Il testo narrativo di Caterina Davinio Còlor còlor (Campanotto editore) possiede un carattere sperimentale che non emerge immediatamente alla lettura. L'impressione iniziale di trovarsi nell'ambiente di un racconto familiare, rievocativo e realistico, comincia ad essere posta in dubbio - e con non poca sorpresa - quando ci si accorge che la sede del narratore cambia di volta in volta da un brano all'altro, come nel colore metamorfico di un caleidoscopio. E non sono soltanto persone diverse, ma anche persona e non persona (la 1a, la 3a). Questo carattere di pluralità della prospettiva, di lente "multifocale", mette in crisi tutto l'impianto "realista" o "localista" che si era riscontrato all'inizio e che sembrava essere garantito al lettore, per contratto narrativo. Invece, il testo ci immerge, come dovuto da ogni modernità che si rispetti, nella problematicità del reale. I personaggi, con la tentazione di immedesimazione che essi comportano, perdono sicura consistenza anagrafica. Per giunta, in lunghi tratti, spariscono anche dall'intreccio; che poi alla fine si ritrovino è una ulteriore sorpresa: persa la speranza di leggere un romanzo, credevamo di leggere dei racconti staccati, invece leggevamo proprio un romanzo. Ma, a questo punto, bisogna ammetterlo, un ben strano romanzo...
C'è inoltre da riflettere, in merito a questa ri-congiunzione finale (che, per altro, è parziale e avviene rigorosamente fuori scena). Intendo riferirmi al termine "rappezzo" che è demandato a costituirne la chiave linguistica. Intanto "rappezzo" non può sostenere il peso di una totale conciliazione dialettica: indica piuttosto una unione "povera" che non nasconde la sua insicura giunzione. Inoltre "rappezzo" fa parte di quel "gioco delle parole" che sta nel cuore del racconto e che non basta - io credo - interpretare come un tema da attribuire alla psicologia dei personaggi (come effetto del disadattamento sociale o della caduta di ogni certezza). A me pare che quel "gioco" sia da addebitare al testo nel suo costituirsi, ne venga a rappresentare una figura-chiave e una sorta di motore interno. Non sto solo pensando che il libro sia stato scritto materialmente così, facendosi guidare da un dizionario aperto a caso, e che quindi la linearità della scrittura debba la sua esistenza stessa all'idea delle parole atomizzate nello spazio; ma anche che il fatto che la vicenda sia affidata alla riduzione del principio di selezione linguistica ad un gioco aleatorio diventa un'interessante allegoria del valore sociale dell'invenzione letteraria. Naturalmente qui si apre una ambivalenza logica inestricabile, perché la forza (non ci sarebbe racconto, se non poggiasse sul "caso") è al contempo una debolezza (perché l'idea costellativa del linguaggio non si esprime con mezzi propri - di poesia, magari visiva? Siamo forse sempre costretti in ultima istanza a raccontare storie? Non vince la linearità, allora?).
Mi sembra che un analogo paradosso ci attenda se volgiamo lo sguardo alla "forma del contenuto". Infatti, il contenuto, nella sua stessa consistenza sembrerebbe dalla parte della linearità, anche se poi la "forma dell'espressione" lo costringe agli scarti del molteplice e ai sobbalzi della sorpresa che avrà modo di notare ogni lettore. Però: mi ha colpito il modo in cui non esistono gli strati sociali. Come si passa facilmente della ricchezza alla povertà, dal ruolo dirigenziale all'emarginazione e come - data anche l'importanza della figura del "cronista" - proprio questa figura sia segnata dal marchio dell'indifferenza con l'altro. A dispetto della retorica dell'alterità oggi imperante e di tanto pessimo neo-neorealismo (buonista o no che sia) lo sprofondamento nella degradazione appare privo di senso, vuoi rappresentativo, vuoi morale. Le differenze sociali prendono piuttosto la via del grottesco. Sicché, nella "forma del contenuto" troverei, in definitiva, un accordo proprio con il "caso" e la discontinuità di quel gioco col dizionario, che poi anch'esso ha un'ascendenza insieme sacra a profana, nobile e goliardica, da vaticinio però anche da procedimento dadaista.
Di quanto questi paradossi siano vicini o meno a certi paradossi postmoderni si potrebbe discutere all'infinito. A me però, più che il dilemma senza uscita, interessa la sottigliezza dell'operazione: il fatto, cioè, che il paradosso - invece di essere sbandierato, come sarebbe facile fare - viene incontro inaspettatamente: è imprevedibile. Ci sia, insomma, una deviazione - sottile, ma decisiva - dai prodotti del nostro postmodernismo conformista, standardizzato e in fondo modesto. E mi pare anche che il libro dia una risposta positiva al legittimo dubbio sulle possibilità di un uso sperimentale delle strutture narrative. Oggi che la ricerca sperimentale pare tutta concentrata nel campo "fuori mercato" della poesia, occorre far ripartire la riflessione anche sul modo di raccontare.