’Annunzio come un mito particolarmente attrezzato per farsi, nella sua intrepida destinazione alla conoscenza, indice d’aristocrazia effettivamente irreducibile e strumento critico e alternativo della norma, della convenzione, del comportamento e dell’assetto ideologico borghese.”[10]

Il mito diventa dunque un mezzo di trasmissione ideologica nel senso che il Vate lo trasforma in un programma di rivincita sociale che si affida alla “potenza e allo splendore dei suoni” attraverso la parola poetica, vera “mitica forza”. D’altronde, nel suo periodo superomistico, D’Annuzio non nasconde la sua intenzione di usare l’arte come azione, come unica  forma di azione concessa dal tempo in cui vive, e dalla deludente realtà che rende meschino e  nega il sogno. Infatti, questo percorso iniziatico, trasfigurato in un viaggio alegorico-morale all’insegna della riconciliazione tra passato illustre e presente prosaico, sarà un pretesto per affermare la dignità e l’unicità dell’eroe nella negazione dell’”errore del tempo”. Se ricordiamo che per Mircea Eliade il mito era il luogo dove il presente, il passato, il futuro vengono a coincidere, consentendo la continua reversibilità della catena temporale, possiamo capire meglio il modo in cui D’Annunzio intende riattualizzare i miti e i culti dell’Ellade nell’intento di creare un “mito novello” che abolisca l’”errore del tempo”. Per Giancarlo Lancellotti[11] nella “Laus Vitae”, con l’istaurazione di un mito che implica un ciclo cosmico, il tempo profano è abolito ed ogni istante è vissuto “sotto la specie dell’Eterno”[12]. Dunque, Ulisse, eroe atemporale, ha proprio il compito di affermare la propria unicità e di insegnare ai mortali come vivere sotto questa specie dell’Eterno :

 

“Sii solo della tua specie

e nel tuo cammino sii solo

sii solo nell’ultima altura”.[13]

 

Mai si è visto un Ulisse più solo e più incompreso, ma non per questo ha perso la sua nobiltà. Anche in questo caso D’Annunzio riceve in consegna la concezione nietzscheana, secondo la quale “l’essenza del nobile è la sovranità interiore. Egli è l’uomo libero, più forte delle cose, convinto che la personalità  supera in valore tutti gli attributi

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accessori. Egli è una forza che si governa, una libertà che si afferma e si regola. Egli ha l’occhio infallibile quando guarda in se medesimo. E in questa autocrazia della coscienza è il principal segno dell’aristocrate nuovo”[14]. Ecco, dunque, l’immagine dell’”aristocratico” Ulisse di fronte “all’aristocrate nuovo” che sarebbe D’Annunzio stesso, l’unico a intendere la vera misura della nobiltà dell’eroe. Il ritratto puramente fisico di Ulisse rimanda automaticamente  alle sue caratteristiche morali  che esprimono forza e grandezza d’animo:

 

”Reggeva

ei nel pugno la scotta

spiando i volubili venti,

silenzioso; e il pileo

testile dei marinai

coprivagli il capo canuto

la tunica breve il ginocchio

ferreo, la palpebra alquanto

l’occhio agguzo: e vigile in ogni muscolo era l’affaticata

possa del magnanimo cuore”[15].

 

Alla vista di Ulisse D’Annunzio cerca invano di fermare l’attenzione dell’eroe chiedendo al “re degli uomini, eversore di mura” (espressione che è una trasposizione dell’epiteto che spesso Omero dà ad Ulisse: ”espugnatore di città”) di essere trattato come pari, in quanto ambedue sono “liberi uomini”- e qui la posizione della parola “liberi” indica l’orgoglio del poeta di essere libero di scegliere tra vita e morte, di decidere del proprio destino. Ma l’eroe lo disdegna, quale fanciullo ignaro, fatto che ferisce profondamente l’orgoglio smisurato del poeta. Perciò, chiede fieramente di essere messo alla prova:

 

”E se tendo

l’arco tuo grande

qual tuo pari prendimi teco”[16],

 

l’arco significa forza, costanza, coraggio, attributi assolutamente essenziali per un eroe, che cosí come ci viene presentato ne “Le vergini delle rocce” sarebbe caratterizzato in primo luogo dalle “antiche forze barbare”.[17] Se invece non sarà all’altezza il poeta preferirebbe essere confitto alla prua della nave di Ulisse, pena terribile, che D’Annunzio patirebbe serenamente pur di rendersi degno di un solo  sguardo dell’eroe greco. Il pescarese è convinto di aver guadagnato il titolo di eroe e il riconoscimento dello statuto del suo eroismo da parte di Ulisse potrebbe dargli la conferma della sua unicità. A questo punto Odisseo, incarnazione dell’eroismo e della volontà fine a se stessa,

 

 “Si volse men disdegnoso

 a quel giovine orgoglio

chiarosonante nel vento[18]”.

 

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            Il risultato è come “una ferita in mezzo alla fronte” e l’aver meritato il simbolico sguardo di Ulisse rende il poeta subito diverso e lontano dai cari compagni. É come un crisma eroico che gli imprime una fiera virtù di dominio e lo porta ad una signoria spirituale sui compagni che temono che un giogo intollerabile stia per cadere sul loro capo. Dopo la conferma  della sua eccezionalità, il poeta potrà camminare “nel deserto / delle moltitudini ansanti”[19] potrà cioé mescolarsi alla vita sociale e politica del suo tempo.

Dobbiamo leggere quest’episodio come costruzione letteraria del distacco morale che il poeta operò sui contemporanei, in quanto si considerava “maestro e incitatore di virtù civili”. Il poeta è talmente convinto della sua totale superiorità che le molteplici maschere adottate e i diversi eroi evocati saranno sempre destinati ad essere trascritti in un registro di presa di possesso e di accumulazione di sensazioni e di efficienza vitale. Il nuovo eroe si presenta come colui che non conosce né limiti né divieti e nel suo delirio sfrenato di potenza può esclamare:

 

“O mondo,sei mio!

Ti coglierò come un pomo,

ti spremerò alla mia sete,

alla mia sete perenne.”[20]

 

D’altronde, D’Annunzio aveva aperto la sua “Laus Vitae” usando la stessa metafora nella declamazione:

 

“O vita, o, vita

dono terribile del dio

[...]

dono dell’Immortale

alla mia sete crudele”[21].

 

Data la “sete perenne” o “crudele” che unisce le due ipostasi eccezionali del superuomo (D’Annunzio e Ulisse), l’“Immaginifico” osa considerarsi pari all’eroe e dichiara fieramente che:

 

“Se un re volessimo avere

te solo voremmo

per re, che sai mille vie !

Prendici nella tua nave

tuoi fedeli insino alla morte”[22]

 

A questo punto è impossibile non pensare ad un altro “eroe”, Federico Nietzsche, che nei versi delle “Laudi”  viene ridotto, come nel caso di  Ulisse, alla misura e alle sembianze proprie di D’Annunzio:

 

Quando udii la voce

Di lui solo io solo,

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dal suo esglio nel mio esiglio,

dissi: Questi è il mio pari”[23].

 

Le “laudi” di D’Annunzio cantano dunque in modo assolutamente disinibito tutte le ”facce” dell’eroismo, che si tratti di eroi consacrati della storia lontana, o di personalità considerate “eroiche” dal poeta stesso. Comunque interessato all’eccezione, al genio dell’”exemplum” al di là della norma e della normalità, il pescarese fa di Ulisse il segno di una vita diversa, che va  vissuta pienamente, ignorando qualsiasi ostacolo che possa contrastare il cammino dell’eroe. Il Vate considera che la vera essenza dell’eroismo consiste nella capacità di vivere incontrastato e sereno il proprio destino,

 

”contra i nembi,contra i fatti

contra gli iddii sempiterni

contra tutte le Forze

che hanno e non hanno pupilla

che hanno e non hanno parola”[24]

 

Inoltre, D’Annunzio può riconoscersi nella figura di Ulisse, con lui si può identificare in un superumano atto di superbia. Tipico per l’inguaribile narcisismo  del Vate è il fatto che si lancia in un’egolatrica esaltazione della propria persona, per poi ostentare quella posa  di “titano solitario, infallibile”.

Nel nome  della diversità, il mito di Energèia sul piano collettivo è subordinato ad un’interpretazione deviata del presente degenerato in quanto si propone la nobilitazione delle masse, proposito che si concretizza nel conseguente sconvolgimento dell’ordine aristocratico. In più, la polemica del superuomo non si indirizza solo contro l’”arroganza della plebe”, ma anche contro la nuova borghesia dell’industria e del commercio e contro i principi di libertà promossi da essa. Tuttavia, nella sua esaltata e velleitaria aspirazione alla grandezza, D’Annunzio ha bisogno di farsi adorare, di sentirsi ammirato dalla “plebe”, dal popolo che cosí apertamente sprezza. Ma le plebi “resteranno sempre schiave, avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli”[25],  perciò D’Annunzio vorebbe assoggettarsele usando come arma la propria arte.

Perciò si tratta di una lettura riduttiva della modernità, una lettura contraddittoria, fortemente impegnata nella costruzione di miti che permettessero di assevire le energie umane non solo alla logica dell’arte, ma soprattutto alla logica dell’aggressività. In questo senso, l’invito finale del

 

“Riprendi il timone e la scotta;

ché necessario è navigare, vivere non è necessario”[26]

 

vero leitmotiv del poema – aquista le valenze di uno slogan propagandistico. Dunque, solo la forza permetteva a D’Annunzio di accostarsi alla modernità e perfino di esaltarne la superiorità rispetto al passato, mentre l’arte ovvero la parola poetica gli consente di aprire vie inesplorate dalla “plebe”, per consegnare alla posterità un modello unico di eroismo

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impossibile da emulare dalla gente comune.  E. Raimondi[27] ritiene che per D’Annunzio la letteratura “aspira a un modo di conoscenza; ma ciò che essa rivela è soltanto l’accrescimento, la forza d’un io solitario”, Perciò, “Maia” si chiude circolarmente nel nome di un Gabriele-Ulisside proiettato nell’assoluta esperienza individuale.

 

“E io tacqui

In disparte, e fui solo;

per sempre fui solo sul Mare.

E in me solo credetti.

Uomo, io non credetti ad altra

virtù se non quella

inesorabile di un cuore

possente. E a me solo fedele

io fui, al mio solo disegno”.[28]

 

In questo modo si emette la nota più forte e stridente della convinzione che questa sia la vera essenza dell’eroismo. Tra il superuomo nietzschiano e l’eroe dannunziano c’è una notevole differenza: se in Nietzsche abbiamo a che fare con una figura filosofica e sofferta che si ritira nella propria solitudine perché è incapace di accettare e di adeguarsi al proprio tempo, in D’Annunzio il superuomo è inseritissimo nel suo tempo anche se pretende di sdegnarlo, non essendo altro che una celebrazione narcisistica ed ipertrofica dell’io  del poeta-vate. Secondo la De Donato, in D’Annunzio “il superuomo è amore dell’apparenza, della posa, del bel gesto, dell’idolatria della forma e della parola [...]. Il  superuomo è rimozione della realtà. E le sue immagini sono smaglianti e fittizie, il suo olimpo di dei e di eroi è inesorabilmente di cartapesta , nonostante i bagliori rutilanti, non già perché tentano l’inesplorato, in un novello viaggio verso l’ignoto, bensí perché azzardano un surrettizio recupero dell’irrecuperabile, in un elusivo e sproporzionato tentativo di far corrispondere il gesto , sempre ridondante e magniloquente, ad una situazione prosaica e angusta quale quella dell’Italia umbertina.”[29]

Infatti, se parliamo di un D’Annunzio “sproporzionato”, non possiamo dimenticare il fatto che l’eroismo dell’aggressività, cantato con tanta convinzione dal Nostro, degenerò nel fascismo che più in là avrebbe putroppo provocato tanti orrori, quasi nella conferma di quello che secondo W. B. Stanford è “il giudizio di Dante che alla fine di questa via sta la catastrofe”[30].

 

Meno catastrofica se non addiritura divertente è la prospettiva gozzaniana  sul mito di Ulisse. Per D’Annunzio l’arte era un modo di persistere al di là del tempo storico, al di là della moda, o di un pubblico particolare mentre l’artista era una persona eccezionale che si costruiva una “vita inimitabile” atta ad ispirare il pubblico. Per Gozzano, invece, tutto cambia: la sua esperienza nasce dentro l’esperienza dannunziana, prima come imitatore convinto, poi come ironico oppositore. La sua poetica non vuole attuare la poesia della

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propria esistenza, perché quest’esistenza non ha niente di eroico e non può fungere da modello, da lezione di vita.

Da questo punto di vista Gozzano è colui che meglio di tutti ha saputo rovesciare il mondo eroico del superuomo dannunziano in un  mondo tutto suo, rappresentato in una chiave ironica e compiaciuta. La reazione di Gozzano di fronte alle “Laus Vitae” non è affatto sorprendente, perché una volta superato il primo periodo di aperta imitazione dell’”inimitabile”, Gozzano mira deliberatamente ad ottenere toni minori, ostentatamente ironici se non addiritura parodici, per rovesciare quella squisita poetica ormai risentita come artificiosa, enfatica ed inautentica.      

Dunque quello che in D’Annunzio era stile oratorio, ”eccesso della parola” e quindi arte assoluta, in Gozzano si trasforma in un dialogo prosastico col pubblico, fino a sfiorare una condizione parodica del discorso. Chi compone una parodia ha la libertà di aggiungere e togliere ai contenuti dell’ipertesto quegli aspetti che egli considera necessari per mettere in ridicolo l’argomento affrontato. Secondo Gerard Gennette[31] l’autore di una parodia deve sostituire ad un soggetto “serio” un altro “leggero”, mantenendo per quanto possibile le espressioni dell’autore parodiato; il riso nascerà dalla discordanza tra stile “alto” ed argomento “basso”. Inoltre, la parodia può essere diretta, non solo verso i contenuti di una certa opera letteraria, ma anche verso lo stile impiegato per trattarli, o verso un intero genere letterario, ritenuto non più rispondente alle mutate esigenze culturali, alla visione del mondo divenuta dominante.

Ed è proprio questo il caso di “Ipotesi”: prendendo spunto dalla proposta dannunziana di un Ulisse “spirito insonne” e usando i mezzi proposti da Francis Jammes, Gozzano riesce a costruire un contro-canto dedicato ad un anti-eroe, componendo la propria celebrazione di un mondo banale, provinciale e monotono, attraverso la quale intende demolire la concezione della “vita inimitabile”,

 

”poi che la vita

è fatta di semplici cose e non d’eleganza forbita”[32].

 

Infatti l’”Ipotesi” ha come tema il vagheggiamento di una vita tranquilla e borghese, in provincia, accanto ad una moglie semplice ed ignorante. Quest’ultima, colpita dall’espressione “Re di Tempeste” usata dal poeta e dai suoi amici “letterati” nelle conversazioni di dopo cena, domanderebbe incuriosita :

 

”Che cosa vuol dire, che cosa faceva quel Re di Tempeste?”

 

In questo modo è inserita nel poemetto la “favola”di Ulisse, pronunciata “tra un riso confuso (con pace d’Omero e di Dante)[33]. L’intento ironico è subito palese e Gozzano svolge una vera parodia di Ulisse sotto forma di filastrocca in una reazione aperta contro l’esaltazione dannunziana del valore della forma, dello stile, della preziosità e della raffinatezza. Il pescarese è un creatore di parole e di versi e, nello stesso tempo, un manipolatore della tradizione. Egli vuole dimostrare il proprio distacco attraverso la sua disponibilità ad ironizzare e parodiare i temi più seri della tradizione classica.

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Gozzano sarà veramente un manipolatore della tradizione perché è convinto dell’inadeguatezza dei miti per la realtà contemporanea. Perciò  egliditrugge la maschera eroica dei suoi protagonisti rivelandone la dimensione quotidiana e “bassa”. Con il suo atteggiamento comico e parodico, Gozzano sembrerebbe voler dimostrare che il ruolo della letteratura è ormai di respingere un mito insufficiente, diventato irrilevante in una società storicamente mutata, una società che ha smarrito qualsiasi ottimismo e non é più capace di riconoscersi nell’eroismo del passato. La definizione che F. Ferrucci dà del comico potrebbe chiarire ancora meglio le intenzioni  del prosaico Gozzano: “Il comico è il conflitto divenuto risibile e perciò stesso tranquillizzante”[34]. A differenza dell’atteggiamento trionfalistico di D’Annunzio, che, convinto della propria superiorità, vorrebbe aderire al mondo con tutti i propri sensi, in Gozzano riesce subito palese un sentimento serio di smagata e dolente rinunzia, sintomo del suo “lento male indomo” che poi viene spiegato dalla sua “spaventosa chiaroveggenza” e dalla “perplessità crepuscolare”.

Gozzano non vuole più nobilitare la vita, non intende innalzarla e trasformarla in arte, ma, al contrario si diverte a trasformarla in una testimonianza disincantata dell’incapacità dell’uomo contemporaneo di adeguarsi ad una realtà alla quale manca qualsiasi nobiltà. La sua arte non è nient’altro che un’ironica messa in ridicolo dei valori e delle idee del poeta-vate, nell’intento di degradare tutti i tòpoi più clamorosamente positivi della tradizione dannunziana: Dio, Patria, Umanità, ovvero “delle parole che i retori t’han fatto nauseose”.     

Comunque, la ripresa parodica di Ulisse non sarà assolutamente riducibile nei limiti della parodia dannunziana, perché Gozzano pratica una poetica di assoluta libertà nella sperimentazione di ogni “ispirazione” poetica che si concretizza in modo indiscriminato, quasi in forma di saccheggio senza regole del patrimonio non solo dannunziano, ma anche omerico, dantesco o pascoliano. Infatti si tratta della parodia di un mito che lungo la storia letteraria è stato ripreso varie volte, subendo tanti cambiamenti di “carattere”, fino a  trasformarsi in una vera e propria parabola di storia e di cultura europea.

Perciò non è possibile delimitare nettamente le intenzioni di Gozzano, dato che tra “L’ipotesi” e gli altri lavori ispirati dal mito di Ulisse si stende un’ampia rete di relazioni, di rimandi, di contrapposizioni che rendono difficile l’intento di chiarire in che misura si tratta di parodia dell’Ulisse dannunziano o di parodia dell’Ulisse omerico,  dantesco, o pascoliano.

L’analisi puntuale del poemetto ci può dare, senza dubbio, un’immagine abbastanza chiara di questa operazione poetica, volta alla consapevole banalizzazione del superomismo di Ulisse. L’eroe è visto nella prospettiva della mediocrità borghese in una ambigua commistione  di registri ora alti ora bassi, tipica del il mondo poetico gozzaniano.

La “favola”di Ulisse comincia, insomma, cosí come deve cominciare una favola, cioé utilizzando l’imperfetto:

 

”Il Re di Tempeste era un tale

che diede col vivere scempio

un deplorevole esempio

d’infedeltà maritale

che visse a bordo d’un yacht

toccando tra liete brigate

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le spiagge più frequentate

dalle famose cocottes.”[35]

 

L’appellativo “Re di Tempeste risale ad Omero che usò questo nome per designare l’eroe spesso rappresentato nell’Odissea impegnato a lottare contro le tempeste marine. Sotto lo stesso nome di “Re di Tempeste”  troviamo Ulisse per due volte anche in “Maia” di D’Annunzio: ”odimi, o Re di Tempeste”[36] e  “io ti leggerò l’avventura / del Re di Tempeste Odisseo”[37]. La deformazione parodistica riesce subito chiara nella menzione “vivere scempio” del famoso eroe ridotto ironicamente alle dimensioni di “un tale”, mentre la sua nave diventa uno yacht e le donne da lui amate non sono altro che volgari prostitute. La scelta dello yacht non è affatto casuale se la consideriamo come un’allusione divertita alla crociera che D’Annunzio aveva veramente compiuto qualche anno prima a bordo di una simile imbarcazione insieme ad Eduardo Scarfoglio ed altri amici, nelle acque della Grecia. Inoltre, l’eroe del ritorno che nell’Odissea aveva saputo sottrarsi al fascino di Calipso è diventato un dongiovanni qualunque, un mondano playboy persuaso solo dalla vecchiaia ad interrompere il viaggiare scioperato lontano dalle responsabilità familiari e ad invocare il perdono della “consorte fedele”. Dunque l’originale storia d’amore, di costanza e di fedeltà si è trasformata in Gozzano in una storia d’amore e di tradimenti. Fin qui c’è parodia di Omero, alla quale segue quella di Dante, evidentissima nelle riprese puntuali di espressioni dantesche:

 

“Ma né dolcezza di figlio

né lagrime, né la pietà

del padre, né il debito amore”[38]

 

seguite da “la sua dolce metà” invece di “lo qual dovea Penelope far lieta”- in un tipico esempio di accostamento che “fa cozzare l’aulico col parlato”[39] per riprendere la famosa definizione che Montale dà dello stile gozzaniano.

Ma, accanto alla ripresa di queste espressioni dantesche c’è anche un evidente stravolgimento ironico a livello dei contenuti. Per Dante la motivazione dei viaggi di Ulisse pur “folle”, era tuttavia nobile. Nel caso di Gozzano, la motivazione della “speranza chimerica” che spinge Ulisse ad intraprendere una nuova avventura è completamente diversa. Non c’è più il desiderio di seguire “virtute e canoscenza”, perché al mito del sapere si è sostituito quello del denaro. Viene cosí messa a nudo l’ideologia dell’affarismo e del successo tipica della cultura occidentale contemporanea, ideologia che viene a sostituire il sublime e il gratuito del gesto eroico. Nella sua “orazion picciola” destituita del vigore e dlla valenza drammatica per quel ritmo cantilenante di filastrocca a rima incrociata,  L’America, la California o il Perù sono la meta del viaggio di Ulisse gozzaniano, perché è la terra della facile fortuna.

Dunque, il naufragio di Ulisse è provocato proprio dall’avidità di “danari, molti danari”. Questo naufragio accade non a caso dopo aver visto “un’alta montagna selvaggia”

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il corrispettivo della dantesca “montagna bruna [...] alta tanto”. Dopo di che, sempre in maniera dantesca

 

“Il mare sovra la prora

si fu rinchiuso in eterno”

 

la favola finisce in linguaggio fanciullesco:

 

E Ulisse piombò nell’Inferno

dove ci resta tuttora”[40]

 

conclusione nella quale accade quello che Bachtin considera tipico per una parodia cioé il personaggio del mito “è fatto morire comicamente”[41].

Possiamo dire che tuttl l’espisodi si articola in un tessuto linguistico complesso in cui echi danteschi si intrecciano ad echi petrarcheschi e dannunziani, per poi incrociarsi con i toni ”gozzaniano – fanciulleschi”. Gozzano parte dalla premessa che tutto è già stato detto e non rimane altro che tesaurizzare e riorganizzare  i modi e le forme già consacrate della tradizione in una poesia che si definisce come ”ozi vani di sillabe sublimi”. Si è spesso parlato dei “plagi” del Nostro, ma essi fanno parte del gioco gozzaniano e vengono adoperati con accorta consapevole abilità. Gozzano ammette apertamente che egli scrive la  sua poesia non in modo innocente e spontaneo, ma mantiene per sé l’etichetta di “dilettante”. Si tratta, secondo Patrizia Menichi[42], di un vero paradosso della poesia di Gozzano il quale quanto più diventa consapevole che non resta nient’altro da dire, tanto più tesaurizza e organizza i modi, le  forme, il linguaggio della tradizione poetica, per poi cantare  o addirittura parodiare questa consapevolezza.

Eduardo Sanguineti diceva che la parodia costituisce “quel tipo di operazione che deforma [...] irrimediabilmente e irreversibilmente un orizzonte dato e riconosciuto”[43] riproponendolo al pubblico dei lettori con strumenti e angolazioni tali da estraniarlo e da farne emergere elementi di “sorpresa”, di “choc”di “provocazione. Ma di sorpresa, choc e provocazione si tratta anche in D’Annunzio, cosí che nella sua opposizione, Gozzano arriva a sorprendere la “sorpresa” e provocare la “provocazione”. Forse proprio in questo senso dobbiamo intendere il finale del poemetto nel quale l’autore vuole aggredire il “vate” con i novenari della “favola ad uso della consorte ignorante[44]. Solo i versi di “Maia” ci illuminano sul vero bersaglio dell’ironia di Gozzano, cioé non Omero e Dante, ma piuttosto il poeta a lui contemporaneo e la sua esaltazione di un eroismo aristocratico e superbo. La maschera eroica del “Re di Tempeste” dannunziano merita senz’altro di essere spezzata con le parole di Omero e di Dante, in un tipico esempio di “rovesciamento del sublime”.

Per il poeta canavesano il mito è morto, perciò la sua poesia gozzaniana è  l’espressione dell’acuta crisi della società borghese nella quale i tempi eroici sono definitivamente tramontati. Si deve accettare perciò la necessità del passaggio dalla fase eroica individualistica dell’”immaginifico” “inimitabile” alla celebrazione dei modesti sogni casalinghi di coloro che vivono la loro vita oscura in un “cantuccio di ombra”. Secondo

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Ferrucci la prospettiva di Gozzano sul mito di Ulisse “implica una certa nozione del mito (e della letteratura) come menzogna  e della realtà come sostanzialmente mediocre, malgrado i nostri sforzi di nobilitarla. É questa anche l’origine dell’atteggiamento comico, il quale è istintivamente antimitologico e ha quindi un insuperabile potere di smascheramento dei miti di recupero ( e di ogni ipocrisia in generale).”[45]

D’altra parte, se il mondo eroico viene parodiato senza nessun complesso da parte di Gozzano, la prosaica vita borghese sarà nobilitata ed innalzata a mito. E potrebbe essere proprio questa “l’ipotesi” di salvezza per Gozzano. Egli non può non vagheggiare un’esistenza pacifica e tranquilla, come possibile via per arrivare alla felicità.

 

Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,

se già la Signora vestita di nulla non fosse per via... [...]

Quest’oggi il mio sogno mi canta figure, parvenza tranquille

D’un giorno d’estate, nel mille e...novecento ...quaranta. [...]

Sfioriti sarebbero tutti i sogni del tempo già lieto [...]

Sopita quest’ansia dei vent’anni,

Sopito l’orgolio [...]

Lontani i figli che crebbero, compiuti i nostri destini [...]

vivremmo pacifici in molta agiata semplicità”.[46]

 

Concludendo, potremmo dire che nel mito di Ulisse D’Annunzio e Gozzano trovano due modi opposti d’intendere il ruolo della letteratura e il compito dell’artista. D’Annunzio fa di Ulisse il simbolo di una vita diversa, che deve essere vissuta eroicamente secondo la spinta della concezione ascendente della vita, mentre Gozzano dimostra, sorridendo, che i tempi eroici sono definitivamente tramontati. Il  Vate, non sa fare dei suoi superuomini degli esempi convincenti di personaggi atti a trasformare in gesti concreti di vita le loro doti eccezionali. Questo perché, come il loro creatore, i superuomini dannunziani sono afflitti da un velleitarismo inguaribile: nel totale smarrimento della differenziazione tra possibilità astratta e possibilità concreta Stelio Effrena, ad esempio sogna un’opera d’arte nuova, unica, ma è incapace di realizzare concretamente il suo proposito e passa dai sogni ai dubbi; Claudio Cantelmo vorebbe generare il nuovo Re di Roma, ma non riesce a trovare la madre giusta; Giorgio Aurispa ricorre alla soluzione estrema del suicidio quando si rende conto che è diventato lo schiavo della sensuale “super-donna” Ippolita; Paolo Tarsis di “Forse che sí, forse che no”, invece può tornare al sogno di gloria solo dopo che Isabella impazzisce; Ruggero Flamma di “La gloria” rimane anche lui incerto, debole e indeciso, e, infine Ulisse è solo un superuomo fittizio che si rifugia nel silenzio persino quando si trova di fronte ad una persona eccezionale come il protagonista di D’Annunzio rifiutando ogni dialogo coll’avvilito mondo esterno.

Gozzano invece, nel suo tentativo di liberarsi dalla “dittatura” del Vate, impone l’abbassamento di tono, uno stile dimesso, privato in una poesia che, programmaticamente rinunci al ruolo di civilizzare le “masse”. L’artista crepuscolare si ostina a rifiutare l’immagine di un artista privilegiato dal dono dell’ispirazione e a ricuperare la facoltà di controllo critico sul proprio “io poetante”, secondo la formula di Rimbaud “io che assisto allo sbocciare del mio pensiero, lo guardo, lo ascolto”. Perciò il suo superuomo si trasforma in un antieroe dalla “spaventosa chiaroveggenza” che sicuramente non è una scelta

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ideologica o un’intenzione, ma un dato costitutivo della “malattia” psichica del poeta. Il “lento male indomo”  secca alla radice qualsiasi possibilità di abbandono vitalistico di questo antieroe, che apre indubbiamente la scia di tanti altri antieroi, “uomini senza qualità” che popolano la letteratura del Novecento.

Tuttavia, D’Annunzio e Gozzano, per quanto sembrino opposti, l’uno ostentando la sua superiorità e tutto lo sprezzo per la “normalità”, l’altro ritirandosi nella solitudine e contemplando la propria incapacità di vivere pienamente la vita, dimostrano la stessa incapacità di inserirsi nel presente, poiché le loro due facce sono l’espressione della stessa impossibiltà di agire e comunicare nel reale.

 

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[1] Umberto Eco in La Repubblica, 12 maggio 1990.

[2] G. D’Annunzio,Le vergini delle rocce: 21.

[3] Ibidem: 46.

[4] Ibidem: 31.

[5] Walter Binni, La poetica del decadentismo, Firenze: Sansoni, 1936: 28.

[6] D’Annunzio, Laus vitae: vv. 7729-7730.

[7] Idem, “Della bianca pietra di Pallade e dell’ultima terra lontana”, scritto premesso a  Più che l’amore.Tragedia moderna (1905), Milano: Mondadori, 1944: 1093.

[8] Ibidem, Maia,Laus Vitae,Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi,Alle Pleiadi e ai Fati: 1, vv. 31-33 Treves, Milano.

[9] A. Castelli, Pagine disperse di Gabriele D’Annunzio, Roma: Lux, 1913: 575.

[10] Angelo Jacomuzzi, Una poetica strumentale, Torino: Giulio Einaudi, 1979.

[11] Giancarlo Lancellotti, in Il mito nella letteratura italiana moderna, Brescia: Morcelliana, 1996: 691.

[12] D’Annunzio, Laus vitae,Maia: vv. 604.

[13] Ibidem: vv. 529-531.

[14] Castelli, op. cit.: 575.

[15] D’Annunzio, Laus vitae,Maia: vv.  641-651.

[16] Ibidem: vv. 705-707.

[17] Idem, Le vergini delle rocce: 14.

[18] Idem, Maia.Le Laudi: vv. 710-712.

[19] Ibidem: vv. 7078- 7079.

[20] D’Annunzio, Maia.Le Laudi:,vv. 801-803.

[21] Ibidem: vv.1-2, 5-6.

[22] Ibidem: vv. 688-692.

[23] Ibidem: 476.

[24] Ibidem: vv.  820-824.

[25] Idem, Le vergini delle rocce: 21.

[26] Idem, Maia.Le Laudi: vv. 8398-8401.

[27] E. Raimondi, “Il D’Annunzio e l’idea della letteratura”, Leteratura 27 (dicembre 1963), 66: 44.

[28] D’Annunzio, Maia.Le Laudi: vv. 8406-8415.

[29] Gigliola De Donato, Lo Spazio poetico di Guido Gozzano, Roma: Editori Riuniti, 1991.

[30] W. B. Stanford, The Ulisses Theme. A Study on the Adaptability of a Traditional Hero, Oxford: Basil Blackwell, 1954: 39.

[31] Gerard Gennette, Palimpsestes, Parigi: Senil, 1982: 29.

[32] Guido Gozzano, Tutte le poesie, L’ipotesi, Roma: Grandi Tascabili Economici Newton: vv. 35.

[33] Ibidem: vv. 108-109.

[34] F. Ferrucci, “Il mito” in La letteratura italiana-Le questioni (a cura di A. Asor Rosa), Torino: Einaudi, 1986: 518.

[35] Gozzano, Tutte le poesie, L’ipotesi: vv. 111-118.

[36] D’Annunzio, Maia, Le Laudi: vv. 703.

[37] Ibidem: vv. 5256-5257.

[38] Gozzano, Tutte le poesie,L’ Ipotesi: vv. 128-131.

[39] E. Montale, “Gozzano dopo tret’anni” in Lo Smeraldo 5 (30 settembre 1951), 5: 3-8; poi come “Saggio introduttivo” a Guido Gozzano, Poesie, Milano: Garzanti, 1960.

[40] Gozzano, Tutte le poesie,L’ Ipotesi: vv. 152-155.

[41] M. Bachtin, Estetica e romanzo, Torino: Einaudi: 419.

[42] Patrizia Menichi, Guida a Gozzano, Bari: Laterza, 1993: 38.

[43] Eduardo Sanguineti, Tra liberty e crepuscolarismo, Milano: Mursia, 1965.

[44] Gozzano, L’ipotesi: vv. 110.

[45] Ferrucci, loc. cit.: 518.

[46] Gozzano, Tutte le poesie, L’ipotesi: vv. 1-29.