Se
è vero che il processo iniziato con il Concilio di Trento realizza
l’istituzionalizzazione della fede attraverso l’affermazione del primato
teologico ed organizzativo della Chiesa di Roma sull’intera cristianità,
esso pare però rappresentare una sorta di restringimento di quello spazio
teoretico e pratico vitale che era stato esibito da quelle intenzioni
speculative – il principio dell’analogicità dell’Essere, pur nella
forte concentrazione degli esiti della riflessione nella raffigurazione unica
rappresentata dalla Persona del Cristo – che erano già state
utilizzate in epoca precedente (XIII e XIV secolo) in funzione di contrasto
dell’espansione religiosa mussulmana. Nel secolo XVI – il secolo di
Giordano Bruno - pare di assistere ad una ripresa di quelle intenzioni, con
una progettualità ideologica che pretende però di far valere soprattutto
quella ferrea e rigida demarcazione e limitazione. Ora il nemico da battere è
rappresentato – soprattutto per l’emergente ordine dei Gesuiti – dal
proteiforme movimento protestante.
Attraverso questo restringimento l’ordine ecclesiastico, attraverso la definizione e determinazione della funzione del 'vicariato papale',[2] doveva però trasformare la Potenza cristiana in potere curiale, sostituendo l’apertura astratta dello Spirito con un’opposta assolutizzazione dell’immanenza, quasi a saldo di un credito assunto dalla ripresa della riflessione aristotelica. Dando avvio al costituirsi della modernità, paradossalmente, quel processo sembra concludersi con un esito opposto a quello voluto e cercato da coloro che lo proposero: con questo processo si offriva infatti la vittoria e l’egemonia a quel sistema istituzionale che meglio era in grado di rappresentare il passaggio e la trasformazione che si operava, trasferendo una struttura razionale che permaneva inalterata in un mondo tendenzialmente più piccolo e più compatto. L’ecclesia calvinista, con la sua struttura ad un tempo collegiale e verticistica, con i propri pastori e presbiteri, riusciva meglio di altre organizzazioni formali a dare nuovo impulso al connubio fra realizzazione controllata della fede ed opera mondana.
Se
dunque la modernità ha come propria determinazione essenziale il progetto
d’una assolutizzazione dell’immanenza, questa si concretizza subito ed
inizialmente proprio nell’ordine che tradizionalmente voleva
l’extratemporale. In questo modo questo stesso ordine cede se stesso
attraverso un particolare trasferimento. Si potrebbe dire che esso tenti di
attuare una speciale traslocazione di se stesso.[3]
La struttura gerarchica persistente nella sistemazione medievale del mondo
(universalità delle nationes)
puntava già alla glorificazione della centralità papale, quale termine
intellettuale e, soprattutto, volontario della coesione dei soggetti nella
medesima ed unica fede. Questo condizionamento e questa determinazione ad
unum erano garanti della separazione e della superiorità dell’intero
aspetto soprannaturale e del relativo apparato mediativo rappresentato dalla
Chiesa visibile (necessariamente unita e coesa) sulle forze modificatrici e
disgregatrici provenienti dall’insieme eterogeneo delle relazioni mondane,
sin dalla fine del Medioevo di natura tendenzialmente borghese.
Ora,
dopo il Concilio di Trento, questa struttura, che nella sua astrattezza si
poteva permettere una certa libertà di movimento e capacità di formazione,
in quanto conservava in se stessa l’unità fra la condizione e la
determinazione, con la volontà di lasciare il proprio 'mondo dei cieli' per
bloccare in qualche modo la 'rotazione' economica mondiale borghese e
riportare a sé l’insieme delle relazioni mondiali, è costretta a scindere
la determinazione dalla condizione: lasciando che si aprisse uno spazio ed un
tempo per l’alterazione mondiale, consente a se stessa un nuovo tempo ed una
nuova speranza di riconciliazione e neutralizzazione. Costretta così a
sospendere la figura papale ad una funzione estremamente tesa di perno insieme
soprannaturale e naturale, la nuova concezione ecclesiastica trasferisce,
secondo la sua nuova aspirazione ed il suo tradizionale ordine, la propria
separata capacità d’intervento e riduzione nell’insieme variabile
rappresentato dalla nuova relazione mondiale economica pre-borghese.
Non
potendo più negare spazio e potere alla molteplicità dei collegi curiali
(chiese nazionali), si collega al nuovo mondo delle relazioni economiche
borghesi (in espansione): vi si colloca quindi al loro interno, ma ne resta
imprescindibilmente vincolata e limitata, quasi invischiata: in un nuovo
spirito di potenza, che anima il mondo moderno. Comincia così a subire
costantemente il pericolo della torsione, dello strappo, della lacerazione:
della frantumazione della precedente unitaria universalità delle nationes
nella pluralità difficilmente governabile delle chiese nazionali, le quali
tanto più tendono a svilupparsi in autonomia e separazione, quanto più forte
è lo sviluppo e l’emergere della nuova mentalità e società politica ed
economica borghese (Inghilterra, Francia, Olanda).
In
ciascuno degli Stati emergenti alla modernità, dove il motore
dell’accrescimento delle ricchezze e dei beni si stabilizzava ed equilibrava
attraverso o l’indifferenza etica del profitto o la sua divina
giustificazione, la 'naturalità' degli scambi (anche nelle sue forme più
estreme) incrementava quella capacità propulsiva e nello stesso tempo dava
estrema concretezza e sostanza a quella necessaria e necessitante richiesta di
legittimità che costituiva l’inizio ed il fine di una sacralizzazione
temporale del potere protoborghese.
In
questo processo di assolutizzazione dell’immanenza, che da un lato
autodeterminava il trasferimento della Potenza entro una delimitazione totale,
dall’altro – e contemporaneamente – assumeva su di sé il compito della
sua attuale realizzazione, l’antica struttura della 'separazione' entra come
in un mondo nuovo, e ne viene apparentemente decapitata e compressa.
Il
pensiero e la prassi dell’analogicità divina viene ora totalmente
rappresentato ed agito – sta qui la radice teoretica dell’affermazione
barocca della 'scena' e del 'teatro del mondo' – tramite
l’assolutizzazione e la fissazione dell’Immagine come eguale
riferimento della e per la diversità esistenziale. In questo modo 'diversità'
naturale e 'diversità' soprannaturale riescono a ritrovare una
ricomposizione, dal momento che in questo nuovo totalitarismo iper-reale la
'luce' della grazia potente, che proviene al sotto-insieme organico attraverso
questa Immagine superiore, stabilisce – senza alcun possibile indugio
e senza alcuna concessa resistenza – quella distinta priorità della
coscienza moderna, che è nulla se presa di per se stessa, e tutto se è
presente (totalmente) nella relazione con ciò che può essere apparentemente
altro da sé: quella onnicomprensiva e proteiforme 'naturalità' che,
attraverso la fenomenicità esistenziale, può essere assunta e ridotta per il
tramite della disposizione soggettiva (umanizzazione del soggetto assoluto).[4]
In ciò la coscienza moderna non può non essere valutata se non come universale costrittivo e vincolante. Universale fondato sulla priorità e precedenza ontologica e ontoteleologica della sostanza umana del potere e del possesso, a sua volta costituisce, nella sua necessaria e necessitante espressione, l’esibizione del ciclo predeterminato della relazione ideologica. Qui, allora, tema e contenuto del pensiero e dell’azione non possono rifuggire da una stretta univocizzante, destinata a costituire la concezione delle stesse procedure contemporanee di riassolutizzazione dell’esistente.
Se,
dunque, la relazione ideologica vigente in epoca premoderna – la finalità
della potenza all’atto che la realizza - offriva infatti una comprensione
razionale di ciò che denominava pensiero ed azione, sì alienata ed astratta
in un termine definitivo, però liberamente ed equanimemente creativo (il Dio
creatore), ora nella relazione ideologica moderna quella rettificazione
univoca dello Spirito si realizza attraverso un’apprensione intenzionata ed
intenzionale, dichiaratamente e persuasivamente neutra e neutrale, che
ritrasferisce in capo ad un 'principe' terreno la possibilità della salvezza
e conservazione di ogni forma di generazione (umana e non-umana), con ciò
offrendo la possibilità di una rappresentazione totale (dell’Uno ed,
insieme, del Tutto).
In
questo modo, se nel periodo premoderno si poteva ancora dare spazio e tempo
divini all’opposizione (soprattutto nelle concezioni platoniche, piuttosto
che aristoteliche, questo compito veniva svolto dalla 'materia', nella sua
riottosità a mettersi in movimento secondo un’azione ordinata), ora nel
periodo della modernità e contemporaneità questo spazio e questo tempo
vengono sterilizzati e dichiarati 'diabolici': vengono rigettati ed espulsi a
priori dall’orizzonte comune della prassi razionale. Così
l’irrazionale-razionabile della fase premoderna si eleva ed ingigantisce: si
trasforma nel mostro proteiforme dell’irrazionale-irrazionabile, in una
potenza tanto più illimitata quanto più apparentemente depotenziata e
neutralizzata. Neutralizzazione ed irrazionale possono così alimentarsi
reciprocamente e reciprocamente sostenersi, in un ciclo apparentemente
indefinito, in realtà concluso dalla trasformazione della limitazione in un
progetto di razionale ed onnicomprensiva distruttività.
Allora l’orizzonte comune della prassi razionale tende ad appalesarsi sempre di più - è la tensione ineliminabile ed essenziale che lo costituisce – come fusione dell’aspetto devozionale tradizionale (così definito 'popolare') con il rigido e limitato autoriferimento di una mediazione che si fa assolutamente immanente.
Sempre
diverso, e così sempre eguale nella propria volontà immobilizzatrice ed
autocentrante, l’ideologico[5]
nella sua forma moderna e contemporanea dichiara di riuscire a mantenere e
congiungere in sé sia l’aspetto precedentemente qualificato e reso come
alienante ed astratto – ora trasformato in deprivante per quanto si dimostra
cogente, attraverso l’inversione e la sostituzione della grandezza
qualitativa con la qualità oggettiva ed oggettuale decisa dal termine finale
di produzione (l’economico) – sia quella circostanza generale che sembra
portare in sé l’unica possibilità d’identificazione ed unità
collettiva: la 'naturalità' della convergenza.
L’identità
singolare, la propria relativa autonomia, allora si trasformano e vengono
accolte e giustificate solamente all’interno di uno spazio vitale generale,
capace di rivoltare e rovesciare l’alterazione, da tratto di migliore
civilizzazione, in restrizione a priori, operata da una relazione contratta e chiusa, tutta
predeterminata (ed assoluta) nei suoi tradizionali principi di dislocazione,
definizione e determinazione. La vita limitata di un’apparenza d’apertura,
data e concessa all’unica condizione che essa si mantenga come tale,
definisce allora una prospettiva estetico-etica nella quale l’interezza e la
globalità delle azioni realizzi un’integralità sistematica secondo
un’intenzionalità mistica che tutto penetra, avvolge e glorifica.
Questa
intellettualità astratta, che riesce (o costringe) ad identificare estetica
ed etica nella misurabilità oggettiva ed oggettuale dei comportamenti,
avvolge e glorifica l’intero concetto dell’esistenza nella prima modernità,
scontando la pena del proprio essere nulla per se stessa attraverso il
contrappasso dell’essere tutto per ed in virtù d’altro. Avvolta e
glorificata sotto la categoria della più completa ed esaustiva fra le
spoliazioni ed alienazioni - quella della fenomenicità eteronoma – questa
intellettualità tende a scomparire dal mondo per ricomparire quale sua fonte.[6]
Oggettiva
per quanto riesce a rendere un oggettuale prestabilito – per ogni oggettuale
– questa intellettualità astratta si rapprende e consolida attraverso la
pseudo-dialettica economica contemporanea. È questa infatti a sostituire
l’apertura creativa (ma astratta) della concezione premoderna con la piccola
parvenza (ma concreta) della riproducibilità illimitata: degli oggetti, dei
soggetti, e della loro organicità ('società naturale'). Degli oggetti prima,
con tutta la serie ordinata dei procedimenti e delle precondizioni richieste,
quindi, con ciò, dei soggetti, nel loro ordinamento e ripartizione
(classificazione) gerarchica.
Scomparso
il tempo (che era comunque, nel periodo della premodernità, senza un proprio
libero spazio), nella modernità irrompe la fase (che è lo spazio concesso
nell’evoluzione predirezionata dei fenomeni). Scomparsa la possibilità
creativa per pochi (diseguale e differente), compare l’automaticità dei
molti (eguale, uniforme e così indifferente).
Senza la diversità e gradualità sacra dei piani dell’Essere che accomunano l’intera umanità, si dà allora il sostituto di una naturalità profana (totalmente laica ed appiattita), luogo inerte nel quale radicare sia lo slancio nella posizione dei principi, che lo sforzo collettivo necessario per la loro applicazione. Tanto quanto, in epoca premoderna, la coscienza si librava in uno spazio astratto e gerarchizzato, per realizzare la volontà del Signore dei cieli e della terra, altrettanto in epoca moderna e contemporanea una coscienza, tanto persuasiva quanto fantasmatica, progetta e necessita la coesione, totale e totalitaria, dei propri sogni alla realtà. Su di una 'materia' invariabilmente intrattabile ed anarchica, e più di prima sfuggente e recalcitrante.
Se
nell’epoca premoderna un’idea astratta di libertà impediva il
riconoscimento della sua amorosa ed eguale applicazione, in epoca moderna e
contemporanea la proposta di un’eguaglianza, che si concreta in una materia
individua, irripartibile e così indegradabile (la sublimazione del possesso
statuale), rende la diversità apparente e limitata. Se nell’epoca
premoderna un’intimità accolta in un ventre divino (comunque soggetto e
subordinato) costituiva la assoluta paternità di ogni evento, nell’epoca
moderna e contemporanea un nucleo di interiorità, che sta tutto nella capacità
preventiva e totale del controllo e del direzionamento, fonda la nuova
appartenenza ed il nuovo sradicamento. Mentre dunque la neutralizzazione del Figlio
nella propria dimensione emotiva e volontaria attestava in epoca premoderna
l’univocità e la determinazione dell’atto poietico di riconoscimento
universale,[7]
la nuova separazione astratta dell’età moderna pare compiersi attraverso
una caduta nell’assenza di radicamento celeste, attraverso la negazione
dell’aspetto emotivo ed intellettuale della volontà. Desiderio e volontà
si abbattono sul mondo nei loro opposti (inaffettività ed illibertà) e si
disintegrano, trascinando con sé qualsiasi luce calorosa e vibrante di pace e
giustizia: guerra e sopraffazione generale cominciano a dominare il nuovo
tempo, rompendo qualsiasi vincolo e ricordo d’umanità e natura.
Conseguentemente mentre un’univoca intelligenza del Tutto guidava in età premoderna la totale pienezza di un Essere che poteva essere definito per il solo tramite della proprietà assoluta, nell’apertura priva d’orizzonte della modernità una ragione, che sorge dal nulla ed al nulla ritorna, non può non lasciare nel nulla dell’indifferenza qualunque determinazione, così costituendo il principio dell’autoisolamento dell’esistente (monadicità). Per modo che l’assenza d’organicità e d’un mezzo superiore impediscono finanche il precedente, immaginato, superamento della finitezza: senza la causa mediante della fede nemmeno il desiderio ritrova l’universalità del proprio impulso e della propria realizzazione. Una materia oscurante avvolge ogni cosa ed impedisce il procedere di qualsiasi distinzione e processo.
Seppure
il divino premoderno negasse, con il suo concetto di unità assoluta,
l’apertura di qualsiasi relazione che importasse variazione e modificazione
allo statuto ontologico di subordinazione dell’universo, la farragine
fenomenica attuale, esito finale e conclusivo della modernità, dispersa e
disintegrata nei mille rivoli della specializzazione ossessiva, sembra essere
capace unicamente di dichiarare e persuadere circa la propria autonoma
esistenza, formalizzando però la propria costituzione sottrattiva: principi e
metodi della propria costruibilità vengono infatti risucchiati in uno spazio,
vuoto di effettiva e pubblica discutibilità e decidibilità, ma pieno di una
determinazione tanto apparentemente necessaria quanto sommamente ed
elitariamente (classisticamente) soggettiva.
La scienza contemporanea – oramai scissa dalla coscienza, perché totalmente improduttiva, se non addirittura ostacolante - sempre più si appalesa come universale dottrinario, sempre più si avvita su se stessa in un processo di riduzione ultimativo e definitorio, finalmente autonomo e svincolato, dove i postulati non possono più richiedere l’approvazione dei soggetti, in quanto questi risultano già inclusi in un progetto di determinazione organica totalitaria ed univoca; e dove, nel contempo, gli oggetti non possono più essere costruiti, nella loro maggiore o minore problematicità, in un modo che non sia in anticipo sottratto a discussione, tramite l’autolimitazione 'evolutiva' e la selezione della e nella comunità degli 'esperti'.[8]
In questo panorama, bruciato ed annichilito nella visione e comprensione, vistoso meramente per l’assenza dello Spirito come mediazione, apertura e dialetticità infinita, compito di una nuova razionalizzazione non può che essere il ricordo di quello Spirito bruniano che è Padre di se stesso: Figlio, dunque, quando deve ricomporre se a se stesso e può farlo attraverso l’apparenza della propria opposizione sintetica. Con le parole dello stesso Giordano Bruno: “Ecco come per la scala de cose superiori ed inferiori procede l'affetto de l'amore, come l'intelletto o sentimento procede da questi oggetti intelligibili o conoscibili a quelli; o da quelli a questi.”[9]
Intrinsecamente dimostrandosi dunque ragione ed ambito, questo processo lascia essere l’Uno, che sfugge come la vertigine di questo Spirito, essendogli però all’interno, e così muovendolo, facendolo diventare opera e natura: “Cicada. Cossì vogliono la più gran parte de sapienti la natura compiacersi in questa vicissitudinale circolazione che si vede ne la vertigine de la sua ruota.”[10]
Se
dunque ogni apparente movimento (ogni determinazione d’esistenza) si muove per lo Spirito e nello Spirito,
l’opposizione che sembra generarsi è un’opposizione plastica, che ha come
proprie coordinate apparenti sia l’alterità che l’immedesimazione.
Essendo
movimento che sempre 'ritorna' all’Uno, ricordandolo come origine propria e
reale, esso è continuamente posizione soggettiva ed apertura aggettiva:
atto distintivo e creativo che riconosce la distanza del proprio principio, e
perciò lo persegue.[11]
Lo persegue nella ricerca di una grazia
che è segno del disvelamento ed orizzonte del nascondimento:[12]
il momento più basso del divino nell’esteriorità di Dio e nello stesso
tempo la sua interiorità, per quanto essa valga appunto come l’apertura e
la dialetticità infinita dello Spirito.[13]
Dunque, infine, il momento più alto (ideale) della Natura stessa, nella sua ragione e possibilità (organo).[14]
Questa
ragione e possibilità non viene però intesa come rapporto e termine
d’alienazione, ma al contrario come critica di quell’infinitismo della
volontà che si fa potenza astratta di riduzione, selezione ed ordinamento dei
temi e degli ambiti di riflessione, predefinizione nella costruzione dei
contesti problematici. Questa ragione e possibilità viene infatti subito
articolata da Bruno come 'vincolo' creativo dell’eguaglianza nell’amore
universale, come termine sapienziale umano che si sottrae a delimitazione,
essendo invece esso stesso la comprensione e la produzione effettiva ed
universale.
Lo
Spirito bruniano mantiene dunque in se stesso, sempre, la
molteplicità: come variabilità apertamente illimitata, essa assomiglia ad
una Presenza vicina ed accogliente, una Persona sentimentale
capace di generare ed estendere nei cieli le 'radici' dell’Essere. Una Persona
che si offre come libero, aperto ed eguale movimento: amore che, attraverso il
desiderio, diversifica l’essere, approfondendo e superando ogni termine
apparente e momentaneo in una potenza superiore.[15]
L’incontro
fra generazione e ricordo ideale della creazione assicura infatti quel
'respiro' di movimento che presenta lo spazio ed il tempo infinito di una Immaginazione
che continuamente si capovolge e ritorna su se stessa, sempre diversa e
variabile, sempre aperta. Capace di riassumere e di riutilizzare ogni effetto
della sua operazione. In questo modo le radici mobili del cielo (le 'ombre
ideali') offrono l’orizzonte di una liberazione che non nega il creaturale,
ma al contrario lo sostiene. E lo sostiene, in quanto lo prolunga in uno
spazio sognato e in un tempo fantastico; dove le 'determinazioni' sono libere:
di crearsi e ricrearsi, nell’accostamento comune e fraterno del reciproco
desiderio.
L’assenza
di centralità così contraddistingue la speculazione 'naturale', 'morale' e
'religiosa' bruniana: il palpito ed il respiro di questo Spirito,
dialettico e multivoco (che chiama in molti modi e secondo molteplici
direzioni), muove con un senso che dissolve la limitazione perennemente
immaginata, facendo dileguare all’orizzonte la meta ideale dell’universale
relazione.[16]
Questo senso è, così, quello che ripristina l’apertura dell’infinito, la
sua creatività ed il suo divenire dialettico, relativizzando ogni meta ideale
e negando che essa possa sussistere e stare nell’immagine di una consistenza
assoluta e separata.[17]
Lo
scomparire all’orizzonte della meta ideale dell’universale relazione vale
dunque, nella speculazione bruniana, la negazione etica dell’assolutezza del
presupposto antropico. Senza una tensione universalistica non comparirebbe
infatti alcuna purezza di concezione: non vi sarebbe alcuna grandezza
espositiva e qualità intensiva. Non comparirebbe, appunto, alcuna eticità.
Ora,
questa eticità, pur avendo bisogno d’essere espressa, non ha alcuna
necessità d’essere confinata. Anche relativamente: per opposizione alla
limitatezza del discorso oggettivato. Anzi, essa tende a superare questi
confini.[18]
In
Bruno questa eticità non è patrimonio esclusivamente umano: per questo il
rapporto che si istituisce in nome dello Spirito
che diviene è apparentemente estrinseco, 'naturale'. Per la volontà di
comprendere universalmente e non riduttivamente.[19]
Per
questo motivo Bruno potrebbe forse far sua l’affermazione plotiniana che
vuole che l’Anima sia terza,
rispetto al Bene ed alla Mente:
solo se è esterna potrà essere interna alle 'cose', comprendendone la volontà
generatrice.[20]
Slanciando infatti una volontà generatrice, ed ampliandola universalmente
sino a raccogliere in unità la diversità dei fini naturali, non ci si
restringe ad un concetto soggettivo[21]
dell’anima, proprio perché l’unità che si propone è un’unità aperta:
illimitatamente aperta.
Con
questa apertura essa offre la gioia e la felicità (la festa) dell’intera
creazione:[22]
nella pluralità e nella continua diversificazione ricorda l’attributo
mentale dell’infinitezza, mentre nell’essere liberamente per sé,
l’intenzione della positiva universalità del Bene, termine non distaccato
ed eternamente operante.[23]
Nell’infinitamente buono, nella distribuzione e partecipazione illimitata del ed al bene del desiderio, il pensiero di Giordano Bruno ritrova allora un’analogia non ristretta, ma effettivamente universale: in essa ogni manifestazione viene sin dal principio – per e nell’amore-eguaglianza che libera - inclusa nella naturalità della perfezione, nella spontaneità della sua espressione. Senza la contrapposizione generalizzata generata dal concetto dell’appropriazione e senza la sua successiva neutralizzazione istituzionale, l’ordine bruniano non abbisogna di essere rappresentato e difeso.[24]
L’eticità
bruniana allora si presenta attraverso la negazione della separazione
'essenziale' e la conseguente critica della gerarchia, che la ricompone
continuamente.[25]
Senza la prima, infatti, non compare quella necessità della mediazione che si
esprime come partecipazione collettiva e si vettorializza secondo una pratica
della convergenza che, a sua volta, ha la forma e la materia della soggezione
e del forzoso riconoscimento.
Se
l’identità del potere si esprime attraverso l’univocità dei
trasferimenti, la sempre libera ed apertamente diversa possibilità bruniana
apre e diversifica i riferimenti, lasciandoli essere nella loro libertà,
nella loro fraterna e feconda eguaglianza. Tanto quanto allora la pluralità
dei beni viene inverata (realizzata e giustificata) dalla totalità
monocentrica del possesso assoluto, altrettanto ed all’opposto la loro
libera e desiderata creazione viene garantita dalla spontaneità che
accompagna la bruniana diversificazione naturale. Se la 'sostanza' di
tradizione neoplatonico-aristotelica si identifica attraverso l’espulsione
della pluralità dei fini e gli 'accidenti' si riconoscono attraverso il loro
abbattimento, generato dalla loro neutrale interscambiabilità, la
dissoluzione bruniana della omogeneizzazione della sostanza provoca
l’apertura di una variabilità totalmente impredeterminata e per nulla
superficiale. Anzi profonda e, in un senso interamente rivoluzionario,
essenziale (potenziale). Tanto profonda ed essenziale da poter costituire
l’invisibile fondamento della critica alla partecipazione, generale ed
asettica, dei soggetti 'accidentali' ad uno scambio che lasci immutata, e
centrale, la relazione di predominanza.
La relazione di predominanza vuole ed intende offrire senso e significato globale all’essere: l’egemonia di chi non ha relazione con altro, ma solo con se stesso (non avendo dunque alcuna relazione), ha il semplice, mero e brutale, corrispettivo della totale diversità a se stesso (alienazione) di chi si riconosce solamente nello spossessamento e spoliazione delle proprie, naturali, capacità creative, in un automatismo della fede che annulla l’intelletto in una ragione eteronoma.
La relazione bruniana invece è un’apertura orizzontale, che lascia impredeterminatamente aperta la soluzione teorico-pratica del problema della salvezza. La sua indefinitezza a priori non consente alcun trasferimento della Potenza, sulla base di un Atto nascosto e sottratto, sempre eguale a se stesso. Questo trasferimento, infatti, deloca superiormente uno spazio ristretto di decisione ed apre un’univocità di determinazione. Questo spazio e questa univocità sono poi capaci, insieme, di rendere ed offrire l’insuperabilità dell’ambito (classico e moderno) delle statuizioni collettive. Ovvero di quelle statuizioni che delimitano e definiscono lo spazio vitale – totale (e totalitario) – dell’immagine (classica e moderna) della collettività, civile e culturale, in un ambiente omogeneo dove 'natura' e 'grazia' si fondono e si confondono, compenetrandosi reciprocamente e riprendendosi continuamente in quell’unico aspetto assolutistico del fare che è il disporre.[26]
Contro quello spazio ristretto di decisione e quell’univocità di determinazione che permettono tradizionalmente solamente un’apertura astratta e deprivata - misera e nuda, perché privata anticipatamente di ogni determinazione – l’anticlassicismo pienamente consapevole della speculazione bruniana, con il suo esplicito riferimento alle correnti filosofiche presocratiche, rigetta in anticipo il ponte costruito dalla modernità: il trasferimento ad un nuovo mondo limitato delle strutture di senso e di significato del mondo precedente, soprattutto nella propria struttura profonda, costruita attorno al concetto di un Uno riduttivo e d’ordine, fondamento della fusione fra pensiero dell’unità ed azione della necessità.[27]
Nel vuoto decretato dallo spazio astratto della modernità – in questo svuotamento delle determinazioni scompare infatti il bruniano esser-parte dell’infinito - l’aspirazione a riempirlo ed organizzarlo fa nascere una linearità di dipendenza, assoluta ed intangibile, che, nella differenza – la quale si apre, nella relazione principio-principiato, come avocazione univoca di ogni fenomeno – pone l’esistenza come unità di, ed in, questo stesso differire.
In
una riduzione particolarmente accentuata del tradizionale rapporto platonico
fra essere ed essere-diverso questa apparenza fluente e
digradante – progressivamente – dal suo centro originario procede ad una
immanentizzazione totale del rapporto d’alienazione: secondo l’idea di una
parificazione verticalizzante, realizzata per il tramite di una misura
assoluta, l’immagine perde la propria emotività, depurandosi e
scarnificandosi a natura alienata (inertizzata). Il termine, che così si
impone, costituisce il motore di ogni movimento di determinazione, sia per
l’intelletto – che in tal modo si 'chiarifica' – che per la volontà –
che così apprende la 'luce'.
Il
superamento, che così si dimostra, vanifica ogni altra connessione di valore,
ogni relazione che liberamente e spontaneamente voglia darsi, qualora non si
identifichi con quella completezza (di volontà ed intelletto) che si dà e si
manifesta come perfetta e compiuta isola di determinazione. Però, nel
medesimo atto che pone il termine, si apre anche il campo per l’inserzione
di una serie gerarchica di concetti astratti: una serie implicativa, sulle
orme della tradizione medievale, in tal modo comincia ad attuare e realizzare
un procedimento di progressiva astrazione, che apre il cammino della
progressiva alienazione e spoliazione dell’Essere, che qui può essere
considerato unicamente come apparente. Tale Essere potrà invece dirsi
comparente, ed assurgere a piena e totale esistenza, solamente qualora si
identifichi senza residuo con la sommità di questo stesso procedimento
astrattivo-alienante, divenendo il termine universale dell’avvaloramento
soggettivo.
L’Essere
della modernità trova così, e solo in questo luogo eminente (egemonico), la
propria intera manifestazione: si offre e si dà come 'scena e teatro del
mondo'. Autoarticolazione perfetta: capace di vivere e riprodursi nel momento
in cui si nutra ed alimenti di, e per, se stessa (organismo totale). Delle
parti di cui dispone e nell’organizzazione che genera, quando agisce ogni
trasformazione possibile (organismo completo).[28]
È
in nome e per conto di questa Potenza assoluta, che ogni contrarietà e
contrapposizione – definite 'naturali' – vengono fuse e risolte: esse
paiono così trovare uno slancio ulteriore, non come diversità, ma come nuova
unità (in una funzionalità eteronoma dell’opposizione). Questa nuova unità
non fa altro che apparentemente far risorgere quella coesione che ogni
diversità disintegra; non fa altro che portare ad evidenza una capacità –
che è nello stesso tempo necessità – di apprendere secondo una
precomprensione. Una precomprensione che vale tutto un mondo e si appalesa
come unica ragione: unica e medesima (invariabile) sostanza di tutte le
apparenze in atto. Questa precomprensione, nella sua capacità esplicativa e
nella necessitazione etica che induce, diviene così forza suprema e
superiore, che sostiene l’architettura universale, trasformandosi in tal
modo in una forma sublimatrice, capace di trasferire l’esistente
(modificandolo secondo la propria monocentricità) attraverso i livelli
iniziali d’astrazione. Facendosi mediazione assoluta essa opera una
materializzazione astratta e separata, nella quale realizzare lo scambio fra
logico e temporale, libertà e dominio.[29]
In
questo modo la sofferenza legata alla 'civilizzazione' non solo viene
accettata come 'normale', ma viene – di più – considerata come 'normante':
in uno scambio della 'follia' per 'sanità' che è meramente e brutalmente la
persuasione del potere.[30]
La
sottrazione, iniziata con il procedimento astrattivo-alienante, si compie così
e si fissa (stabilizza) nella neutralizzazione della libertà, della felicità
e della gioia, nell’impedimento di quella eguale creatività alla quale esse
offrono amorevolmente adito, grazia e possibilità. In nome di una pienezza,
tanto necessaria per quanto si rivela necessitante, dunque integrale, ogni
spazio e tempo del godimento vitale della vita diventano ferrea e regolata
organizzazione del 'divertimento' (nel senso della diversione): la 'danza',
che sempre si riprende fra l’altro e se stessi, e che lascia sempre diversa
la strada che si può percorrere, si tramuta in un amplesso mortale,
reciprocamente distruttivo.
Del
resto, è proprio in tale modo che può rimanere in campo ciò che si vuole
terzo, rispetto all’uno ed all’altro, e che conseguentemente si staglia
come unico, perché sottratto ad ogni possibile differenza. Identico in se
stesso e così immobile, l’idolo ed il feticcio dell’identità sta come un
vero e proprio 'convitato di pietra', silenzioso e terrificante, della
modernità e della sua prosecuzione ultima e definitiva nella contemporaneità:
il nuovo ordine mondiale fondato sull’eliminazione e la sradicazione del
diverso.
Oscurata
la distinzione creativa – che di un vero e reale oscuramento si tratta –
cade però anche la moralità: ad esse viene sostituita un’Etica che tutto
raccoglie come Uno, nulla nel vento della Storia. In questo deserto
cimiteriale dell’Ideologia, dove insieme agli uomini che per primi vengono
sacrificati (e qui sta ogni esaltazione del sacrificio), viene decapitata
l’apertura di quella relazione che vincola Idea ed Umanità, e che
costituisce il futuro della naturalità, scompare quello slancio emotivo e
quella spontaneità, il cui insieme solamente può fondare l’appello
razionale e la ricerca positiva (l’intelletto non disgiunto dalla volontà).
In
tal modo: non apparendo alcun Bene quale termine (principio e fine del
movimento dell’essere), per la scomparsa della congiunzione (l’Amore), che
lega insieme da un lato l’eguaglianza della ragione e dall’altro la
diversità della volontà (libertà), il Velo di un Nulla immobile accoglie
l’impossibilità d’andare oltre quell’Apparenza che si dispone (ed
ossessivamente si ripete) come auto-riferimento.
Un
auto-riferimento che dissolve la corposità di quell’Amore nella
sottomissione e nell’annullamento del desiderio, e che di tale sottomissione
ed annullamento si serve per ridurre generalmente la diversità (la stessa
libertà). Credendo e continuamente persuadendo di riuscire a comporre uno
spazio uniforme d’eguaglianza, realizza uno spazio che in realtà è lo
spazio del camuffamento del 'dovere' in 'diritto', della trasformazione della
libera attività universale in adeguazione 'razionale' normante, e così
onnicomprensiva.
Lo
spessore della limitazione che questa ragione riesce ad organizzare sta allora
tutto nella serie ordinata delle limitazioni totali che il 'sistema', che deve
essere escogitato, riesce ad imbastire e sostenere, in una convergenza
universale, che da subito offre la materia della propria espansione e la forma
della propria sopravvivenza. Perciò il limite non deve scomparire, né essere
troppo ristretto, a pena del dissolvimento o della soffocazione del sistema
medesimo. Il ritmo del sistema stesso deve dunque oscillare fra una
repressione delle spinte eccedenti, delle innovazioni radicali, ed il
mantenimento di un’autonoma capacità propulsiva. L’equilibrio viene
raggiunto quando la relazione appaia interna al sistema stesso: quando compaia
un’intelligenza motrice che sovrintenda alla totalità dei movimenti, senza
esclusione. Che sia capace, nel contempo, di considerare e di giustificare
anche le immobilità, modificando il senso della loro attività e passività
con nuove forme persuasive.
Ciò
si realizza quando si possa implicare, sempre e costantemente, una ragione che
ripeta costantemente se stessa nella pluralità e diversità degli eventi, che
possa dunque agire come orizzonte di ogni riflessione e di ogni azione; come
causa lontana (Prima), ma comunque sempre presente nell’appetito e nel
desiderio dell’umano possesso. Attraverso il tramite essenziale
dell’appetito e del desiderio dell’umano possesso, dunque, quella causa può
presentarsi come l’agente unico di riflessione e modalizzazione: ciò che
non viene questionato, ma solamente e semplicemente onorato, adorato e
seguito.
La forma e la materia con le quali, insieme, quest’Unico si impone attraverso tutta la modernità sino agli esiti ultimi della contemporaneità (globalizzazione) sono lo scambio e la sostituzione della pace e della giustizia con la forza e la Legge. La ricerca, aperta e compatibile con la diversità e la ricchezza degli scopi naturali ed umani, viene sostituita dalla fusione e dalla scomparsa della consapevolezza riguardo alla presenza ed azione dell’Immaginazione desiderante. La mobilità della rappresentazione e la sua plasticità vengono irrigidite e concentrate nella posizione che vuole ed impone una necessaria coerenza e convergenza di immagini neutralizzate nella loro portata eversiva: all’apertura ed alla varietà si sostituisce la fissità e la ripetizione ossessiva. La sovrapposizione per connessione diventa l’unica forma di progresso ed accrescimento, senza alcuna avvertenza nei confronti delle crisi limitatrici. Queste ultime vengono infatti considerate come provenienti da un’opposizione che è già stata dichiarata nulla ed inesistente, perché posta fuori della necessaria interezza e globalità del sistema.
Infatti,
senza la consapevolezza del divino e senza la determinazione che ne proviene
nessuna variazione (in se stessa variabile) può essere legittimata, nessuna
opposizione viene considerata possibile. Il divino, non apparendo nella sua
infinita apertura e non dando luogo per questo ad alcun suo perseguimento, non
accompagnerà l’intera natura come coscienza del limite infinito, non
comparirà come rispetto e dignità della pluralità, non genererà alcun
pensiero della libertà, alcuna volontà della sua eguaglianza, alcun amore e
desiderio per la sua diversità.
Sradicando
ogni possibile diversità, lo 'spirito del mondo' genererà, al contrario,
assenza di qualsiasi riferimento, causando in tal modo il conflitto globale;
disponendo chiusura e caduta sentimentale ed emotiva, al loro posto sostituirà
slanci tutt’affatto materiali, preventivamente inglobati, controllati ed
agiti secondo un purissimo formalismo razionale, prevalentemente - ed
egemonicamente – economico.
Con
il desiderio di tagliare vieppiù le parti – escludendole in quanto parti
d’infinito - e la volontà in tal modo di salire e scalare tutto ciò che
esiste possibilmente solo in virtù di un essenziale e necessario
(necessitante) nucleo elementare monocratico, darà (concederà) il pensiero
come semplice e vitale preoccupazione della sopravvivenza: distoglierà dalla
dignità del creato, allontanando con il suo monito demonizzante dalla
possibilità della creazione.
Contro
la necessità dell’opera dell’Anima,
farà valere l’illusione ed il miraggio dell’immagine reale,
preventivamente codificata e così sia tecnicamente spiegabile, che
tecnologicamente riproducibile. Espanderà l’intellettualità per quanto
questa si dimostrerà funzionale a questa sostituzione: ne creerà ed
organizzerà nuovi regimi e coorti, con l’aspettativa tutta concreta che
esse sostituiscano a loro volta la riottosità del manuale, così risospinto
verso il ghetto di un’esistenza sempre più misera ed inutile, verso il
bisogno di una sopravvivenza brutale ed animalesca. Ridurrà invece sino alla
sterilizzazione la sensibilità, la sua interna apertura verso il possibile.
E, con essa, il desiderio e la volontà – la grazia intelligente ed aperta
dell’amore – sottraendo ed abbattendo l’ideale con l’imposizione di
una ragione materiale enorme, globale: tutta involta in se stessa, essa darà
l’impressione del movimento più libero e sfrenato, restando invece cogente
ed immobile per l’eteronomia degli spazi che concede e dei tempi che
condiziona. La vita, così ritagliata e spezzata, verrà ridotta a misero
coriandolo dei giorni di festa: felice solo se sospesa ed in attesa di mani
che la lancino, brucerà e si esaurirà rapidamente e senza dolore.
In
questa immensa macchina fagocitatrice l’umanità – selezionatamente –
perderà la natura: la propria, innanzitutto; quindi quella delle cose che la
circondano. Ed anche qui in maniera selezionata.
Il
'Possesso' dei soggetti e degli oggetti si distrarrà dall’orizzonte della
diversità e si concentrerà sempre più in un solitario gioco con se stesso.
Spinto dalla necessità della continua feticizzazione di sé (pena il
decadere), cercherà di aspirare a sé ogni cosa: di fare di sé
l’aspirazione per e di ogni 'cosa'.
Così
l’atto e l’azione del modellizzare a sé salverà forse il possesso: non
certo la vita che comunque fuggirà altrove. Fuggirà dove la grazia
intelligente ed aperta dell’amore permetterà la volontà come prolungamento
del desiderio, estendendone le radici per quanto sia capace di riportarle al
'cielo' della considerazione universale.
Allora
in questo spazio 'etereo' troverà posto e si realizzerà la comune capacità
creativa, incapace di distinguere e separare l’unicità della fonte dalla
pluralità delle sue realizzazioni, sempre diversa e correlativa,
reciprocamente singolare. Nessun dio astratto e separato giocherà in questo
spazio con la diversità dell’amore che accoppia ed unisce: nessun dio
astratto e separato potrà ergersi a padrone del reciproco fraintendimento,
come della immaginata reciproca fusione. Nessuna fortuna o destino disgiungerà
od accoppierà, in una fisica del movimento casuale, dove incontri, scontri,
fusioni o respingimenti possano essere determinati in maniera eteronoma; o in
una chimica dalla formula narcisistica, dove l’immagine dell’io si
riproduca con violenza per entrambi i soggetti, tendendo allo spasimo la
relazione.
Lo
spazio di questa comune capacità creativa ed il suo tempo, totalmente
autonomo, stabiliranno invece, insieme, il senso del superamento del limite:
essi infatti rappresentano la perfezione come atto di perfezionamento che ha
la stessa perfezione più alta quale causa e principio. Essi non genereranno
la perfezione, bensì la ri-genereranno, continuamente: avendo senso e ricordo
che la propria azione nasce, in ciò porranno la ragione che la propria
coscienza si svolga come immagine viva ed aperta, ricca, feconda e molteplice.
Non essendo altro che diversità, estenderanno ed apriranno (moltiplicheranno)
questa immagine come variazione animata dall’alto: immagine viva e mutevole,
come la fiamma che la produce. Il pensiero-azione del perfetto.
Nel
pensiero del perfetto ed in ragione del pensiero del perfetto, quando il
pensiero del perfetto si fa azione interna a se stesso, l’etica sembra
avvolgere come veste apparentemente esteriore la continuazione dell’azione
che vuole farsi interna al perfetto stesso, vuole essere ed è il perfetto
stesso: fuori rischierebbe infatti di restare come pietrificazione della sua
perdita definitiva, e di diventare quindi idolatria della sofferenza, semplice
e brutale sua contraffazione. Tradimento del Dio che è Amore e vuole la
felicità e la gioia: la vuole universalmente e senza differenze, in una
liberazione pan-genetica che arricchisca l’intero esistente, muovendolo
verso i propri veri e buoni fini.
Così il divino sempre rinasce a nuova vita, nello sguardo assoluto e compiacente del dio che si fa. Padre, Figlio e Spirito si ritrovano e riprendono così continuamente,[31] in una ciclicità che per il loro essere plurale appare infinita. Che per il loro essere plurale è infinita. L’unica immagine che valga: che lo Spirito rigeneri in sé il Padre ed il Figlio: il Padre come fuori-di-sé, il Figlio come dentro-di-sé (ricomposizione).[32]
Per questo motivo, se l’Uno bruniano, nella sua infinita scomparsa,
lascia di sé, come traccia ed idea, lo spazio ed il tempo di una opposizione
infinita, la ragione e la possibilità che sempre emergono come
giustificazione e generazione dell’intero esistente non espellono da sé un
interno motore desiderativo, che nella sua intelligibilità ed intelligenza
(nella sua opera) offre l’orizzonte del movimento dell’universale
apparente (molteplicità). Il movimento dell’universale apparente
costituisce infatti l’autonomia e la libertà dell’animazione: la sua
oscillazione fra il principio creativo e dialettico, capace della
diversificazione come spazio e tempo dell’infinito naturale, morale e
religioso, e la disgregazione di quella formazione assoluta che, attraverso la
coesione e la convergenza, sublima il finito nella necessità proiettata di
un’immagine illimitata.
Allora, contro una teologia del passaggio del finito all’infinito, la
proposta speculativa bruniana resta sempre attenta a coniugare l’infinito
con l’infinito.[33]
Senza separazione, alienazione e trasposizione del primo in un’immagine
artefatta del secondo, la purezza dell’infinito originario rende affezione
ed intelligenza di sé attraverso la variabilità illimitata delle sue
creazioni, così manifestando l’invisibile eguaglianza universale nella
congiunzione dinamica fra l’amor di sé e l’amore per ciò che sembra
apparire altro da sé.
È questa congiunzione dinamica[34]
che si contrappone ed annulla la posizione di una dimensione assoluta,
all’interno della quale possa vigere l’immagine di una direzionalità
misteriosa, comunque univoca nei suoi fini e nei suoi mezzi. Assoluta nella
sua volontà e nella sua potenza. Al contrario la molteplicità superiore
delle 'potenze' bruniane rammenta eternamente la dissoluzione attiva della
classica e moderna volontà di potenza, attraverso l’eguale distribuzione e
partecipazione al desiderio, unica ed autentica fonte generativa e dialettica.
Nasce in questo modo la nuova 'logica' bruniana, che non può non
allontanare in modo consapevole il filosofo-teologo-cabalista nolano dalla
tradizione culturale neoplatonico-aristotelica e, soprattutto,
dall’applicazione – soprattutto in ambito cristiano - di questa tradizione
allo spirito dell’antica religiosità. Così piuttosto che di eterodossia
religiosa nel caso di Bruno si dovrebbe parlare piuttosto di rifiuto motivato
ad una forma, in senso lato culturale, che ha – molto probabilmente secondo
il filosofo nolano – distorto l’autenticità del messaggio cristiano,
oscurandone e delegittimandone in profondità e soprattutto in elevatezza le
radici e lo spirito. Conseguentemente, piuttosto che verso una mistica
dell’azione – che riporterebbe l’interpretazione bruniana verso
l’affermazione di una prioritaria necessità oggettiva di tipo fisicalista
– è preferibile lasciare l’eroticità[35]
del pensiero-azione bruniano nel campo infinito di una libertà creativa
aperta ed illimitata, non predirezionata, né tanto meno assunta entro una
qualsiasi forma e materia di limitazione; senza, dunque, una qualsiasi
immagine di necessità e di necessitazione.
Pertanto la speculazione bruniana, piuttosto che la reiterata affermazione del valore della negazione di sé e dell’alienazione in Dio, consisterebbe precisamente nel suo opposto: proprio la rifondazione di una visione trinitaria rivoluzionaria – con nuovi (antichi) concetti del Figlio e dello Spirito – permetterebbe quella continuità del movimento metafisico che riporta a luce e grazia una rinnovata Potenza,[36] viva e vitale nell’affermazione della libertà, dell’amore e dell’eguaglianza universali. Allora, veramente e benignamente, l’infinito nell’unità del creato riempirebbe questo di bontà e bellezza, mentre la luce divina non abbandonerebbe mai la corposità della propria presenza attraverso la benedizione della Provvidenza.[37]
È solo in questo modo che nell’adesione all’infinito può nascere quel processo di liberazione dell’animo umano da piccolezze ed angustie, che riesce a porre in questione – sempre e di nuovo – il 'peccato' della doppia limitazione e della doppia caduta, divina e naturale. Se l’invidia predispone la necessità del processo dell’alienazione, verso l’inevitabile e fatale conseguenza che mezzi e fini negativi non possono non trasporre divinità e natura verso tonalità cattive ed indifferenti, l’affermazione bruniana che vuole che “come tutto è da buono, cossì tutto è buono, per buono et a buono; da bene, per bene, a bene”[38] non può non svelarsi come quella magia segreta che ricorda la necessità della congruità positiva dei mezzi ai fini. Allora, la disposizione differente dell’indifferente, anziché essere qualificata come una supposta adesione bruniana ad una visione nihilista, deve piuttosto essere considerata come il presupposto infondato che deve essere demolito dal nuovo concetto bruniano dell’unità infinita. Questo nuovo (antico) concetto, infatti, non è nient’altro che la riproposizione – religiosa e laica insieme – dell’unità infinita dell’eguaglianza. È pertanto questo concetto a riproporre, parimenti, il dinamismo eterno della dialettica dell’opposizione e della sua unità interna: solo in questo modo, infatti, il movimento apparente nell’infinito è, insieme, movimento d’infinito, nelle sue parti. Che riaprono il concetto della creatività, insieme a quello della reciprocità della loro determinazione. Solo in questo modo si può, infatti, ridare il senso per il quale “profonda magia è saper trar il contrario dopo aver trovato il punto de l’unione”,[39] mentre il 'furioso' può valere come “doppio vizio”[40] perché sdoppia e ricongiunge unità ed infinito, all’infinito.
È
quest’apertura superiore a togliere fondamento ad uno spazio astratto per
l’oggettività, che così sembra dissolversi, facendo invece rinascere di
nuovo l’individuo come soggetto trascinato ed elevato dalla volontà di un
bene onnicomprensivo (intelletto). Creativo per sé e dunque dialettico per
l’intero.[41]
Questa apertura riesce, pertanto, a dar conto – attraverso il concetto della
molteplicità (delle idee, delle potenze, dei mondi) – dell’affinità
bruniana con le riflessioni lucreziane, averroistiche ed ermetiche
(naturalmente rivisitate e riformulate in modo rivoluzionario).[42]
Se tutto quanto sopra è stato scritto ha un qualche fondamento, allora non vi è più alcun 'pericolo' che la speculazione bruniana voglia avvalorare la necessità di un’espressione uni-totale (emanazionismo): anzi, al contrario, la concezione bruniana confligge consapevolmente proprio con la nascente concezione ideologica moderna, mentre il nucleo più profondo del suo pensiero – la concezione di Dio e dell’Universo – garantisce nel contempo sia la religiosità della fede, che la dialetticità della ragione, senza contraddizioni o contrapposizioni. La dichiarazione d’eresia allora che fondamento può avere? Essa nasce, anche se non si esaurisce – come alcuni interpreti hanno osservato (Firpo, Sorrentino)[43] – con l’affermazione della 'pluralità dei mondi', richiamata a lungo dagli stessi inquisitori.
L’affermazione
della 'pluralità dei mondi' infatti squadernava l’impalcatura teorica
attraverso la quale la fede cristiana era stata tramandata nella storia sino
al tempo di Bruno. Essa, ponendo un’illimitata massa e grandezza di natura
derivabile necessariamente dalla potenza divina, avrebbe impedito qualsiasi
distinzione di una supposta libera volontà divina, annullando insieme il
fondamento della libertà creativa e della grazia provvidenziale,
dell’Incarnazione e dell’economia della salvezza. Ma Bruno non poneva
affatto questo tipo lineare di causa-effetto, proprio perché era
consapevolissimo che questo non sarebbe stato altro che la riammissione –
oltretutto sotto vesti degenerate – del concetto di un Uno finito e
limitato, essenzialmente necessitante e d’ordine, alienante e negativo. E
allora – se questo è vero (come è vero) – per quale ragione non
intendere che la speculazione bruniana, nella sua affermazione della
'coincidenza dei contrari', non tanto tenderebbe ad annullare ciò che in
precedenza avrebbe affermato – la distinzione astratta fra Dio ed Universo
– quanto piuttosto pretende – a rigore di quella 'logica' precedentemente
affermata – proprio di negare in radice la possibilità di fondare un mondo
astratto e sospeso, dove Dio e Natura si elidano reciprocamente in una materia
necessitante, per la quale volontà e fine coincidano (monismo)?[44]
In Bruno l’infinito della libera ed amorosa eguaglianza costituisce
l’orizzonte entro il quale si danno contemporaneamente unità e movimento
oppositivo. Così sorge quell’immagine reale del creativo e dialettico che
stabilisce il motore dell’in-finire del desiderio. Senza questo motore non
si dà infatti vero infinito: infinito – inscindibile – capace di
stagliare da un lato la distinzione dell’Essere e, dall’altro, la
manifestazione dell’onniforme a-centrico.
Di
qui l’apparenza di una creazione eterna e di una materia prima ad essa
accostata pure egualmente eterna, con un Ente mediatore – il Verbo,
l’Intelletto e l’Anima del mondo (non creatore, né creatura) – capace
di raccogliere in sé una generale funzione d’orientamento, ma
progressivamente teso a perdere peso e valore, specificazione e qualificazione
oggettiva, oramai destinato a decadere da qualsiasi partecipazione interna ad
una vita e ad un circolo trinitario. Esso pare mantenere semplicemente la
funzione di centro espansivo della materia stessa, con il corollario delle sue
potenze superiori.[45]
Mossa dall’interno dall’Anima del mondo, la materia si svolgerebbe allora
quale vita autonoma nella sua produzione e diversificazione fantastica.[46]
Ma questa apparenza è giustificata dalla struttura precedentemente delineata?
L’unità e l’opposizione infinita bruniane danno esistenza e movimento attraverso una spiritualità intrinseca – il desiderio di sé dell’universale infinito (Eros) – tramite la quale la creatività bruniana non è né semplicemente immanente (necessaria), né puramente distaccata e indifferente (astratta). Anzi, si potrebbe proprio dire che la creatività bruniana è proprio una specialissima “spirazione intratrinitaria”,[47] dove l’Immagine amorosa dello Spirito del Figlio crea quella molteplicità superiore delle potenze che giustificano una concezione dell’Essere (Idea-Ideale) aperta e plurale, a fondamento e rappresentazione della libertà degli enti individuali, i quali a loro volta non possono non svolgere la propria vita rimanendo all’interno di un rapporto mutuamente e reciprocamente – provvidenzialmente secondo Bruno - creativo e dialettico. Solamente in questo modo, del resto, l’infinito della Libertà – il Padre, la Causa e la Potentia – può continuare a ritrovarsi nell’in-finire di sé – Esse – come Spirito del Figlio – Principio, Atto e Velle.
Questa concezione – è vero – disintegra la supposizione analogica e la tradizionale distinzione fra potentia absoluta ed ordinata;[48] però a questo punto comincia a sorgere con una certa, iniziale forza la domanda se quest’ultima impostazione culturale riesca davvero a garantire il nucleo fondamentale della fede religiosa cristiana: il Dio infinito nella libertà, nell’amore e nell’eguaglianza. Solamente la concezione bruniana potrebbe in realtà riuscire a farlo.[49]
Per questo si può agevolmente sostenere che l’intento bruniano rimase, almeno alla fine del processo, esposto in tutta la sua evidenza: effetto immediato di questa decisa presa di posizione del pensatore nolano non poteva allora non essere se non la difesa estrema del connubio fra fede religiosa e sua tradizionale comprensione filosofica ed ideologica. Difesa che non avrebbe potuto non imputare all’ardimento del filosofo nolano forse il più alto delitto di lesa maestà: la disintegrazione dello strumento di fondazione del potere. Del potere nella sua forma antica, medievale e – ai tempi di Bruno – proto-moderna: la concezione dell’Uno necessario e d’ordine.
Allora l’interpretazione tradizionale della speculazione bruniana – Bruno gnostico-ermetico – rischia di oscurare, magari per motivazioni diametralmente opposte (a seconda dei soggetti impegnati a sostenerla), proprio il suo intento più profondo e più alto, dunque certamente e consapevolmente rivoluzionario: riscoprire in un mondo lacerato dalla violenza istituzionale l’idea e l’ideale della libera ed amorosa eguaglianza. Lo Spirito che ricongiunge e ricompone il Figlio al Padre.
Contro
l’astrattezza intellettualistica della fine dell’opposizione – ecco
spiegato il ritorno alla moda dell’averroismo contemporaneo, nel tentativo
di reimporre soluzioni simili per problemi che accostano l’età
contemporanea a quella proto-moderna - Bruno riapre la coscienza
dell’ineliminabilità etica e religiosa, civile e politica del suo infinire.[50]
È questa apertura superiore – le vere e proprie ali del Cavallo pegaseo (la
Y pitagorica) – che trascina ed eleva l’impulso, la spontaneità ed il
desiderio interno della materia; che costituisce la grandezza e la semplicità
– l’inscindibilità (e, dunque, eticamente: l’inalienabilità) – del
tratto che unisce idea ed ideale: la libera ed amorosa eguaglianza è infatti
principio capace di mantenere insieme sia l’apparenza di un movimento, che
la certezza della propria assoluta stabilità.
Considerate
queste argomentazioni, la proposta teologica bruniana non pare desiderare,
allora, la distruzione e la dissoluzione dell’articolazione trinitaria,
quanto piuttosto volere una radicale trasformazione e rivoluzione
(rifondazione) della sua concezione tradizionale. Piuttosto che ribadire la
continuità e partecipare direttamente allo sviluppo dell’interpretazione
neoplatonico-aristotelica (seppur in chiave ermetica),[51]
la proposta teologica bruniana ne rovescia l’intento gerarchico, selettivo,
alienante e negativo. Dimostrazione chiara ed evidente di questo assunto si può
trovare, del resto, attraverso una lettura e commento attenti e profondi della
Cabala del Cavallo pegaseo (con l’Aggiunta dell’Asino Cillenico),
dove Giordano Bruno rivolge il suo acre sarcasmo proprio contro l’ipotesi
neopitagorico-aristotelica rinascimentale, di moda nei circoli intellettuali
vicini al potere politico inglese e francese del tempo.
In
tal modo l’aperta e superiore pluralità delle 'potenze' bruniane può e
vuole dissolvere la chiusura e la limitatezza del mondo-unico della tradizione
religiosa e culturale giudaico-cristiana,[52]
facendo valere quello slancio creativo e quel carattere ed aspetto di
movimento dialettico che sono capaci di aprire e diversificare i 'mondi'
dell’amorosa, libera ed eguale, concezione naturale, religiosa ed
etico-politica. Si comprende allora come – scomparsa in immagine e sostanza
l’assoluta e cogente mediazione centrale[53]
- ogni possibile figura di salvezza dovesse essere intesa – secondo le
implicite e non dichiarate indicazioni di pensiero bruniane – secondo un
valore di 'concentrazione' e di successiva 'esplicazione' liberamente e
dialetticamente creativo. Questa sopra-natura plurale bruniana non poteva non
intaccare e demolire progressivamente e completamente il fissarsi di una
qualsiasi dogmaticità e di qualunque corrispettiva istituzione
teologico-politica che da essa pretendesse fondamento, giustificazione e
realizzazione. Contro l’uso strumentale della religione la concezione
bruniana resta allora orientata al pensiero ed alla prassi della libertà,
garantendo e conservando in essa la via pacifica e giusta dell’eguaglianza
amorosa. Per questo le figure, i personaggi e le argomentazioni che usualmente
vengono individuate all’interno dei Dialoghi Italiani quali preclari
e concreti esempi della posizione bruniana – secondo il criterio
interpretativo accettato di un’intellettualistica ed elitaria forma di
predeterminismo e di assoluto positivismo (religioso o magico) – devono
invece essere capovolti in obbiettivo direttamente, quando non sarcasticamente
ed icasticamente, polemico. Quindi, per riflesso contrario, agli elementi
negativi – da Bruno esposti come tali – devono essere praticate delle
aperture, che ne rivoltino il senso ed il significato. Allora il
combinato-disposto dell’unicità e della necessità si capovolgerà – come
è non facilmente comprensibile nel passaggio all’ultimo dei dialoghi degli Eroici
furori – nella proposta di una libera, diversificante e salvifica,
potenza creativa soprannaturale, capace di dare nuova forma e materia
all’unità trinitaria di Padre e Figlio nello Spirito.
Alla legge evangelica dell’amore.[54]
Un’eguaglianza
più profonda e più ampia spinge, quale motore sotterraneo e nascosto, la
speculazione bruniana verso una rivoluzione culturale che investe i capisaldi
della tradizione politico-concettuale occidentale, almeno a partire dalle
teorizzazioni di Platone ed Aristotele. Questa rivoluzione culturale – così
di nuovo necessaria in un mondo che si pretende, ancora ed assolutamente,
unico nel pensiero e nella prassi – si fonda sulla riattualizzazione del
concetto preclassico di infinito, non già attraverso una sua estensione
moderna in senso puramente quantitativo e necessitaristico, quanto in quello
che riesce a non disgiungere grandezza da qualità, 'intensione' ed 'estensione'.
Solo con il concetto creativo e dialettico dello Spirito, allora, si
potrà superare il rischio rappresentato dall’interpretazione tradizionale
della speculazione bruniana: che l’esaltazione infinitista della
tradizionale volontà di potenza occidentale si mischi con l’altrettanto
tradizionale struttura gerarchica e selettiva, alienante e negativa
dell’impostazione neoplatonico-aristotelica, così comportando l’esatto
rovesciamento delle intenzioni speculative dell’autore nolano. L’adesione
alla bontà e all’amore universale. Trasformando Bruno nel teorico della
strumentalità della religione, nel prospetto di una fondazione assolutista
del potere e della potenza, questa interpretazione stravolge lo sguardo di
liberazione assegnato alla fede ed alla religiosità dal pensatore campano,
relegandone la funzione in mere finalità repressive e di controllo,
esclusivamente politico-sociali. Questo è infatti per Bruno destino, fatalità
e necessità solamente per quei soggetti che scelgono o si adeguano alla
'caduta' dal vero ed autentico concetto dell’infinito a quello falso e
cattivo del finito.
Per
questa stessa ragione profonda si deve prestare molta attenzione a non
esaltare la finalità pratica della filosofia nolana, attraverso una supposta
egemonia prima dell’arte della memoria (in versione più o meno
tradizionale), poi della magia, quali elementi e strumenti essenziali in
un’inesistente progetto di dominio e controllo. Allora la filosofia 'solare'
bruniana rifulgerà proprio nel suo tentativo di riattingere quelle profondità
ed altezze capaci di liberare lo spirito umano dalla cattività del limite
imposto assolutamente, riconquistando in tal modo i liberi spazi di
un’antica e rinnovata natura, di una religione e di un’etica di nuovo
amorosa e tollerante e di una politica di nuovo viva e partecipata.[55]
[1] Il contenuto di questo breve saggio è la revisione, correzione ed integrazione delle riflessioni pubblicate sotto il titolo: La proposta teologica nella speculazione filosofica di Giordano Bruno. In: <<Studi storici e religiosi>>, 1-2, 2001 (Napoli, 2002).
[2] Lo scontro tra la visione assolutista e l’intervento di una mediazione curiale viene indagato e descritto nei saggi di Pasquale Giustiniani. Giordano Bruno: per un giudizio ponderato, aperto, provvisorio (soprattutto alle pagg. 14-17). Bellarmino e Bruno. L’immaginario religioso di un inquisitore (pagg. 267-314). In: Giordano Bruno. Oltre il mito e le opposte passioni. A cura di Pasquale Giustiniani, Carmine Matarazzo, Michele Miele, Domenico Sorrentino. <<Biblioteca Teologica Napoletana, 23>> (Napoli, 2002).
[3] Jakob Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia (Firenze, 1968, 1876¹). Scrive lo storico svizzero: “La coscienza religiosa nei tempi precedenti aveva avuto la sua origine e il suo punto d’appoggio nel Cristianesimo e nella sua esterna realizzazione, la Chiesa. Quando questa degenerò, l’umanità avrebbe dovuto distinguere e mantenere la sua religione ad ogni costo. Ma un tale postulato è più facile a porsi, che ad effettuarsi. Non ogni popolo è abbastanza calmo ed indifferente da tollerare una permanente contraddizione tra un principio e la sua personificazione esterna. Ed è per l’appunto la Chiesa in decadimento su cui pesa la più grande responsabilità, che sia mai stata nella storia. Infatti essa ha sostenuto come verità con tutti i mezzi della violenza una dottrina corrotta e svisata a vantaggio della sua onnipotenza, e, conscia della propria inviolabilità, si lasciò cadere in braccio alla più scandalosa depravazione: indi, per mantenersi in tale sua condizione, ha menato colpi mortali contro lo spirito e la coscienza dei popoli, alienandosi così e spingendo essa stessa nelle braccia dell’incredulità e dell’amarezza molti spiriti elevati, che nella loro coscienza non poterono più restarle fedeli.” Pag. 420.
[4] Esito finale e ripresa di una nuova modernità è la filosofia hegeliana, con la relativa concettualizzazione della Natura e dello Spirito.
[5] L’ideologico, nella formazione che lo contraddistingue, sembra imporre lo scambio e la sostituzione inavvertita dell’identità con ciò che è fisso e stabile (invariabile e perciò sempre identico) attraverso l’annullamento dell’individuazione come movimento e come distinzione. Impone la soppressione della consapevolezza e della coscienza, intese come ricerca di una ragione creativa e dialettica capace di forgiare, attraverso la forma dell’immaginazione e del desiderio, una materia dotata di slancio e di apertura, eliminando in tal modo l’universalità dei due termini della libertà e dell’eguaglianza. L’ideologico impone infatti questa soppressione ed eliminazione attraverso la sostituzione del movimento capace di fornire in se stesso distinzione e ricongiunzione con l’immobile unità di un’immaginazione resa sterile ed astratta, deprivata del proprio motore desiderativo e della propria qualificazione intrinseca. Lo sostituisce, fissando la consapevolezza al condizionamento costituente ogni grandezza riproducibile (il lavoro alienato) ed eliminando – resecando e tagliando via – la coscienza, intesa come ricerca del principio veramente e benignamente (universalmente) positivo (desiderio desiderante).
[6] Il prototipo contemporaneo di questa intenzionalità mistica deve essere identificato nella definizione hegeliana della Natura come esser altro dell’Idea. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Enciclopedia delle Scienze filosofiche (in compendio): “La natura si è data come l’idea nella forma dell’esser-altro. Poiché in essa l’idea è come il negativo di se stessa ovvero è esterna a sé, non soltanto la natura è relativamente esteriore nei confronti di questa idea, ma l’esteriorità costituisce la determinazione nella quale essa è in quanto natura.” § 192.
[7] È la tendenza stabilita, a partire da Plotino, dalla corrente neoplatonica.
[8] La scienza moderna sembra emergere in virtù di una strettoia metodica e metodologica preventiva, per la quale vengono anticipatamente condannati ad inesistenza tutti i fatti che contraddicono l’insieme bilanciato delle teorie in mutuo e reciproco raccordo di giustificazione, con ciò annichilendo la ricerca e la scoperta di nuove e diverse spiegazioni, seppur dotate di maggiore e migliore 'presa' empirica. Dopo il necessario riferimento iniziale al processo di previa focalizzazione dell’esistente, operato da Galileo Galilei, con l’esclusione dei fenomeni non matematizzabili dall’orizzonte conoscitivo della nuova fisica, si può pensare che, dal valore strumentale (consaputo) di questa particolare concentrazione immaginativa, ricostruttiva e solutoria, previamente rivolta a tutto ciò che non potesse identificarsi con un soggetto senziente, il processo di autoassunzione normativa dell’impresa 'scientifica' si apra poi - così coinvolgendoli - a tutti gli 'oggetti' che non manifestino in sé alcuna delle caratteristiche vitali (per esempio l’automovimento, la crescita e l’alterazione): i corpi 'morti' diventano, con la nuova medicina anatomica barocca, il nuovo e vergine campo d’indagine di una scienza che estende i propri domini, acquisendo al proprio interno la totalità dell’oggettivo, ed inserendo la fisiologia quale ordine e disciplina essenziale per la rappresentabilità generale del vivente.
L’essere senziente e libero, che si modifica in modo apparentemente autonomo, e che perciò sembra porre scopi e finalità alle proprie espressioni ed attività - dunque l’intero essere naturale - diventa poi con la rivoluzione economico-sociale borghese e capitalistica l’ente sul quale e nel quale si esercita ed emerge la necessità del controllo totale ed organizzato delle azioni: dopo le 'parti' e le 'funzioni' dell’epoca assolutistica, la nuova formazione ideologica si dispiega nella totalizzazione e sistematizzazione della potenza, sublimandosi in un 'soggetto' e in un 'oggetto' contrapposti e determinati, relazionabili e coordinabili. Selezionabili nelle migliori volontà o nei migliori adattamenti.
L’autopositività di questo fenomeno, che sembra garantire l’equilibrio fra umano e non-umano attraverso lo scambio e la cessione mutua e reciproca dello squilibrio (la dis-umanità del 'naturale' e l’astratta artificialità dello 'umano'), trova consistenza e modello esemplare ed egemonico in quell’azione che pretende una relazione sociale perfetta, tesa alla duplice ed opposta negazione degli estremi: la profondità dell’artistico e l’abissalità del materico. In questa relazione tutte le espressioni divengono linguisticamente concordi ed aproblematiche, mantenendo uno spazio interno nel quale il tempo dell’opposizione conserva unicamente la capacità del miglioramento continuo della potenza, sociale e tecnica.
[9] Giordano Bruno. De gli Eroici furori, pag. 1029 (Firenze, 1958, 1908¹).
[10] Ibidem.
[11] Questo è il senso filosofico dell’uso bruniano del mito di Atteone.
[12] Questo è, invece, il senso e significato unitario della figura di Mercurio nelle diverse opere bruniane.
[13] L’unità dell’opposizione infinita, che garantisce e mantiene l’aspetto creativo e dialettico dell’essere esistente, trascinandolo ed elevandolo in una possibilità ideal-reale.
[14] Soggetto, aggetto ed organo sono termini filosofici e metafisici che compaiono nella prima ars memoriae bruniana, quella esposta nel De umbris idearum (1582).
[15] Così il dubbio bruniano circa il nome di Persona per il Figlio e lo Spirito si riferisce semplicemente alla loro riduzione umanistica, priva di apertura ed immedesimazione.
[16] È il ricordo dell’unità infinita che, come apertura, predispone l’orizzonte di un’opposizione egualmente infinita, capace di tenere insieme l’immagine desiderante di una creatività dialettizzante.
[17] L’universo bruniano non può essere identificato per il tramite di un’estensione del significato della sostanza aristotelica, che piuttosto pare essere destinata a rappresentare l’immagine immobile ed invariabile di un mondo unico ed ordinato, sovradeterminato. L’universo bruniano – invisibile e visibile – è al contrario la disintegrazione libertaria (multivocità) del concetto neoplatonico-aristotelico di sostanza. Nella concezione bruniana, infatti, la dialetticità infinita dello Spirito, con la connessa immagine universale della pluralità infinita dei mondi, supera l’impasse cusaniana e spinoziana intorno all’unicità del mondo possibile (negazione moderna dell’infinito).
[18] Per questa ragione si può affermare che il soggetto e l’oggetto bruniani sono infiniti.
[19] Qui potrebbe essere aperto un confronto con la posizione eckhartiana e forse con la stessa tradizione agostiniana (per il tratto comune dell’interiorità della visione). Giorgio Penzo (Invito al pensiero di Eckhart; Milano, 1997, pag. 52) scrive: “in questa natura profonda del comprendere si può avere un terreno comune dov’è possibile un rapporto intrinseco tra la finitezza dell’uomo e l’infinitezza di Dio.”
[20] Qui si apre invece l’immenso campo del raffronto fra la struttura della speculazione plotiniana e quella bruniana. Si può però certamente affermare inizialmente che la struttura della finitezza della speculazione plotiniana venga rovesciata e capovolta da quella dell’infinitezza, escogitata dalla riflessione bruniana.
[21] La nascita eckhartiana di Dio nel fondo dell’anima vale invece questa soggettività?
[22] Qui non si può dimenticare il raffronto con la meravigliosa visione lucreziana presente nell’Inno a Venere del Libro I del De rerum natura e nel Proemio del Libro III, dedicato ad Epicuro.
[23]
Confronta con le nozioni di 'attributo' e 'proporzione' della
speculazione eckhartiana (Giorgio Penzo, cit., pag. 53 e segg.).
[24] Qui, forse, il pensiero bruniano si avvicina alle intenzioni più profonde del movimento riformato, in particolare del luteranesimo più radicale e coerente.
[25] Questo è il senso e la radice etico-politica del rigetto bruniano della distinzione aristotelica fra necessario e contingente.
[26] Confronta il 'dispiegamento dell’essere-Dio', in: Giorgio Penzo, cit., pag. 59.
[27] Qui trovano spiegazione le critiche feroci ed addirittura sarcastiche dell’argomentazione bruniana rivolte al necessitarismo neoaristotelico e neopitagorico rinascimentale, espresso dai personaggi in commedia della Cabala del Cavallo pegaseo (con l’Aggiunta dell’Asino cillenico). A ben diversi concetti di unità e necessità si aprirà dunque la riflessione bruniana con l’opera successiva: De gli Eroici furori.
[28] Contro questo Essere assoluto, emergente nella modernità, si compie la ragione della speculazione bruniana. Qui si deve quindi situare la critica e l’opposizione all’interpretazione modernista e barocca della speculazione bruniana.
[29] Fulgido esempio conclusivo di questa modernità speculativa è il sistema filosofico hegeliano, che viene criticato e dissolto da una posizione autenticamente bruniana, proprio nella restituzione della funzione autonoma ed inalienabile dell’opposizione, strettamente avvinta e resa inscindibile all’Uno infinito dall’universalità dell’amore, libero ed eguale.
[30] Qui deve essere ricordato il costante debito della speculazione bruniana alla riflessione critica di Erasmo ed Origene.
[31] Questo è il senso e significato profondo della nozione di vicissitudine, il concetto bruniano dello stabilissimo movimento metafisico e l’immagine della ruota infinita.
[32] Testo teologico bruniano fondamentale è la Lampas triginta statuarum (1587), dove è possibile reperire la combinazione delle determinazioni dialettiche della Mente (Padre), dell’Intelletto (Figlio) e dell’Amore (Spirito), intrecciata inscindibilmente con il processo apertamente ed abissalmente creativo costituito attraverso il movimento di ascesa ed approfondimento scandito attraverso le figure materiali, sensibili e sentimentali del Chaos, dell’Orco e della Notte.
[33] Questo accostamento viene indagato in un modo molto interessante e stimolante da Giuseppe Limone nel saggio Giordano Bruno: dall’eresia della fede alla geometria della speranza. In: Giordano Bruno. Oltre il mito e le opposte passioni. Pagg. 187-204.
[34] Pasquale Giustiniani, nell’Introduzione precedentemente citata, scrive: “Con un’asinità, affine stavolta a quella dell’asina parlante del profeta biblico Balaam, potrebbe anche farsi strada una prospettiva la quale, anziché contrapporre cielo e terra bruniani, ovvero trascendenza e immanenza, tende a collocarli in modo organico all’interno di una visione unitaria, forse non del tutto lontana dalla verità cristiana.” Pag. 21. Sempre nella medesima Introduzione, Pasquale Giustiniani anticipa i contenuti essenziali di alcuni dei saggi presenti nella raccolta degli Atti del Convegno bruniano (17-18 febbraio 2000, presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale), sottolineando innanzitutto come la posizione speculativa bruniana sia identificata da Giuseppe Limone nella propria fortissima ed essenziale tensione verso una dimensione del 'possibile' capace di superare l’apparente aporeticità della contraddizione fra termini opposti (pag. 23), quindi rilevando la difficoltà di un’interpretazione esclusivamente ermetica della teologia bruniana (pag. 24), per concludere affermando infine la difficoltà di negare alla concezione bruniana una forte attenzione alla figura ed al messaggio di Cristo (ibidem).
[35] L’eroticità del pensiero-azione bruniano viene giustamente rilevata da Domenico Sorrentino, nel saggio Senso del divino e mistero di Dio in Giordano Bruno. In: Giordano Bruno. Oltre il mito e le opposte passioni, pag. 109.
[36] Ibi, pagg. 110-111.
[37] Ibi, pag. 114.
[38] Ibi, pag. 117.
[39] Giordano Bruno. De la causa, Principio e Uno. Firenze, 1958, pag. 340.
[40] Giordano Bruno. De gli Eroici furori. Firenze, 1958, pag. 980.
[41] In tal modo il concetto di Spirito e del suo movimento in Giovanni della Croce non sarebbe molto lontano da quello pensato ed esposto da Giordano Bruno. Domenico Sorrentino, Senso del divino e mistero di Dio in Giordano Bruno. In: Giordano Bruno. Oltre il mito e le opposte passioni, pag. 121.
[42] Ibi, pag. 122.
[43] Ibi, pag. 128.
[44] Ibi, pag. 131.
[45] Ibi, pag. 132.
[46] Ibi, pag. 133.
[47] Ibi, pag. 135.
[48] Ibi, pag. 136.
[49] Questa è la ragione del richiamo alla giustificazione dello Spirito, effettuato dal filosofo nolano nelle battute conclusive del processo inquisitoriale. Luigi Firpo, Il processo di Giordano Bruno: “Il 18 gennaio 1599, giusta l’ordine emanato quattro giorni avanti, il Bruno fu condotto di fronte alla Congregazione, che gli consegnò l’elenco delle otto proposizioni, con l’intimazione perentoria del termine di sei giorni per decidere circa l’abiura; come questo fu trascorso, il 25 dello stesso mese, egli ricomparve nell’aula e dichiarò <<che, se la Sede Apostolica et la Santità di Nostro Signore havevano dette otto propositioni come deffinitivamente heretiche, o che Sua Santità le conoscesse per tali, o per il Spirito Santo le diffinisca per tali>>, era <<disposto a revocarle>>; contemporaneamente presentò una scrittura, che affermò pertinente alla propria difesa.” Pag. 93.
[50] Domenico Sorrentino, Senso del divino e mistero di Dio in Giordano Bruno. In: Giordano Bruno. Oltre il mito e le opposte passioni, pag. 137.
[51] Ibi, pagg. 139-141.
[52] Ibi, pag. 142.
[53] Ibi, pag. 143.
[54] Ibi, pagg. 145-146.
[55] Ibi, pag. 148.