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Un drammaturgo veneto da rispolverare:

Renato Mainardi

Roxana Utale

Università di Bucarest,

Accademia di Romania, Roma

Il secolo XX era cominciato sotto buoni auspici per la drammaturgia italiana: dopo il lungo periodo segnato dalla figura di Gabriele D’Annunzio, l’Italia era stata la protagonista europea - e non soltanto - del Futurismo. Parte dei "grotteschi" (Sam Benelli, Luigi Chiarelli, Pier Maria Rosso di San Secondo ecc.) avevavo avuto un certo successo sui palchi del tempo. Appare poi la singolare figura di Luigi Pirandello che dà nuovi fondamenti al teatro non solo italiano ma mondiale: scrittura drammatica, messa in scena, psicologia del personaggio, organizzazione dello spettacolo, tutto uscirà trasformato dalle sue mani. Però, con la sua morte, il posto di commediografo nazionale rimarrà vacante.

Anche oggi.

Evidentemente in tutto questo periodo si scrisse teatro, apparvero nuovi nomi che per un decennio o due riuscirono ad attirare l’attenzione ma i loro lavori non raggiunsero mai il valore che altrove avevano le pièces di Williams, Jonesco o Brecht, per fare solo alcuni nomi. Tanti nomi di questa pleiade di scrittori di teatro italiani dell’ultimo sessantennio andarono persi tanto dalla memoria del pubblico quanto da quella della critica e della storia della letteratura drammatica.

Questo succese anche a un drammaturgo veneto, Renato Mainardi (Cavarzere, Venezia 1931-Roma, 1977), che oggi raramente viene rappresentato, che ebbe, postmortem, un’unica edizione complessiva delle sue commedie e che sembra non presenti alcun interesse per la critica. È per questo che proponiamo con questo breve saggio una rilettura del teatro di Mainardi nel desiderio di tracciare alcune linee nell’interpretazione della sua opera.

1.0. Prematuramente scomparso, Renato Mainardi lasciò una creazione drammatica abbastanza ridotta: otto pièces nell’arco di più di vent’anni. Il suo interesse per la scrittura drammatica datava dal 1951 e, anche se non sia riuscito a trovare sin dal primo momento il tono giusto, la sua evoluzione sarà assai rapida, così che già al secondo testo goderà dell’attenzione del pubblico. Almeno strano rimane il silenzio innaturale della critica. I giornali annunciano le prime delle commedie di Mainardi valutando però in modo più che superficiale la maniera di scrittura, lo stile, le innovazioni del commediografo.

I suoi testi sono – anche nel quinto decennio, quando si sarebbe potuta sospettare un’immaturità delle abilità analitiche dell’autore – il risultato di un acuratissimo esame del suo tempo e della sua gente. In Mainardi si può parlare senza ombra di dubbio di "nuda e accanita esposizione degli eventi" [1], della capacità di sorprendere un significato centrale di una storia, nonché dell’abilità di partire dalla realtà per proporre - dopo averla programmaticamente deformata - un’altra interpretazione che forse sfuggiva all’osservazione degli altri.

1.1.Tempo fermo [2] (1951), tre atti, è il testo di allenamento di Mainardi. Sceglie una struttura classica, un tema comune, ambientato nella sua contemporaneità: la vita priva di qualsiasi interesse di una famiglia borghese del dopoguerra.

Emma Ongaro si trova di fronte una moltitudine di battaglie da combattere: è la vedova impoverita di un marito che ha sempre sprezzato e per cui ha sempre sentito solo ripugnanza; è la madre di Piero, un giovane di vent’anni, infermo e despotico; deve governare la masseria della famiglia, avanzo della fortuna lasciatale dal marito. Quando arriva un nuovo medico nel villaggio, a Emma pare che sia il momento di pensare anche alla sua vita. Il dottore Ottorino Voltàn, più giovane di lei e cartofilo, non esiterà a tradirla ed Emma ci renuncia. Nella stessa casa vive anche il fratello di lei insieme alla sua giovane figlia, Rita. Questa, finito il collegio, ha scelto di ritirarsi in campagna ma presto si renderà conto che qui la sua vita non scorre più. Ha ancora la forza di individuare lucidamente il motivo dell’inerzia collettiva:

[RITA] È la noia che ci riduce così ... restiamo qui ad aspettare e non cerchiamo, o non vogliamo, nulla che ci spinga ad agire [3].

Fidanzata di Albino, studente in medicina, ha l’onestà di dirgli che non lo ama; è corteggiata da Eugenio, ma il giovane non riesce a destarle l’interesse. Albino s’innamorerà di Francesca, la migliore amica di Rita. Sempre di Francesca si era innamorato, un anno fa, Piero che, rifiutato, si era gettato dal balcone e si era rotte le gambe. La ragazza respinge entrambi gli spasimanti e lascia al più presto la casa dell’amica. Piero si suicide. Dopo questo intermezzo di pochi mesi, quando nelle vite degli Ongaro intervengono degli elementi capaci di dare un qualsiasi senso di vitalità alle loro esistenze, le cose rientrano in carreggiatta: Rita si prepara ad andare in sposa di Albino, Emma e la sorella Lina si preparano ad accompagnare i due giovani a Venezia e, con i soldi ottenuti dalla vendita della tenuta, comprare un piccolo negozio e dimenticare il passato. Tutta la pièce è infatti la storia di un’infinita tristezza di una gente che si sente intrappolata dalla vita e per sfuggirci non può che rassegnarsi oppure mentire se stessa, entrare in un gioco delle apparenze, come Rita e Albino.

1.2. Il secondo testo ci presenta Mainardi quale autore già provato, con un linguaggio drammatico ben definito, dominato da un acuto spirito analitico. Il suo impietoso sguardo si rivolgerà stavolta verso un caso frequentemente incontrato nel mondo artistico di quegli anni: L'intellettuale a letto [4], 1953.

Lungo i tre atti della commedia, il giovane Ennio riuscirà a diventare l’amante mantenuto di tre donne, tutte più anziane di lui. La marchesa Gloria Da Pian, famosa giornalista, anche se abbia cominciato a pegnare i gioielli, non vuole fare a meno del suo giovane compagno. Lo vuole nascondere agli sguardi degli amici, tutti gente di teatro e cinema, ma, dato che tutti sono a caccia di scoop, non tarderanno a cogliere in fallo i due.

Ennio si considera poeta, sebbene non abbia pubblicato una sola riga. Gloria gli vuol fare da editrice, ma solo dopo aver letto e cesellato i suoi versi. Una crisi di personalità di Ennio farà che la giornalista dichiari con fermezza cosa crede di lui, chiamandolo né più né meno che

[GLORIA] Mantenutello schifoso! [5]

La situazione di Ennio non si squilibra troppo, perché passerà nell letto di una delle amiche di Gloria, presente alla scenata di separazione dei due. Dymond White - nome d’arte molto meno prosaico di Agata Bianco! – è disposta a raccogliere il poeta, però il suo ex marito annuncia il ritorno. Con lui devono tornare anche i suoi soldi, di cui l’attrice in declino, ha disperato bisogno. Non esita a mettere alla porta Ennio sebbene le dispiaccia lasciare il "giocatolo". Poi si vedrà che suo marito, conoscendola bene, ci ha scherzato e non torna più. Ennio potrebbe pure rimanerci ma già è partito con Daria, l’attrice che ha sostituito Dymond non solo sul palco, ma anche nella vita di Ennio.

Neanche stavolta il giovane trova una posizione stabile, perché contemporaneamente alla relazione che ha con lui, Daria ne ha iniziato un’altra, con un produttore cinematografico anche se sia

[DARIA] sempre l'amante del [suo] impressario [6].

Il finale della commedia trova Ennio di nuovo in partenza. Non tornerà da suo padre, perché è convinto che là non è capito e il suo talento non si può manifestare liberamente. Dato che Gloria è accorsa ad asciugargli le lacrime provocate dalla separazione da Daria, probabilmente tornerà da lei.

Il soggetto della piéce ha un alto grado di pessimismo. Al di là dalla mappa degli spostamenti di Ennio da un letto in un altro, essa è la radiografia della società italiana del momento, la storia tragica di un modus vivendi ben noto all’epoca in cui è scritto il testo. Nella stessa cerchia di pseudoamici le relazioni sentimentali si mescolano a seconda del dettato del momento. È triste che tutti quelli che sono coinvolti in questo gioco combinatorio riescano, come per uno sdoppiamento della personalità, a rendersi conto del vero stato di cose. Daria rimprovera a una comune ma assente conoscenza che ha dimenticato i tempi

[DARIA] [...] quando lo sbattevano da un letto all'altro!,

e Gloria rifletterà ad alta voce:

[GLORIA] Ma cominciano proprio tutti così? [7]

Non importa se siano uomini o donne. Ennio e Daria sopporteranno più cambiamenti e in base a ciò tra di loro nascerà una specie di "sindacato", una fratellanza degli oggetti di divertimento degli altri:

[DARIA] La mia vita non è molto diversa dalla tua ... solo che per una donna, in questo ambiente, è molto meno compromettente! Tappa per tappa, quello che hai passato tu, l'ho passato anch'io... [8]

Sarà Daria a dare la misura della miseria in cui entrambi muovono e lo dirà pure ad Ennio, però senza tentare almeno di proporgli una salvezza:

[DARIA] [...] Questa palude in cui siamo cascati, eccoli i nostri sogni di una volta! Se l'avessimo saputo! ... Tutto sarebbe diverso, ora ... [9]

Per loro non c’è strada di ritorno, perché hanno troppo sprofondato nel pantano:

[DARIA] [...] Il mondo gira ... si finisce col perdere pe vincere [...] Tutto spreccato, eh? Ci siamo dati ai porci ... [10]

Ennio è cosciente della sua sorte, ma conserva ancora l’innocenza di ingannare se stesso nel suo tentativo di scusarsi:

[ENNIO] [...] Eppure, mangiare bisogna!... e bisogna anche amare! Mi capisce? Ho finito con l'accettare l'uno per l'altro [11],

ma anche lui può definire se stesso abbastanza chiaramente anche se in modo metaforico:

[ENNIO] [...] Nessun ... mercenario è stato più discreto di me, credo [12].

Contrariamente a qualunque aspettanza, l’unico a parlargli anzi ad aiutarlo sarà Vicario, l’amante di Daria:

[VICARIO] [...] Ora non si scandalizza più nessuno, l'onore non si perde più ora [13].

Il giovane poeta è un elemento strano nel modo degli altri. Forse così si spiega anche il fatto che le donne lo provano come provi il cappello dell’amica. Nel loro mondo devi combattere per conquistare un posto tuo – labile, è vero, perché desirabile agli altri. Uomini e donne sono aperti al compromesso. Quelli e queste, arrivati dove volevano, ricompongono il gioco, servendosi da altri desiderosi di arrivare. Tuttavia nessuno indietreggia, tutti hanno un’immensa capacità di sopportare qualsiasi umiliazione. Il tono di Vicario nella discussione che ha con Ennio, alla fine della commedia, è quello rilassato, stanco di un monologo. Le cose che tenta di far capire al giovane sono infatti tante più remote amarezze sue e dei suoi amici, ma che solo rare volte hanno il coraggio di formulare e che li raduna in una "famiglia" che ha cose comuni da difendere:

[VICARIO] Vedendoti, la prima cosa che viene in mente è: "Perché mai si trova in questo ambiente?" Io continuo a chiedermelo, ogni volta che ti vedo. Tu manchi di forza, di volontà, non sei dei nostri! Noi berremmo davvero nel cranio del nostro padre per arrivare [14].

1.3. Giovanni Antonucci considera la seguente commedia di Renato Mainardi una delle quattro migliori [15]. Purtroppo il testo del 1958, Giardino d'inferno [16], due atti, non può raggiungere l’intensità dell’argomento de L’intellettuale a letto, così com’è lontano dall’acuità del sentimento di fallimento individuale e collettivo ivi espresso.

Stavolta Mainardi opta per un testo comico ma che vesti le stesse meschinità della razza umana, spostando la lente di ingrandimento da un semplice gruppo di amici, sui membri di una stessa famiglia. Sin dall’elenco dei personaggi si nota uno spostamento del centro di gravità sull’elemento femminile: un’intera trama che ha come punto di partenza un testamento … matriarcale. La fortuna della famiglia si trasmette soltanto in linea femminile come castigo per le avventure di uno degli antenati. Evidentemente chi detiene il potere finanziario detiene anche il controllo del clan. Dalla dura Zerlina, la nonna, attraverso l’ormonale Celesta, sua figlia, si arriva a Rose, la nipote bisbetica di Zerlina. In tutto quest’imperio matriarcale si muove un solo maschio, figlio di Celesta, Ugo, che tutti compatiscono per la sorte ingiusta che lo fece uomo ciò si traduce con la povertà. Ugo appare come un deficiente protetto dalla nonna, mai preso sul serio da qualcuno, con il quale si deve parlare come se avesse ancora cinque anni.

In tutta questa caterva di pazzi arriva Waltraute, una governante tedesca che deve aiutare Ugo a finire le elementari (anche se abbia compito i ventinove anni!). Si mostrerà una donna estremamente temperamentale, che trasforma questa caratteristica in arma: convincerà (pure difficilmente!) Ugo di sposarla. È già cominciata l’opera di eliminazione dei famigliari talmodo che il patrimonio arrivi a Ugo. I personaggi spariscono uno dietro l’altro, uno più mistriosamente degli altri, fino nel momento in cui si scopre che, nella corsa destinata ad eliminare le eredi, si era arruolata pure la cameriera Iris, madre delle nove figlie di Ugo, avute in seguito a tre gravidanze! Tutto con l’aiuto di Ugo, che solo si è finto idiota. Il rullo delle sparizioni assume tale velocità che prende pure Ugo e le sue donne. E il patrimonio spetta alla prode di Ugo. Tutte femmine. Nove.

La commedia può pure suscitare un certo successo di rappresentazione anche se, spesse volte, l’azione si protrae troppo. L’introdurre nella pièce un personaggio che non parla la lingua comune degli altri - Waltraute – e storpia sempre le parole, può avere un certo fascino se il procedimento viene limitato a poche battute. Quando però il personaggio è uno dei protagonisti del testo, non solo che l’effetto comico si va perdendo ma diventa addirittura dannoso per l’intero. Nel caso in discussione rende illeggibili parti estese della commedia. Lo stesso, l’ancora molto giovane autore non riesce a trovare delle plausibili motivazioni per l’introduzione di alcuni elementi fondamentali per gli ulteriori sviluppi dell’azione e ritarda la composizione di alcune scene.

1.4. Sempre l’universo della famiglia borghese sta anche al centro della pièce Per non morire [17] (1962), due atti. Il tono è molto diverso da quello del Giardino d’inferno, perché Mainardi perde l’appetenza per il ludico e fa una presentazione fredda degli eventi, così come l’aveva fatto, ad esempio, in Tempo fermo.

Susanna appartiene ad una famiglia impoverita ma cui storia dice che, per poco, nella loro casa si sarebbe soffermato Giacomo Leopardi. La casa è ormai in rovina e i suoi abitanti non sanno più cosa escogitare per resistere finanziarmente, ma Susanna pensa al giorno in cui potrà mettere la lastra di marmo verdastro appunto nella stanza dove avrebbe dormito Leopardi. Per amor della lastra, accetta di ricevere in casa un regista che sta preparando un film sulla vita del poeta.

Ai suoi progetti assistono infastiditi i suoi due figli che, evidentemente, hanno ricevuto al battesimo nomi leopardiani: Nerina e Consalvo. Entrambi sono rimasti accanto alla madre perché, ognuno a modo suo, è infermo: Nerina, a quindici anni si è trovata – altrattanto à la Leopardi! – una gobba e Consalvo è ancora convalescente dopo uno spiacevole incidente provocato dall’ex amante che tentò di ucciderlo e poi suicidarsi. Egli ci sopravvisse, ma da allora, nella sua vita, le cose mutarono fondamentalmente: cessò di lavorare e la sua bella moglie dovette partire a lavorare in città per mantenere la famiglia.

Susanna è il tipo di madre accaparratrice, che non lascia che i figli si sviluppino e li soffoca nel suo grembo. Nerina è continuamente tenuta in uno stato di andicappata, le viene negata persino l’illusione di un matrimonio. Consalvo è stato trafficato dalla madre a favore di una amica di lei, che gli ha pagato gli studi e gli ha fatto capire il mondo. Adesso la madre non accetta affatto il matrimonio del figlio e tenta di controllare la vita dei due sposi. La giovane Faustina avrà però la forza di far scegliere al marito tra lei e la madre.

L’amica morta ha lasciato a Susanna anche un patrimonio considerevole che Consalvo ritiene un dovuto sdebitamento per la sua progettata morte. Quindi possono fare a meno dell’insignificante somma che il regista offre per l’alloggio. L’irritazione della vecchia raggiunge l’apice quando scopre che questo si vuole portare via pure Nerina e sposarla. La madre si sente minacciata, sente che uno dei figli sta per abbandonarla e ricorre a qualsiasi mezzo per salvarsi. Chiude Nerina in una parte non abitata della casa

([SUSANNA] Nerina non la vedrà mai più, lo vuol capire? È mia figlia. È mia. Che cosa ci vuol fare. È mia [...] Difendo la mia proprietà. Tutta roba mia [18]),

perché Romano se ne vada da solo. Vittoria, cameriera ed ex amante del marito di Susanna, trova la ragazza e la fa partire a Roma. Con loro dovrebbe partire anche l’altra coppia, solo che Consalvo cede alle pressioni della madre e rimane a rancire accanto a lei.

[CONSALVO] Appunto, svegliarsi, riempirsi di fumo e aspettare sempre qualcosa che non arriverà mai, senza affannarsi, senza sperare. Tu non lo puoi capire, e, invece, credimi, è uno stupendo tirare a campare. Bisogna avere molti numeri che io non ho per tentare qualche cosa di diverso [19].

1.5. Per una giovanetta che nessuno piange [20] (1963), due atti, è ambientata nella Venezia contemporanea. È un testo che enuncia una faccia della stessa tematica trattata anche ne L’intellettuale al letto: analisi della disponibilità dei personaggi di cadere nel vizio, nella meschinità, di tentare qualsiasi soluzione che li potrebbe salvare individualmente. A unire i testi separati da dieci anni sarà l’amarezza dell’analisi e – specialmente – l’amarezza del tono dell’analista, evidentemente coinvolto nello sviluppo dei suoi personaggi.

Bartolo, un pittore cui fortuna è tramontata, vive accanto a Gilda, fedele compagna sin dagli anni giovani. Non altrettanto fedele le si dimostrò Bartolo; anzi Gilda non solo accettò le altre relazioni dell’artista, ma le favoreggiò pure. E tutto per la paura di non perdere l’uomo amato. A sua volta è amata da Giovanni, che, per alleggerire la vita della donna, compra tutte le opere del pittore, anche se non ne abbia bisogno, ma è questa l’unica modalità di trovarsi accanto alla donna amata. Da alcuni anni Bartolo adottò una figlia di contadini, Elviretta, ma, quando la ragazza diventa un’appettitosa adolescente, i sentimenti del vecchio cambiano. Elviretta va a ripararsi nella casa di Lorenza, la figlia di Bartolo, avuta sempre da una relazione con un’adolescente. Il rapporto padre-figlia è teso, piuttosto di rifiuto, anche se delle volte tra di loro si intravvedano ombre d’affetto. Il marito di Lorenza sarà a sua volta attratto da Elviretta ma troverà la forza di resistere e di chiedere alla ragazza di lasciare la loro casa. Più tardi, al di là delle mura coniugali, i due arriveranno ad avere una storia. Di comune accordo con Bartolo, porteranno Elviretta in un collegio. La ragazza non ci resiste, vuole tentare la fortuna di attrice, non le importa se sarà costretta a diventare persino prostituta. Alla fine sposerà, anche se solo formalmente, Giovanni, malato di cancro, perché questo vuole dare alla ragazza una sicurezza dopo la sua morte.

Abbiamo a che fare, da una parte, con un gruppo di personaggi maturi oppure addirittura vecchi caratterizzati – nella loro maggioranza – da vari gradi di immoralità. Risulta evidente quella di Bartolo, che ripete da una vita il gioco "del modello nudo", gioco tentato pure con Lorenza. Altrettanto ovvio è il macchiarsi di Gilda, che, anche nel caso di Elviretta, era disposta a chiudere un occhio ed assistere impotente all’avventura di Bartoldo. Giulio, il marito di Lorenza, cede alla fine, proprio nel momento in cui stava per arrivare il figlio da tanto tempo atteso.

D’altra parte, abbiamo il caso di Elviretta che, anche se giovanissima, già porta in sé il germe dell’immoralità, la propensione al compromesso. Lasciò la casa di Bartoldo perché non voleva allora la relazione con il vecchio; più tardi si mostrerà pronta a ritornarci ed offrirgli ciò che egli esigeva. Tenta Giulio solo per dimostrare a se stessa che è in grado di sedurre anche un uomo giovane. È ferma nella decisione di non voler avere più a che fare con la famiglia di origine e di voler diventare attrice, costi quel che costi! Certo, nel suo linguaggio più maturo di quello di una ragazza della sua età, nelle decisione imprevviste che prende, si sente l’influsso degli altri, la stanchezza che le hanno messo sulle spalle gli anni vissuti accanto a loro.

L’unico che non fa gruppo è Giovanni. Da un lato, ha la forza di resistere a una lunga passione, senza tradirla; da un altro, sarà l’unico a "piangere la giovanetta", l’unico a tentare veramente di cambiare il destino della ragazza. Capisce che soltanto i soldi la potrebbero mettere a riparo dalla società, anzi da quelli che le dovrebbero stare vicini. Il suo atteggiamento viene a infirmare la conclusione alla quale è arrivata Lorenza:

[LORENZA] Se credi che al mondo esista qualcuno che ami qualcun altro! [21]

1.6. Di certo la commedia che Renato Mainardi scrive nel 1966, Amore mio nemico. Pas de deux [22], due atti, rimane uno dei lavori più ispirati del drammaturgo. L’argomento – le relazioni tese di una coppia che ha scelto di dichiarasi coppia aperta, a cui si aggiunge anche un dramma di famiglia – era già apparso in altri lavori di Mainardi. Stavolta stupisce, da una parte, il gioco alternato di amore e odio dei due coniugi; dall’altra, le modalità di realizzazione artistica.

Cosima e Lorenzo, due creatori di moda romani, si sono sposati giovanissimi, quasi per gioco. D’altronde, lungo la loro relazione, sarà il ludico a dettare l’andamento della vita a due, nonchè parte essenziale del legame che li tiene uniti. Il loro primogenito, Egidia, è a metà strada tra bestia e uomo. Il secondo, Barnaba, un giovane sensibile e talentato, ha scelto di scappare di casa tre anni fa.

Il gioco prediletto dei due è quello delle accuse: Egidia è anormale perché durante la gravidanza Cosima era alcoolica; Barnaba se e andò quando capì che suo padre aveva una relazione con la sua ragazza; Barnaba ebbe un rapporto difficile con il padre perché ci intrevenne la madre, sparlando del marito ecc. Tutto questo gioco dei ricordi e delle accuse si ripete identico da venti giorni. I due non riescono a stabilire chi di loro sbagliò di più, non possono quantificare la colpa che hanno nella partenza e, specialmente, nel recente suicidio del figlio. Il tormento è di entrambi:

[LORENZO] Se la smettessimo con questi assurdi pas de deux notturni, volubili, pieni solo di parole velenose, pieni di folate di speranza che subito ricacci indietro ... [23]

Cosima riesce a gettare tutta la colpa sulle spalle del marito, anzi farlo riconoscere questa colpa. Però quando lo vede tormentato dal rimorso, gli dice di aver incontrato il figlio prima che questo morisse, che era malato di cancro e che Barnaba aveva scelto di morire. Decidono che questa dev’essere anche la dichiarazione stampa che rimandano da venti giorni.

Un problema sussiste: cosa dichireranno di loro?

[LORENZO] E di noi, che cosa diciamo, Cosima?

[COSIMA] Come?

[LORENZO] Dei nostri rapporti, che cosa diciamo?

[COSIMA] Bene, che va bene. Va bene, no?

[LORENZO] Sì, va bene. Non abbiamo più voglia di insultarci, adesso, vero?

[COSIMA] È vero. E sai perché, Lorenzo?

[LORENZO] Perché?

[COSIMA] Perché non abbiamo più niente da dirci.

[LORENZO] Si sta bene anche in silenzio.

[COSIMA] Sì.

[LORENZO] Basta che duri.

[COSIMA] Durerà.

[LORENZO] Sì [24].

Mentre Lorenzo va ad aprire alla giornalista, Cosima crolla piangendo sotto il peso del dolore provocatole dal suicidio … inspiegabile del figlio.

La maestria di Mainardi sta non solo in questo colpo finale, ma anche nella tecnica del ritardo che adopera lungo l’intero testo. Inizialmente lo spettatore oppure il lettore ha l’impressione che tra i due ci sia un gioco provocato dalla noia, che tra di loro debbano intervenire diversi giochi, chiesti ora da uno ora dall’altro perché la loro relazione si riamini. Gradualmente la natura del loro legame si svela:

[COSIMA] [...] prima un grande amore, poi una grande amicizia, soci, complici incorruttibili! [25]

O almeno questo vorrebbe ognuno credere e far credere all’altro. Infatti ciò che li unisce è il tenero amore della gente che visse insieme un terribile dramma e che, qualsiasi cosa accada d’ora in poi, rimarrà insieme.

1.7. Soltanto un anno più tardi, nel 1967, Mainardi scrive un testo altrettanto interessante come Amore mio nemico: Una strana quiete [26], due atti. È la storia del triangolo amoroso aperto alle opportunità di diventare qualsiasi altra figura geometrica, per quanto complessa sia e quanti lati supponga.

Gaia ed Olimpia, due musiciste, vivono nella stessa casa, quella di Gaia, unite dalla relazione che hanno con lo stesso uomo, Dino. Sono amiche sebbene dovessero odiarsi, ma Gaia scelse questa soluzione per non perdere il suo uomo. Preferì di stabilire … turni di incontro con Dino. Quando Olimpia apparve nella loro vita

[GAIA] [...] fu allora che decisi di ottenere, a tutti i costi, la quiete (s.n.). Basta con le angoscie, con le disperazioni sterili, ho deciso di voler vivere in pace. Avevo diritto anch'io a un minimo di quiete (s.n.). Non proprio quella che cercavo, ma di più e di meglio non si può avere. Io non posso. Non voglio [27].

Anche la più giovane nonché la più placida Olimpia è dell’opinione che ciò che ottennero è

[OLIMPIA] [...] una vita senza sorprese, con un programma ben definito e accettato ... una vita tranquilla, quieta [s.n.] [28].

Dino considera che il loro stato sia privilegiato, come un gioco con tute le carte in tavola; è sicuro che tutti gli uomini hanno multiple relazioni solo che

[DINO] si prendono due donne ma le mettono nello stesso letto, una da una parte e una dall'altra. Oppure le tengono distanti e fanno in modo che non si conoscano mai. Noi abbiamo stabilito addirittura dei turni! Le donne dovrebbero odiarsi, almeno! O amarsi. Dovreste essere amanti anche voi due [29].

Contento della sistemazione, attirerà nel menage anche una terza donna, la giovane Carla, incinta del suo figlio. Sarà la stessa Gaia ad organizzare la nascita del bambino e la loro futura vita, sua e di Olimpia, quali … madri:

[GAIA] Per evitare di rovinarci : tu, io, Dino, Carla. Tutti noi e la nostra quiete [s.n.] [30].

Solo che la giovane sceglie di rinunciare alla gravidanza e tornare dal marito da cui ha appena divorziato. Non è però pronta a rinunciare né a Dino. Olimpia potrebbe partire con Raimondo, un buon diavolo, che la corteggia da più di dieci anni, ma sceglierà di partire da sola, rompendo così l’integrità del gruppo.

[CARLA] [...] Ma, di Dino non ti importa, vero?

[OLIMPIA] ... Andiamo molto d'accordo, come hai visto, ci si capisce. Siamo molto amici [31].

La disperazione di Gaia aumenta con ogni membro del clan che la abbandona, e alla fine si ritroverà assolutamente sola. D’altronde la stessa sorte faranno anche gli altri personaggi, ognuno costretto a portare il peso della propria solitudine. Eccetto Gaia, tutti gli altri la ricercano però senza rendersi conto delle conseguenze.

1.8. L’ultimo testo di Mainardi, Antonio von Elba [32] (1973), due atti, non fa altro che sviluppare la tematica di Una strana quiete ad un’altra scala, estenderla da lasciar spazio tanto alle relazioni etero- nonché a quelle omosessuali all’interno dello stesso gruppo.

Antonio, nato quasi vent’anni fa nell’Isola d’Elba – da dove anche il nome affibiatogli da due coniugi tedeschi, suoi amanti – vive giovanissimo varie esperienze sessuali senza che qualcuna lo segni irreversibilmente. Può dividersi la passione tra il mago Fiore Cremonini e il soprano quasi settuagenario Amalia Moreno Biseghini, e farlo sinceramente: quando la vecchia non lo vuole incontrare più, Antonio si uccide. Si lascia dietro un corteo di amanti addolorati e non troppo.

Mainardi tentò anche stavolta, come in Giardino d’inferno, di scrivere una commedia. Si vede che la sua vocazione era per il testo amaro, carico di realismo drammatico. Come allora, adesso il testo viene sotto le possibilità scrittoriche dell’autore. È da notare che, a distanza di quindici anni, ripete gli stessi errori di composizione drammatica: introduce troppi personaggi, ognuno con la sua storia, che non fa altro che accentuare delle linee già definite prima, che non contribuiscono all’evoluzione oppure alla tensione del testo; adopera un linguaggio … marginale: allora – l’italiano storpiato di una tedesca; adesso – il milanese; punta troppo su un personaggio quasi centennario ecc.

2.0. Esposti gli argomenti delle commedie di Mainardi, siamo adesso in grado di prendere in esame le caratteristiche comuni a tutti questi testi, specialmente quelle tematiche.

Si è potuto notare che i personaggi di Mainardi appartengono a una stessa classe sociale: quella della media borghesia, hanno un certo livello di preparazione, sono degli artisti ecc. Non è però questo il criterio in base a cui possono essere gruppati i suoi personaggi. Tra di loro corre una comune qualità individuale ma talmente estesa da formare una società: la solitudine. Mai fisicamente soli, i personaggi dei testi in esame vivono e soprattutto subiscono questa solitudine. La paura dell’ isolamento li fa escogitare gruppi quanto più ampi, siano la famiglia oppure i gruppi amorosi numericamente non limitati. Il timore arriva ad essere l’unico elemento organizzatore dei ceti di personaggi e, come si è già visto, arriva a mimetizzarsi con l’amore, ne diventerà un’altra faccia. Per la paura dell’isolamento saranno trasgrediti anche i limiti dell’amore, e chi ne è coinvolto si mostrerà aperto a qualsiasi soluzione che gli porti accanto a qualcuno, non importa se a un nemico.

In Tempo fermo solo chi scappa dal gruppo riesce a sottrarsi alla solitudine. Diversa è solo la modalità in cui lo fa: Piero si uccide perché non è riuscito a far coppia con Francesca ma anche perché la propria famiglia non gli offre la stabilità del gruppo anzi lo isola nella sua stanza. Emma tenta si unirsi a Ottorino, fallisce e si riavvicina alla sorella Lena. Rosa sposa Albino per non rimanere da sola in campagna e fare la vita delle due zie.

Susanna si dimostra capace di qualsiasi bassezza per non ritrovarsi sola, per non vedere i figli staccati dal gruppo iniziale. Fa di questo lo scopo della sua vita, anzi la modalità di mantenersi in vita, di non morire nella solitudine. Il figlio Consalvo sceglie la stessa coppia madre-figlio per ragioni opposte: solo qui riesce a conservarsi la solitudine,"il silenzio" sociale, l’inettitudine di vivere, è questa la sua modalità di non morire nella lotta aperta della vita che gli propone Faustina in città, dove il gruppo si rompe, si perde nella massa e con lui anche la sicurezza che esso comporta.

Altrettanto disperato è lo sforzo di Gilda, per la quale l’amore arriva ad assumere anche la capacità di vedere l’uomo amato nelle braccia di un’altra donna purché non lo perdi. Per Gilda la moralità sarà inginocchiata di fronte alla necessità di stare unita a Bartolo. Situazioni che farebbero raccapriciare altre donne, sono opera di Gilda perché Bartolo trovi a portata di mano la donna che momentaneamente lo interessa. Lei crea la situazione passeggera per ottenere quella stabile, la sua.

La solitudine più dolorosa perché anche la più piena d’amore patito rimane quella dei sue coniugi-nemici di Amore mio nemico. Nell’ambito del teatro di Mainardi sono di sicuro loro a dare l’immagine più eloquente della solitudine a due. Ognuno visse la propria vita avendo però la conferma di ritrovare, tornato a casa, la stabilità del gruppo. La loro situazione è quello ossimoronica contenuta anche nel titolo della commedia: amore-nemicizia. Paradossalmente nell’odio che ognuno suscita nell’altro trovano la forza di mandare avanti la coppia e riparasi dalla solitudine.

Ugualmente dolorosa ma più evidente perché multiplicata e urlata è la solitudine che affligge Gaia che, alla fine della commedia, si ritroverà abbandonata da tutti, avrà davanti agli occhi il fallimento del tentativo, durato anni, di mettere insieme una "famiglia".

Dopo essersi mostrata disposta a ricevere in casa la nuova amante dell’amante (che è ben lontano da essere l’uomo amato, remoti rancori la rodono: Dino la costrinse ad abbortire l’unico figlio che mai tenne in grembo) solo per raggiungere l’ideale di quiete così a lungo ricercato; dopo aver accettato anche la madre del figlio di Dino, la terza donna sulla "nave", si vede costretta ad assistere impotente alla disintegrazione del gruppo ordito con tanti sforzi e compromessi. Olimpia sceglie la solitudine per dar sfogo ai suoi istinti; se ne va anche se sia certa di essere incapace di governarsi da sola, anche se sia certa che la formula proposta ed applicata da Gaia fin’adesso era l’unica valida per lei. Dino se ne andrà pure, egli che era stato il vero nucleo intorno al quale si era ammassato il gruppo; quindi il gruppo non si spiega più.

Dino, che conosce da tanti anni Gaia, si può rendere conto della natura nascosta del suo atteggiamento:

[DINO] È la paura. La paura. Gaia ha paura di perderti, ha paura di perderti se perde me; ha paura di perder me se perde il bambino; ha paura di perdre se stessa se perde noi due … [33]

Gaia identifica l’apparizione di Carla con il momento di frattura del clan, considera lei la colpevole per quello che succede. E augura alla giovane, con inflessioni di maledizione:

[GAIA] Ti auguro di fare la mia fine, di morire sola. Non avrai mai niente di tuo, nessuno che ti appartenga [s.n.] e solo quando sarai vecchia capirai di essere sola, condannata alla solitudine perché proprio tu hai scelto di essere sterile [34].

Vive con l’impresione che tutti la abbandonano per cattiveria, che è solo una forma di vendetta. In una discussione con Carla, questa le aveva detto che la loro quiete è infatti

[CARLA] La quiete dei cani al guinzaglio. Una quiete inventata [35].

E sarà costretta, desintegratosi il gruppo, a riconoscere la verità:

[GAIA] Io non posso sopportare la solitudine […] Carla aveva ragione: ho bisogno di tenere qualcuno a guinzaglio […] Forse ho preteso troppo da loro. Ma sono sempre stata leale: ho parlato, non le ho mai tenute nascoste le mie pretese, ho confessato, senza pudore, che loro due per me erano diventati una droga […] Perché mi hanno messo da parte, all’improvviso? Perché forzarmi a un esilio così pesante? [36]

Le ultime battute di Gaia lasciano aperta l’interpretazione del suo atteggiamento come manifestazione di un progettato suicidio: parla della morte in solitudine, quindi non vuole tentare di farsi un altro gruppo anche se sia ancora giovane; dell’impossibilità di vivere da sola. Si potrebbe verificare un’altra volta la paura di solitudine soluzionata con il suicidio, come nel caso di Piero.

La tematica scelta da Mainardi per le sue commedie non era nuova: erano stati tanti, contemporanei o meno, ad affrontarla. E lo stesso vale, il più delle volte, anche per la tecnica di scrittura. Renato Mainardi è oggi un autore perso tra le righe dei libri di storia della drammaturgia italiana del secolo XX, ma non è più rappresentato e raramente un critico letterario se ne ricorda. Con i suoi meriti e fallimenti, il teatro di Mainardi è voce non stonata nel coro degli autori drammatici minori dei decenni quinto-ottavo del secolo scorso, autori che decidono a dar voce al silenzio, di smascherare il tarlo forse più potente del loro tempo: la paura dell’individuo di restare solo con se stesso, obbligato a fare i conti con la propria persona e con la propria vita. Un individuo che, schizofrenicamente sdoppiato ai propri occhi, ha paura di riconoscersi a sé sufficiente e preferisce nascondersi dietro le parole - svuotate non solo di sentimento ma delle volte anche di senso -, parole che devono riempire il nulla che corre tra la gente moderna, isolata nel oceano degli altri, altrettanto solitari.

[1] Ruggero JACOBBI, "Psicologia e drammaturgia in Renato Mainardi", presentazione al volume Il teatro di Renato Mainardi, Venezia: Marsilio, 1979. L’opera di Mainardi non è stata pubblicata che in questo volume, quindi tutte le citazioni saranno fatte in base a questo.

[2] Il Dizionario dello spettacolo del '900 (a cura di Felice CAPPA e Piero GELLI), Milano: Baldini & Castoldi, 1998, una delle fonti più autorevoli di informazione relativa (anche) al teatro italiano non registra questa pièce.

[3] Il teatro di Renato Mainardi, cit.: 23.

[4] La prima ha luogo a Milano, al Teatro del Convento, nel 1959.

[5] Il teatro di Renato Mainardi, cit.: 83.

[6] Ibidem: 94.

[7] Ibidem: 75.

[8] Ibidem: 106.

[9] Ibidem: 78.

[10] Ibidem: 94.

[11] Ibidem: 104.

[12] Ibidem: 109.

[13] Ibidem: 110.

[14] Ibidem: 113.

[15] Cf. Giovanni ANTONUCCI, Storia del teatro italiano del Novecento, Roma: Edizioni Studium: 228.

[16] La commedia fu rappresentata per la prima volta nel 1976, con la Compagnia Stabile del Teatro Filodrammatico di Milano.

[17] Il testo fu varie volte trasmesso alla radio e nel 1966 ricevette il Premio Riccione. Nel 1990 venne rappresentato a Montegrotto Terme.

[18] Ibidem: 208.

[19] Ibidem: 231.

[20] La commedia ricevette il Premio IDI nel 1965. Nel 1972 fu recitata al Teatro Eliseo di Roma, nella regia di Arnoldo Foa. Cinque anni dopo, fu trasmessa alla radio, con Giorgio Albertazzi nel ruolo di Bartoldo.

[21] Ibidem: 256.

[22] La pièce fu rappresentata nel 1973 al teatro delle Arti di Roma, nella regia di Nello Rossati, con nelle due parti Anna Miserocchi e Paolo Carlini, della Compagnia Teatrale Attori Riuniti. Nella versione radiofonica, i protagonisti furono Lilli Brignone e Gianni Santuccio. 1973 la Teatro delle 1973 la Teatro delle

[23] Ibidem: 328.

[24] Ibidem: 346.

[25] Ibidem: 310.

[26] La prima ebbe luogo a Nuova York, nel 1974, al Festival degli Autori Italiani. La regia era di Rina Elisha. Nella primavera del 1979 Lorenzo Grechi mette in scena la commedia di Mainardi al Teatro Flaiano di Roma e contempraneamente al Teatro Filodrammatico di Milano.

[27] Ibidem: 358.

[28] Ibidem: 361.

[29] Ibidem: 356-357.

[30] Ibidem: 373.

[31] Ibidem: 375.

[32] La commedia fu rappresentata nel 1975 nella regia di Luciano Mondolfo, a Lecco.

[33] Ibidem: 377.

[34] Ibidem: 381.

[35] Ibidem: 383.

[36] Ibidem: 410.

 

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